IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XVII, 1975, Numero 2, Pagina 75

 

 

La crisi economica italiana
 
DARIO VELO
 
 
1. L’economia italiana sta oggi attraversando una delle crisi più gravi vissute nel corso di questo secolo; questo fenomeno è registrato con un senso di disorientamento tanto più drammatico in quanto per ora non esistono segni di inversione di tendenza, e in quanto appare sempre più evidente l’incapacità delle autorità governative di intervenire efficacemente e di garantire la occupazione e il benessere dei cittadini.
A livello generale esiste la coscienza, se pure confusa, che la crisi economica italiana è il riflesso di una situazione di crisi più vasta, che coinvolge tutta l’Europa e, in una certa misura, tutti i paesi occidentali. Questa consapevolezza contribuisce ad accrescere i timori circa la possibilità di rimettere in moto il processo di sviluppo economico, che dimostra la necessità di una strategia comune a livello internazionale; a nessuno sfugge l’estrema difficoltà di una simile impresa.
Il riconoscimento che la crisi economica italiana deve essere posta in relazione con la crisi economica in atto in tutto l’Occidente, tuttavia, non significa necessariamente che si conoscano quali relazioni esistono fra la crisi economica italiana e quella internazionale. La profonda interdipendenza fra l’economia di ogni paese e il resto del mondo, manifestatasi in questo dopoguerra nel modo più chiaro soprattutto in Europa, è un fatto nuovo e come tutti i fatti nuovi tende ad essere analizzato con gli schemi interpretativi preesistenti al suo apparire. Ciò fa sì che al riconoscimento dell’esistenza di questo legame non segua la sua analisi, o al massimo, la sua analisi assuma una importanza poco più che marginale nel quadro dell’interpretazione complessiva data alla crisi economica. Inoltre, l’attenzione non è puntata sulle cause e sulle caratteristiche della crisi internazionale, ma piuttosto sui problemi caratteristici delle singole economie nazionali. Queste tendenze corrispondono al fatto che le possibilità di intervento esistono solo a livello nazionale, che una volontà pubblica può formarsi solo nei rispettivi quadri nazionali.
Queste osservazioni indicano che il primo punto che è necessario approfondire, analizzando la crisi economica italiana, è rappresentato dai legami esistenti fra l’economia italiana ed il resto del mondo, ed in particolare dai rapporti esistenti fra lo sviluppo dell’economia europea, nel suo complesso, in questo dopoguerra, e lo sviluppo dell’economia italiana.
2. Lo sviluppo economico dell’Europa in questo dopoguerra è dipeso dal processo di integrazione europea, che ha consentito al processo economico di superare le dimensioni nazionali, le quali non corrispondevano più a quelle richieste dalla produzione moderna, e di raggiungere le dimensioni continentali.
Con il Mercato comune, l’Europa è giunta a disporre del quadro in cui realizzare una moderna produzione di massa e ha potuto raggiungere tassi di sviluppo e livelli di benessere altrimenti inimmaginabili.
Ma l’integrazione europea è giunta ormai ad una svolta. Portato a termine il processo di liberalizzazione degli scambi commerciali, con il completo abbattimento dei dazi doganali, si è aperta una nuova fase del processo di integrazione europea; in conseguenza diretta di ciò, il metodo di gestione comunitario dello spazio economico europeo è entrato in crisi.
Il successo della fase «liberista» dell’integrazione comunitaria dell’Europa ha fatto maturare problemi che l’Europa delle Comunità non può risolvere. Il raggiungimento dell’unione doganale ha imposto il problema dell’unione economica e monetaria; le, crisi monetarie seguite all’autunno 1968 hanno dimostrato, di per sé sole, la fragilità di un’unione doganale non sorretta da progressi paralleli in campo monetario. Nello stesso senso ha operato la necessità di tutelare il funzionamento del Mercato comune agricolo; essendo quest’ultimo organizzato sul principio della fissazione di prezzi unici per le diverse categorie di prodotti, è apparso immediatamente chiaro che le sue strutture sarebbero entrate in crisi a fronte di andamenti divergenti delle parità delle differenti monete europee: anche in questo caso, le crisi monetarie esplose negli ultimi anni hanno dimostrato la fondatezza di questa analisi, in quanto hanno profondamente turbato il funzionamento del Mercato comune agricolo, mettendone in discussione il carattere unitario ed imponendo l’organizzazione di un complesso apparato burocratico dirigistico. Il raggiungimento dell’unione doganale ha reso indilazionabile la necessità di affrontare il problema degli squilibri regionali, di delineare una politica sociale, di attuare una politica energetica comune e quindi di risolvere il problema dell’unione economica. Ciò che più ha rilevanza, infine, è che il successo della fase liberista del processo di integrazione europea ha garantito l’indipendenza relativa dei paesi della Comunità in campo economico, e con ciò ha posto in crisi i vecchi rapporti esistenti fra questi paesi, considerati nel loro insieme, e il resto del mondo; in questo quadro si pone la crisi del dollaro e la necessità di fondare un’unione monetaria come condizione per garantire l’autonomia, a livello monetario, dell’area europea.
Portato a termine l’abbattimento delle barriere protettive che separavano l’Europa, la soluzione di questi problemi si è rivelata indilazionabile. D’altronde è subito apparsa evidente l’incapacità del metodo comunitario di offrire una soluzione a questa serie di problemi, in quanto la loro natura è politica. Soltanto la politica può risolvere i problemi delle relazioni internazionali, della politica monetaria e della politica economica. Per questo le Comunità oggi versano in una gravissima crisi. I tecnocrati della C.E.E. hanno potuto gestire il processo di integrazione fino a quando tale compito richiedeva solo una competenza tecnica, ed in ultima analisi si riduceva alla regolazione del ritmo con cui dovevano essere abbattuti i dazi doganali; di fronte alle scelte politiche di fondo, i tecnocrati, per la loro stessa natura, sono impotenti. I problemi fatti maturare dal processo di integrazione hanno fatto emergere una alternativa di fondo, che divide chi crede di poterli risolvere solo con la fondazione di una Federazione europea, e chi invece si batte per il varo di una confederazione politica europea. Le Comunità non occupano più, ormai, un posto centrale e non riescono ad assumere la funzione di perno del processo di integrazione europea; oggi l’alternativa politica di fondo, a livello europeo, non si pone più fra ciò che rafforza le Comunità e ciò che le indebolisce, ma tra ciò che rafforza il progetto confederale e ciò che rafforza il progetto federale.
La crisi delle Comunità è stata fortemente accelerata, inoltre, dalla crisi monetaria internazionale, dalla crisi energetica e dalla crisi economica che ne è seguita. L’esplodere di queste crisi ha fortemente incrinato l’unità di fatto fra i paesi membri della C.E.E., generata dalla convergenza degli interessi degli Stati e dei mercati e che aveva costituito la base stessa del processo di integrazione.
Queste crisi hanno avuto un effetto dirompente per il processo di integrazione europea, perché, lungi dall’essere l’espressione di una contingenza economica, sono invece la manifestazione di un fenomeno più generale e di portata storica: la crisi della indiscussa leadership statunitense sull’Occidente.
Il fatto è che il successo del processo di integrazione economica europea, dando all’Europa lo status di potenza economica, ha posto in crisi l’indiscussa egemonia degli Stati Uniti sull’Occidente e con ciò ha posto in crisi il quadro politico generale che aveva reso possibile l’avvio e lo sviluppo dell’integrazione europea stessa. E’ così che si comprende il fatto, altrimenti paradossale, che gli Stati europei si sono trovati divisi da profonde lacerazioni, quali mai si erano manifestate in questo dopoguerra, proprio nel momento in cui hanno cominciato ad affrontare il problema del completamento politico del processo di integrazione.
Il parallelismo della politica estera, della politica economica, della politica sociale e delle stesse congiunture economiche dei paesi europei rilevabile nel periodo che va dall’inizio degli anni ‘50 fino a metà degli anni ‘60 — e che sta alla base del successo della C.E.C.A., del periodo transitorio e dei primi anni di vita della C.E.E. — può essere compreso solo nell’ambito del quadro politico generale, stabile, rappresentato dall’indiscussa egemonia degli Stati Uniti sull’Europa. E’ l’egemonia americana che ha garantito, durante tale periodo, l’omogeneità delle condizioni politiche di base degli Stati europei.
Il sorgere della potenza economica europea ha messo in crisi il dollaro, senza tuttavia poter esprimere una moneta europea alternativa, che solo un governo europeo potrebbe emettere; in tal modo è venuta meno la condizione di stabilità monetaria e di sostanziale coincidenza delle politiche monetarie dei paesi europei, che derivava dal dominio del dollaro convertibile. L’indebolirsi dell’egemonia statunitense determinata dall’«Europa economica» ha generato vuoti di potere che l’«Europa politica» non può riempire, perché divisa; di questa situazione hanno approfittato i paesi del Terzo mondo, produttori di materie prime, per rialzare vertiginosamente i prezzi di queste ultime; in tal modo è svanita la coincidenza della politica energetica dei paesi europei, garantita dal controllo americano del mercato delle fonti di energia, e si è prodotto un processo inflazionistico violento e incontrollato.
Più in generale, lo sviluppo dell’integrazione europea ha posto in crisi la sua base politica, facendo venir meno la coincidenza di interessi fra Europa e Stati Uniti, nel quadro dell’egemonia di questi ultimi. Il problema cruciale con cui oggi sono confrontati gli Stati che partecipano all’integrazione europea, è di creare un quadro politico alternativo all’egemonia statunitense; dalla soluzione di questo problema dipende la possibilità di avanzare lungo la strada dell’integrazione.
3. Gli avvenimenti maturati a livello del processo di integrazione europea hanno un preciso correlato nei problemi ormai giunti a scadenza nel quadro nazionale italiano. Così come il processo di integrazione ha raggiunto un punto in cui devono essere poste in discussione le sue caratteristiche fondamentali per superare la crisi in corso, in modo corrispondente l’economia italiana è oggi di fronte a una svolta. Per comprendere le interrelazioni esistenti fra i problemi manifestatisi a livello dello sviluppo dell’integrazione europea e dello sviluppo economico italiano, consideriamo innanzitutto, brevemente, le caratteristiche essenziali di quest’ultimo, così come si sono manifestate nel periodo che va dall’immediato dopoguerra fino agli anni ‘60.
Caratteristica di fondo dello sviluppo economico realizzatosi in Italia in questo periodo deve essere considerato il fatto che esso è stato sorretto dalla crescente integrazione del sistema economico italiano con gli altri paesi industrializzati. Questo dato ha influenzato profondamente il processo di sviluppo, determinando di fatto, direttamente o indirettamente, gran parte delle caratteristiche che individuano l’esperienza italiana.
Alcune caratteristiche dell’esperienza italiana nel periodo qui considerato, in realtà, sono tipiche di ogni esperienza di rapido sviluppo industriale. Così si interpreta l’espansione dell’industria manifatturiera, che ha permesso di trasformare il carattere dell’economia italiana da prevalentemente agricolo in prevalentemente industriale. Nello stesso senso va interpretato pure il fatto che lo sviluppo italiano è stato caratterizzato dalla crescente concentrazione della popolazione nelle grandi città. Per comprendere questi fenomeni non è necessario fare riferimento al processo di integrazione europea.
Ma accanto a questi aspetti, lo sviluppo dell’economia italiana ha presentato alcune caratteristiche specifiche che rimandano necessariamente, per una loro piena comprensione, ai legami sviluppatisi fra le economie europee.
Caratteristiche specifiche dell’esperienza italiana negli anni ‘50 e ‘60 possono essere considerate le seguenti: a) il progressivo dualismo della struttura produttiva, che ha contrapposto le imprese tecnologicamente all’avanguardia e attive sul piano internazionale alle imprese tecnologicamente arretrate, attive quasi esclusivamente sul mercato nazionale; b) il permanere di uno squilibrio fondamentale tra il grado di sviluppo delle regioni settentrionali e di quelle meridionali; c) una distorsione dei consumi, consistente nel fatto che si sono sviluppati alcuni consumi privati, anche di generi non necessari (motorizzazione privata, televisori, elettrodomestici) mentre altrettanto non avveniva nel settore dei consumi pubblici, anche in quei settori che pure avrebbero dovuto essere riconosciuti come assolutamente prioritari (istruzione, assistenza sanitaria, abitazioni, trasporti pubblici).
Queste caratteristiche tipiche dello sviluppo dell’economia italiana non possono essere imputate a circostanze fortuite o all’imprevidenza della classe politica; esse sono il prodotto dell’operare di un meccanismo unitario che ha generato al tempo stesso lo sviluppo industriale e gli squilibri ricordati.
Il fatto è che la decisione presa dall’Italia nell’immediato dopoguerra di abbandonare progressivamente la politica di protezionismo, e la decisione, conseguente a questa opzione fondamentale, di partecipare attivamente al processo di integrazione economica a livello europeo, da un lato hanno orientato lo sviluppo italiano, dall’altro lato hanno vincolato la politica economica di tutti i governi succedutisi al potere in Italia.
La scelta di mercato aperto ha costretto l’Italia a sviluppare i settori in grado di raggiungere elevati livelli di competitività internazionale e perciò a sviluppare una corrente di esportazioni orientata verso i mercati dei paesi industrializzati.
Il settore orientato verso le esportazioni doveva necessariamente essere un settore efficiente in grado di realizzare livelli di produttività elevati e di adottare tecnologie avanzate. Le imprese che volevano trovare uno sbocco commerciale nei mercati industrializzati dovevano pertanto adottare tecnologie di produzione e modelli organizzativi simili a quelli diffusi nei paesi più sviluppati. In effetti, è possibile riscontrare che i settori esportatori dell’industria italiana sono stati caratterizzati da un elevato ritmo di accrescimento della produttività.
All’estremo opposto, i settori che producevano per il mercato interno, non essendo sottoposti alla pressione della concorrenza internazionale, restavano alla retroguardia per quanto riguarda produttività e innovazioni tecnologiche.
La scelta di mercato aperto compiuta dall’Italia, così come ha determinato il carattere dualistico dello sviluppo economico, ne ha cristallizzato anche la struttura territoriale. L’esigenza di sviluppare le industrie in grado di raggiungere un’elevata competitività a livello internazionale comportava l’esigenza di non intralciare le industrie del Nord con politiche fiscali e di spesa pubblica inopportune. In questo quadro il Mezzogiorno era chiamato a fornire mano d’opera, prevalentemente non qualificata, al Nord attraverso flussi migratori; gli interventi nel Mezzogiorno compatibili con questi obiettivi erano necessariamente limitati a una politica di opere pubbliche del tutto inadeguata per sviluppare le capacità di produzione del Mezzogiorno.
In modo analogo possono essere interpretate le distorsioni nella struttura dei consumi, andate aggravandosi parallelamente allo sviluppo dell’economia italiana. Questo fenomeno può essere ricondotto al dualismo della struttura industriale. I settori più dinamici, grazie alla propria capacità di accrescere più velocemente la produttività, erano in grado di ottenere elevati profitti e di pagare salari rapidamente crescenti. I settori stagnanti, al contrario, erano caratterizzati da bassi livelli di redditività e da un regime salariale più basso; in questi settori era relativamente frequente che anche i minimi contrattuali non venissero rispettati. In tal modo il dualismo industriale creava una diseguaglianza nella distribuzione dei redditi — anche all’interno dei redditi da lavoro — che alimentava le distorsioni nella struttura dei consumi.
In secondo luogo, il dualismo industriale alimentava questo fenomeno anche in un altro modo, cioè attraverso le modificazioni che esso operava nel sistema dei prezzi. Grazie ai crescenti livelli di produttività, le industrie più dinamiche potevano mantenere stabili i prezzi dei loro prodotti, e a ciò erano spinte anche dalla concorrenza internazionale; le industrie «nazionali», invece, trovandosi al riparo dalla concorrenza internazionale, erano in grado di trasferire sui prezzi gli aumenti dei costi dei fattori produttivi che non erano assorbiti da aumenti della produttività. Il risultato di questi andamenti contrapposti era che, in termini relativi, i beni prodotti dalle industrie esportatrici diventavano progressivamente meno cari, mentre gli altri beni diventavano sempre più costosi. Ora, se si considera che i settori in grado di raggiungere elevati livelli di competitività internazionale erano costituiti dall’industria meccanica, petrolchimica e in genere dalle industrie ad alta intensità di capitale in grado di produrre prodotti nuovi e beni di consumo di massa, si vede che in questo periodo i beni che tendevano a divenire sempre meno costosi e che quindi tendevano ad incrementare il proprio peso relativo nella struttura dei consumi, erano i beni non di prima necessità.
Questo significa, dunque, che la partecipazione dell’Italia all’unione doganale europea, se da un lato ha permesso un boom economico, altrimenti inimmaginabile, ha significato dall’altro lato un approfondimento delle distorsioni del proprio sistema produttivo e dell’assetto territoriale, con le gravi ripercussioni sociali ben note.
4. Nel corso degli anni ‘60 le distorsioni dello sviluppo italiano hanno raggiunto livelli sempre più elevati; ciò ha avuto come effetto di esasperare la contraddizione esistente fra il crescente benessere diffuso e l’incapacità della società italiana di affrontare le riforme prioritarie di struttura.
E’ in questo clima che nacque l’esperienza di centro-sinistra, come espressione della volontà di affrontare i problemi sociali più gravi e le contraddizioni più stridenti dello sviluppo italiano. Questa nuova esperienza fu resa possibile dall’operare congiunto di fenomeni maturati all’interno del quadro politico italiano e dai profondi rivolgimenti avvenuti a livello internazionale. Il fatto è che la distensione internazionale aveva liberato le forze politiche e sociali di sinistra, emarginate e neutralizzate durante l’epoca della guerra fredda, rendendo indilazionabili le riforme fino ad allora trascurate.
L’esperienza ha chiaramente dimostrato che il centro-sinistra, tuttavia, non è stato in grado di realizzare i programmi che si era proposto. Anche in questo caso, non possiamo comprendere quanto è accaduto imputandolo semplicemente a circostanze fortuite o alla pochezza della classe politica; il fallimento del centro-sinistra deve essere posto in relazione con le caratteristiche strutturali del processo d’integrazione europea.
L’avvio dell’esperienza di centro-sinistra determinava una sostenuta espansione della spesa pubblica, volta a realizzare i servizi pubblici carenti; contemporaneamente si assisteva ad un elevato e diffuso incremento dei livelli salariali, come conseguenza del fatto che in questo periodo l’Italia si era avvicinata alla condizione di piena occupazione.
Questi fenomeni generavano una spinta inflazionistica derivante da eccesso di domanda, che a sua volta generava un deficit della bilancia commerciale come diretta conseguenza dell’«apertura» dell’economia italiana verso il resto del mondo, e in particolare verso l’Europa.
Per far fronte a questa situazione le autorità pertanto intervenivano con manovre deflazionistiche, provocando così una diminuzione degli investimenti ed una contrazione della domanda globale. Il susseguirsi di spinte espansive accompagnate da deficit della bilancia dei pagamenti e da interventi deflazionistici volti a ristabilire l’equilibrio nei conti con l’estero e a contenere le spinte inflazionistiche interne, diviene una caratteristica permanente dell’esperienza italiana più recente. In sostanza, l’Italia dal 1963 ha fatto diretta esperienza della politica di «stop and go» che ha frenato ogni tentativo di espansione economica stabile.
I problemi emersi a livello italiano sono stati inoltre acuiti dalla crescente fuga di capitali all’estero che si è sviluppata incessantemente a partire dal 1963. Da un punto di vista contingente, la fuga di capitali inizia come tentativo di sottrarre le proprie disponibilità all’erosione monetaria rappresentata dall’inflazione e come espressione del desiderio di trasferire i capitali posseduti in un sistema politico-economico più stabile; rilevanza assume inoltre, come incentivo alla fuga dei capitali, l’introduzione in Italia di una normativa fiscale più rigida nei confronti dei redditi da capitale, e il timore di successivi possibili inasprimenti di tale normativa. Da un punto di vista strutturale, questo fenomeno è tipico delle regioni sottosviluppate appartenenti ad un’area economica integrata; basti pensare, a questo proposito, con riferimento all’esperienza storica italiana, che il Mezzogiorno è stato a lungo esportatore di capitali verso il nord, in quanto a nord i capitali potevano trovare utilizzi più remunerativi.
L’importanza e la gravità della fuga di capitali per l’economia italiana deriva dal fatto che l’esportazione di capitali è compatibile con l’equilibrio dei conti con l’estero solo a condizione che sia controbilanciata da un corrispondente surplus della bilancia commerciale. La recente esperienza italiana mette dunque in luce questo fenomeno paradossale, rappresentato dal fatto che il nostro paese, pur avendo raggiunto livelli di sviluppo relativamente bassi rispetto agli altri paesi industrializzati, deve alimentare un deflusso di risorse reali verso l’estero per neutralizzare gli effetti della esportazione di capitali.
Di fronte alla crescente fuga di capitali, d’altro lato, le autorità italiane si sono trovate impotenti. Non era possibile interrompere questa emorragia di risorse senza porre in discussione la partecipazione italiana al processo di integrazione economica europea, o senza alternativamente porre in discussione le caratteristiche del processo di integrazione in corso. L’esperienza italiana del 1973-74 è esemplare, a questo proposito. Per bloccare le esportazioni di capitali le autorità italiane hanno adottato provvedimenti estremamente severi, tali da rappresentare un ostacolo al libero sviluppo degli scambi a livello europeo; nonostante ciò, tuttavia, i capitali hanno continuato a defluire, attraverso i mille canali fatalmente aperti dal processo d’integrazione. Il fatto è che in un sistema economico integrato, quale è la C.E.E., la logica di mercato tende ad approfondire il divario fra regioni ricche e regioni povere; questa tendenza può essere eliminata solo attraverso una coerente politica regionale.
In questa situazione, l’improvvisa esplosione delle crisi monetarie prima e della crisi energetica poi, hanno fatto precipitare la situazione italiana, portando le contraddizioni dello sviluppo italiano ad un livello di tensione tanto elevato da giustificare l’insorgere di fondati timori circa la possibilità che le stesse istituzioni democratiche italiane possano sopravvivere qualora non si riesca a modificare radicalmente le tendenze di fondo fin qui emerse.
5. Di fronte alla situazione drammatica in cui si trova oggi l’Italia, due linee di politica economica si fronteggiano: da un lato la «politica delle riforme» espansionistica, che pone come obiettivo prioritario l’esigenza di affrontare le distorsioni del sistema economico e sociale italiano; dall’altra lato la linea deflazionistica sostenuta da chi invece pone come obiettivo prioritario della politica economica la necessità di riportare in equilibrio la bilancia dei pagamenti italiana. Le esigenze contrastanti espresse da queste due alternative sono alla base dell’acceso dibattito che divide oggi le forze politiche in Italia. A sostegno della linea deflazionistica si afferma che essa è necessaria per stare in Europa; chi si batte a favore della linea espansionistica sostiene la necessità di allentare i legami che vincolano l’Italia all’economia europea al fine di recuperare un maggiore spazio di manovra, necessario per realizzare le riforme. L’atteggiamento del governo italiano oscilla fra queste due alternative, che d’altro lato sono entrambe sostenute da schieramenti che partecipano alla maggioranza governativa. Si spiegano così il rifiuto dell’Italia di partecipare alla fluttuazione congiunta delle monete europee il cosìddetto «serpente comunitario» — per poter disporre di una maggiore autonomia a livello di politica economica e monetaria, e l’introduzione di un macchinoso apparato di controlli valutari e le misure di drastica stretta creditizia e fiscale, per sanare il deficit della bilancia dei pagamenti e «tenere l’Italia in Europa».
Ma entrambe queste alternative sono inadeguate a risolvere i problemi dello sviluppo italiano. E’ mitico sperare di realizzare una politica delle riforme se si progetta, al tempo stesso, di estraniare l’Italia dal processo di integrazione economica europea; è l’integrazione europea che ha alimentato lo sviluppo economico italiano e che, di conseguenza, ha permesso il manifestarsi delle condizioni necessarie per rendere pensabile la realizzazione di una politica delle riforme. D’altro lato va messo in dubbio che una politica deflazionistica sia sufficiente a sanare lo squilibrio dei conti con l’estero dell’Italia. Il fatto è che il dibattito oggi aperto solo in apparenza ripropone il dilemma che ha caratterizzato l’esperienza italiana nell’ultimo decennio, e che sta alla base della politica di «stop and go» che le autorità responsabili della politica economica italiana si sono viste costrette a seguire. Nel periodo che va dal 1963 all’inizio degli anni ‘70, gli interventi deflazionistici volta a volta realizzati per frenare il processo inflazionistico e per riequilibrare i conti con l’estero sono stati efficaci e hanno permesso di raggiungere gli obiettivi prefissati, se pure al prezzo di approfondire le contraddizioni dello sviluppo italiano, come abbiamo visto. Oggi, invece, le prime risultanze che è possibile rilevare indicano che la violenta stretta creditizia e le drastiche misure fiscali adottate dal governo italiano stanno avendo effetti limitati sia sul processo inflazionistico, sia sull’equilibrio della bilancia dei pagamenti.
Per comprendere le ragioni della limitata efficacia delle misure restrittive adottate, facciamo riferimento alla natura del problema da risolvere.
Non è necessario dimostrare che la causa principale dell’attuale inflazione mondiale e, per quanto più da vicino ci riguarda, del deficit della bilancia dei pagamenti italiana è il forte aumento nei prezzi delle materie prime, e in particolare del petrolio, che ha cominciato a prodursi a partire dal 1970 e che si è manifestato con intensità esplosiva nel 1973.
Questo fatto è riconosciuto da tutti; il problema è che a questo riconoscimento non segue un’analisi coerente.
Se è vero che il processo inflazionistico e il deficit della bilancia dei pagamenti sono il frutto della modificazione dei «terms of trade» esistenti fra i paesi industrializzati e i paesi produttori di materie prime, ciò significa che le autorità preposte alla politica economica, in Italia così come in qualsiasi altro paese, sono confrontate con un problema che non ha riscontro nel passato. Le pressioni inflazionistiche nel dopoguerra sono imputabili, nella generalità dei casi, e sempre nell’esperienza italiana, ad un eccesso di domanda rispetto all’offerta di beni e servizi da parte dell’economia. Per arginare il processo inflazionistico si è rivelato pertanto necessario, e sufficiente, un insieme di misure volte a contenere la domanda effettiva. Oggi ciò non è più vero, perché la riduzione della domanda interna può non avere nessuna influenza sulla bilancia degli scambi fra paesi industrializzati, considerati nel loro insieme, e paesi produttori di materie prime. Una politica di riduzione della domanda interna può servire a scaricare sul «vicino», cioè sugli altri paesi industrializzati, il «deficit energetico» e il deficit connesso all’importazione delle altre materie prime; ma se questa politica è seguita, come oggi accade, da tutti i paesi industrializzati, essa ha come unico effetto di ridurre la produzione e l’occupazione senza incidere significativamente né sul tasso d’inflazione né sul deficit dei conti con l’estero. Gli strumenti tradizionalmente utilizzati dai politici economici dal new deal americano in poi, oggi si dimostrano inefficaci perché il problema non è di gestire uno squilibrio interno del sistema economico, ma di rimediare alla crisi generata dal disordine dei rapporti fra gli Stati.
L’Europa, divenuta potenza economica, ha messo in crisi l’egemonia statunitense, senza poter tuttavia offrire un’alternativa a quest’ultima perché divisa politicamente. In questa situazione i paesi produttori di materie prime hanno trovato lo spazio per avanzare le proprie rivendicazioni; i paesi arabi, in particolare, giocando sulla divisione dei paesi europei, hanno saputo abilmente ricattare questi ultimi costringendoli a piegarsi a ogni loro richiesta. Questa, se pur solo schematizzata grossolanamente, è la radice dell’inflazione e della crisi che stiamo vivendo. Le cause dell’inflazione sono politiche: la sola alternativa è di eliminare il fattore di instabilità internazionale rappresentato dal fatto che l’Europa, divenuta potenza economica, è tuttavia priva di potere politico perché divisa. Questa è inoltre la condizione perché il maggiore potere contrattuale dei paesi detentori di materie prime contribuisca all’emancipazione del Terzo mondo.
In questo senso esiste dunque piena coincidenza fra le cause ultime della crisi della Comunità e della crisi economica italiana. In entrambi i casi, il dato di fondo è costituito dal fatto che l’integrazione economica non è stata accompagnata da scelte politiche adeguate.
La soluzione dei problemi italiani deve oggi, necessariamente, essere ricercata nel quadro di una coerente politica a livello europeo. La crisi italiana è solamente un riflesso della crisi europea; l’alternativa è comune. Si tratta di creare un potere democratico, a livello europeo, che assuma l’onere di tutte quelle decisioni che gli Stati nazionali non sono più in grado di prendere, cioè di garantire l’autonomia dell’Europa a livello politico ed economico, di fare una politica dell’energia, una politica monetaria, una politica agricola, una politica economica, una politica sociale, una politica regionale. Si tratta, in ultima analisi, di fondare un governo democratico europeo.
In questo quadro non c’è posto per una strategia nazionale per lottare contro l’inflazione e la crisi economica. D’altro lato, basti pensare che, nella misura in cui l’economia italiana è strettamente legata all’Europa, può esserci sviluppo economico nel nostro paese solo a condizione che ci sia sviluppo economico anche in Europa.
Questo risulta vero da un altro punto di vista. Se consideriamo la C.E.E. nel suo complesso, possiamo rilevare che, accanto a paesi con un grave deficit della bilancia dei pagamenti, esistono paesi in grado di risolvere senza particolari difficoltà i problemi posti dalla crisi energetica. La C.E.E., nel suo complesso, presenta in effetti un deficit verso il resto del mondo relativamente contenuto, gestibile senza particolari difficoltà da una autorità centrale cui fossero attribuiti i necessari poteri. Ciò significa che l’Italia fronteggia oggi una situazione drammatica, perché l’Europa è divisa e manca quindi di quegli strumenti che all’interno di ogni Stato assicurano il sostegno delle regioni depresse.
Per meglio comprendere queste osservazioni, consideriamo un esempio.
Proviamo ad ipotizzare l’esistenza di una moneta lombarda e di una moneta toscana, con due banche centrali regionali impegnate a mantenere la convertibilità e la stabilità delle due monete. La Toscana presenti un deficit nella bilancia dei pagamenti e la Lombardia un surplus, mentre, considerate nel loro insieme, le due regioni siano in pareggio rispetto al resto del mondo. In questa situazione i mercati dei cambi vedrebbero immediatamente aumentare la tensione e profilarsi il pericolo di svalutazione delle moneta toscana e rivalutazione della moneta lombarda. I cittadini toscani comincerebbero a esportare i propri risparmi in Lombardia; capitali speculativi si riverserebbero pure dalla Toscana in Lombardia; l’effetto congiunto di questi movimenti di capitali sarebbe quello di aggravare la situazione, fino a renderla insostenibile. Le autorità toscane dovrebbero iniziare una politica deflazionistica, tanto più drastica quanto più grave si rivelasse il deficit. Nell’insieme, il tentativo di mantenere in equilibrio i conti interregionali avrebbe un effetto deflazionistico per le due regioni, e impedirebbe l’incremento degli scambi.
Una situazione del genere appare ai nostri occhi assurda. Il fatto è che questi fenomeni non si manifestano in Italia perché esiste un’unica moneta, un mercato integrato dei capitali, la libertà di circolazione dei fattori produttivi e perché l’operatore pubblico provvede a garantire, in una certa misura, lo sviluppo equilibrato del sistema economico. Oggi, se i cittadini di Firenze improvvisamente aumentano le importazioni di manufatti lombardi, nessuna crisi interregionale si produce. I cittadini di Milano si arricchirebbero un poco e pagherebbero più tasse; i cittadini di Firenze si troverebbero impoveriti e conseguentemente vedrebbero diminuire il carico fiscale. Gli squilibri della distribuzione del reddito fra Toscana e Lombardia sarebbero comunque fortemente attenuati dal fatto che la spesa pubblica tenderebbe a ripartirsi in modo omogeneo fra le varie regioni; ciò significa che la spesa pubblica resterebbe costante in Toscana, anche a fronte di una diminuzione delle imposte pagate, realizzando un trasferimento automatico di risorse della Lombardia alla Toscana. A propria volta, gli istituti bancari provvederebbero a raccogliere liquidità in Lombardia e a trasferirla, sotto forma di prestiti, in Toscana, rendendo possibile diluire nel tempo gli effetti dello squilibrio. Nonostante questo, qualche artigiano fiorentino potrebbe anche fallire; qualche lavoratore potrebbe decidere di trasferirsi in Lombardia ove ci sono migliori occasioni di lavoro. A questo punto spetterebbe alle autorità centrali intervenire, con sussidi e incrementando la spesa pubblica in Toscana, qualora esse ritenessero opportuno bloccare l’emigrazione o ritenessero troppo elevata la disoccupazione in Toscana; od ancora, più semplicemente, decidessero una politica di livellamento dei redditi a livello regionale.
Ciò è quanto avviene quotidianamente all’interno del quadro nazionale, in modo tanto normale che questi fenomeni non sono nemmeno percepiti. La situazione contraddittoria e assurda che si genererebbe fra Lombardia e Toscana, qualora non esistesse il quadro unitario italiano, è invece caratteristica dell’esperienza europea, che non ha ancora superato la propria divisione in regioni — gli Stati nazionali. L’impotenza dell’Italia di fronte al problema del deficit della bilancia dei pagamenti ha anche questa spiegazione strutturale. Per questo è vero affermare che la soluzione dei problemi italiani deve oggi, necessariamente, essere ricercata nel quadro di una coerente politica a livello europeo. Il grado di integrazione è giunto a tale punto di approfondimento, per cui è ormai impossibile affrontare i problemi del sistema economico italiano, o di qualsiasi altro Stato europeo, senza affrontare al tempo stesso i problemi dell’integrazione economica europea. Questo significa che i problemi europei non possono più essere considerati problemi di «politica estera»; esiste ormai piena coincidenza tra le scelte che debbono essere compiute a livello europeo e a livello nazionale.
Il problema è pertanto di vedere quali sono state le risposte date a livello europeo alla crisi della Comunità e analizzare quale significato avrebbe la loro realizzazione, dal punto di vista delle economie nazionali.
6. A livello europeo la sola risposta che i governi hanno saputo dare fino ad ora alla crisi della Comunità è stata il lancio dell’unione economica e monetaria, che prevede il raggiungimento di una completa fissità dei cambi attraverso il progressivo restringimento dei margini di fluttuazione delle monete europee ed una progressiva armonizzazione delle politiche economiche. Questo piano, tradottosi in un primo tempo nella realizzazione della fluttuazione congiunta delle monete europee, successivamente entrato in una profonda crisi, continua tutt’oggi a ritornare, periodicamente, al centro del dibattito comunitario e rappresenta tutt’ora il progetto più avanzato elaborato in sede intergovernativa.
Nelle intenzioni dei suoi proponenti, il progetto di una unione economica e monetaria rappresenta una risposta sia ai problemi dei rapporti dell’Europa con il resto del mondo, sia alle contraddizioni interne generate dallo sviluppo del processo di integrazione. Secondo tale visione, l’avvio dell’unione economica e monetaria permetterebbe di individuare un’area monetaria europea autonoma rispetto al dollaro e permetterebbe all’Europa di negoziare, con un maggior potere contrattuale, la revisione dei rapporti economici commerciali internazionali e soprattutto dei rapporti che la legano con gli Stati Uniti. L’avvio dell’unione economica e monetaria, inoltre, garantendo una struttura di parità definite fra i paesi europei porrebbe fine a tutti i problemi monetari legati alla fissazione dei prezzi nel Mercato comune agricolo; essa rappresenterebbe il quadro entro cui il processo di integrazione economica e commerciale potrebbe svilupparsi in modo stabile; essa infine darebbe gli strumenti, ad un potere centrale, necessari per avviare una politica regionale, una politica industriale, e, più in generale, per raggiungere alcuni obiettivi prioritari di politica economica.
L’esperienza acquisita, alla prova dei fatti, con la realizzazione della fluttuazione congiunta delle monete di sei paesi europei dimostra tuttavia la contraddittorietà di questa alternativa; il fallimento del «serpente comunitario» è tale da giustificare un totale scetticismo anche nei confronti di qualsiasi ulteriore tentativo di rilanciare l’unione economica e monetaria in termini funzionalisti.
I più gravi limiti della fluttuazione congiunta sono identificabili in primo luogo nella sua precarietà. Qualsiasi accordo di fluttuazione congiunta di più monete raggiunto fra i paesi membri della Comunità europea è infatti destinato a fallire nella misura in cui, date le inevitabili divergenze dei tassi di sviluppo dei diversi paesi partecipanti all’accordo, è prevedibile, nel medio o lungo periodo, la necessità di riallineare le parità fra le monete congiuntamente fluttuanti, in funzione delle variazioni interne nei livelli dei costi e della produttività. L’esperienza non ha tardato a dimostrare la verità di questa affermazione. Pochi mesi dopo l’avvio della fluttuazione congiunta, il marco si è rivalutato; pochi mesi dopo, ancora, il franco francese usciva dal «serpente» comunitario.
Così si spiega il fatto che la fluttuazione congiunta delle monete si è rivelata una soluzione illusoria alla crisi del sistema monetario internazionale; il dollaro non ha tardato a riaffermare la propria egemonia anche all’interno dell’evanescente «area monetaria europea».
Il fatto è che il lancio del progetto dell’unione economica e monetaria può rappresentare una prima tappa di un processo volto alla creazione di una moneta europea e alla realizzazione di una politica economica europea; ma in questo processo, dal punto di partenza a quello di arrivo c’è un salto qualitativo, vale a dire il passaggio da un sistema di Stati nazionali sovrani ad uno Stato federale europeo.
Il rapporto che esiste fra fluttuazione congiunta e moneta europea è analogo al rapporto esistente fra politiche economiche coordinate e politiche economiche unitarie. In entrambi i casi ci troviamo di fronte ad un salto di qualità. Un processo di coordinamento implica il confronto delle diverse posizioni nazionali, il negoziato, il compromesso fra gli interessi nazionali contrastanti ricercato a livello diplomatico; le politiche unitarie possono invece manifestarsi solo ove esiste un quadro di formazione di una volontà pubblica, cioè ove esiste un potere centrale.
I limiti dell’alternativa rappresentata dall’unione economica e monetaria risultano ancora più evidenti se consideriamo le ripercussioni che essa avrebbe sulle condizioni interne, sociali ed economiche, dei paesi partecipanti.
L’effetto immediato della fluttuazione congiunta delle monete, in effetti, in presenza di una situazione economica che tende a generare uno squilibrio nella bilancia dei pagamenti, sarebbe inevitabilmente di porre in subordine gli obiettivi della stabilità e dello sviluppo del sistema economico nazionale rispetto all’obiettivo prioritario del mantenimento dell’equilibrio dei conti con l’estero.
Consideriamo il caso italiano. Nel 1973 l’Italia, così come l’Inghilterra, stava attraversando una fase di grave recessione economica e la lira tendeva ad essere svalutata, mentre la maggioranza dei paesi europei presentava un elevato ritmo di espansione e le monete «forti» europee tendevano ad essere rivalutate. In questa situazione la fluttuazione della lira in parallelo con le altre monete europee avrebbe imposto alla Banca d’Italia di intervenire sui mercati dei cambi in sostegno della lira, con la conseguenza di impoverire le riserve valutarie italiane, di diminuire la competitività internazionale delle imprese italiane e quindi di sottoporre l’economia italiana ad una stretta deflazionistica, in netta contraddizione con la situazione recessiva della nostra economia. In una situazione di crisi del genere, le distorsioni che affliggono il sistema economico e sociale italiano si sarebbero verosimilmente aggravate; questo fenomeno, inoltre, sarebbe stato tanto più accentuato in quanto l’esigenza di mantenere in equilibrio i conti con l’estero avrebbe imposto una compressione della spesa pubblica.
Anche in questo caso abbiamo un riferimento empirico per meglio comprendere le implicazioni della scelta della linea dell’unione economica e monetaria come linea di sviluppo del processo di integrazione. In effetti, le misure deflazionistiche prese dal governo italiano nel tentativo di arginare il processo inflazionistico e il deficit della bilancia dei pagamenti imputabili alla crisi energetica, rappresentano il modello delle misure che avrebbero dovuto essere prese (prima della crisi energetica) per portare la lira a fluttuare in parallelo con le altre monete europee.
Si tenga inoltre presente che l’esperienza acquisita durante la breve vita del «serpente» comunitario ha dimostrato che la fluttuazione congiunta tende a creare una «gerarchia monetaria», nel cui ambito ogni singola moneta trova la propria posizione in funzione della propria «solidità» e in relazione alla misura in cui è utilizzata nel commercio internazionale. L’esperienza ha chiaramente mostrato che la fluttuazione congiunta è stata pilotata dal marco, che ha trascinato dietro di sé tutte le altre monete (fino a quando hanno retto; il franco francese ha dovuto arrendersi dopo pochi mesi). Ciò significa che la partecipazione alla fluttuazione congiunta impone ai paesi più deboli di strutturare la propria politica economica in funzione non delle proprie condizioni interne, ma in funzione delle condizioni prevalenti nei paesi più forti (la Germania).
Per questo la scelta dell’unione economica e monetaria è debole, perché non risolve i problemi di fondo dell’Europa né sul piano interno né sul piano internazionale; è falsa, perché accentua e non riduce la tensione e le spinte centrifughe all’interno della Comunità; è reazionaria, perché subordina gli obiettivi dello sviluppo e della piena occupazione al mantenimento delle parità monetarie e impedisce di realizzare una politica di riforma per sanare gli squilibri generati dallo sviluppo anarchico del Mercato comune.
Ciò significa che questa alternativa, anche se riuscisse ad imporsi, non potrà comunque essere sostenuta a lungo, perché essa non solo è estremamente debole, ma non può essere sostenuta dal consenso popolare.
In questa situazione, la crisi che travaglia l’Europa e, in modo particolarmente violento l’Italia, rischia di aggravarsi in modo insostenibile.
La crisi della Comunità sta mettendo in discussione tutte le conquiste, economiche e sociali, di questo dopoguerra. L’inflazione galoppante aggrava le sperequazioni sociali e colpisce più crudamente le regioni più povere, aumentando le tensioni sociali.
Di fronte a questi fatti, l’alternativa elaborata dalla Comunità si dimostra, come abbiamo visto, falsa e inaccettabile. Alternative nazionali oggi non possono esistere, perché il fenomeno da controllare ha dimensioni che vanno al di là del quadro nazionale. L’esperienza italiana del 1973 rappresenta un’ultima conferma di questa verità: il rifiuto di partecipare alla fluttuazione congiunta ha dato all’Italia un certo margine di libertà per realizzare una politica economica autonoma. Ora gli effetti di questa libertà, tradottasi nella svalutazione della lira, sono stati solamente una accelerazione dell’inflazione e un aggravamento del deficit della bilancia dei pagamenti; inoltre, oltre a questi effetti «perversi», la svalutazione, generando fondati timori di ulteriori svalutazioni della lira, ha alimentato una massiccia fuga dei capitali che ha ulteriormente aggravato i problemi dell’economia italiana.
In questo clima, sta oggi maturando in Europa la volontà di realizzare meccanismi di mutuo soccorso e di sostegno dei paesi più colpiti dalla crisi, come ultimo disperato tentativo degli Stati nazionali e della Comunità europea di non essere travolti dalla crisi. Si tratta di vedere se in questa proposta c’è qualcosa di nuovo.
7. La realizzazione di meccanismi che permettono il trasferimento di risorse dalle regioni più ricche alle regioni più povere è una delle condizioni essenziali per conciliare il principio dell’unione monetaria con la possibilità di perseguire obiettivi prioritari di politica economica. Come abbiamo visto, la fluttuazione congiunta delle monete tende ad aggravare gli squilibri regionali, le contraddizioni generate dallo sviluppo anarchico del Mercato comune e rappresenta un ostacolo alla realizzazione di riforme di struttura nei paesi più deboli, cioè nei paesi che di tali riforme più abbisognano. Per questo la realizzazione dell’unione monetaria diventa un obiettivo accettabile da tutti i paesi, solo a condizione che sia accompagnata dalla messa in opera di meccanismi di trasferimento che controbilancino tale tendenza.
Questo è il significato più profondo del progetto, oggi in discussione, di realizzare, a livello del Mercato comune, meccanismi finanziari per far affluire prestiti, a medio e lungo termine, verso i paesi membri con deficit della bilancia dei pagamenti. In ultima analisi, il dibattito oggi in corso a livello comunitario rappresenta il tentativo di rilanciare l’unione economica e monetaria come alternativa alla crisi della Comunità; il prezzo che deve essere pagato dai paesi più ricchi dell’Europa per rendere credibile tale rilancio è l’onere finanziario che essi dovranno accollarsi per ottenere la partecipazione dei paesi più deboli.
Se questo è vero, ciò significa che l’alternativa oggi presentata non si differenzia, se non marginalmente, dall’originario progetto di unione economica e monetaria approvato, in linea di massima, dal vertice dei Capi di Stato e di governo di Parigi del 1972. I meccanismi finanziari che si intende attuare non modificano la natura del progetto. Fino a quando l’Europa sarà divisa in Stati sovrani, ogni governo dovrà rispondere del suo operato agli elettori del proprio paese, cioè la volontà politica si formerà solamente a livello nazionale. In questa situazione è molto arduo immaginare che si possano fondare meccanismi atti a trasferire risorse, per ammontari rilevanti, fra regioni appartenenti a Stati diversi; il trasferimento di risorse della Germania all’Italia (o, se vogliamo, dalla Ruhr alla Sicilia), per essere empirici, è ipotizzabile solo in un quadro politicamente unificato. Questo vale anche nel caso in cui in discussione ci sia solamente la «garanzia» di uno Stato per un prestito internazionale a beneficio di un altro Stato; tale garanzia non è altro che l’impegno a trasferire risorse al paese in crisi, in conseguenza ad avvenimenti dipendenti dal paese beneficiario! In effetti, a riprova di questa interpretazione, la cronaca ha messo in luce le enormi difficoltà che sono emerse in continuazione nel corso delle trattative comunitarie per concordare l’istituzione di tali meccanismi finanziari, nonostante sia relativamente contenuto l’ammontare degli oneri massimi che potrebbero gravare su ogni singolo paese. Nella logica confederale, nessuno Stato dà nulla per nulla. Ogni passo avanti richiede, in ultima analisi, l’assunzione di impegni da parte dei paesi più forti; e questo avviene solamente come contropartita di altre concessioni, economiche o politiche.
Di fronte alla crisi drammatica che sta vivendo, l’Europa una volta ancora è capace di partorire solamente false alternative, perché incapace di superare lo stadio confederale dell’integrazione europea.
I fatti confermano la diagnosi federalista. Chiusa la fase del processo di integrazione caratterizzata dalla liberalizzazione degli scambi, non è possibile avanzare sul terreno monetario ed economico senza un salto di qualità a livello politico, cioè senza il passaggio dal sistema confederale di Stati sovrani oggi esistente alla Federazione europea. Senza questo sviluppo il processo di integrazione europea è destinato a vedere sempre più accentuarsi la sua crisi.

 

 

 

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