Anno XVIII, 1976, Numero 2-3, Pagina 89
Il commercio internazionale,
l’Europa e il Terzo mondo
GUIDO MONTANI
La ricerca di un nuovo ordine economico mondiale è ormai diventata una preoccupazione costante dei governi di tutti i paesi interessati al commercio mondiale. La prosperità e gli elevati tassi di sviluppo di cui hanno goduto le principali economie mondiali nel dopoguerra sembrano ormai il frutto di una fortunata congiuntura durata per quasi un trentennio, ma destinata, come tutti i cicli economici, a trasformarsi in recessione. I rapporti con i paesi del Terzo mondo si sono alterati al punto che sembra legittimo parlare di una vera e propria guerra economica in atto fra paesi ricchi e poveri. L’assetto economico mondiale che ha garantito un certo ordine e regolarità agli scambi mondiali, dal dopoguerra ad oggi, è messo in discussione ovunque e non si vede ancora quale possa essere l’ordine alternativo. E poiché il vecchio è morto, ma il nuovo non è ancora nato, è inevitabile assistere ad un grande disorientamento sia nel mondo politico, sia fra gli esperti economici, che smentiscono oggi ciò che ieri avevano previsto con dovizia di statistiche ed audaci estrapolazioni.[1]
Il problema non è quello di seguire ciecamente delle tendenze (abbandonandosi così a facili ottimismi o a catastrofici pessimismi), ma di sapere in quale modo sia possibile riorganizzare il mercato mondiale affinché siano soddisfatte sia le legittime aspirazioni dei popoli del Terzo mondo ad una migliore ripartizione delle ricchezze mondiali, sia le esigenze di stabilità e sviluppo delle economie mature.
1. Sottosviluppo e commercio internazionale.
Nel nostro secolo non vi è dubbio che il più importante problema di giustizia distributiva sia costituito dal divario di reddito pro-capite esistente fra paesi ricchi e paesi poveri nel mondo (a differenza di quanto è accaduto nel secolo scorso in cui il problema concerneva la cattiva distribuzione del reddito sociale fra le varie classi all’interno dello Stato). Il problema della povertà nel mondo si è posto all’attenzione dell’opinione pubblica alla fine della seconda guerra mondiale, dopo il crollo delle grandi potenze europee e la fine storica del colonialismo. La conquistata indipendenza nazionale dei nuovi popoli ha posto in termini completamente nuovi il problema del sottosviluppo. In quanto colonie, molti paesi venivano considerati regioni povere di un’area metropolitana che si estendeva, per alcune provincie, «oltremare». Ciò comportava tuttavia un certo numero di vantaggi per questi paesi, perché potevano fruire di investimenti in infrastrutture fatti dal governo coloniale, di una amministrazione efficiente, di organismi monetari moderni che consentivano di far compiere i primi passi all’economia primitiva locale, ecc. La fine del colonialismo ha significato anche la fine di questi aiuti e ha imposto pertanto alle ex-colonie di porsi come obiettivo politico prioritario lo sviluppo economico, se non volevano rinunciare di fatto alla indipendenza politica appena conquistata. Per i popoli del Terzo mondo infatti non vi è alcuna possibilità di poter essere considerati sullo stesso piano dei paesi più ricchi fino a che si perpetueranno le loro attuali condizioni di miseria, di stagnazione e di dipendenza economica.
Il sottosviluppo non è certamente solo un problema economico. È tuttavia principalmente sotto questo aspetto che verrà qui analizzato, con l’intenzione specifica di mettere in evidenza le condizioni politiche che attualmente ostacolano l’industrializzazione del Terzo mondo e quelle che potrebbero invece favorirla. È comune affrontare lo studio delle cause del sottosviluppo in modo frammentario, discutendone aspetti parziali oppure delle caratteristiche di questo o quel paese. Al contrario, qui si cercherà di dimostrare che è legittimo discutere del problema della povertà nel mondo solo partendo dal presupposto che esiste una economia mondiale e che, pertanto, qualsiasi schema concettuale impiegato è lacunoso, se prescinde da questa realtà. L’esistenza di una economia di dimensioni mondiali è già stata constatata da Marx nel secolo scorso. «La grande industria universalizzò la concorrenza (essa è la libertà di commercio pratica, e i dazi protettivi non sono in essa che un palliativo, uno strumento di difesa all’interno della libertà di commercio), stabilì i mezzi di comunicazione e il mercato mondiale moderno, sottomise a sé il commercio, trasformò ogni capitale in capitale industriale e generò così la circolazione rapida (perfezionamento del sistema finanziario) e la centralizzazione dei capitali… Essa produsse per la prima volta la storia mondiale, in quanto fece dipendere dal mondo intero ogni nazione civilizzata, e in essa ciascun individuo per la soddisfazione dei suoi bisogni…».[2]
Da questa constatazione discendono alcune importanti conseguenze per i paesi sottosviluppati. La principale è quella che i teorici dello sviluppo economico hanno definito «dipendenza tecnologica»,[3] ma che già Marx aveva indicato fra le conseguenze della formazione di un mercato mondiale. «Dipende unicamente dall’estensione delle relazioni commerciali se le forze produttive acquisite in una località, soprattutto le invenzioni, vadano o no perdute per lo sviluppo successivo. Fin tanto che non esistono relazioni che oltrepassino le vicinanze immediate, ogni invenzione deve essere fatta separatamente in ciascuna località… Solo quando le relazioni si sono estese su scala mondiale ed hanno per base la grande industria, quando tutte le nazioni sono trascinate nella lotta della concorrenza, la durata delle forze produttive acquisite è assicurata».[4] I paesi più poveri si trovano pertanto avvantaggiati dal cammino percorso dai paesi già industrializzati, perché possono attingere a conoscenze tecniche molto più perfezionate di quelle in uso nelle loro economie. Questo fatto deve tuttavia essere analizzato più minutamente perché nasconde, come rovescio della medaglia, anche le maggiori attuali difficoltà dello sviluppo economico.
La dimensione del mercato dei paesi sottosviluppati è il principale ostacolo all’adozione delle tecniche più progredite. Questa non è che una specificazione della famosa affermazione di A. Smith che «la divisione del lavoro è limitata dall’estensione del mercato». È noto che vi sono enormi differenze nel reddito pro-capite fra paesi ricchi e poveri: si può passare da un reddito pro-capite di 2.500-3.000 dollari nel Nord America a un reddito di soli 100 dollari annui in qualche paese africano. È altrettanto noto (con il nome di legge di Engel) che il livello e la composizione dei consumi individuali sono una funzione del reddito: quanto più i redditi sono elevati tanto minore è la percentuale destinata all’acquisto dei cosiddetti «beni indispensabili» e tanto maggiore è la percentuale destinata all’acquisto di una sempre più ampia gamma di «beni voluttuari», più elaborati e raffinati. Nei paesi sottosviluppati la quasi totalità del reddito è destinata all’acquisto di pochi (o pochissimi) beni indispensabili alla sopravvivenza fisica. Si calcola che l’India abbia un mercato di beni lavorati grande come quello danese, anche se la Danimarca ha una popolazione pari a circa l’1% di quella indiana. In queste condizioni è evidente che vi sarà una strozzatura, da parte della domanda, alla introduzione dei moderni metodi produttivi. Date le tecniche di produzione di massa note, che sono quelle adottate sui vasti mercati dei paesi industrializzati, non conviene investire e produrre perché il mercato non è in grado di assorbire la produzione. L’incentivo ad investire è limitato dalle dimensioni del mercato. Nelle economie sottosviluppate, se considerate come un mercato chiuso, si produce poco perché si consuma poco. E si consuma poco perché vengono distribuiti pochi redditi a causa della scarsa produzione. Questa, in breve, è l’essenza del cosiddetto «circolo vizioso della povertà». La scarsa capacità di comperare limita la capacità di produrre.[5]
Vi sono poi strozzature anche dal lato dell’offerta di capitale. La produzione di attrezzature e macchinari adatti alle dimensioni dei mercati dei paesi del Terzo mondo non viene nemmeno intrapresa, perché semplicemente non si conoscono le tecnologie adatte al mercato di questi paesi. La domanda di nuovi beni strumentali ha origine principalmente sui mercati delle grandi economie industrializzate, dove domina la produzione di massa, su larga scala, e dove vengono scoperti, progettati e introdotti i nuovi metodi di produzione. Le nuove tecniche, una volta entrate sul mercato, scacciano progressivamente, e definitivamente, i vecchi metodi di produzione meno efficienti ed adatti a mercati di più ristrette proporzioni. Con l’introduzione dei nuovi beni strumentali aumenta anche la scala della produzione. È questo il noto processo che conduce al continuo aumento nelle dimensioni dell’impresa e alla concentrazione del capitale. Ma tale incessante progresso nelle tecnologie ha anche creato un divario incolmabile fra i metodi utilizzabili nei paesi ricchi e poveri: le economie sottosviluppate potrebbero forse impiegare convenientemente i metodi di produzione in uso in Europa agli albori della rivoluzione industriale. I beni capitali non vengono quindi progettati e prodotti in loco perché mancano le persone in grado di progettarli e produrli e, comunque, anche se venissero istruiti e formati dei nuovi tecnici ed ingegneri, questi apprenderebbero le conoscenze scientifiche più avanzate: la vecchia tecnologia è morta per sempre.
Ma anche ammesso che si voglia iniziare la produzione di beni strumentali, si deve considerare che attualmente il progresso tecnologico consente alle economie mature di produrre macchinari altamente efficienti, poco ingombranti, di scarso peso (e quindi facilmente trasportabili a basso prezzo) che sono immensamente più competitivi dei macchinari simili eventualmente prodotti nei paesi sottosviluppati. Pertanto conviene sempre di più la loro importazione piuttosto che la produzione in loco. Questo implica, in primo luogo, l’impossibilità, per i paesi sottosviluppati, di organizzare un mercato concorrenziale vero e proprio. Poiché i beni capitali importati saranno in genere adatti a mercati più ampi di quelli locali, una o poche imprese saranno sufficienti a soddisfare la domanda. La struttura tipica del mercato dei paesi sottosviluppati è pertanto il monopolio o l’oligopolio. Ma ancora più rilevante è una seconda conseguenza di questa dipendenza tecnologica. Strutturalmente i paesi sottosviluppati sono costretti ad importare quasi completamente i beni strumentali necessari al loro sviluppo. Questo significa anche che il settore del commercio estero è per essi di importanza vitale, perché solo se riusciranno a far fronte con un adeguato volume di esportazioni alle loro necessità di importazione dei beni strumentali potranno varare degli efficaci programmi di sviluppo economico.
Le considerazioni appena fatte sugli incentivi ad investire, ci consentono anche di chiarire il ruolo degli investimenti privati internazionali nel Terzo mondo. Il carattere ambiguo di questi investimenti è denunciato dagli stessi paesi del Terzo mondo che, mentre fanno di tutto per attirare i capitali esteri, sono poi subito pronti ad accusare di «sfruttamento» del loro paese le imprese multinazionali. Questa natura ambivalente degli investimenti internazionali è facilmente comprensibile se teniamo presenti gli incentivi ad investire appena abbozzati. Gli investimenti vengono effettuati in funzione delle capacità di assorbimento dell’economia. Non è per nulla sorprendente, pertanto, il fatto che la maggior parte degli investimenti esteri nei paesi sottosviluppati riguardi lo sfruttamento di materie prime locali, in funzione della produzione industriale dei paesi più ricchi. La natura di questi investimenti è tale (hanno alta intensità di capitale ed impiegano pochissima manodopera indigena) da favorire solo marginalmente l’economia locale. In un primo tempo il paese ospitante ottiene un sollievo nella propria bilancia dei pagamenti a causa dell’afflusso finanziario indispensabile per iniziare la nuova attività. Ma negli anni successivi comincia la fuga di capitali dovuta al reimpatrio dei profitti; fuga che può costituire un grave vincolo alle capacità di importazione dell’economia. Le possibilità di stimolare attività collaterali, di istruire la manodopera locale e di rompere il circolo vizioso del sottosviluppo sono molto limitate per le attività estrattive. Questo tipo di investimenti verrebbe giustamente denominato in Italia «cattedrale nel deserto». Anche se nel secolo scorso lo sviluppo economico di alcuni paesi, come il Nord America e l’Australia, sembra essere stato stimolato dalle esportazioni di materie prime, nel nostro secolo vi sono buone ragioni per pensare che la produzione ed esportazione di materie prime svolga un ruolo del tutto marginale nel processo di sviluppo economico. La domanda mondiale di questi prodotti, inoltre, è in continua diminuzione (al contrario di quanto è avvenuto nel secolo scorso) ed il progresso tecnico riduce in continuazione il loro fabbisogno per l’industria.[6] Puntare sulla produzione esclusiva di materie prime significa pertanto, per i paesi sottosviluppati, accettare l’attuale ruolo marginale delle loro economie. Solo lo sviluppo dell’industria manifatturiera sembra assicurare oggi la possibilità di uno sviluppo economico autoalimentantesi.
Si deve tuttavia aggiungere una nota di cautela a proposito delle esportazioni di manufatti dai paesi del Terzo mondo. Negli ultimi venti anni il tipo di investimenti esteri è progressivamente mutato in modo significativo: il progresso tecnico ha consentito di ridurre notevolmente le dimensioni ed il peso di alcuni prodotti intermedi (come per esempio le apparecchiature elettroniche) e di semplificare in poche operazioni ripetitive il lavoro necessario alla loro produzione. Per questo è sempre più frequente assistere alla introduzione di una nuova divisione del lavoro fra paesi ricchi e poveri, in cui ai primi è affidato il montaggio e lo smercio dei prodotti finiti e ai secondi, grazie ai bassi costi della manodopera locale, vengono affidate tutte le operazioni intermedie. I bassi prezzi di trasporto facilitano questa nuova organizzazione delle imprese multinazionali, in specie americane.[7] Pertanto anche questo tipo di produzione, sebbene concerna i manufatti, non serve molto per incoraggiare lo sviluppo economico del Terzo mondo. La specializzazione del lavoro richiesta per queste operazioni non è molto maggiore di quella necessaria per l’industria estrattiva e nessuno stimolo proviene alle altre industrie locali, perché spesso i semilavorati provengono dalla madrepatria, vengono ulteriormente lavorati e ripartono. Di nuovo si dovrebbe parlare di dipendenza tecnologica. Ma ciò non deve stupire: gli investimenti internazionali nel Terzo mondo sono fatti in funzione delle economie mature, il loro fine non è quello di rompere il circolo vizioso della povertà, ma quello di soddisfare la domanda dei mercati più profittevoli, perché più ricchi.
Dalle osservazioni precedenti, sui rapporti fra incentivi ad investire e dimensione del mercato, si possono trarre anche importanti indicazioni sulla strategia dello sviluppo economico. È un luogo comune, sostenuto dalla teoria economica tradizionale, affermare che gli investimenti sono particolarmente attirati nelle zone in cui il capitale è relativamente scarso rispetto agli altri fattori della produzione. Ma la situazione dei paesi sottosviluppati, dove la manodopera, anche se non qualificata, esiste in grande quantità, sotto forma di disoccupazione nascosta in agricoltura, ed a basso prezzo, sembra proprio dimostrare il contrario. Nessun investimento verrà fatto se non è possibile prevedere un ragionevole smercio della produzione. Facciamo l’esempio di un investimento, in una economia chiusa, in una fabbrica di scarpe che assuma un certo numero di disoccupati in agricoltura. Questi operai riceveranno ora un reddito superiore a quanto riuscivano a guadagnare nel settore di sussistenza. Ma si pone ora il problema di sapere se la produzione di scarpe può essere interamente venduta. La risposta è senz’altro negativa, perché gli operai assunti non saranno disposti a spendere tutto il loro reddito nell’acquisto di scarpe.[8] Non vale la legge di Say: la produzione non crea la propria domanda. Per questo non è possibile, per singoli investitori, intraprendere iniziative isolate: un programma di investimenti di dimensioni limitate è certamente votato al fallimento. Diverso sarebbe il discorso se venissero prese più iniziative congiunte di investimento. Se a fianco della fabbrica di scarpe ne sorgessero altre per stoffe, biciclette, per la trasformazione dei prodotti agricoli, ecc., il risultato sarebbe completamente differente: la parte della produzione di scarpe non acquistata dagli operai impiegati nella loro fabbricazione sarebbe acquistata dagli altri operai e così per gli altri prodotti. In questo caso potrebbe valere (a patto che esista una certa proporzione fra le quantità dei beni prodotti) la legge di Say: la produzione crea la propria domanda e diventa conveniente investire.
Questo semplice esempio è utile per illustrare due importanti caratteristiche dello sviluppo economico. La prima è che in qualche modo lo sviluppo deve essere «equilibrato», nel senso che solo una ondata di investimenti complementari può avere successo: l’investimento in un settore deve servire per alimentare, oltre il proprio mercato, anche quello degli altri settori. Mentre le iniziative isolate sono destinate al fallimento, un attacco su più fronti può mettere in moto il meccanismo di sviluppo e rompere il circolo vizioso della povertà. Solo in questo modo possono essere superati i limiti intrinseci ad una programmazione dello sviluppo che punti unicamente sulla iniziativa individuale: il singolo imprenditore è incapace di prendere in considerazione i vantaggi che potrebbero derivargli da investimenti fatti in altri settori. Il tasso al quale una industria può svilupparsi dipende dal tasso di sviluppo delle industrie ad essa collegate.[9] In secondo luogo, e come conseguenza del fatto che esiste una divergenza fra rendimento privato e sociale degli investimenti, emerge l’esigenza di programmare lo sviluppo attraverso l’intervento dello Stato. Lo stesso calcolo economico di una serie di investimenti è impossibile al di fuori di un piano in cui vengano descritti il tipo e la dimensione degli investimenti: il rendimento di ogni singolo investimento è funzione di questa serie di informazioni, che ovviamente si trovano al di là dell’orizzonte dell’imprenditore e che solo un governo può determinare (anzi, il governo è il presupposto di una redditività sociale degli investimenti).
Ma vi sono ulteriori ragioni che impongono al potere pubblico di intervenire nei programmi di sviluppo. Queste ragioni risiedono principalmente nelle indivisibilità connesse ad un programma di investimenti: esiste una soglia minima al di sotto della quale gli investimenti non risultano efficaci per rompere il circolo vizioso della povertà. Un individuo è disposto ad aumentare i suoi consumi e a diversificare la sua domanda solo se il suo reddito aumenta in misura sensibile. Investimenti in piccole dosi, anche se effettuati su più fronti, potrebbero lasciare pressoché immutata la domanda complessiva e non mettere in moto alcun meccanismo di sviluppo. A tale indivisibilità nella domanda si aggiunge la indivisibilità, molto più importante, dei programmi di investimento nelle cosiddette infrastrutture. La produzione per il mercato dei beni di consumo non può nemmeno cominciare se prima non sono assicurati certi servizi pubblici essenziali come l’energia elettrica, le strade, i trasporti ferroviari, una capillare rete di comunicazioni, ecc. Gli investimenti in infrastrutture non solo hanno una soglia minima di dimensioni alquanto elevate (una ferrovia o unisce due città lontane o non serve a nulla: la costruzione di qualche chilometro di strada ferrata è solo uno spreco), ma non costituiscono nemmeno un incentivo per i privati, perché sovente è impossibile (come nel caso di un faro) ottenere dagli utilizzatori ricavi tali da coprire i costi. Solo un potere pubblico può provvedere adeguatamente a tali servizi e solo se decide di impiegare massicci capitali.[10]
Gli ostacoli politici che devono affrontare i paesi del Terzo mondo se vogliono effettivamente fare «decollare» le loro economie sono una conseguenza della necessità di programmare lo sviluppo su un vasto fronte e con investimenti di notevoli dimensioni. Programmi di investimenti massicci richiedono come prerequisito una decisa volontà di governo ed una notevole stabilità politica sui lunghi periodi, perché nessun programma di sviluppo può sperare di ottenere qualche successo nell’arco di pochi anni. Inoltre, lo sforzo è tanto più ingente quanto più l’economia è piccola ed isolata dal resto del mondo.[11] Se l’economia è di modeste dimensioni è necessario un forte aumento dei redditi prima che si raggiunga una quota minima di domanda capace di alimentare lo sviluppo. Di conseguenza tanto più ingente deve essere lo sforzo iniziale in investimenti del potere pubblico. Tale sforzo può essere di molto attenuato se l’economia è aperta verso il mercato estero. In questo caso gli investimenti nella produzione di beni di consumo possono risultare immediatamente produttivi perché trovano acquirenti sui mercati esteri, dove dati gli alti redditi individuali la produzione aggiuntiva può essere facilmente assorbita. In questo modo l’esportazione di manufatti costituisce un elemento strategico di ogni piano di sviluppo.[12] La necessità di compiere un «grande balzo» e imprimere una forte spinta iniziale al volano dello sviluppo non è eliminata, perché persiste comunque l’esigenza di provvedere una adeguata rete di investimenti sociali di base, ma è notevolmente attenuata dalla possibilità di produrre per le economie più ricche.
Queste considerazioni sembrano confermate dall’esperienza storica del dopoguerra. Solo i paesi di dimensioni continentali hanno potuto avviare con qualche speranza dei programmi di sviluppo autosufficienti. La Cina è l’esempio più significativo di successo in cui si sono congiunte le condizioni economiche — un ampio mercato — a quelle politiche — un governo stabile ed in grado di lanciare un massiccio programma di industrializzazione. Un secondo esempio significativo, ma di insuccesso, è costituito dall’India dove, nonostante l’esistenza di un mercato potenziale di enormi dimensioni, è venuto a mancare il prerequisito politico: un governo stabile e capace di mobilitare le risorse umane ed economiche. In altri paesi, come la Jugoslavia o l’Albania, pur esistendo i prerequisiti politici nessun decollo economico è stato possibile a causa dell’isolamento e della ristrettezza di questi mercati. Più recentemente, solo il Brasile sembra essere riuscito a superare la soglia minima ed avviarsi ad uno sviluppo autoalimentantesi, grazie alle enormi ricchezze del suolo ed alla dimensione del suo mercato. Ma per gli altri paesi del Terzo mondo non vi sembrano essere prospettive di procedere lungo una «via nazionale» dello sviluppo economico.[13] Un mercato di dimensioni continentali oggi, dato l’attuale grado di sviluppo delle conoscenze scientifiche e delle forze di produzione, costituisce una condizione essenziale dello sviluppo economico. Per i paesi del Terzo mondo è pertanto decisivo, per il loro avvenire, l’instaurazione di un ordine economico mondiale, in cui vi sia la possibilità di allacciare rapporti commerciali aperti fra paesi poveri e ricchi e venga adottata una vera e propria programmazione mondiale dello sviluppo economico (in cui il continente costituisce la dimensione minima di un mercato).
Constatata la relazione fra sottosviluppo e commercio internazionale, non ci resta che analizzare le principali tendenze del commercio internazionale del dopoguerra. A questo fine è tuttavia indispensabile indicare quali sono le forze che regolano questi flussi, che facilitano od ostacolano lo sviluppo economico. Il mercato mondiale è governato. Anche se non è possibile indicare in una visibile istituzione «il governo» responsabile della politica economica mondiale, un governo del mondo esiste. Il mondo è governato dall’equilibrio risultante dal sistema mondiale degli Stati.[14] I rapporti di potere fra le grandi potenze e fra queste ed i loro satelliti regolano anche i flussi del commercio e della finanza internazionali. I caratteri distintivi di un periodo storico saranno perciò definiti dal tipo di equilibrio mondiale che lo ha caratterizzato. Ai nostri fini sarà utile distinguere il periodo che ci separa dalla fine della seconda guerra mondiale in due fasi: la prima è quella della guerra fredda, caratterizzata dall’equilibrio bipolare fra Stati Uniti ed Unione Sovietica; la seconda è quella della distensione, caratterizzata dal progressivo disgregamento dell’equilibrio bipolare e dall’affacciarsi sulla scena politica mondiale di altri centri di potere (la Cina ad oriente e l’Europa del Mercato comune ad occidente).
2. Il commercio mondiale nella fase della guerra fredda.
Alla fine del secondo conflitto mondiale il sistema europeo degli Stati è agonizzante.[15] L’Europa che fino ad allora era stata al centro della storia mondiale è prostrata dal più feroce conflitto di tutti i tempi. Gli Stati europei si dimostrano incapaci di provvedere alla ricostruzione delle loro economie e di assicurarsi una difesa autonoma. L’Europa e il mondo intero vengono spartiti in due zone di influenza, dominate a est dalla Unione Sovietica e ad ovest dagli Stati Uniti. L’equilibrio bipolare fra le superpotenze è un equilibrio rigido: la perdita di una posizione di vantaggio da parte di una potenza significa automaticamente rafforzare l’avversario. Per questo il confronto ideologico, militare ed economico è quanto mai aspro e viene coniato il termine di «guerra fredda» per definire questa fase della storia del dopoguerra.
Nell’area occidentale gli Stati Uniti si fanno promotori delle principali istituzioni economiche internazionali. Dopo faticose trattative viene creato a Ginevra nel 1947 il General Agreement on Tariffs and Trade (G.A.T.T.) che riunisce inizialmente 23 nazioni, ma si allarga ben presto a tutti i principali paesi soggetti all’influenza americana. Il G.A.T.T. instaura un principio nuovo negli scambi internazionali: il multilateralismo, cioè la regola che le preferenze accordate ad un paese vengano automaticamente estese a tutti i paesi membri. Tale regolamentazione del commercio internazionale costituisce un progresso rispetto alla pratica pre-bellica dei rapporti bilaterali, che aveva in effetti soffocato il commercio internazionale in una rete assurda di restrizioni, divieti e controlli. Nel 1945, inoltre, aveva cominciato a funzionare l’International Monetary Fund (I.M.F.), sempre su iniziativa degli Stati Uniti, che introducendo il principio delle parità fisse nel sistema monetario internazionale aveva creato le premesse per una espansione del commercio mondiale.
La piena ripresa degli scambi internazionali fu tuttavia impossibile fino a che le economie europee, che avevano costituito il principale stimolo del commercio mondiale nei due secoli precedenti, restavano prostrate dallo sforzo bellico. L’aiuto non poteva venire che dall’America. Attraverso le Nazioni unite venne creata la United Nations Relief and Rehabilitation Association (U.N.R.R.A.) che versò agli europei, dal 1943 al 1947 circa 1.000 milioni di dollari (di cui due terzi degli U.S.A.). Ma questi aiuti risultarono insufficienti e gli Stati Uniti si mostravano esitanti ad intervenire più massicciamente, in nome della loro secolare tradizione isolazionistica. Fu solamente la diretta minaccia sovietica in Europa a far varare, nel giugno 1947, lo European Recovery Program, più noto come Piano Marshall, dal nome del segretario di Stato americano che lo promosse. Un sostanzioso aiuto economico, nella prospettiva del Piano Marshall, avrebbe consentito ai popoli europei di rimettere in sesto le loro industrie e di avviare un processo di sviluppo che avrebbe conseguito alcuni risultati politici importanti: attenuare le tensioni sociali che avrebbero rafforzato i partiti comunisti creando così una situazione favorevole all’espansione sovietica in Europa; aumentare la fiducia degli europei nel loro alleato d’oltre Atlantico e consolidare così il ruolo mondiale dell’America; avviare i paesi europei verso forme di cooperazione economica e politica che avrebbero aiutato l’America nella politica del containment. Vennero inoltre create, nel 1948, la Organisation for European Economic Cooperation (O.E.E.C.) che interessava sedici paesi europei ed era incaricata di coordinare e ripartire gli aiuti americani fra i vari paesi europei sulla base dei rispettivi piani di ricostruzione e, nel 1951, l’Unione europea dei pagamenti (U.E.P.) per consentire ai paesi europei di far fronte ai deficits delle rispettive bilance dei pagamenti attingendo a delle riserve comuni. Questi programmi di aiuti risultarono di una certa efficacia: si calcola che nel 1950 la quasi totalità dei paesi beneficiati riusciva a produrre il 20% in più del livello del 1938.[16] I generosi aiuti del Piano Marshall — 11,4 miliardi di dollari dal 1948 al 1951 — attenuarono il cosiddetto dollar shortage, cioè la grave scarsità di dollari che affliggeva tutti i paesi europei, bisognosi di importare beni capitali e di consumo dalla più prospera economia statunitense.
Alla sfida lanciata dall’America col Piano Marshall corrispose presto la risposta dell’Unione Sovietica, che impose ai suoi alleati europei di abbandonare le organizzazioni comuni pan-europee (come l’Economic Commission for Europe) e di non accettare gli aiuti americani. Nel gennaio 1949 veniva convocata a Mosca una conferenza fra tutti i paesi europei dell’est (Bulgaria, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Romania e Unione Sovietica; l’Albania e la Germania Orientale entrarono nei mesi successivi) e veniva fondato il Comecon, una istituzione avente lo scopo, come si dice nel comunicato istitutivo, «di organizzare una più ampia cooperazione economica fra i paesi a democrazia popolare e l’U.R.S.S.». In effetti, il Comecon si rivelò una organizzazione abbastanza poco dinamica, almeno ai suoi inizi, poiché non vennero nemmeno creati degli organismi permanenti. Soltanto una o due volte all’anno i paesi partecipanti si incontravano per discutere dei comuni problemi di commercio estero, ma il principio dei rapporti bilaterali non venne mai abbandonato, in questa fase. Inoltre, Stalin impose a tutti i paesi satelliti un modello di sviluppo economico simile a quello sovietico: cioè basato sullo sviluppo prioritario dell’industria pesante e sulla completa autarchia economica della nazione. Ciò in pratica costituì un grave impedimento allo sviluppo degli scambi all’interno del blocco orientale perché ogni paese produceva le stesse merci, aveva uguali necessità di importazioni e gli stessi surplus da esportare negli altri paesi. A questa mancanza di cooperazione economica fra i paesi dell’Est, si aggiunse il fatto che nei primi anni del dopoguerra questi paesi soffrirono per la rottura quasi totale dei loro rapporti commerciali con l’Europa occidentale (si pensi al caso drammatico della divisione in due della Germania) e per la confisca degli impianti industriali fatta dalla Unione Sovietica come compenso per i danni causati dalla guerra: in pratica vi fu un cambiamento radicale dei flussi commerciali, che ora si dirigevano dai paesi dell’est europeo verso l’Unione Sovietica. Solo dopo la morte di Stalin fu messo in discussione il modello di sviluppo sovietico fondato sull’autarchia produttiva, che risultava chiaramente assurdo per alcuni paesi di piccole dimensioni, come l’Albania. Nel 1956 vennero creati degli organismi permanenti per coordinare i differenti piani economici nazionali, ma ciò fece nascere ulteriori problemi. Alcuni paesi come la Romania (ma sintomi di insofferenza si manifestarono anche in Bulgaria, Ungheria e Cecoslovacchia) non accettavano il principio della divisione del lavoro all’interno del campo socialista proposto dall’Unione Sovietica, che in sostanza assegnava a questi paesi il ruolo di fornitori di materie prime industriali ed agricole all’U.R.S.S. Questi conflitti non erano destinati a risolversi facilmente e in effetti si acuirono notevolmente con il progressivo rafforzamento della Cina, che contestava l’egemonia sovietica sugli altri paesi socialisti e non accettò mai di entrare a far parte, come membro, del Comecon.[17]
A differenza di quanto avveniva nella zona orientale, nell’Europa occidentale la leadership americana veniva esercitata in forme assai meno soffocanti. Gli aiuti americani avevano anche la funzione di far riconquistare agli europei la loro indipendenza economica e politica.[18] Per questo vennero affidati non direttamente ai singoli paesi, ma al Consiglio d’Europa, un organo europeo in cui erano rappresentati, con i loro parlamentari, tutti i paesi europei, ma da cui l’America (a differenza del Comecon) era esclusa. Questa autonomia degli europei si tradusse ben presto in importanti iniziative. Nel 1951 per iniziativa di J. Monnet veniva fondata la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (C.E.C.A.) fra Belgio, Francia, R.F.T., Italia, Lussemburgo e Olanda e nel contempo veniva creato un vero e proprio embrione di organismo sovrannazionale europeo, l’Alta autorità. In questi anni iniziava anche la lotta per la creazione della Comunità europea di difesa (C.E.D.) che avrebbe dovuto portare alla creazione di un esercito europeo, controllato da un governo europeo e da un Parlamento europeo direttamente eletto (almeno questa era la speranza che animava gli europeisti, che vedevano nella creazione di comuni istituzioni europee l’unica alternativa al riarmo della Germania). La Francia nel 1954 si rifiutò di ratificare il trattato della C.E.D. ed il progetto fallì. Ma la battaglia era servita per mostrare fino a che grado di unità si potevano spingere gli europei. Non fu difficile, in seguito, giungere alla completa apertura dei mercati europei ed avviare una politica per una gestione comune delle risorse economiche. Nel 1957 veniva infatti firmato a Roma il Trattato istitutivo della Comunità economica europea (C.E.E.) fra i sei paesi che già facevano parte della C.E.C.A. e insieme avevano fatto l’esperienza della C.E.D. Nel giro di pochi anni doveva apparire evidente come la C.E.E. costituisse ormai il principale polo economico dell’area occidentale e come questo fatto originasse tensioni crescenti con gli U.S.A.
In questo periodo della guerra fredda, i paesi del Terzo mondo hanno un ruolo del tutto marginale. Nell’immediato dopoguerra l’attenzione delle superpotenze è concentrata sul decisivo scacchiere europeo e qui vengono profusi, specie da parte americana, la maggior parte di aiuti. Agli inizi degli anni cinquanta è ormai chiaro che la situazione europea si sta stabilizzando e che il confronto fra le superpotenze si sposta progressivamente verso le altre zone «calde» del mondo. La guerra di Corea nel 1950 impone all’America una maggior attenzione verso l’Asia e i paesi sottosviluppati. Sia da parte americana che da parte sovietica vengono lanciati negli anni cinquanta dei piani di aiuti, ma i paesi interessati sono sempre quelli che si trovano in aree di confine in cui avviene il confronto fra le superpotenze. I paesi al di fuori delle zone di influenza vengono spesso ignorati e sono costretti, volenti o nolenti, ad assumere la posizione di paesi neutrali. Per molti di questi paesi la fine del colonialismo ha coinciso con una fase di emarginazione dalla politica e dall’economia mondiale e con l’emergere di nuove, gravi difficoltà, a cui, senza un aiuto esterno, era facile soccombere.
L’andamento del commercio mondiale nel dopoguerra riflette i rapporti esistenti nel sistema mondiale degli Stati nella fase della guerra fredda. Cominciamo a considerare il tasso di sviluppo del commercio mondiale ripartito per grandi aree economiche per il periodo 1950-60.
Tav. 1 – Tasso di sviluppo del commercio mondiale ripartito per grandi aree economiche
(1950-60).
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Tasi di variazione delle esportazioni in volume
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Tasso di variazione delle importazioni in volume
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Mondo
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6,4
|
6,4
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Paesi sviluppati
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6,9
|
6,9
|
Economie pianificate
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10,7
|
11,1
|
Paesi sottosviluppati
|
3,6
|
4,6
|
Fonte: U.N., World Economic Survey 1962. The Developing Countries in World Trade, pp. 1-2. Paesi sviluppati: Nord America, Europa occidentale, Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Sud Africa; Economie pianificate: Europa Orientale, Cina, Mongolia, Nord Corea e Nord Vietnam; Paesi sottosviluppati: resto del mondo.
|
Da questa tavola emerge che nel decennio considerato le economie mature hanno sviluppato le loro esportazioni ad un tasso superiore al tasso medio mondiale e ad un tasso ancora superiore si è sviluppato il commercio estero delle economie socialiste (che tuttavia rappresentano una piccola quota del commercio mondiale, come si vedrà subito). Il tasso di sviluppo delle esportazioni dei paesi del Terzo mondo è solo del 3,6% ed è inferiore al tasso di incremento delle importazioni, che è del 4,6%: ciò implica difficoltà crescenti per questi paesi che non possono far fronte adeguatamente alle loro necessità di importazione senza una adeguata politica di aiuti internazionali.
È ancora interessante constatare qual è la distribuzione del commercio mondiale fra le differenti aree considerate.
Tav. 2 – Distribuzione del commercio mondiale.
Paesi esportatori
|
Paesi importatori
|
|||||
Mondo
|
Paesi sviluppati
|
Economie pianific.
|
Paesi sottosvil.
|
Altri
|
||
Mondo
|
1950
|
100
|
100
|
100
|
100
|
100
|
1960
|
100
|
100
|
100
|
100
|
100
|
|
Paesi sviluppati
|
1950
|
59,8
|
62,6
|
21,2
|
68,8
|
34,6
|
1960
|
66,0
|
72,1
|
20,9
|
75,3
|
55,9
|
|
Economie pianificate
|
1950
|
8,4
|
3,4
|
66,5
|
2,7
|
4,1
|
1960
|
12,4
|
3,6
|
71,1
|
4,7
|
5,3
|
|
Paesi sottosviluppati
|
1950
|
30,0
|
32,2
|
12,3
|
27,3
|
52,3
|
1960
|
20,4
|
22,8
|
8,0
|
19,0
|
34,5
|
|
Altri
|
1950
|
1,7
|
1,8
|
—
|
1,2
|
8,8
|
1960
|
1,3
|
1,5
|
—
|
1,0
|
4,3
|
|
Fonte: U.N., World Economic Survey 1962, op. cit., p. 3.
|
Come si può vedere dalla tav. 2, i paesi sviluppati hanno aumentato la loro quota di commercio estero rispetto al commercio mondiale totale. Inoltre la loro quota è aumentata nei confronti dei paesi sottosviluppati, ma è leggermente diminuita nei confronti delle economie pianificate. Di particolare importanza è anche l’aumento dell’interscambio all’interno dell’area delle economie sviluppate.
I paesi sottosviluppati in questo periodo hanno peggiorato notevolmente la loro posizione. La loro quota nel commercio mondiale è scesa dal 30% nel 1950 al 20% nel 1960. La diminuzione è tanto più significativa se si pensa che la percentuale delle esportazioni di questi paesi rispetto al totale delle esportazioni mondiali era salita dal 16% nel 1900 al 23% nel 1928 e al 25% nel 1938.[19] Si assiste dunque ad una netta inversione di tendenza rispetto alla prima metà del secolo.
Le ragioni di questa crescente emarginazione dei paesi poveri devono essere ricercate in cause strutturali che condizionano la partecipazione dei paesi del Terzo mondo al commercio ed al benessere dei paesi più avanzati. Questo argomento verrà affrontato nei paragrafi successivi; per ora ci si può limitare a constatare che il distacco crescente fra le due aree economiche è anche dovuto al tasso, insolitamente alto, di sviluppo del commercio internazionale. Nel dopoguerra cadono le barriere politiche che avevano frenato l’interscambio fra i paesi europei e fra questi e l’America. Nel 1963, se si escludono gli interscambi comunitari, il commercio estero degli U.S.A., C.E.E. e E.F.T.A. rappresenta l’80% del commercio mondiale.
Ci si può fare un’idea degli effetti provocati dall’integrazione economica europea sull’economia mondiale considerando gli effetti della creazione del Mercato comune sul commercio intracomunitario, sul commercio con gli Stati Uniti e con i paesi del Terzo mondo (cfr. tav. 3).
Tav. 3 – Commercio intra-comunitario ed extra-comunitario (1958 = 100)
|
1953
|
1954
|
1955
|
1956
|
1957
|
1958
|
1959
|
1960
|
Indici del commercio intra-comunitario
|
59
|
67
|
82
|
94
|
104
|
100
|
119
|
150
|
Indici del commercio extra-comunitario
|
65
|
71
|
82
|
92
|
103
|
100
|
104
|
121
|
Rapporto fra commercio intra- ed extra-comunitario
|
38%
|
40%
|
42%
|
43%
|
43%
|
42%
|
48%
|
52%
|
|
1961
|
1962
|
1963
|
1964
|
1965
|
1966
|
1967
|
Indici del commercio intra-comunitario
|
174
|
200
|
234
|
269
|
305
|
342
|
360
|
Indici del commercio extra-comunitario
|
128
|
134
|
144
|
159
|
173
|
188
|
194
|
Rapporto fra commercio intra- ed extra-comunitario
|
57%
|
63%
|
68%
|
71%
|
74%
|
77%
|
78%
|
Fonte: A. Marchal, op.cit. alla nota 20, tav. 11.
|
L’apertura dei mercati ha certamente favorito l’interscambio europeo che è notevolmente aumentato nei confronti del commercio estero dell’intera Comunità europea.
L’andamento del commercio intra-comunitario mostra una netta progressione ascendente rispetto a quello extra-comunitario (il primo si sviluppa ad un tasso doppio del secondo). Ciò testimonia l’obiettivo vantaggio che i paesi aderenti al Mercato comune hanno tratto dalla unione economica e spiega anche in parte l’elevato tasso di sviluppo del commercio mondiale. Negli anni sessanta il commercio intra-comunitario diventa decisamente sempre più importante rispetto al commercio estero della Comunità: nel 1967 il commercio intra-comunitario si avvicina all’80% del commercio estero della C.E.E.
Consideriamo ora la posizione dell’economia comunitaria nei confronti del commercio mondiale e degli Stati Uniti in particolare.
Dalla tav. 4 si può constatare che la C.E.E. rappresenta fin dal suo nascere la prima potenza commerciale mondiale. Essa importa un quinto di tutti gli scambi occidentali e la sua quota è sensibilmente maggiore di quella degli U.S.A. (essa sarà ovviamente destinata ad accrescersi con l’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità). Sul lato delle esportazioni si può poi constatare il relativo declino della quota statunitense rispetto a quella europea. La C.E.E., in pochi anni, si è quindi affermata come il principale polo economico mondiale: essa è strutturalmente una economia più aperta degli U.S.A. al commercio internazionale.
TAV. 4 – La Comunità europea e il commercio mondiale (1958-1966).
Anno
|
Importazioni %
|
Esportazioni %
|
||||||
|
Mondo*
|
C.E.E.
|
U.S.A.
|
G.B.
|
Mondo*
|
C.E.E.
|
U.S.A
|
G.B
|
1958
|
100
|
17,0
|
14,0
|
11,0
|
100
|
14,8
|
16,5
|
8,6
|
1959
|
100
|
16,5
|
15,6
|
11,2
|
100
|
14,8
|
15,2
|
8,4
|
1960
|
100
|
17,7
|
13,7
|
11,6
|
100
|
15,2
|
15,9
|
8,1
|
1961
|
100
|
18,1
|
13,0
|
10,9
|
100
|
15,3
|
15,4
|
8,1
|
1962
|
100
|
18,9
|
13,7
|
11,5
|
100
|
14,6
|
15,0
|
7,8
|
1963
|
100
|
19,1
|
13,4
|
10,5
|
100
|
14,1
|
14,9
|
7,7
|
1964
|
100
|
21,0
|
13,0
|
10,8
|
100
|
14,0
|
15,0
|
7,2
|
1965
|
110
|
18,5
|
13,7
|
10,4
|
100
|
14,5
|
14,5
|
7,4
|
1966
|
100
|
18,3
|
15,0
|
9,8
|
100
|
14,5
|
14,6
|
7,2
|
* È escluso il commercio con il blocco orientale.
Fonte: A. Marchal, op. cit. alla nota 20, tav. 3.
|
I rapporti fra Comunità europea e paesi del Terzo mondo subiscono, in questo periodo, un forte deterioramento a sfavore di questi ultimi.[20] Nei confronti dei paesi associati (in prevalenza i paesi affacciati al Mediterraneo) la quota delle importazioni della Comunità nei loro confronti, rispetto alle importazioni totali, cade del 20% nel periodo compreso fra il 1958 e il 1967. Per lo stesso periodo, le importazioni nei confronti dell’America latina diminuiscono del 10%.
In conclusione, si può osservare che questo periodo è caratterizzato da una forte espansione del commercio mondiale, favorita dalla stabilità del mercato monetario e finanziario. Questa stabilità deve attribuirsi al ruolo egemonico degli Stati Uniti che garantiscono, nell’area occidentale, il funzionamento dei grandi organismi internazionali di cooperazione interstatale come l’O.N.U., il G.A.T.T., il F.M.I. e, in questo contesto, anche degli organismi europei di cooperazione economica. Ma la creazione ed il poderoso sviluppo del Mercato comune introducono un elemento di disarmonia. L’espansione dell’economia europea se, da un lato, è una delle cause della forte espansione della stessa economia americana e del commercio mondiale, d’altro lato costituisce un elemento di instabilità del mercato mondiale: l’Europa è diventata il principale interlocutore economico mondiale, ma gli strumenti di governo dell’economia mondiale restano nelle mani degli Stati Uniti. Inoltre, questo tipo di sviluppo relega i paesi del Terzo mondo ad un ruolo puramente passivo e crea pertanto le premesse per la maturazione di quello scontento che comincerà a manifestarsi nel decennio successivo.
3. Il problema dei rapporti di scambio.
Per i paesi sottosviluppati il problema dei rapporti di scambio, cioè del rapporto fra prezzi medi delle esportazioni e prezzi medi delle importazioni, assume una importanza vitale. Un miglioramento dei terms of trade, cioè un aumento dei prezzi dei prodotti esportati rispetto a quelli importati, consente di ottenere una maggior quantità di prodotti esteri in cambio della stesa quantità di prodotti nazionali. L’andamento[21] dei terms of trade è dunque un fattore di cruciale importanza per valutare le possibilità di sviluppo del Terzo mondo.
Sull’andamento dei rapporti di scambio fra paesi sviluppati e sottosviluppati si è molto discusso, dopo la pubblicazione nel 1949 di uno studio[22] delle Nazioni Unite in cui si mostrava una tendenza secolare al declino dei rapporti di scambio per i paesi più poveri. Successivamente una miglior considerazione della diminuzione intervenuta nelle spese di trasporto (che fanno diminuirei prezzi al porto di importazione, senza che ciò si traduce in un peggioramento della situazione del paese esportatore) ha fatto modificare, ma solo in parte (per l’ultimo quarto del secolo scorso) queste conclusioni.[23]
Vi è comunque consenso sul fatto che per tutto il periodo compreso tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1963 si sia verificato un continuo peggioramento nei rapporti di scambio per i paesi sottosviluppati. Questo andamento può essere sinteticamente riassunto nella tav. 5.
Tav. 5 – Evoluzione dei rapporti di scambio (1950-1960)
(1959 = 100)
Gruppo di paesi
|
1950
|
1951
|
1952
|
1953
|
1954
|
1955
|
Paesi sviluppati
Valore unitario delle esportazioni
|
85,9
|
103,0
|
104,0
|
100,0
|
98,0
|
98,0
|
Valore unitario delle importazioni
|
90,7
|
114,4
|
112,4
|
104,2
|
103,1
|
104,1
|
Terms of trade
|
94,7
|
90,0
|
92,5
|
96,1
|
95,1
|
94,1
|
Paesi in via di sviluppo
Valore unitario delle esportazioni
|
100,0
|
125,8
|
114,4
|
106,2
|
108,2
|
108,2
|
Valore unitario delle importazioni
|
91,8
|
108,2
|
110,2
|
103,1
|
99,0
|
100,0
|
Terms of trade
|
108,9
|
116,,3
|
103,8
|
103,0
|
109,3
|
108,2
|
Gruppo di paesi
|
1956
|
1957
|
1958
|
1959
|
1960
|
Paesi sviluppati
Valore unitario delle esportazioni
|
101,0
|
104,0
|
101,0
|
100,0
|
101,0
|
Valore unitario delle importazioni
|
106,2
|
110,3
|
103,1
|
100,0
|
101,0
|
Terms of trade
|
95,1
|
94,3
|
98,0
|
100,0
|
100,0
|
Paesi in via di sviluppo
Valore unitario delle esportazioni
|
107,2
|
107,2
|
103,1
|
100,0
|
101,0
|
Valore unitario delle importazioni
|
102,0
|
105,1
|
102,0
|
100,0
|
101,0
|
Terms of trade
|
105,1
|
102,0
|
101,1
|
100,0
|
100,0
|
Fonte: U.N., World Economic Survey 1962, op. cit., p. 2.
|
Se si considera che negli anni precedenti la seconda guerra mondiale si è probabilmente assistito ad un miglioramenti dei prezzi dei prodotti primari esportati dai paesi più poveri, si deve concludere che con il dopoguerra si manifesta un netto peggioramento e tale degradazione nei rapporti di scambio continua ininterrottamente fino agli anni sessanta. In questo periodo si assiste ad una fase di incertezza: ad un periodo di stasi segue una fase, verso gli anni settanta, in cui la posizione dei paesi sottosviluppati sembra migliorare.
Si tratta ora di vedere più in dettaglio quali sono le principali cause del deterioramento dei terms of trade. A questo scopo, occorre in primo luogo accertare verso quali paesi è rivolto il commercio estero del Terzo mondo. In base alla tav. 2 si può facilmente constatare che nel 1960 i paesi sottosviluppati importavano per il 75,3% dalle economie sviluppate e solo il 19% del loro commercio estero costituiva interscambio del Terzo mondo. Ben l’80% circa delle loro esportazioni si dirige dunque verso i paesi sviluppati (nel 1960 su un totale di 20,9 miliardi di dollari di esportazioni 19,4 miliardi si dirigono verso i paesi sviluppati ad economia di mercato e solo 1,1 miliardo verso le economie pianificate). Un andamento negativo dei rapporti di scambio fra le due aree economiche può pertanto pregiudicare fortemente le possibilità di sviluppo del Terzo mondo.
In secondo luogo occorre precisare la struttura merceologica delle esportazioni e importazioni dei paesi sottosviluppati. Secondo le statistiche delle Nazioni unite, ben il 90% delle esportazioni consiste di beni primari (materie prime, prodotti agricoli e combustibili), solo il 10% è costituito da manufatti. Interessante è anche la dinamica di queste componenti: l’aumento maggiore (nel periodo 1953-61) si è verificato per il petrolio che è passato da 5 miliardi di dollari a 8 miliardi. Praticamente stazionarie sono invece le esportazioni di materie prime e prodotti agricoli. Nel 1959, le importazioni dei paesi sottosviluppati risultavano così composte: 35% di manufatti, 28,2% di macchinari; 23,7% di prodotti agricoli; 10% di combustibili e 6,4% di metalli (altri prodotti 1,4%).[24] Essi risultano dunque largamente dipendenti per le loro importazioni dai paesi più avanzati tecnologicamente e in grado di vendere loro manufatti e macchinari, sovente anche prodotti agricoli. Poiché circa il 60% delle esportazioni dei paesi economicamente avanzati è invece costituito da manufatti (e macchinari) l’andamento dei terms of trade fra le due aree economiche è largamente determinato dall’andamento dei prezzi dei manufatti nei confronti dei prezzi delle materie prime.
Si possono avanzare alcune tesi per spiegare l’andamento dei rapporti di scambio fra paesi ricchi e poveri. La prima, e più nota, è quella proposta dall’economista latino-americano Raul Prebisch, che per primo ha sollevato il problema.[25] Secondo Prebisch la tendenza secolare al declino delle ragioni di scambio (per i paesi sottosviluppati) si deve imputare al mutamento nella struttura della domanda dei prodotti tropicali e di materie prime da parte delle economie avanzate. La forte diminuzione delle spese di trasporto nel secolo scorso ha facilitato l’introduzione di molti prodotti alimentari dei paesi del Terzo mondo sul mercato europeo ed americano. Tuttavia, il progressivo aumento del reddito pro-capite nelle economie sviluppate ha provocato (come viene spiegato dalla legge di Engel) un aumento non uniforme nella struttura dei consumi. La domanda di cereali e di prodotti agricoli tropicali non è aumentata nella stessa misura in cui è aumentata la domanda di prodotti industriali manufatti. Inoltre si è assistito ad un progressivo miglioramento (grazie alla meccanizzazione) della stessa agricoltura dei paesi avanzati, che pertanto hanno ridotto la loro domanda di beni agricoli provenienti dal Terzo mondo. A tutto ciò si deve aggiungere il particolare effetto di sostituzione di molti prodotti di base per l’industria provocato dal progresso tecnico. Molti materiali sintetici messi a punto dall’industria chimica hanno sostituito il legname, il ferro, ecc. Si assiste infine ad una tendenza del progresso tecnico a impiegare sempre meno unità di materie prime per lo stesso volume di produzione. Per tutte queste ragioni le esportazioni dei paesi sottosviluppati non possono che espandersi lentamente ed i prezzi dei prodotti primari sono costretti a subire una diminuzione nei confronti dei beni manufatti.
Una seconda interpretazione, utile anche per spiegare il meccanismo della cattiva distribuzione della ricchezza mondiale, è dovuta a H. Singer,[26] oltre che allo stesso Prebisch.[27] Secondo Singer occorre escludere la possibilità che l’andamento dei prezzi fra materie prime e manufatti possa essere spiegato semplicemente dall’andamento della produttività nelle due industrie: in questo caso occorrerebbe ammettere che la produttività nell’agricoltura e nel settore estrattivo è aumentata più velocemente di quella dell’industria manifatturiera. È vero invece l’opposto; come provano le statistiche dei paesi industrializzati per l’agricoltura e per l’industria. Inoltre lo standard medio di vita dei paesi sviluppati (determinato largamente dalla produttività del settore manifatturiero) è aumentato molto più rapidamente del livello di vita nei paesi sottosviluppati (determinato dalla produttività nell’agricoltura e nel settore estrattivo).
Esclusa pertanto l’ipotesi che la produttività abbia influenzato le ragioni di scambio, Singer sostiene che è la distribuzione dei frutti del progresso tecnico la spiegazione principale del fenomeno. Nei paesi sviluppati gli aumenti di produttività vengono distribuiti soprattutto sotto forma di più alti redditi: la struttura dei prezzi è vischiosa verso il basso e così i salari. Nelle economie mature i redditi aumentano in misura maggiore dei prezzi. Il contrario avviene nei paesi sottosviluppati, dove il mercato del lavoro non è protetto da una struttura sindacale efficiente e i salari sono spinti al livello di sussistenza anche dalla pressione esercitata dalla manodopera sovrabbondante. Di conseguenza, le imprese esportatrici (che sovente sono filiali o imprese collegate alla casa madre localizzata nel paese di importazione) trasferiscono gli aumenti di produttività sui prezzi dei prodotti primari, che registrano così una continua tendenza al ribasso.
Le conseguenze di questa struttura della produzione e della distribuzione dei redditi vanno a tutto svantaggio dei paesi più poveri. Da un lato le popolazioni dei paesi ricchi godono di un doppio vantaggio: il primo è costituito dal fatto che in quanto produttori di manufatti esse assorbono i frutti del progresso tecnico attraverso un aumento del loro reddito; il secondo consiste nella possibilità di usufruire dei frutti del progresso tecnico prodotti nei paesi sottosviluppati attraverso l’acquisto di beni primari a basso prezzo. D’altro lato, i paesi sottosviluppati non godono, in quanto produttori, di alcun aumento di reddito, ma subiscono, in quanto consumatori, l’aumento di prezzo dei manufatti importati. Sembra pertanto legittimo parlare di «sfruttamento» dei paesi poveri da parte dei paesi più ricchi.
A queste due cause strutturali, analizzate da Prebisch e Singer, se ne potrebbero aggiungere altre accidentali, come improvvisi aumenti nell’offerta di materie prime, la scoperta di nuove fonti di approvvigionamento e di mezzi di trasporto a buon mercato, ecc. Ma più in generale occorre osservare che queste spiegazioni contengono un indubbio elemento di verità, ma non tutta la verità. Anche all’interno dei paesi economicamente avanzati opera (od ha operato) il fattore ricordato da Prebisch di una bassa elasticità rispetto al reddito per i prodotti primari ed agricoli. Ma ciò ha raramente provocato effetti drammatici, poiché la popolazione lavoratrice impegnata in attività in declino si è progressivamente spostata verso quelle in espansione. Quando poi questo effetto spontaneo di aggiustamento o non si è verificato o ha tardato a verificarsi si è sovente assistito all’intervento del potere pubblico (con sussidi, investimenti pubblici, ecc.). Simili considerazioni si devono fare per la tesi di Singer sulla distribuzione dei frutti del progresso tecnologico. Se le imprese produttrici di manufatti e di prodotti primari si trovassero nello stesso Stato non vi sarebbe, ai nostri fini, alcuna differenza circa la distribuzione degli aumenti di produttività attraverso diminuzioni di prezzi od aumenti di reddito: produttori e consumatori sarebbero le stesse persone (non è ovviamente qui in discussione il problema di una eventuale appropriazione degli aumenti di produttività da parte dei profitti piuttosto che dei salari). Nella misura in cui all’interno dello Stato si afferma una uniforme politica sindacale ed un unico livello di remunerazioni salariali, trasferimenti di ricchezza come quelli descritti da Singer non si possono verificare.
Invece, a livello internazionale, si deve constatare che non solo mancano le condizioni per una politica che assecondi lo sviluppo delle zone più povere, sia con la concessione di adeguati aiuti pubblici sia con la protezione dei livelli salariali più bassi, ma si sono anzi creati degli ostacoli strutturali al commercio internazionale ed allo sviluppo economico che non operano all’interno dello Stato (ostacoli che esamineremo nei prossimi paragrafi). La spiegazione del processo di spoliazione dei paesi più poveri non si può pertanto ricercare solamente in termini economici: la struttura del mercato internazionale non è un fatto di natura, ma una costruzione fondata sull’ineguale distribuzione del potere nel mondo.
4. Il mercato delle materie prime.
Vi sono almeno due fattori responsabili del limitato potere contrattuale dei paesi sottosviluppati nei confronti di quelli sviluppati: il primo è l’organizzazione del mercato delle materie prime, il secondo è la struttura tariffaria dei paesi industrialmente avanzati.
Si può avere un’idea dell’importanza delle variazioni dei prezzi di molte materie prime per i paesi sottosviluppati se si considera che per molti di essi la gran parte del valore delle loro esportazioni deriva dalla produzione e dallo scambio di un solo bene. Per esempio nel 1957 il 99% (ed il 47% del prodotto nazionale) delle esportazioni delle isole Mauritius era costituito da zucchero, il 77% (e il 15% del P.N.) delle esportazioni della Colombia era costituito da caffè, nel 1958 le esportazioni di petrolio dal Venezuela rappresentavano il 91% (e il 44% del P.N.) del totale, l’Egitto esportava cotone per il 70% (e il 14% del P.N.) del totale delle sue esportazioni, Ceylon esportava tè per il 66% (e il 33% del P.N.), il Gana esportava cacao per il 66% (e il 32% del P.N.), il Cile esportava rame per il 63% (e il 16% del P.N.), per citare solo qualche esempio particolarmente significativo.[28] Per alcuni paesi anche leggere diminuzioni nel prezzo del bene esportato possono rappresentare drastiche diminuzioni della sua capacità di importazione e, pertanto, di sviluppo.
A ciò si deve aggiungere che il mercato delle materie prime è per sua natura molto instabile. Dal lato della domanda occorre osservare una certa rigidità della quantità domandata rispetto al prezzo: la struttura dei consumi dei prodotti agricoli tropicali non varia di molto al variare dei loro prezzi; altrettanto avviene per le materie prime minerali od agricole che costituiscono un input relativamente costante rispetto al volume del prodotto nazionale delle economie industrializzate. Dal lato dell’offerta si assiste poi ad una situazione di relativa rigidità nella produzione: è difficile nel breve periodo mutare la struttura agricola di un paese o le sue capacità estrattive. Ne consegue che se per cause accidentali — ad esempio un cattivo raccolto o la scoperta di un nuovo giacimento — varia la quantità domandata o offerta sul mercato mondiale, si assiste a violente fluttuazioni nei prezzi dei beni primari. Inoltre si deve aggiungere che spesso, data la divisione della produzione mondiale di un certo bene fra molti paesi e fra molti produttori all’interno di un dato paese (e ciò è certamente vero per i prodotti agricoli), le risposte dei produttori risultano destabilizzanti, nel senso che nel tentativo di far fronte alla diminuzione di prezzo, ciascuno aumenta la sua quota di produzione contribuendo così ad amplificare la caduta del valore del bene prodotto. Sprechi e scarsità di risorse sono una caratteristica del mercato mondiale.[29]
Di fronte ad un tale stato di cose non è infrequente ascoltare l’opinione che è giusto, per rispettare il principio della razionalità economica e consentire la miglior ripartizione possibile delle ricchezze mondiali, che non vi siano interferenze dei governi al fine di influenzare il mercato mondiale e che i prezzi siano regolati dal normale confronto della domanda con l’offerta. Tale opinione viene considerata «liberista» in contrapposizione all’altra corrente che si classifica invece come «dirigista». A questo proposito occorre subito fare notare che tali posizioni non hanno nulla a che vedere, da un lato, con la tradizione liberale, che auspica in un dato contesto giuridico-istituzionale l’autoregolamentazione delle forze di mercato e, d’altro lato, con la tradizione che auspica una programmazione democratica affinché al mercato siano sottratte tutte quelle attività che contrastano con la realizzazione di certi obiettivi sociali. La divergenza fra queste due correnti si è in pratica ridotta al punto che, oggi, per alcuni compiti spettanti allo Stato, vi è accordo completo dei due punti di vista (come testimonia l’affermazione pressoché incontrastata nel dopoguerra della politica economica keynesiana). Ma ciò che qui importa rilevare è che non ha assolutamente senso, da un punto di vista liberale, pretendere che i prezzi sul mercato internazionale siano regolati dall’incontro della domanda con l’offerta, quando offerenti e richiedenti non sono individui ma Stati, quando non si è affatto in presenza di livelli salariali uniformi (e perciò di costi uniformi), quando vi sono differenti regimi fiscali fra Stato e Stato e quando, in definitiva, si sa benissimo che il problema è solo quello di non perpetuare una situazione di sottosviluppo che costringe alla miseria (e spesso alla carestia) milioni di esseri umani, e pertanto di garantire loro quella stabilità di mercato e quei prezzi che possano aiutarli ad avviare un processo di industrializzazione.
Tuttavia, regolare in qualche modo l’attuale mercato internazionale non significa neppure — come si illudono alcuni progressisti illuminati — realizzare una programmazione democratica. Il mercato internazionale può essere governato con finalità più rispondenti alle esigenze dei paesi più poveri, ma ciò sarà pur sempre qualcosa di più simile alla politica di un governo «paternalistico» che a quella di un governo democratico (e per definizione non è democratico il governo del mondo, che si fonda sull’equilibrio fra potenze). Per rendersene conto basta considerare in quale modo è possibile, in pratica e in teoria, regolamentare attualmente il commercio internazionale.
Vi sono almeno tre vie per cercare di superare i difetti di funzionamento del mercato delle materie prime.[30] Una prima politica sarebbe quella di assicurare agli Stati produttori una certa stabilità dei ricavi complessivi delle loro esportazioni, indipendentemente dalle quantità e dai prezzi praticati dal mercato mondiale. Ma ciò pone dei problemi difficilmente superabili: è giusto che sia versato l’ammontare compensativo anche se il paese in questione si è mostrato inefficiente od i prezzi sono variati per cause strutturali e non accidentali? Inoltre, e questo è il problema cruciale, chi deve versare? È evidente che tali accordi compensativi implicano un trasferimento di risorse da alcuni paesi ad altri: essi in sostanza equivalgono ad una forma speciale di aiuti e come tali, dato l’attuale assetto dei rapporti interstatali, richiedono una decisione unilaterale del paese donante, che in genere acconsente solo se è interessato, cioè se può ricavare qualche altro vantaggio diretto o indiretto. Le Nazioni unite hanno in effetti elaborato alcuni progetti[31] di compensazione delle fluttuazioni del valore delle esportazioni e importazioni, ma fino ad ora è mancata, come ci si poteva aspettare, la volontà di applicarli da parte dei paesi che avrebbero dovuto sostenere il maggior onere dei trasferimenti.
Un secondo modo di controllare il livello mondiale dei prezzi di certi prodotti è quello di un accordo fra i paesi produttori sulle rispettive quote di mercato. In questo modo i prezzi vengono stabilizzati attraverso l’ammasso degli eccessi di produzione e la vendita delle scorte quando il prezzo di mercato tende a scendere sotto — o salire sopra — il prezzo ritenuto «normale». Tale accordo fra produttori può essere mantenuto solo in presenza di forti interessi convergenti fra gli Stati partecipanti, perché ogni singolo Stato può essere tentato di violare l’accordo vendendo tutta la sua produzione (oltre il limite assegnatogli) quando i prezzi di mercato sono a lui favorevoli. Inoltre, l’ammasso può avvenire solo a condizione che gli Stati anticipino le somme necessarie,[32] siano d’accordo sulla loro quota di mercato e si tratti di beni non facilmente deperibili.[33] Queste difficoltà sono praticamente insuperabili per i produttori di beni agricoli, mentre risultati positivi possono essere ottenuti per alcune materie prime industriali (come il petrolio, il rame, ecc.) la cui produzione è più facilmente controllabile e concentrata nelle mani di pochi Stati.
Il metodo precedente è tuttavia spesso criticato dai paesi consumatori che si trovano di fronte ad una decisione unilaterale dei produttori. Per questo, in periodi normali, si tenta di trovare un accordo fra le due parti attraverso i cosiddetti International Commodity Agreements. Essi non sono altro che contratti fra uno o più paesi importatori e uno o più paesi esportatori per una o più merci. La storia degli International Commodity Agreements nel dopoguerra è rivelatrice della politica commerciale perseguita dagli Stati Uniti (e in generale dai paesi ricchi). In linea di massima il governo statunitense si è sempre rifiutato di stipulare tali accordi. A livello internazionale vennero unicamente creati degli Study Groups con il compito di studiare particolari mercati e di consigliare i governi interessati. Nel 1949 tuttavia venne concluso l’International Wheat Agreement (più volte rinnovato negli anni successivi) allo scopo di mantenere il prezzo del grano entro certi livelli, minimi e massimi. Questo accordo, ratificato da 38 paesi, è stato voluto degli Stati Uniti, in quanto essi stessi comparivano fra i principali esportatori di grano.[34] Un secondo importante accordo internazionale, stipulato nel 1962, riguarda il caffè. A spingere gli U.S.A. a proporre tale accordo ai paesi produttori (in particolare quelli dell’America latina) hanno contribuito fattori economici (gli U.S.A. sono uno dei principali paesi importatori di caffè) e politici. Negli anni precedenti, la produzione di caffè era aumentata notevolmente ed i prezzi, di fronte ad un consumo in leggero declino, erano caduti rovinosamente. Dopo l’instaurazione a Cuba di un governo comunista, gli Stati Uniti tentarono di legare a sé, più saldamente, con accordi commerciali i paesi sudamericani la cui economia dipendeva strettamente dalla produzione ed esportazione di caffè.
In conclusione, si può osservare che per tutto il periodo della guerra fredda (ma anche oltre) è stata perseguita una politica commerciale che lasciava praticamente indifesi i paesi esportatori di materie prime di fronte agli sbalzi ed alle tendenze ribassistiche del mercato mondiale. Ciò è stato certamente vero per tutti i prodotti agricoli, i cui terms of trade si sono particolarmente deteriorati. Dove è stato invece possibile formare cartelli od accordi fra i paesi produttori di materie prime — e ciò è accaduto per prodotti non facilmente sostituibili, come il petrolio — si è constatata una tendenza dei terms of trade a non cadere o anche a salire. La politica commerciale, cosiddetta liberista, ha perseguito efficacemente lo scopo di relegare i paesi del Terzo mondo ai margini di una economia mondiale in cui veniva accettata e praticata la massima «a chi più ha, più sarà dato».
5. Le barriere tariffarie allo sviluppo economico.
Il secondo grave ostacolo al commercio estero e allo sviluppo economico dei paesi del Terzo mondo è costituito dalla struttura tariffaria dei paesi industrializzati. La politica commerciale degli Stati Uniti nel dopoguerra se da un lato ha favorito la liberalizzazione del commercio fra le zone già industrializzate, d’altro lato ha precostituito una barriera spesso insormontabile ad eventuali industrie nascenti nei paesi più poveri.
Ci si può rendere facilmente conto di come si sia creata tale discriminazione nei confronti del Terzo mondo seguendo le tappe principali della politica tariffaria statunitense. La tradizione isolazionista e protezionista degli Stati Uniti può essere fatta risalire al momento stesso della loro nascita. Ma, ai nostri fini, ci interessa rilevare solamente che dopo l’impennata tariffaria del 1930-33, nell’illusione di affrontare adeguatamente la crisi economica mondiale, nel 1934 venne approvato il Reciprocal Trade Agreement Act con l’obiettivo di liberalizzare il commercio estero statunitense. Vennero assegnati, con questa legge, al Presidente americano ampi poteri per la riduzione delle tariffe (fino ad un massimo del 50%), ma a patto che la concessione fosse reciproca e che venissero accettate la clausola della «nazione più favorita» e quella del «fornitore principale» (cioè il paese che era o poteva diventare il principale fornitore della merce in questione). Questa legislazione consenti effettivamente agli U.S.A. di ridurre sensibilmente le loro tariffe doganali fino alla seconda guerra mondiale, ma successivamente venne introdotta la cosiddetta «escape clause», vale a dire una clausola che consentiva agli U.S.A. di ritirare o modificare una concessione tariffaria nel caso in cui costituisse una «seria minaccia» all’industria nazionale americana. Altre limitazioni furono inoltre introdotte per impedire il commercio con i paesi d’oltre cortina. La corrente libero-scambista veniva così continuamente ostacolata da quella protezionista.
Tuttavia, dopo la seconda guerra mondiale era ormai evidente che gli U.S.A. non potevano più perseguire la politica isolazionistica pre-bellica, ma che le nuove responsabilità internazionali imponevano loro di regolamentare il commercio internazionale in senso liberista. Su iniziativa statunitense fu così messo a punto uno statuto per una International Trade Organisation (I.T.O.) che si proponeva di regolamentare non solo il commercio estero, ma anche l’occupazione e gli investimenti internazionali. Nel 1948 ben 54 paesi si riunirono all’Avana in una Conferenza per sottoscrivere l’accordo, ma proprio il Congresso degli Stati Uniti si rifiutò di ratificarlo (con la giustificazione che esso avrebbe leso la sovranità americana) e così l’iniziativa non venne realizzata. I lavori preparatori alla Conferenza non risultarono tuttavia inutili perché nel 1947 venne approvato, anche se da un numero più ristretto di paesi (erano esclusi i paesi comunisti), il General Agreement of Tariffs and Trade (G.A.T.T.) con scopi più limitati della I.T.O., ma pur sempre rilevanti rispetto alla politica commerciale pre-bellica. Per la prima volta venivano superate le limitazioni del bilateralismo e si affrontavano le riduzioni tariffarie in conferenze semestrali fra delegazioni di più paesi.
Il G.A.T.T. ha rappresentato il contesto istituzionale attraverso il quale venne realizzata la strategia atlantica di liberalizzazione degli scambi. Il modo in cui fu realizzata questa apertura commerciale, tuttavia, operò una effettiva discriminazione nei confronti dei paesi non industrializzati.[35] In primo luogo occorre notare che molti paesi sottosviluppati, interessati ad eventuali negoziazioni tariffarie, non erano, inizialmente, nemmeno rappresentati nel G.A.T.T. Inoltre, le negoziazioni riguardavano soprattutto i prodotti di particolare interesse per i paesi industrializzati — cioè i manufatti pregiati non prodotti dai paesi più poveri. Anche se, grazie al buon andamento delle conferenze tariffarie, si realizzarono delle sensibili diminuzioni delle tariffe medie, si deve tener conto che i prodotti di particolare importanza strategica per lo sviluppo del Terzo mondo — come i semilavorati o manufatti non pregiati — restarono fra la categoria dei beni più protetti. Infine, anche quando veniva preso in considerazione un bene di particolare interesse per i paesi non industrializzati, essi si trovavano nella debole posizione di non poter fare alcuna concessione «reciproca» o perché il bene in questione non veniva ancora prodotto e di conseguenza non esisteva una tariffa protettiva oppure perché non potevano pretendere di essere considerati il «fornitore principale» come era richiesto dal Reciprocal Trade Agreement Act.
In questo modo ai paesi del Terzo mondo veniva vietato l’accesso al mercato occidentale dei manufatti. La cosa potrebbe sembrare poco rilevante vista la scarsa percentuale che occupano i manufatti nell’insieme delle esportazioni del Terzo mondo, ma occorre considerare: a) che la produzione di manufatti ha una rilevanza strategica in ogni politica di sviluppo; b) che la percentuale è bassa anche perché vengono ostacolate le esportazioni, e quindi la produzione data la limitatezza del loro mercato, dai paesi più poveri.
Si deve poi notare che la struttura tariffaria dei paesi industrializzati è costruita in modo tale da incoraggiare l’esportazione di materie prime, oltre che scoraggiare la produzione di manufatti nei paesi del Terzo mondo. Al fine di chiarire questo punto occorre distinguere fra tariffa nominale e tasso effettivo di protezione per un certo bene. Quando si considera il livello delle barriere doganali di un paese, occorre tener presente che non tutti i beni elencati sono beni di consumo: alcuni rappresenteranno materie prime o prodotti intermedi di successive lavorazioni. Un dazio su una materia prima avrà anche effetti sul valore del prodotto finito. Si dice tasso effettivo la percentuale di protezione accordata al valore aggiunto.[36] Pertanto il tasso effettivo di protezione sarà tanto più alto quanto minore è la tariffa nominale sulle materie prime e sui prodotti intermedi. Supponiamo per esempio che un bene del valore di 100 richieda una materia prima del valore di 70: il valore aggiunto del manufatto è 30. Se al manufatto viene imposto un dazio del 18% il valore aggiunto sarà 48 (cioè 118 – 70) ed il tasso effettivo di protezione accordato sul valore aggiunto sarà del 60% (). Ogni dazio ulteriore, imposto sul valore della materia prima, facendone aumentare il valore, diminuirà il grado effettivo di protezione del prodotto finito. Quando si parla di riduzioni tariffarie occorre dunque far bene attenzione se i prodotti interessati sono prodotti finiti o materie prime, perché una riduzione delle tariffe nominali sulle materie prime in verità significa un maggior protezionismo dei beni finiti.
Sulla base di questa distinzione si sono fatte interessanti indagini sulla struttura tariffaria dei principali paesi industrializzati.[37] Gli Stati Uniti avevano, nel 1962, una tariffa media nominale dell’11,6% ed una tariffa effettiva media del 20%; il Regno Unito aveva rispettivamente una tariffa del 15,5% e del 27,8%; il Mercato comune dell’11,9% e del 18%; il Giappone del 16,2% e del 29%. È pertanto confermato che in media le tariffe effettive sono più elevate di quelle nominali.
Ma particolarmente interessante è constatare la struttura tariffaria rispetto al grado di lavorazione delle merci. Esse possono essere classificate in Prodotti intermedi I, nel caso di materie prime naturali, e Prodotti intermedi II, per i beni intermedi in stadi più avanzati di lavorazione. Vengono infine considerati i beni finali di consumo e di investimento. I risultati sono riassunti nella tav. 6.
Tav. 6 – Media delle tariffe nominali ed effettive per categorie di merci (1962).
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Stati Uniti
|
Regno Unito
|
C.E.E.
|
Giappone
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Nom.
|
Eff:
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Nom.
|
Eff.
|
Nom.
|
Eff.
|
Nom.
|
Eff.
|
|
Prodotti intermedi I
|
8,8
|
17,6
|
11,1
|
23,1
|
7,6
|
12,0
|
11,4
|
23,8
|
Prodotti intermedi II
|
15,2
|
28,6
|
17,2
|
34,3
|
13,3
|
28,3
|
16,6
|
34,5
|
Beni di consumo
|
17,5
|
25,9
|
23,8
|
40,4
|
17,8
|
30,9
|
27,5
|
50,5
|
Beni di investimento
|
10,3
|
13,9
|
17,0
|
23,0
|
11,7
|
15,0
|
17,1
|
22,0
|
Totale dei beni
|
11,6
|
20,0
|
15,5
|
27,8
|
11,9
|
18,6
|
16,2
|
29,5
|
Fonte: B. Balassa, op. cit., tav. 5.
|
Da questa tabella si può vedere che i paesi industrializzati tendono ad applicare tariffe effettive tanto più elevate quanto più è avanzata la fase di lavorazione delle merci. I paesi sottosviluppati sono così spinti ad esportare principalmente materie prime e a rinunciare ad installare proprie industrie nazionali di trasformazione. Questa regolamentazione del commercio mondiale tende pertanto a perpetuare una divisione internazionale del lavoro che impone ai paesi sottosviluppati il compito di provvedere materie prime ai paesi avanzati, senza poter, a loro volta, procedere sulla via dell’industrializzazione. Il risultato complessivo è un uso non efficiente delle risorse mondiali perché i paesi del Terzo mondo sono costretti a rinunciare a quelle attività in cui hanno un vantaggio comparato (data la loro abbondanza di manodopera) ed i paesi avanzati tengono impegnate ingenti percentuali della popolazione attiva in produzioni che potrebbero importare a più basso costo dai paesi del Terzo mondo.[38]
Per avere una idea più precisa del ruolo delle tariffe doganali come freno del commercio mondiale, sono stati fatti dei calcoli per valutare di quanto aumenterebbero le importazioni dei principali paesi nel caso venissero eliminati i dazi all’importazione sui beni manufatti.[39] La quota di importazioni del Giappone aumenterebbe del 39,9%, quella degli Stati Uniti del 38,2%; quella del Regno Unito del 30,9% e quella della C.E.E. del 28,2%. Queste percentuali indicano pertanto anche il grado effettivo di protezione accordata da questi paesi alle loro industrie. Esse forniscono poi una utile indicazione circa le possibilità che avrebbero i paesi sottosviluppati di espandere la loro produzione se i paesi più ricchi eliminassero gli ostacoli al commercio internazionale.
A queste considerazioni relative ai prodotti manifatturati, occorre aggiungere qualche osservazione anche a proposito della protezione dei mercati agricoli da parte dei paesi avanzati. In molti paesi (come quelli del Mercato comune) l’agricoltura è il settore più protetto: al fine di finanziare i redditi degli agricoltori i prezzi sono tenuti artificialmente alti. In questo modo gli eventuali paesi esportatori sono doppiamente danneggiati, perché, oltre a venir ridotta la domanda di prodotti agricoli dagli alti prezzi, viene anche stimolata l’offerta nei paesi sviluppati. In alcuni casi (come negli U.S.A.) vengono imposte delle «quote» che restringono notevolmente le possibilità di importazione ed aggravano il problema della instabilità dei mercati internazionali (un eccesso di produzione mondiale non può ad esempio essere assorbito dalla domanda interna). Inoltre i surplus di produzione agricola che si manifestano nei paesi sviluppati — come accade sempre più sovente con questa regolamentazione del mercato agricolo — vengono «donati» ai paesi più poveri, risolvendo così temporaneamente il problema alimentare, ma compromettendo spesso definitivamente la produzione indigena di certi beni. Infine, su alcuni beni non prodotti nei paesi sviluppati (es. banane, cacao, ecc.) vengono riscosse imposte talmente elevate da ridurre percettibilmente il loro consumo.[40]
6. La fase della distensione ed i nuovi rapporti Europa-America.
Il periodo della rigida contrapposizione dei blocchi, che aveva caratterizzato la prima fase del dopoguerra, doveva verso la fine degli anni cinquanta e l’inizio del decennio successivo lasciare il posto alla nuova fase della distensione. L’equilibrio bipolare fra U.S.A. e U.R.S.S. era fondato sullo stretto controllo militare, politico ed ideologico delle due superpotenze sulle rispettive zone di influenza. La leadership americana, sul fronte occidentale, era basata sull’evidente superiorità militare ed economica degli U.S.A. nei confronti dei loro alleati europei e sulla necessità di realizzare una comune politica di difesa e di cooperazione economica nei confronti della minaccia stalinista. Sul fronte orientale, il principale fattore di coesione era rappresentato dal forte legame ideologico dell’internazionalismo comunista e dalla comune opposizione al sistema capitalistico occidentale. In questo contesto, come si è visto, i paesi del Terzo mondo rischiavano di essere lasciati a sé stessi perché da un lato l’America, spinta dalle sue esigenze di politica estera, aveva teorizzato la strategia del containment, che in sostanza era una strategia difensiva nei confronti dell’U.R.S.S. e che non la impegnava pertanto ad intervenire direttamente dove non esisteva una minaccia diretta, d’altro lato l’Unione Sovietica, che pur esercitava una politica più attiva, specie verso i paesi sottosviluppati, non aveva abbastanza risorse economiche per aiuti al Terzo mondo.
Questa situazione era però destinata ad evolvere. Sul fronte occidentale il rafforzamento delle economie europee, proprio grazie agli aiuti americani, aveva consentito agli Stati europei di avviare quella costruzione comunitaria, che aspirava a divenire molto di più di una semplice unione doganale. In effetti, venivano non solo abbattute le tariffe protettive fra i sei Stati partecipanti, ma si creava una agricoltura comune europea, si avviava una politica della ricerca scientifica e nucleare e si auspicava una vera e propria unione monetaria europea alla fine del periodo transitorio del Mercato comune. Gli Stati europei così rafforzati poterono svolgere una politica estera in parte indipendente da quella americana. Ne è portavoce la Francia, che costruisce una «force de frappe» al di fuori della N.A.T.O. e minaccia, sul terreno monetario, l’egemonia del dollaro. Nella sfera orientale si manifesta invece, in modo sempre più palese, il conflitto russo-cinese per l’egemonia del mondo comunista e con lo scoppio, nel 1964, della prima bomba atomica cinese si profila all’orizzonte internazionale la nascita di un sistema di equilibrio tripolare. Infine i paesi sottosviluppati premono alle soglie del club dei paesi industrializzati per sollecitare una più equa ripartizione delle ricchezze e cominciano ad agire più attivamente negli organismi internazionali per mutare il vecchio ordine politico-economico. Ora, la maggior fluidità dell’equilibrio mondiale consente un più ampio margine di manovra: viene progressivamente abbandonata la politica del «neutralismo» in cambio di alleanze più promettenti.[41]
Di fronte a queste nuove realtà internazionali, la politica estera delle due superpotenze muta di direzione. Raggiunto un certo equilibrio negli armamenti nucleari e nella corsa missilistica, esse possono sostituire all’equilibrio del terrore, che aveva contraddistinto i loro rapporti fino a quel momento, la politica della distensione, cioè una politica che favorisse un reciproco avvicinamento al fine di garantire la rispettiva egemonia sui propri alleati. Le due superpotenze tentano di arginare l’erosione della loro leadership, rinunciando agli aspetti più aspri della politica del confronto. Per questo l’Unione Sovietica eleva solo proteste formali in occasione del colpo di Stato militare in Grecia e gli U.S.A. fanno altrettanto quando, nell’anno successivo, i carri armati sovietici entrano in Cecoslovacchia per porre termine alla primavera di Praga. Allo stesso modo, la proposta americana e sovietica di mettere al bando gli esperimenti nucleari si spiega in funzione anti-francese ed anti-cinese, perché proprio in quegli anni la Francia e la Cina stavano mettendo a punto un proprio dispositivo atomico di difesa nucleare. La fase della distensione è quindi caratterizzata dalla convergenza della ragion di Stato fra le due superpotenze, nel tentativo di mantenere lo status quo nelle rispettive zone di influenza. Questo non esclude che a fasi di effettiva distensione internazionale seguano fasi di relativa tensione; ma nella misura in cui le cause di fondo che minacciano l’egemonia americana e sovietica sui rispettivi alleati continuano ad operare, è prevedibile un nuovo riavvicinamento nella politica estera delle superpotenze.
L’America prende coscienza delle nuova situazione internazionale con Kennedy che, nella sua campagna elettorale, critica vivamente la vecchia politica estera americana. Secondo Kennedy la politica del containment poteva avere successo solo in presenza di due circostanze eccezionali: il monopolio americano delle armi nucleari e quello degli aiuti economici. La corsa spettacolare alla conquista dello spazio e gli esperimenti atomici sovietici avevano ormai ampiamente dimostrato che la prima condizione era caduta del tutto. La politica degli aiuti, seconda condizione della leadership americana, si era inoltre dimostrata insufficiente a contenere le proteste dei paesi sottosviluppati. L’America, secondo Kennedy, doveva passare dalla fase passiva del containment ad una fase attiva. Essa doveva offrire ai suoi alleati prospettive di scelta democratiche e di sviluppo economico: questa era la sola via per mantenere l’unità del mondo occidentale intorno alla leadership americana.[42]
Il primo passo in questa direzione era ovviamente costituito dal riconoscimento delle nuove realtà internazionali, che sul terreno delle relazioni economiche erano rappresentate dal consolidamento del Mercato comune, come polo economico indipendente nel contesto occidentale, e dalle richieste dei paesi del Terzo mondo per una nuova politica di sviluppo. Di fronte a queste sfide, ed al deficit crescente della bilancia dei pagamenti statunitense, per tradizione secolare la classe politica americana tendeva a rispondere con l’isolazionismo ed il protezionismo. Kennedy oppone coraggiosamente una politica di apertura, facendo votare dal Congresso, nel 1962, il Trade Expansion Act per avviare un ciclo di nuove riduzioni tariffarie con l’Europa ed i paesi sottosviluppati.
Non si può comprendere la politica economica americana senza tener conto della tensione che si stava allora manifestando fra Europa ed America e che era destinata ad aumentare negli anni successivi. La nascita del Mercato comune era mal tollerata in seno al G.A.T.T., in particolare dagli U.S.A., perché introduceva eccezioni al principio della generalizzazione delle preferenze (la clausola della nazione più favorita) che ispirava originariamente il G.A.T.T.[43] In pratica, accettare il Mercato comune significava creare un mercato privilegiato, aperto solo ai paesi aderenti o associati alla C.E.E.: per questo l’Europa veniva accusata di protezionismo (l’accusa è tuttavia ingiusta perché la tariffa esterna comune venne formata sulla base della media delle tariffe dei paesi partecipanti e in pratica si è verificato[44] che dal momento della costituzione della C.E.E. il rapporto fra importazioni e prodotto nazionale — una possibile misura del grado di autarchia europea — è rimasto praticamente invariato). La verità era che la nuova dimensione dell’economia europea creava le condizioni per uno eccezionale sviluppo economico che consentiva alle imprese europee di assumere dimensioni tali da fronteggiare efficacemente le imprese americane, in particolare nei settori non utilizzanti tecnologia di avanguardia. Inoltre, il mercato europeo diventava sempre più attraente per le imprese esportatrici americane, che per aggirare la tariffa esterna comune spesso impiantavano le loro filiali in Europa.
Il Trade Expansion Act autorizzava il presidente degli U.S.A. a ridurre le tariffe doganali (al 1 gennaio 1962) fino al 50%. Tale percentuale poteva essere superata per quelle categorie di prodotti per i quali gli scambi fra U.S.A. e C.E.E. rappresentavano almeno l’80% del commercio mondiale.[45] Questa clausola era chiaramente concepita in funzione dell’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune e divenne di fatto inoperante con il fallimento delle trattative comunitarie per la sua ammissione. Inoltre, il Trade Expansion Act consentiva di negoziare le riduzioni tariffarie non più con la vecchia procedura della «merce per merce», ma attraverso riduzioni per categorie di merci e riconosceva anche l’opportunità di rinunciare alla condizione di «reciprocità». Entrambe le clausole erano studiate per favorire i paesi sottosviluppati. Ma a fianco di queste clausole «liberali» il Trade Expansion Act, a testimonianza della ambiguità che ispirava la politica americana, concedeva al Presidente americano il potere di aumentare le tariffe al di sopra del 50% di quelle in vigore al lo luglio 1934 (le più alte nella storia degli Stati Uniti).
La strategia americana mirava all’obiettivo di eliminare il «fattore di disturbo» dell’area atlantica, costituito dal polo comunitario europeo. Il governo americano proponeva cioè di eliminare nella misura del possibile le barriere protettive del Mercato comune e di creare una zona atlantica di libero scambio. Tale strategia, che si manifesta solo embrionalmente con il Kennedy Round, diventerà tuttavia esplicita e quasi minacciosa nel periodo della presidenza Nixon.
Da un lato, la proposta di ridurre tutte le barriere doganali del 50% avrebbe praticamente lasciato il Mercato comune sprovvisto di barriere doganali, mentre avrebbe consentito agli Stati Uniti di conservare un ragionevole livello di protezione. La cosa è facilmente comprensibile se si confrontano i livelli medi delle tariffe della C.E.E. e degli U.S.A. e la loro dispersione intorno alla media. Le tariffe europee risultano più basse (in particolare se si comprendono anche i prodotti agricoli) e meno disperse: infatti mentre l’80% delle tariffe europee si concentra fra il 4% e il 19%, per gli U.S.A. la stessa concentrazione avviene fra il 2% e il 38%; inoltre, mentre le tariffe europee non presentano punte molto elevate — solo lo 0,3% delle tariffe europee è superiore al 25% — il 21% delle tariffe americane è superiore al 25%. Di conseguenza, una riduzione lineare del 50% avrebbe portato quasi tutte le tariffe europee al di sotto del 10% — tasso al quale si calcola che la protezione doganale è molto poco efficace — mentre avrebbe lasciato ancora molti beni americani sotto la protezione di efficaci tariffe (si è calcolato che nell’ipotesi considerata la metà delle tariffe U.S.A. — contro il 6% delle tariffe europee — sarebbe restata al di sopra del 10%).[46] D’altro lato, l’ingresso della Gran Bretagna, e degli altri paesi dell’E.F.T.A., nella C.E.E. avrebbe consentito, grazie alla speciale clausola contenuta nel Trade Expansion Act di eliminare completamente parecchi dazi doganali e di ridurre pertanto praticamente a zero l’efficacia della tariffa esterna comunitaria. In questo modo si sarebbe veramente creata una grande area di libero scambio in cui gli U.S.A. avrebbero avuto la leadership incontrastata, in assenza del fattore di disturbo causato dal polo comunitario.
Molte preoccupazioni americane riguardavano anche la costituzione del Mercato comune agricolo, perché la quota delle esportazioni americane in Europa rappresentava più del 20% del totale dei prodotti agricoli esportati dagli U.S.A. La nascita di una agricoltura europea avrebbe consentito (come avvenne poi effettivamente) ai paesi europei di avere una produzione sufficiente per molti beni e per altri addirittura eccedenze che avrebbero minacciato la supremazia americana sul mercato mondiale.
La posta in gioco nel Kennedy Round era dunque duplice. Esso rappresentava l’occasione per una conferma della svolta storica in senso liberista della politica commerciale americana, che in caso di insuccesso avrebbe facilitato un ritorno degli U.S.A. sulle vecchie posizioni isolazioniste e protezioniste. Ma per i paesi europei si trattava di accettare l’apertura dei mercati, offerta dal loro partner d’oltre Atlantico, senza rinunciare alla loro identità di europei, che in quel momento era rappresentata unicamente da un mercato unificato (perché protetto) in vista di un possibile sbocco unitario dell’integrazione europea.
Il Kennedy Round aperto il 4 maggio 1964 terminò, pur fra incertezze e difficoltà, nel maggio 1967. I risultati raggiunti rappresentavano a sufficienza il compromesso fra le due esigenze accennate. Per molti prodotti industriali venne raggiunto l’accordo di una riduzione tariffaria del 50%, ma in media si calcola che vennero operate riduzioni per circa il 30-35%. Queste riduzioni non sarebbero entrate in vigore immediatamente, ma in cinque tappe annuali. Dopo l’applicazione completa degli accordi tariffari si è calcolato[47] che le tariffe medie per i soli prodotti manufatti si sarebbero ridotte all’11,2% per gli U.S.A., al 10,2% per la Gran Bretagna, al 7,6% per la C.E.E. e al 9,8% per il Giappone. Per l’agricoltura venne raggiunto un accordo per elevare il prezzo minimo del grano: ciò avrebbe consentito di raggiungere una produzione eccedente i fabbisogni dei paesi industrializzati e si sarebbero così potuti aiutare i paesi del Terzo mondo (il contributo previsto era del 42% a carico degli U.S.A., del 23% per la C.E.E. ed il rimanente venne ripartito fra i vari paesi sviluppati). La C.E.E. avanzò anche proposte per una maggiore apertura del mercato agricolo (per carne, zucchero, semi oleosi, cereali), ma nessun risultato concreto venne raggiunto su questi punti. In conclusione, si può esprimere il giudizio che tale accordo, pur garantendo le condizioni tariffarie per una maggiore espansione del commercio mondiale, in particolare fra Europa e America, ottenne anche il risultato di salvaguardare l’unità di fatto, sul terreno economico, raggiunta dai paesi del Mercato comune, che nel corso delle trattative riuscirono sempre a mantenere delle posizioni unitarie.[48]
Ancora una volta si dovette, tuttavia, constatare che i maggiori beneficiari dell’accordo risultarono i paesi sviluppati. Poche concessioni vennero fatte per l’importazione dei prodotti tropicali, i semi-manufatti e i prodotti tessili, che principalmente interessavano i paesi in via di sviluppo. La struttura tariffaria finale dei prodotti manufatti conservò dei tassi crescenti di protezione a seconda della fase di lavorazione. Infine, la protezione della produzione agricola nei confronti dei paesi sottosviluppati rimase praticamente immutata nonostante il Kennedy Round.
7. L’aspirazione ad un nuovo modello di sviluppo.
Si è visto come nel periodo della guerra fredda la politica mondiale tendesse ad emarginare i paesi sottosviluppati. La politica della «neutralità» seguita da molti paesi minori non è che l’espressione ideologica di questo stato di cose: alcuni paesi erano costretti a perseguire una politica di equidistanza perché la loro zona non entrava immediatamente nella sfera di influenza di una delle due potenze mondiali.
Questo è il contesto che va tenuto presente se si vuole comprendere la politica dei paesi sviluppati nei confronti del Terzo mondo. Gli Stati europei non erano più in grado di aiutare convenientemente le loro ex-colonie. Era pertanto inevitabile che il peso degli aiuti ricadesse quasi interamente (nell’area occidentale) sulle spalle degli Stati Uniti.[49]
Una analisi delle condizioni storiche in cui sono stati varati i vari piani americani di aiuti, rivela anche le ragioni che hanno spesso relegato in secondo piano l’obiettivo dello sviluppo economico. Il Piano Marshall, sotto questo profilo, è quello che ha avuto più successo, sia per l’ammontare senza precedenti di aiuti, sia per la rapida ripresa delle economie europee. Con lo scoppio della guerra di Corea ha inizio la serie di aiuti dell’America verso i paesi sottosviluppati. Una efficace politica del containment doveva poter fornire a tutti gli alleati occidentali i mezzi militari ed economici indispensabili per non cedere alle pressioni del mondo comunista. Il Mutual Security Program fu in effetti concepito per perseguire finalità di sicurezza e di stabilità politica, piuttosto che di sviluppo economico. Solo nel 1961, dopo la instaurazione del regime comunista a Cuba, Kennedy lanciò l’idea di un vero e proprio programma di sviluppo economico per l’America latina, con l’assistenza degli U.S.A. Questa iniziativa si concretizzò nel programma Alliance for Progress che avrebbe dovuto garantire, in 10 anni, un tasso di aumento del reddito pro-capite del 2,5% all’anno. Ma il fallimento di questo programma aumentò, invece che far diminuire, le tensioni fra gli U.S.A. e i paesi latino-americani.
È difficile trovare statistiche omogenee circa gli aiuti internazionali.[50] Si calcola che nel periodo compreso fra il 1946 e il 1964 gli U.S.A. abbiano fornito aiuti (esclusi quelli forniti tramite le agenzie internazionali e il Food for Peace Program) per un totale di 17,3 miliardi di dollari, di cui il 55% per aiuti economici ed il 45% per aiuti militari.[51] Secondo altri calcoli[52] dal 1945 al 1967 il totale degli aiuti U.S.A. (117 miliardi di dollari) risultò così ripartito: il 39% ai paesi sviluppati, che rappresentano il 19% della popolazione aiutata; il 31% venne destinato a quei paesi militarmente o politicamente importanti (Grecia, Iran, Turchia, Vietnam, Formosa, Corea, Filippine, Tailandia, Spagna, Portogallo) che rappresentano l’11% della popolazione aiutata; infine, i paesi in via di sviluppo, che rappresentano il 70% della popolazione aiutata, ricevettero solamente il 30% degli aiuti americani.
Per quanto siano imprecise queste cifre, esse servono tuttavia a spiegare la reazione che venne maturando progressivamente all’interno degli Stati Uniti e nel mondo contro la politica degli aiuti. Sotto l’etichetta di «aiuti» spesso sono state sovvenzionate oligarchie corrotte, ma fedeli al governo americano; in altri casi gli «aiuti» non erano altro che materiale militare. In entrambi i casi la politica della «assistenza» agli alleati serviva a coprire finalità non apertamente confessabili di politica estera. Come accade nei rapporti fra individui, anche fra nazioni il «dono» è spesso concesso per chiedere in cambio altri favori e per soddisfare l’orgoglio della potenza donante. Al contrario, chi riceve gli aiuti e li sollecita è spesso predisposto alla subordinazione.
È questo tipo di rapporti fra paesi ricchi e paesi poveri che entra in crisi agli inizi degli anni sessanta. La fine del periodo coloniale e la conquista dell’indipendenza nazionale non potevano non generare, prima o poi, nei paesi del Terzo mondo, anche il desiderio di impostare i rapporti con i paesi più ricchi su una base di uguaglianza, che salvaguardasse la loro dignità di popoli, desiderosi di emanciparsi dalle condizioni miserevoli in cui versavano grazie alle proprie capacità, più che per la munificenza dei ricchi. La nuova fase della distensione internazionale favoriva l’emergere di queste aspirazioni: l’attenuazione della tensione ideologica fra i blocchi, se da un lato aveva distolto l’attenzione delle superpotenze dai loro alleati più deboli (gli aiuti americani continuavano a diminuire), d’altro lato consentiva un maggior margine di manovra ai paesi del Terzo mondo (l’Egitto, ad esempio, riceveva aiuti sia dagli U.S.A. che dall’U.R.S.S. e così l’India, l’Iran e molti paesi africani).
Questa esigenza di un nuovo modo di affrontare il problema del sottosviluppo trovò un canale di espressione in seno all’O.N.U. che, dopo molte esitazioni — per le resistenze opposte dai paesi industrializzati —, convocò nel 1964 a Ginevra una Conferenza sul commercio e lo sviluppo in cui venivano affrontati ampiamente, per la prima volta, i problemi di struttura e di riorganizzazione del mercato mondiale. Il portavoce dei paesi sottosviluppati fu R. Prebisch, segretario generale della Conferenza, che presentò un rapporto dal titolo significativo «Verso una nuova politica commerciale per lo sviluppo»[53] e che riuscì a formare un fronte compatto, intorno alle sue tesi, di tutti i paesi sottosviluppati (che costituirono il cosiddetto «Gruppo dei 77»). Ben presto lo slogan della conferenza divenne «Trade not aid».
Secondo Prebisch i paesi sottosviluppati si trovavano di fronte a due difficoltà strutturali. La prima era costituita dalla secolare diminuzione dei rapporti di scambio delle materie prime nei confronti dei manufatti, che provocava notevoli diminuzioni nei redditi percepiti dai paesi sottosviluppati. La seconda difficoltà, che dipendeva a sua volta dalla precedente, riguardava il divario crescente fra volume delle importazioni e volume delle esportazioni che costringeva i paesi sottosviluppati a sacrificare i programmi di sviluppo che prevedevano importazioni eccessive di impianti e manufatti. Per affrontare adeguatamente questi problemi, Prebisch consiglia di rinunciare alla vecchia politica dei «trasferimenti volontari di reddito» e cerca di suggerire modificazioni strutturali del mercato mondiale tali da assicurare automaticamente dei ricavi sufficienti a finanziare lo sviluppo economico.
Per far fronte alle difficoltà finanziarie dei paesi più poveri, Prebisch suggerisce di attuare trasferimenti di reddito dai paesi ricchi a quelli poveri in modo simile a quanto avviene già all’interno di uno Stato, grazie alle moderne misure di sostegno dell’agricoltura. Gli Stati più sviluppati dovrebbero cioè garantire con accordi economici internazionali i prezzi delle materie prime (sia contro le fluttuazioni, sia contro eccessivi ribassi); inoltre dovrebbero assicurare un vero e proprio risarcimento ai paesi sottosviluppati che subissero perdite per variazioni nei terms of trade. I sussidi sarebbero affidati ai governi e sarebbero vincolati al finanziamento dello sviluppo economico del paese in questione.
Queste misure non sarebbero tuttavia sufficienti per far promuovere efficacemente l’industrializzazione, che consiste principalmente nello sviluppo del settore manifatturiero, se non si offrono opportunità per l’esportazione ai paesi più poveri. L’esperienza (dell’America latina in particolare) ha dimostrato che la domanda interna (o anche quella risultante dall’unione doganale fra più paesi sottosviluppati) è insufficiente per promuovere lo sviluppo. A questo fine è necessaria una radicale riconsiderazione del modo in cui è attualmente regolato il commercio mondiale.
La struttura tariffaria prevalente è di ostacolo allo sviluppo economico: i paesi industrializzati impongono dazi sui manufatti mentre concedono il libero ingresso alle materie prime. Inoltre, la filosofia prevalente nei negoziati tariffari è tale da perpetuare tale situazione: si accetta l’idea della liberalizzazione del commercio sulla base del criterio della reciprocità. Ma questo principio esclude di fatto dalla negoziazione tariffaria i paesi sottosviluppati, perché sui prodotti di loro interesse — le materie prime — le tariffe o non esistono o sono bassissime. In definitiva i negoziati tariffari servono solo a stimolare gli scambi fra i paesi già industrializzati. Prebisch cerca pertanto di far accettare il principio che «non tutti si è sulla stessa barca» e che un egual trattamento fra diseguali porta ad ingiustizie. Una politica commerciale che intenda favorire effettivamente lo sviluppo economico dovrebbe, secondo Prebisch, consentire il libero ingresso dei prodotti manufatti nei paesi più ricchi, né ci si dovrebbe più opporre, in linea di principio, alla creazione di un mercato che favorisca la produzione industriale dei paesi più poveri. In definitiva Prebisch chiede: a) che i paesi industrializzati eliminino le barriere doganali per i prodotti manufatti provenienti dai paesi del Terzo mondo; b) che si aumentino le tariffe sugli scambi fra paesi ricchi; c) che i paesi più poveri siano liberi di proteggere il loro mercato dalla concorrenza dei paesi già sviluppati. Nel loro insieme queste proposte costituiscono una estensione del principio dell’industria nascente: una volta raggiunto ovunque un egual grado di industrializzazione si sarebbe di nuovo accettata, negli scambi internazionali, la regola della reciprocità di trattamento.
Queste proposte per un «nuovo ordine economico internazionale» se da un lato riuscirono ad imporre all’attenzione dei paesi più ricchi e dell’opinione pubblica mondiale i reali problemi del sottosviluppo, d’altro lato non portarono ad alcuna riforma concreta nonostante la compattezza del fronte dei paesi sottosviluppati. Gli Stati Uniti, nel corso della Conferenza, si mostrarono decisi a non accettare alcun principio discriminatorio, né la contrattazione di nuovi International Commodity Agreements. La Francia e gli altri paesi del Mercato comune presentarono invece proposte tendenti ad «organizzare» in modo nuovo il mercato delle materie prime e dei prodotti manifatturati, al fine di assicurare prezzi remunerativi e sbocchi commerciali ai paesi in via di sviluppo, discriminando sulla base del grado effettivo di sviluppo di ciascun paese. Nella votazione finale sui principi fondamentali della nuova politica economica, gli Stati Uniti restarono spesso isolati sul voto negativo di fronte alle proposte dei paesi del Terzo mondo, mentre la Comunità europea, la Gran Bretagna ed il Giappone seguirono la via dell’astensione.[54]
Nonostante gli scarsi risultati raggiunti, la Conferenza di Ginevra accese molte speranze e venne accettata l’idea di istituzionalizzare in seno all’O.N.U. gli incontri sui problemi del commercio e dello sviluppo al fine di arrivare prima o poi ad una soluzione. Nel frattempo, erano stati avviati i negoziati del Kennedy Round, anche dai quali i paesi sottosviluppati attendevano nuove aperture commerciali.
Nel 1968, dopo la conclusione, per il Terzo mondo deludente, del «Kennedy Round», venne convocata a Nuova Delhi una seconda Conferenza sullo sviluppo alfine di approvare «una serie di misure concrete per accelerare il tasso di sviluppo economico e sociale dei paesi in via di sviluppo e di inserire queste misure in una concezione strategica più generale dello sviluppo».[55] Ma questa seconda Conferenza fu un completo insuccesso e alla fine, quando divenne chiaro che non si sarebbe raggiunto alcun concreto risultato, il segretario generale della Conferenza, R. Prebisch, rassegnò le dimissioni.
Rispetto al problema cruciale dell’apertura dei mercati, risultò evidente l’impossibilità di giungere a qualsiasi accordo. Per i prodotti agricoli i paesi sottosviluppati rinunciarono a chiedere, come nella precedente Conferenza, l’abolizione delle tariffe doganali, ma si limitarono a domandare che fosse loro riservata una quota del mercato per ogni aumento della domanda. Ma anche questa timida richiesta non ottenne altro che vaghe promesse. Per i prodotti manufatti e semi-manufatti si verificò poi una frattura nel fronte dei paesi del Terzo mondo, non appena si arrivò a formulare proposte concrete. Gli Stati Uniti e la C.E.E. presentarono iniziative per un sistema di preferenze riguardo all’esportazione di manufatti, ma ciò interessava solo i paesi già ai primi gradi di industrializzazione (una minoranza) e sollevava pertanto non solo le proteste di chi non poteva godere di queste preferenze, ma anche dei paesi che già avevano accordi di questo tipo, che ora rischiavano di venir condivisi fra troppi concorrenti. Tale contrasto di interessi risultò paralizzante ed in effetti non si raggiunse alcun accordo.[56]
Dalla Conferenza di Nuova Delhi venne solamente un generico impegno dei paesi industrializzati a dedicare almeno l’un per cento del loro reddito nazionale ad aiuti per i paesi del Terzo mondo. La strategia dell’apertura dei mercati doveva pertanto considerarsi fallita: la politica dello sviluppo economico tornava a fondarsi unicamente sulla promessa di aiuti, incerti, insufficienti e inadeguati.
8. La crisi.
Le cause remote della crisi del mercato mondiale risiedono, come si è cercato di dimostrare nei precedenti paragrafi, nel processo di distensione che ha progressivamente indebolito la leadership americana ed ha fatto emergere altri centri di potere, con proprie aspirazioni per un diverso orientamento della politica economica mondiale. L’Europa aspira ad una propria politica estera indipendente e persegue pertanto anche una politica economica che, in materia monetaria, di ricerca scientifica, di rapporti con il Terzo mondo, ecc., si scosta progressivamente dalla strategia americana. Altrettanto critica è la posizione dei paesi sottosviluppati che esigono dai paesi industrializzati (Europa inclusa) una diversa politica commerciale, ma trovano, in particolare negli Stati Uniti, delle forti resistenze. La crisi è prima di tutto politica, ma le manifestazioni della crisi sono economiche ed il terreno di lotta è quello di una diversa distribuzione e di un diverso controllo delle risorse mondiali.
Il Kennedy Round è stato solo una delle occasioni in cui si è manifestato il contrasto fra Europa e America. È nota la polemica intorno agli investimenti americani in Europa. Dopo la costituzione del Mercato comune le imprese americane trovarono sempre più conveniente, per superare di fatto la barriera doganale comunitaria, aprire loro filiali in Europa. Nel 1958 gli investimenti americani nella Comunità rappresentarono il 7% degli investimenti esteri, nel 1971 essi erano saliti al 15,8% nella Comunità dei sei e al 26,8% nella Comunità dei nove.[57] Questa invasione del mercato europeo ha sollevato molte preoccupazioni circa l’indipendenza tecnologica dell’Europa, perché gli investimenti delle multinazionali americane si sono concentrati prevalentemente nei settori di punta (grazie alla maggior esperienza tecnologica acquisita dalla impresa madre che già operava in un mercato di dimensioni continentali ed usufruiva sovente delle commesse statali e delle infrastrutture pubbliche americane per la ricerca scientifica) compromettendo così le possibilità di uno sviluppo autonomo europeo, non dipendente dalle grandi imprese capitalistiche americane. Ma ciò nonostante gli Stati della Comunità hanno spesso fatto a gara nell’offrire vantaggi (soprattutto fiscali) alle imprese americane per invogliarle ad investire nel proprio territorio. Questa politica degli investimenti non è stata senza conseguenze per la bilancia americana dei pagamenti. Molti prodotti che prima erano esportati dalla America all’Europa, ora non lo sono più e ciò ha contribuito ad aggravare il deficit della bilancia commerciale statunitense[58] ed a sollevare proteste da parte dell’America. D’altro lato, le filiali americane in Europa rimpatriano ogni anno somme crescenti di profitti ricavati dalla produzione e dalla vendita in Europa. Si calcola che tale ammontare sia passato da 2.395 milioni di dollari nel 1960 a 10.293 milioni di dollari nel 1972, contribuendo pertanto in modo decisivo a riaggiustare la bilancia americana dei pagamenti, ma ad aggravare, nello stesso tempo, quella dei paesi europei. Oltre a ciò, si sollevano in Europa anche proteste per il fatto che questi dollari rappresenterebbero reddito europeo ingiustamente sottratto dal circuito europeo del consumo e degli investimenti.
La politica agricola è un altro argomento di disputa fra Europa e America. Nonostante le accuse di protezionismo lanciate contro il Mercato comune agricolo al momento della sua fondazione, le esportazioni americane in Europa sono passate dal 21,3% nel 1958 al 23% nel 1972 e sono comunque aumentate in misura maggiore verso la Comunità che verso il resto del mondo. Ma ovviamente l’istituzione del Mec agricolo ha provocato una diminuzione nell’importazione di alcuni beni (grano e granoturco) a vantaggio di altri (semi di soja). Gli europei per conto loro protestano per le restrizioni quantitative con cui è protetto il mercato agricolo americano. La Comunità nel 1972 ha sopportato un deficit agricolo nei confronti degli U.S.A. di 1.518 milioni di dollari.
Nonostante il Kennedy Round, rimangono poi molte divergenze sulla politica tariffaria. Gli Stati Uniti rimproverano alla Europa di proteggere con una eccessiva tassazione (in particolare tramite l’imposta sul valore aggiunto) la sua produzione nei confronti di quella americana. Gli europei, per conto loro, si lamentano delle barriere non tariffarie (come le restrizioni quantitative, le pratiche valutarie speciali, gli ostacoli amministrativi, i sussidi nascosti all’esportazione, ecc.) che ancora vengono praticati negli U.S.A. A questo fine è stato avviato un nuovo ciclo di incontri in seno al G.A.T.T., designato Tokio Round, per superare questi ostacoli. Ma dopo lo scoppio della crisi energetica il problema delle riduzioni tariffarie è passato in secondo piano, per lasciar posto al problema più urgente dell’accesso alle fonti di energia.
Decisivo è tuttavia il contrasto sull’assetto monetario mondiale. L’Europa ha nel corso degli anni aumentato le sue critiche all’America per il suo deficit crescente nella bilancia dei pagamenti. Gli Stati Uniti venivano accusati, in particolare dalla Francia, di aver sostituito al Gold Exchange Standard il Dollar Standard, vale a dire di pagare le loro importazioni con la semplice emissione di dollari, senza mai attuare una politica di riequilibrio dei conti con l’estero, come erano invece costretti a fare tutti gli altri paesi del mondo. A tale critica gli Stati Uniti opponevano il peso, in termini economici, della loro politica estera: la difesa dell’Europa, gli impegni nel sud-est asiatico, gli aiuti ai paesi sottosviluppati, ecc.
L’Europa tentò di abbozzare una propria politica monetaria con il Vertice dell’Aja del 1969, il cui comunicato finale auspicava una «unione economica e monetaria europea». Nel 1970 veniva accettato dalla Comunità il Rapporto Werner sulla «realizzazione per fasi dell’Unione economica e monetaria della Comunità». Secondo tale rapporto le monete dei paesi della C.E.E. avrebbero dovuto, in una prima tappa, limitare le fluttuazioni dei tassi di cambio fra di loro per giungere, entro il 1980, con la definitiva accettazione delle parità fisse, a una vera e propria moneta europea. L’obiettivo politico di tale progetto era evidente: l’Europa ambiva ad avere una moneta europea che si sostituisse al dollaro negli scambi internazionali e che fosse il perno di una zona monetaria europea (come a suo tempo era esistita la zona della sterlina). Il Mercato comune poteva trasformarsi da unione doganale in unione economica solo introducendo un unico segno monetario (e ciò avrebbe comportato una politica monetaria unica a livello europeo, nei confronti dell’America e degli altri paesi aventi rapporti commerciali con l’Europa).
Questo ambizioso progetto tuttavia fallì, come deve giustamente fallire qualsiasi tentativo di avere una moneta prima di avere un governo responsabile della politica monetaria.[59] In risposta a numerose crisi monetarie (il cui epicentro ,era ovviamente l’Europa), che avevano a più riprese scosso la solidità del dollaro, il 15 agosto 1971 il Presidente Nixon annunciava, al fine di ristabilire i conti americani con l’estero, la soppressione della convertibilità del dollaro e l’introduzione di un dazio (poi soppresso) del 10% su tutte le importazioni degli U.S.A. Da quel momento tutte le monete cominciarono a fluttuare nei confronti del dollaro. Questa eccezionale decisione poteva essere interpretata come una vera e propria dichiarazione di guerra alla C.E.E.[60] La fluttuazione di tutte le monete europee (fra di loro oltre che nei confronti del dollaro) costituiva il risultato opposto a quello a cui puntava il Rapporto Werner. Ciò non solo comprometteva in maniera definitiva il Mercato comune agricolo, che essendo basato su un prezzo unico europeo per i prodotti agricoli non poteva più avere alcun punto di riferimento, ma anche il Mercato comune dei prodotti industriali, perché la fitta rete di transazioni commerciali poteva essere mantenuta e sviluppata solo in regime di parità fisse delle monete europee. In effetti da quel momento la politica della cooperazione fra i vari paesi europei (che hanno anche tentato una risposta unitaria alla sfida americana varando il cosiddetto «serpente monetario», cioè facendo fluttuare le monete europee congiuntamente nei confronti del dollaro) ed i tentativi di «fare da sé» costituiscono i poli opposti, ma entrambi inefficaci, fra i quali oscillano gli esitanti governanti europei.
La strategia monetaria americana è comunque chiara. La fluttuazione del dollaro e una prima rivalutazione delle monete europee nei suoi confronti facilitano il riaggiustamento della bilancia americana dei pagamenti, ponendo così di nuovo il dollaro al centro del sistema monetario internazionale, perché, fino a che non vi sarà una moneta europea, solo il dollaro potrà essere usato come moneta degli scambi internazionali.
Questa lotta monetaria ha comunque avuto effetti nefasti sul commercio mondiale. Le continue variazioni nelle parità monetarie hanno alimentato inevitabilmente processi inflazionistici, poiché alcuni prezzi sono spinti ad aumentare, ma data la rigidità generale del livello dei prezzi verso il basso, non si verifica il caso opposto. Inoltre, il controllo della liquidità è praticamente inesistente nei paesi europei dove è attivo un amplissimo mercato dell’eurodollaro a cui le grandi imprese possono attingere facilmente fondi, superando le eventuali strette creditizie nazionali. Il controllo dei movimenti di capitale, in una zona economica in cui non esistono più barriere doganali, è ormai un fatto praticamente impossibile (senza violare le norme comunitarie). Inoltre, le variazioni nelle parità monetarie alimentano l’inflazione anche a causa dell’incertezza che si crea nelle transazioni internazionali. Gli operatori si mettono al riparo contro le fluttuazioni aumentando i margini di sicurezza. Le previsioni sull’andamento dei prezzi possono, da sole, bastare per generare pressioni speculative. La previsione di un ulteriore aumento può spingere le grandi imprese multinazionali ad anticipare gli acquisti accumulando stocks. È quanto è avvenuto nel 1973 in cui le transazioni internazionali sono aumentate del 37% in valore rispetto al 1972 e del 12% in quantità. Nel 1972 erano aumentate del 18% in valore e dell’8% in quantità.[61] Ma tale artificiale euforia doveva ben presto aver fine. La difesa delle parità monetarie ha costretto molti paesi industrializzati ad attuare drastiche politiche restrittive per controllare la domanda di importazioni e ad introdurre misure per stimolare le esportazioni — in violazione dell’etica libero-scambista che fino ad allora aveva regolato il commercio internazionale. Ma poiché questa politica economica è stata perseguita pressoché in tutti i paesi industrializzati, il risultato complessivo è stato una recessione mondiale con gravi conseguenze sul volume della produzione e dell’occupazione.
Sul fronte dei paesi sottosviluppati e sul mercato delle materie prime si sono nel frattempo accumulate tensioni tali da sconvolgere l’intero assetto economico del dopoguerra. Basta, per rendersene conto, fare un confronto fra le aspirazioni del Terzo mondo, di cui si è discusso in precedenza, e la situazione effettiva in cui versavano questi paesi venticinque anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale e dell’era coloniale.
Tav. 7 -Esportazioni mondiali: 1960-1969.
Gruppo di paesi
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|
Esportazioni (in miliardi di dollari)
|
Tasso annuale di variazione
|
Percentuale rispetto al totale mond.
|
Mondo
|
1960
|
127,9
|
8,7%
|
100
|
1969
|
271,1
|
100
|
||
Paesi industrializzati capitalistici
|
1960
|
85,4
|
9,5%
|
66,8
|
1969
|
193,0
|
71,2
|
||
Paesi industrializzati comunisti
|
1960
|
15,0
|
7,8%
|
11,8
|
1969
|
29,5
|
10,9
|
||
Paesi sottosviluppati
|
1960
|
27,4
|
6,6%
|
21,4
|
1969
|
48,6
|
17,9
|
||
Fonte: U.N.C.T.A.D., Review of International Trade and Development, 1969/70 (TD/B/309, agosto 1970, parte I, allegato, tav. 1).
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Come si può constatare dalla tav. 7, sebbene il tasso di aumento delle esportazioni sia superiore a quello registrato nel decennio precedente (3,6%), esso resta inferiore al tasso medio di aumento delle esportazioni mondiali; così i paesi sottosviluppati vedono ridotta ulteriormente la loro quota nel commercio mondiale, che passa dal 21,4% al 17,9%. La quota più elevata nel commercio mondiale spetta ancora ai paesi industrializzati occidentali, che fanno registrare anche il più elevato tasso annuale di sviluppo delle esportazioni (9,5%). Le esportazioni fra paesi industrializzati aumentano, per l’intero decennio, del 134%, mentre le esportazioni dai paesi sottosviluppati a quelli sviluppati aumentano dell’83% e le esportazioni dei paesi industrializzati a quelli non sviluppati aumentano solo del 79%. Il commercio fra paesi sottosviluppati aumenta solo del 59%. In generale si può pertanto dire che nel loro insieme i paesi sottosviluppati diminuiscono di importanza nel commercio mondiale. Infine, se si considera che le esportazioni dai paesi sottosviluppati a quelli sviluppati (non comunisti) passano dal 72,6% al 74,4% e che le importazioni da questi stessi paesi rappresentano circa il 74% del totale dei beni importati, si vede quanto importanti continuino a restare i mercati dei paesi industrializzati per il Terzo mondo.[62] Il più elevato tasso di sviluppo delle esportazioni per questo decennio è probabilmente spiegato dalla crescente importanza delle esportazioni in manufatti, nonostante gli ostacoli tariffari, rispetto alle esportazioni di materie prime e prodotti agricoli. Per il decennio 1960-70, infatti, le esportazioni di beni per l’alimentazione aumentano ad un tasso del 4,2%, le materie prime agricole dello 0,9%, i minerali del 6,9%, i combustibili del 10,6%, i metalli non ferrosi del 9,9%; e il tasso medio di aumento delle esportazioni dei beni primari è del 7,3% (esclusi i combustibili, del 5,1%). Al contrario, le esportazioni di manufatti dai paesi del Terzo mondo aumentano del 17,1%, superando così in importanza tutti gli altri prodotti. Ciò non deve comunque far dimenticare che i manufatti rappresentano ancora una quota modesta (circa il 15%) nel totale delle esportazioni del Terzo mondo verso i paesi avanzati. Infine, a conferma dell’importanza delle esportazioni in manufatti per lo sviluppo economico, si può constatare che i paesi che hanno registrato i più elevati tassi di sviluppo sono anche i paesi che si dedicano in maggior misura alla produzione ed esportazione di manufatti.[63]
Motivi di insoddisfazione per i paesi del Terzo mondo derivano anche dalla politica di aiuti dei paesi avanzati, che resta ben lontana dall’1% del loro P.N.L., come più volte promesso. Come si può ricavare dalle pubblicazioni statistiche dell’O.C.S.E.,[64] la quota di aiuti pubblici allo sviluppo da parte dei principali paesi industrializzati è rimasta costantemente intorno allo 0,5% del P.N.L., per il periodo 1961-1971. Gli aiuti complessivi sono aumentati solo grazie al maggior volume di flussi privati, in particolare dei crediti all’esportazione e degli investimenti diretti. Queste forme di aiuto, tuttavia, implicano un notevole deflusso (per ammortamenti, interessi, dividendi) di risorse finanziarie negli anni successivi dai paesi sottosviluppati a quelli sviluppati. Fra i paesi dell’O.C.S.E., solo la Francia, la Gran Bretagna, il Belgio, l’Olanda ed il Portogallo hanno superato l’impegno di fornire aiuti per l’1% del loro P.N.L. Secondo alcune stime sembra che l’ammontare di aiuti al Terzo mondo da parte dei paesi comunisti sia solo dello 0,1% del loro prodotto nazionale. I prestiti sono tuttavia fatti a tassi di interesse non elevati e per lunghi periodi di tempo.[65]
La politica commerciale e di aiuti dei paesi industrializzati non poteva non avere come effetto quello di spingere i paesi sottosviluppati «a fare da sé», per migliorare la propria posizione nell’economia mondiale. Le principali politiche perseguite dai paesi in via di sviluppo sono state sia una estensione del controllo statale sui mezzi di produzione installati nel loro territorio, sia la modificazione a loro favore dei terms of trade.
La politica delle «nazionalizzazioni» delle imprese straniere prese un certo vigore dopo i fatti di Suez del 1956. Si calcola che da allora sino al 1972 il 25% degli investimenti stranieri nei paesi in via di sviluppo sia stato nazionalizzato. Le nazionalizzazioni, tuttavia, sono cresciute di numero nel corso degli anni e sono procedute ad ondate (come mostra l’esempio dell’Anaconda, nazionalizzata in Cile nel 1969, e imitato subito dopo dallo Zambia, Sierra Leone, ecc.). Le nazionalizzazioni si concentrano poi nei settori in cui è possibile un maggior controllo e potere contrattuale del paese ospitante; tipico a questo proposito è il settore minerario che presenta il più alto tasso di espropriazioni (20,8%), seguono il settore petrolifero, l’agricoltura e la manifattura. Negli anni più recenti gli espropri vengono fatti compensando, almeno in parte, le compagnie private.[66]
Questa politica ha consentito ai paesi sottosviluppati, a mano a mano che si sviluppavano all’interno una classe politica, una burocrazia e un settore privato in grado di sostituire gli operatori stranieri, di controllare direttamente la produzione e il proprio commercio internazionale. Il controllo diretto del governo locale ha anche consentito di realizzare una diversa politica dei prezzi internazionali che le imprese straniere o non avevano interesse a praticare o non potevano. Accordi per la limitazione dell’offerta e per gli aumenti dei prezzi sono infatti più facili a concepirsi e realizzarsi se pattuiti fra governi. Di fatto, accordi di questo tipo sono stati realizzati per il petrolio (O.P.E.C.), per il rame (C.I.P.E.C.), per altri minerali non ferrosi, il caucciù, ecc.
Se si osservano le ragioni di scambio dei paesi in via di sviluppo con i paesi industrializzati per il periodo 1960-70, si vede che la tendenza alla diminuzione non è più così marcata come nel decennio precedente, ma che, al contrario, verso la fine del decennio si notano per alcuni prodotti dei netti miglioramenti, in specie per il petrolio.[67] Gli indici dei prezzi indicano quotazioni più sostenute in generale per i prodotti non agricoli, cioè le materie prime, i minerali, ecc.[68] Sembra cioè legittimo affermare che una lenta tendenza all’aumento dei prezzi delle materie prime era già in corso prima della esplosione dei prezzi avvenuta nel corso del 1973.
Questi aumenti non possono essere spiegati con le cause strutturali analizzate da Prebisch (cambiamenti nella struttura della domanda, orientamento del progresso tecnologico, ecc.) perché non vi è alcuna ragione che essi operino, in questi anni, in misura notevolmente differente dagli anni precedenti. Sembra invece legittimo sostenere che i paesi sottosviluppati stavano gradatamente tentando, con successo, di volgere a loro favore le ragioni di scambio. La crisi del 1973 ha solo facilitato loro questo compito. L’esplosione finale nel livello dei prezzi delle materie prime è stata provocata da un lato dal processo inflazionistico innescato dai paesi industrializzati al quale occorreva far fronte per non veder ulteriormente ridotto il proprio potere d’acquisto, e dall’altro dall’esempio, ben riuscito, del cartello dei paesi esportatori di petrolio. Nel 1973 si osserva una netta inversione di tendenza nei terms of trade: quelli dei paesi sottosviluppati aumentano del 10%, quelli dell’Europa diminuiscono del 4%, quelli del Giappone del 3,6% e quelli dell’America del Nord dello 0,4%.[69]
In questa occasione si può notare che gli aumenti maggiori si verificano proprio per quei prodotti per i quali è stato possibile trovare un accordo fra paesi produttori. Per esempio il prezzo del rame sale nel corso del 1973 da 474 a 958 sterline la tonnellata ed il suo esempio è seguito da tutti gli altri minerali non ferrosi quotati sul London Metal Exchange.[70] Altri prezzi, invece, come quelli dei cereali, dello zucchero, ecc., salgono per la euforia speculativa che si accompagna a una congiuntura particolarmente favorevole ai prezzi alti (cattivi raccolti) oppure per l’impossibilità di far fronte (per il legno o il caucciù) ad improvvisi aumenti nella richiesta di sostituti di altri beni rincarati improvvisamente. Naturalmente tutti questi sconvolgimenti nelle quotazioni provocano una serie di effetti a catena. I prezzi delle materie prime sono una variabile importante nella determinazione dei costi di produzione di tutti i manufatti, che pertanto dovranno subire a loro volta modificazioni di prezzo.
Non sempre tali caotici movimenti di prezzi vanno a profitto dei paesi sottosviluppati, presi nel loro insieme. Si può anzi constatare che le compagnie multinazionali (nel caso del petrolio, della bauxite, ecc.) sono ben leste ad approfittarsi della situazione ed aumentano, in questa fase, in modo considerevole i loro profitti. La logica dell’anarchia economica vuole che i più forti si arricchiscano ed i più deboli si impoveriscano: ciò vale anche per i rapporti fra gli stessi paesi sottosviluppati. Per i paesi poveri e privi di materie prime, o con risorse naturali tali che non si prestano alla formazione di cartelli o accordi internazionali, l’avvenire non è per nulla promettente. Il rincaro del petrolio ha rovinato le finanze di parecchi paesi sottosviluppati e ha compromesso radicalmente le loro prospettive di sviluppo. Non senza ragione è stato coniato il termine di Quarto mondo per designare i paesi poveri e privi di risorse naturali.
Il mercato mondiale è così caduto in un disordine senza precedenti dai tempi della grande crisi del 1929. Se l’analisi fatta è corretta, l’attuale disordine economico sul mercato delle materie prime è imputabile alla lotta in corso fra paesi consumatori e paesi produttori per il controllo delle fonti di approvvigionamento. In questa contesa, si inseriscono spesso con successo, approfittando del disordine, le grandi imprese multinazionali, che riescono a sfuggire al controllo degli uni e degli altri.
9. L’Europa del Mercato comune come principale responsabile del disordine economico mondiale.
Grazie alla politica del «ciascuno per sé», che ogni paese ha subito messo in atto per fronteggiare la più violenta inflazione del dopoguerra, la produzione industriale ha subito, a partire dal 1974, una caduta rovinosa. Le politiche restrittive della domanda, varate per contenere i deficits nelle bilance dei pagamenti e la pressione inflazionistica, data la elevata interdipendenza delle economie sviluppate, hanno provocato cadute nella produzione industriale, per il primo trimestre del 1975, del 20% in Giappone e dal 10 al 15% negli Stati Uniti, in Germania, in Francia e in Italia. Si calcola che, a partire dalla seconda metà del 1973, in 18 mesi di recessione, il prodotto nazionale lordo degli Stati Uniti sia caduto del 7% e sia praticamente stagnante (o in diminuzione come in Italia) negli altri paesi industrializzati. I tassi di disoccupazione sono in aumento ovunque: negli Stati Uniti hanno raggiunto l’8,9% nel 1975, in Germania il 4,7%, in Danimarca l’11%, senza contare quei lavoratori che, come in Italia, vengono assistiti con fondi straordinari, ma devono comunque considerarsi disoccupati. In seguito a questa violenta recessione, anche i prezzi delle materie prime industriali sono calati (si mantengono tuttavia a livelli ben superiori a quelli del 1971-72) e così si è rallentata anche la corsa in salita dei prezzi al minuto. Ma l’aumento del prezzo del petrolio e delle altre materie prime si è rivelata un’arma a doppio taglio per i paesi sottosviluppati. I terms of trade, per i paesi in via di sviluppo non produttori di petrolio, dopo aver registrato un andamento a loro favorevole nel 1973, nella misura in cui sono aumentati pure i prezzi delle esportazioni dei paesi industrializzati, si sono ben presto rivolti a loro sfavore nella seconda metà del 1974. Infine, per il 1975 si registra una contrazione annuale, per i paesi dell’O.E.C.D., del 6% nel volume delle importazioni e del 4,5% nel volume delle esportazioni.[71] Si assiste così non solo al più largo spreco di risorse verificatosi dopo la grande crisi del 1929, ma anche ad una redistribuzione di ricchezza a favore dei paesi più potenti e a sfavore di quelli più deboli nelle trattative internazionali. Se vi fosse ancora bisogno di una prova che il mondo è mal governato, questa è senza dubbio sufficiente.
Da più parti si fa appello, per superare la crisi, ad una più stretta collaborazione internazionale. Ma questi appelli sono ovviamente destinati a cadere nel vuoto fino a che non si precisa quali sono le condizioni che consentono l’auspicata maggior cooperazione. Il caos economico corrente non è frutto di una cattiva decisione di qualche governante o di una generica «fluttuazione» o «crisi» del sistema capitalistico. Le radici del disordine sono ben più profonde: si tratta di riconoscere che l’attuale equilibrio mondiale, caratterizzato dalla distensione russo-americana e dalla presenza sempre più attiva della Cina e del polo economico europeo, non è più un equilibrio evolutivo, come lo era stato, per alcuni aspetti, l’equilibrio bipolare del primo dopoguerra, con il quale si era perlomeno realizzata la ricostruzione post-bellica. Oggi, sul fronte orientale, la tensione fra Cina ed Unione Sovietica non è destinata a diminuire fino a che non si siano delineate con precisione le rispettive zone di influenza in Asia. A Occidente, si assiste ad un progressivo declino della leadership americana, senza che a ciò corrisponda l’emergere di alternative positive per l’ordinato sviluppo economico dell’Occidente e del Terzo mondo, che da esso dipende largamente.
L’America, di fronte alla tempesta economica, è esitante e incerta, come se non avesse ancora ben compreso da quale direzione è provenuta la tempesta e da che parte si debba volgere la prua. La reazione istintiva dell’America alla crisi energetica è stata ancora una volta la ricerca dell’autosufficienza ed il confronto con i paesi produttori di petrolio: ii presidente Ford ha fatto addirittura cenno alla «politica delle cannoniere» per non cedere al ricatto dei paesi monopolizzanti il petrolio. Questa prima reazione americana è stata teorizzata da Kissinger[72] che ha proposto la creazione di un Ente internazionale per l’energia e un programma fra i paesi industrializzati occidentali per l’indipendenza energetica. Secondo Kissinger «se le nazioni industrializzate compiono i passi che è loro possibile compiere, esse saranno in grado di trasformare negli anni ‘80 le carenze di energia in eccedenze… Il Progetto indipendenza dimostra che gli Stati Uniti non si lasceranno mai prendere in ostaggio, politicamente o economicamente». Tale programma, che in sostanza negava qualsiasi giustificazione a riaggiustamenti nei prezzi delle materie prime da parte dei paesi sottosviluppati e poneva gli Stati Uniti a capo della nuova politica energetica, negando qualsiasi autonomia agli Stati europei, in seguito alle aspre critiche sollevate è stato via via sfumato su posizioni più concilianti. Il 1° settembre 1975, in un messaggio all’O.N.U., Kissinger proponeva di affrontare i problemi economici internazionali in modo del tutto differente. Di fronte alle sofferenze dei popoli più poveri, Kissinger ha riconosciuto l’esigenza di non restare indifferenti. «Questa sfida trascende le ideologie e la politica dei blocchi. Nessun ordine internazionale può essere considerato giusto se uno dei suoi principi fondamentali non è la cooperazione per portare i paesi più poveri del mondo ad un tenore di vita decoroso». La cooperazione è dunque diventata di nuovo un aspetto centrale della politica estera americana, non solo nell’interesse dei popoli alleati, ma anche nel proprio interesse: «un sistema economico prospera solo se prosperano tutti coloro che ne sono partecipi». Kissinger riconosce poi, coerentemente sulla base di questi principi, la legittimità di tutte le richieste avanzate dai paesi del Terzo mondo e che l’America aveva, fino a quel momento, sempre respinto: gli Stati Uniti ammettono la necessità di stipulare accordi internazionali per sostenere i prezzi delle materie prime, di istituire riserve per trasferire fondi a quei paesi che fossero particolarmente colpiti da variazioni nei prezzi delle loro esportazioni, di aumentare gli aiuti, di istituire «un codice di comportamento» per le imprese multinazionali, di attuare un piano per una più razionale distribuzione delle risorse alimentari ed infine di aprire i mercati dei manufatti per facilitare lo sviluppo industriale del Terzo mondo. Un tale mutamento di rotta rivela incertezza nella politica estera americana e testimonia, una volta di più, le difficoltà che incontra l’America nel conciliare la sua leadership mondiale con il benessere e la sicurezza dei suoi alleati. L’America ha responsabilità mondiali a cui non riesce ormai più a far fronte in modo evolutivo.
Si tratta pertanto di vedere, al di là delle affermazioni di Kissinger, se l’America ha effettivamente la possibilità di portare a termine quelle trasformazioni tanto auspicate dell’ordine economico mondiale. Il piano di riforme tracciato da Kissinger non affida alcun ruolo positivo all’Europa. La politica estera americana non conta ormai più sulla prospettiva dell’unificazione politica dell’Europa occidentale e pertanto anche l’atteggiamento dell’America verso il Mercato comune è di indifferenza o di insofferenza. Come ha affermato Kissinger «mentre l’America ha interessi e responsabilità mondiali, l’Europa ha solo interessi regionali». Ciò è senza dubbio vero per l’Europa del Mercato comune, ma negare la realtà europea nell’equilibrio mondiale può portare a gravi conseguenze. È infatti l’Europa del Mercato comune il principale ostacolo al programma di riforme auspicato dall’America.
Un ordinato sistema monetario internazionale è la premessa istituzionale indispensabile alla ripresa e allo sviluppo del commercio mondiale. Ogni persona di buon senso riconosce che solo un regime di parità fisse può garantire agli operatori internazionali la stabilità delle attese e una ragionevole speranza di non incorrere in perdite improvvise. Ma è la stessa esistenza del Mercato comune un impedimento al ritorno delle parità fisse. Consideriamo la situazione venutasi a creare in seguito all’aumento del prezzo del petrolio. Si calcola[73] che nell’ottobre del 1972, prima della crisi, la liquidità ufficiale (oro e riserve monetarie) fosse di 37,7 miliardi di dollari per gli U.S.A. e di 107,1 miliardi di dollari per i paesi della C.E.E. L’aumento della spesa per le importazioni di petrolio costituiva solo l’1,4% del P.N.L. degli U.S.A., che hanno una ampia produzione interna, e di circa il 4% del P.N.L. per i paesi della Comunità. Ciò nonostante, dato l’ammontare considerevole delle loro liquidità ufficiali, gli europei avrebbero potuto affrontare con più disinvoltura degli U.S.A. la crisi petrolifera, perché l’aumento di spesa per l’importazione di petrolio avrebbe inciso per il 42,2% sulla liquidità ufficiale negli U.S.A., ma solo per il 30% su quella della Comunità. Ovviamente sarebbero comunque sorti problemi per contenere l’inevitabile spinta inflazionistica causata dall’energia a più caro prezzo, ma se si pensa che le economie europee si sono sviluppate per decenni a tassi ben maggiori del 4%, si vede come al massimo i trasferimenti di reddito implicati avrebbero dovuto far rallentare, ma non annullare, il tasso di sviluppo europeo. Invece gli europei si sono presentati in ordine sparso di fronte alle esose richieste dei paesi arabi ed il risultato è stato un vero e proprio tracollo di alcune bilance dei pagamenti (Italia, Francia, Inghilterra). Ciò ha provocato nuove variazioni nei tassi di cambio, spostamenti di capitali da un paese all’altro e l’allontanamento ulteriore di un periodo di stabilità monetaria. Si è persino prospettata l’ipotesi di ricorrere agli U.S.A. per prestiti ai paesi europei. Si giunge pertanto al paradosso di addossare all’America la responsabilità di porre riparo ad una crisi che è stata generata solo dalla divisione degli europei. La prosperità europea ha consentito ai paesi della C.E.E. di accumulare enormi riserve valutarie, indebolendo così il dollaro, ma tali riserve vengono solo sottratte, data l’impotenza della Comunità a realizzare una politica monetaria europea, ad un loro eventuale uso per finanziare l’espansione mondiale degli scambi. La ricchezza degli europei indebolisce il dollaro, ma la responsabilità di gestire la «moneta internazionale» non può che spettare agli U.S.A., perché nessuna delle economie europee, singolarmente presa, può competere con l’economia statunitense ed offrire le stesse garanzie ai detentori della moneta di riserva. In queste circostanze un ritorno alle parità fisse non può che essere illusorio, perché fino a che la forza economica e finanziaria del Mercato comune rappresenterà un centro di attrazione di investimenti e di capitali liquidi senza essere un centro di promozione della finanza e del commercio internazionali, il dollaro continuerà ad essere contestato nella sua funzione di moneta di riserva, con grave pregiudizio per l’ordine monetario internazionale.
Dopo l’aumento del prezzo del petrolio si è poi delineata una politica energetica americana che contrasta con gli interessi degli europei (interpretati, ancora una volta, dalla Francia). Kissinger ha proposto un «prezzo minimo» per il petrolio che si dovrebbe aggirare intorno ai 9 dollari per barile. Questa proposta nasconde, al di là della concessione, tinta di demagogia, di un ricavo «minimo garantito» ai paesi arabi produttori, un piano energetico ben articolato.[74] Gli Stati Uniti sono importatori di energia per il 13,6% del loro fabbisogno complessivo (che include carbone, petrolio, gas naturale, energia nucleare, energia idrica e geotermica). Il petrolio importato dagli U.S.A. copre meno di un terzo del loro consumo e la quota della produzione americana di petrolio rispetto al consumo è andata continuamente calando dal 1960 fino al 1972: già prima della guerra del Kippur era infatti chiaro che gli U.S.A. diventavano sempre più dipendenti dai rifornimenti esterni e che era necessario predisporre un piano energetico. Il piano americano è fondato su un principio molto semplice: trovare quel prezzo del petrolio al quale gli U.S.A. diventano autosufficienti (tenendo conto che a differenti livelli del prezzo del petrolio diventa conveniente la sostituzione del petrolio con altre fonti di energia, ma soprattutto si stimola la ricerca industriale privata di nuove fonti e di nuovi metodi per la produzione di energia). Questa è la sostanza del così detto «Progetto indipendenza». Secondo studi fatti dall’O.E.C.D. tale prezzo si può individuare facendo delle proiezioni al 1980 e al 1985 sulla base di tre ipotesi: che venga mantenuto il prezzo del 1972 prima dell’aumento; che sia fissato un prezzo di $ 6 per barile e un prezzo di $ 9 per barile.[75] Partendo da queste ipotesi si può constatare che nel caso venisse mantenuto il prezzo del 1972, gli U.S.A. nel 1980 dipenderebbero dall’estero per il 27% (rispetto all’attuale 13,6%) del loro fabbisogno energetico totale, ma se il prezzo del petrolio fosse di $ 6 la loro dipendenza scenderebbe al 15,3% e se fosse di $ 9 scenderebbe ulteriormente al 5,5%. Per il 1985 le proiezioni forniscono risultati ancora più promettenti: la dipendenza, nel caso in cui sia conservato il prezzo del 1972, salirebbe al 30,8%; ma al prezzo di $ 6 scenderebbe al 10% e a quello di $ 9 gli U.S.A. diventerebbero addirittura esportatori di energia per il 4,3% della loro produzione complessiva. In particolare essi esporterebbero proprio petrolio, grazie all’aumento interno della produzione di carbone, petrolio, gas naturale e soprattutto energia nucleare.
Se si ripetono gli stessi calcoli per l’Europa del Mercato comune si giunge ovviamente a risultati molto differenti, data la naturale scarsità di materie prime e di fonti di energia in Europa. Nel 1972 l’Europa dipendeva per il 63,1% dall’estero per il suo fabbisogno energetico totale. In particolare la produzione europea di petrolio copriva appena il 2%, del suo consumo complessivo. Le proiezioni al 1980 indicano che, nel caso sia mantenuto il prezzo del 1972, la dipendenza energetica europea resterà più o meno costante al 63,4%; per il prezzo di $ 6 scenderebbe al 50,7% e per il prezzo di $ 9 scenderebbe al 45,2%. Per il 1985 le tre proiezioni non danno però risultati molto diversi: il 62,7% per il primo caso, il 49,8% per il prezzo di$ 6 e il 45% per il prezzo di $ 9.
Come si può constatare da questi calcoli, non solo la posizione dell’Europa non migliorerebbe nel corso del quinquennio 1980-85, ma non sarebbe neppure conveniente per l’Europa puntare su prezzi del petrolio molto elevati, perché il grado di autonomia energetica dell’Europa si aggirerebbe comunque intorno al 50%. La politica energetica europea dovrebbe pertanto basarsi su un prezzo del petrolio basso, intorno ai 6 dollari, che non provochi costi eccessivi per la sostituzione del petrolio con le altre fonti di energia, con gravi danni per la produzione industriale. Per attuare tale politica energetica l’Europa dovrebbe, anche se i prezzi internazionali del petrolio si mantenessero elevati, consentire il suo consumo all’interno a prezzi bassi, ma soprattutto provvedere adeguatamente alla ricerca di nuove fonti di energia con sovvenzioni statali ed investimenti pubblici, visto che le imprese private non avrebbero la convenienza, con questi prezzi, ad intraprendere ricerche per conto loro. Questa politica spingerebbe anche l’Europa ad una più stretta collaborazione con i paesi produttori di petrolio, in specie quelli del Medio oriente, e ad una progressiva sostituzione delle compagnie petrolifere private con imprese statali. Ma questo indirizzo di politica energetica si pone proprio agli antipodi di quello americano, che affida alle imprese private il compito, attraverso gli incentivi degli alti profitti, di aumentare la produzione e programmare la ricerca di nuove fonti di energia, puntando all’obiettivo dell’autosufficienza.
L’Europa del Mercato comune, tuttavia, non è affatto in grado di realizzare una politica energetica coerente con queste indicazioni, che valgono solo per l’Europa nel suo insieme, ma non per tutti gli Stati europei singolarmente presi. Per esempio, la Gran Bretagna si trova in una situazione (date le sue riserve petrolifere del Mare del Nord) simile a quella degli Stati Uniti e può tentare di far valere un proprio interesse nazionale opposto a quello europeo. Il tentativo (soprattutto da parte francese) di realizzare una politica energetica comunitaria avrà pertanto più la funzione di intralciare il programma americano, che quella di avviare a soluzione i problemi energetici europei.
Rispetto poi al fondamentale problema dei rapporti con i paesi sottosviluppati, gli interessi dell’Europa e degli U.S.A. non sono meno contrastanti. La Comunità dei nove, nel 1972, importava per il 19,3% del commercio mondiale ed esportava per il 20,6%; gli Stati Uniti esportavano ed importavano nello stesso anno solo per il 14% del totale. L’Europa non è solo il paese più aperto in generale, ma anche nei confronti dei paesi sottosviluppati: essi esportano infatti nella C.E.E. circa il doppio di quanto non esportino negli U.S.A., che sono molto più autosufficienti dell’Europa nella produzione di proprie materie prime. In linea di massima, pertanto, l’Europa ha interesse ad intrattenere rapporti commerciali molto più stretti e impegnativi con i paesi del Terzo mondo di quanto ne abbiano gli U.S.A., perché all’Europa la via dell’autosufficienza è assolutamente preclusa. La Convenzione di Lomé, stipulata nel febbraio 1975 fra la C.E.E. e quarantasei paesi sottosviluppati (principalmente africani) testimonia il diverso atteggiamento dell’Europa verso il Terzo mondo. Nella Convenzione di Lomé viene riconosciuto il principio della non reciprocità: i paesi associati non sono tenuti a concedere alla C.E.E. un trattamento preferenziale, ma semplicemente quello della «nazione più favorita», anche se possono godere di particolari facilitazioni per le loro esportazioni nella Comunità. Inoltre la Comunità garantisce la stabilizzazione degli introiti per l’esportazione delle materie prime grazie all’istituzione di un apposito fondo comunitario, per prestiti e donazioni ai paesi più poveri. La Comunità, infine, assicura ai suoi associati una cooperazione finanziaria e tecnica.
Questa politica commerciale della Comunità mette in imbarazzo gli Stati Uniti per due ragioni. La prima è che essi, pur essendo alleviati da una parte degli aiuti al Terzo mondo, non vedono con favore l’instaurarsi di rapporti privilegiati fra paesi dell’area occidentale. Questo è un punto che è sempre stato sottolineato con forza dagli U.S.A. nei negoziati G.A.T.T., dove la Comunità è stata spesso accusata di mettere in crisi l’ordine commerciale dell’occidente, fondato sulla non discriminazione. La creazione di una zona preferenziale significa, in pratica, contestare la leadership economica americana, che può essere esercitata con la massima efficacia solo in una situazione in cui tutti i paesi sono sullo stesso piano. In secondo luogo, gli Stati Uniti, anche se non possono dirlo esplicitamente, non hanno alcun interesse ad instaurare accordi preferenziali con il Terzo mondo, perché vedrebbero invadere il loro mercato manifatturiero senza ottenere alcuna contropartita di rilievo (come può invece ottenere l’Europa, che è molto dipendente dalla fornitura estera di materie prime).
D’altro canto, l’Europa non può sviluppare a fondo questi principi di collaborazione con il Terzo mondo perché, per quanto riguarda i manufatti, non può eliminare oltre un certo limite le barriere doganali che, data l’attuale unità confederale, sono uno dei principali fattori di coesione fra i Nove e di identificazione europea: una efficace apertura dei mercati europei è impensabile in assenza di un governo europeo che programmi quali settori sacrificare e come assorbire in attività alternative la manodopera liberata. Per quanto riguarda la produzione agricola, la struttura del Mec agricolo, con fissazione di un prezzo unico comunitario e inevitabile formazione di eccedenze, non può essere modificata, perché è l’unica politica praticabile a livello comunitario: una politica più flessibile in fatto di prezzi o con sovvenzioni ai produttori e bassi prezzi ai consumatori è impossibile in assenza di un governo europeo. Anche nei confronti del Terzo mondo si può pertanto concludere che l’esistenza del Mercato comune è un fattore di ostacolo alla politica americana, ma senza che ciò si traduca in vantaggi veramente decisivi per i paesi più poveri.
10. L’unità europea come presupposto del «nuovo ordine economico mondiale».
Sulla base di queste divergenze in campo monetario, energetico e dei rapporti con il Terzo mondo, non è difficile comprendere come mai gli Stati Uniti, fin dai tempi del Kennedy Round, ma più apertamente con la presidenza di Nixon e con la politica estera di Kissinger, si siano adoperati per diluire il Mercato comune in una vasta area atlantica di libero scambio (che comprendesse tuttavia anche il Giappone) in cui nessun polo regionale mettesse in discussione le decisioni americane. L’attuale incertezza americana nei confronti dell’Europa non può continuare all’infinito. O l’America ritornerà, come ai tempi del piano Marshall, a puntare sulla saggia politica estera della equal partnership, cioè sull’unità politica dell’Europa, perché senza unità europea non sono concepibili rapporti di uguaglianza con gli U.S.A., oppure saranno le realtà stesse della politica internazionale ad imporre agli americani di spingere più a fondo le divergenze che li dividono dall’Europa e puntare sulla disgregazione definitiva del Mercato comune e la satellizzazione degli europei.
A questo secondo risultato si giungerà certamente se si continua a sperare nella «cooperazione internazionale» senza rendersi conto che solo un cambiamento radicale nell’attuale equilibrio mondiale può consentire di impostare su basi radicalmente rinnovate i rapporti economici fra le nazioni. Non si tratta di fare una riforma, ma di cambiare il governo del mondo. Oggi la vera alternativa su cui bisogna pronunciarsi è la scomparsa dell’Europa economica, inghiottita dall’impero americano, oppure la costruzione di un’Europa unita, con un governo in grado di fare una propria politica estera ed una propria politica economica.
La scelta non spetta agli americani, ma agli europei. Gli europei hanno la possibilità di giungere entro pochi anni all’elezione diretta del Parlamento europeo,[76] che consentirebbe lo schieramento dei partiti e dei sindacati a livello europeo e metterebbe in moto il processo costituente per giungere a quell’Unione europea auspicata da tutti gli europei che non sono ancora rassegnati a perdere la loro libertà e la loro indipendenza. Si compirebbe così il passaggio dagli Stati nazionali alla Federazione europea, condizione istituzionale indispensabile per affrontare in modo veramente unitario e coerente tutti i principali problemi economici europei e internazionali.
La nascita della Federazione europea rappresenterebbe un fattore di distensione nell’equilibrio mondiale. Si passerebbe dall’equilibrio bipolare — attualmente contestato, ma pur sempre bipolare — ad un equilibrio multipolare, in cui Europa e Cina costituirebbero dei poli di potere alternativi a U.S.A. e U.R.S.S. L’equilibrio multipolare è caratterizzato da una maggior flessibilità perché la politica delle alleanze non avrebbe come punto di riferimento solo le due attuali superpotenze. L’Europa unita è indispensabile sia per moderare, o al limite eliminare, il confronto ideologico fra Stati Uniti e Unione Sovietica, sia per attenuare la tensione in Asia fra Russia e Cina, perché, alleandosi con la Cina, l’Europa potrebbe costituire un utile contrappeso all’influenza russa sul continente euro-asiatico. L’Europa unita è poi auspicata dai paesi rivieraschi del Mediterraneo che rappresentano, specie nel Medio oriente, una zona particolarmente instabile dal punto di vista militare e politico. Il vuoto di potere venutosi a creare in questa regione dopo il disimpegno delle potenze coloniali europee, non solo facilita l’esasperazione delle tensioni fra i piccoli Stati, con tradizioni culturali estremamente differenziate, ma li priva anche degli aiuti economici indispensabili al loro sviluppo.
Per valutare adeguatamente le conseguenze economiche del nuovo equilibrio internazionale, occorre osservare che la fondazione della Federazione europea avvierebbe un processo di regionalizzazione delle zone di influenza. In Asia, nella misura in cui la Cina riesce a condurre una propria politica estera indipendente dall’Unione Sovietica e dagli Stati Uniti, tale processo è già in corso. Ma esso assumerebbe aspetti del tutto nuovi e decisivi per i paesi africani e dell’America latina. Fin da ora, del resto, la quasi totalità del commercio estero dei paesi nord-africani è destinata all’Europa e gran parte di quello dei paesi latinoamericani è diretto nel Nord America.[77] La creazione di un governo europeo non potrà non consolidare questa gravitazione naturale.
Questo processo di regionalizzazione avrà importanti conseguenze anche per la soluzione dei problemi monetari, commerciali, energetici e dei rapporti fra paesi più o meno industrializzati. La creazione di una moneta europea eliminerà ipso facto tutti i deficits ed i surplus fra bilance europee dei pagamenti e consentirà di mettere finalmente in comune le riserve monetarie europee. L’Europa diventerà pertanto un centro finanziario almeno tanto importante quanto gli Stati Uniti e ciò significherà, per gli altri paesi, poter utilizzare anche la moneta europea, oltre il dollaro, come moneta di riserva: si creeranno così una zona del dollaro e una zona monetaria europea. Ciò servirà ad attenuare le pressioni sul dollaro, perché gran parte delle transazioni internazionali potrà finalmente essere finanziata da una moneta altrettanto solida del dollaro. Per queste ragioni sarà anche possibile ripristinare il regime delle parità fisse e ristabilire quel clima di fiducia e sicurezza che è indispensabile alla prosperità del commercio mondiale.
Grazie all’istituzione di un governo europeo sarà poi possibile affrontare in modo coerente la politica energetica. Il dibattito su questo argomento, che riguarda in definitiva i rapporti dell’uomo con le risorse naturali ed ambientali, deve essere affrontato nel contesto della programmazione europea ed il suo esito dipenderà pertanto dalle scelte che partiti, sindacati e opinione pubblica europea faranno. Ma fin da ora si può affermare che un governo europeo: a) potrà stimolare e organizzare la ricerca scientifica in modo ben più razionale ed efficiente di quanto possano attualmente fare i paesi del Mercato comune; b) potrà sia impostare una propria politica del prezzo del petrolio, sia sottrarsi al ricatto delle imprese petrolifere, il cui potere dipende principalmente dalle loro dimensioni rispetto a quelle del paese acquirente; c) infine, potrà effettivamente offrire rapporti di collaborazione ai paesi del Medio oriente produttori di petrolio, perché gli europei sono i loro principali acquirenti e la sola esistenza di una programmazione energetica europea rappresenterebbe un fattore di stabilità e di orientamento per lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio; inoltre l’Europa potrebbe fornire assistenza tecnica ed aiuti economici in misura ben più importante di quanto non sappiano fare oggi i singoli paesi europei e garantirebbe gli sbocchi commerciali della loro produzione industriale. Una politica energetica europea ben delineata, infine, non potrebbe non essere utile agli Stati Uniti che attualmente sono costretti a programmare anche per l’Europa, ma senza riuscire a trovare una soluzione soddisfacente per entrambi. Se l’Europa saprà realizzare una propria politica energetica, agli Stati Uniti non resterà che prenderne atto: se non vi saranno elementi di contrasto fra i due piani, ciascun popolo avrà guadagnato in autonomia senza perdere nulla in efficienza.
Allo stesso modo, la creazione di una Federazione europea consentirebbe di avviare a soluzione i contrasti fra Europa e America sulla invadenza delle imprese multinazionali americane, sull’eccessivo protezionismo del mercato agricolo europeo e sulle riduzioni tariffarie e la eliminazione delle barriere non-tariffarie che ancora ostacolano il commercio internazionale. L’esistenza di una Europa politicamente unita è il quadro indispensabile entro il quale, attraverso l’attiva partecipazione di partiti e sindacati a livello europeo, si potrà impostare una programmazione democratica dell’economia. Al potere oggi incontrollato delle multinazionali si potrà opporre il movimento dei lavoratori (oggi debole perché diviso) organizzato in sindacati europei.[78] Ma ciò che più conta è che solo nel contesto della programmazione democratica, ed in un clima internazionale privo di tensioni, sarà possibile smantellare l’attuale goffa regolamentazione del Mercato comune agricolo e abolire le barriere doganali che ancora proteggono l’economia europea, perché tali riforme richiedono un inevitabile sacrificio di alcuni settori produttivi, non più competitivi con le importazioni dai paesi con bassi costi del lavoro, ed il progressivo riassorbimento della manodopera liberata nei settori più efficienti, in cui l’Europa gode di un vantaggio comparato. Una ristrutturazione di così vaste dimensioni dell’economia europea è impensabile nel breve periodo e richiede pertanto sia un impegno di tutte le forze produttive al rispetto delle indicazioni del piano, sia l’instaurazione di rapporti stabili fra l’Europa e i paesi interessati al mercato europeo. Entrambe queste condizioni potrebbero essere assicurate solo da un governo europeo che goda di un ampio consenso popolare e sia in grado di condurre una politica estera autonoma.
Ma l’Europa unita creerà anche delle condizioni particolarmente favorevoli allo sviluppo economico del Terzo mondo. Il «nuovo ordine economico mondiale», così spesso invocato dai paesi sottosviluppati, richiede come principale premessa per la sua istituzione un nuovo rapporto fra paesi ricchi e poveri, in cui sia rispettata l’autonomia di entrambi, senza che siano pregiudicate le possibilità di cooperazione. L’instaurazione di un equilibrio mondiale multipolare e la creazione di zone regionali di influenza consentirebbero ai paesi più poveri di sottrarsi facilmente ad eventuali legami troppo vincolanti dei paesi più potenti. L’equilibrio multipolare ammette maggiore fluidità nella politica delle alleanze (non sarà più inconcepibile, per esempio, che un paese riceva aiuti e assistenza da più parti, senza subire ricatti, come avviene attualmente).
Alla regionalizzazione delle zone di influenza corrisponderà poi anche una regionalizzazione degli aiuti e della politica commerciale. Questo fatto sarà di enorme vantaggio per i paesi più poveri che oggi ricevono scarsissimi aiuti anche a causa degli eccessivi impegni internazionali della sola potenza mondiale, gli U.S.A., che ne concede la maggior parte. Inoltre cadrà ogni alibi per continuare a mantenere chiuse le frontiere ai prodotti manufatti del Terzo mondo. La stabilità dei rapporti che si verranno a creare all’interno di ogni zona consentiranno di realizzare una miglior divisione internazionale del lavoro fra paesi industrializzati e in via di sviluppo. All’interno di queste zone sarà poi possibile, grazie alle più strette relazioni commerciali, la creazione di unioni doganali o confederali fra gli stessi paesi sottosviluppati, che costituirebbero la premessa indispensabile per ulteriori progressi verso l’unificazione politica di questi popoli fra di loro e con i paesi oggi più ricchi.
Alla regionalizzazione delle aree commerciali corrisponderà una espansione della produzione e del commercio mondiali. Non solo si creeranno le premesse per migliori rapporti commerciali fra i paesi industrializzati, ma le prospettive di sviluppo del Terzo mondo costituiscono anche la premessa per una più avanzata divisione del lavoro su scala mondiale. In prospettiva i paesi oggi sottosviluppati si avvieranno verso quel tipo di produzione detto «di massa» ed i paesi industrializzati potranno procedere più speditamente sulla via della completa automatizzazione dei processi di produzione, cioè della trasformazione del lavoro manuale in lavoro intellettuale e della conquista del tempo libero. Alla emancipazione economica del Terzo mondo, corrisponderà pertanto una nuova tappa nella liberazione dal lavoro promessa dalla «rivoluzione scientifica e tecnologica».[79]
Ma al di là di queste conseguenze del nuovo equilibrio mondiale, importa mettere in evidenza il significato storico della fondazione della Federazione europea, perché con essa verrà introdotto un principio del tutto nuovo nei rapporti internazionali.[80] La fondazione della Federazione europea rappresenterà la prima affermazione concreta dei valori dell’internazionalismo: la politica estera nazionale, ora nelle mani dei diplomatici e delle cancellerie, verrà finalmente affidata al controllo democratico del popolo europeo (e ciò comporta il potere dei cittadini di programmare la propria vita sociale, economica e politica oltre i confini della nazione). Il principio della sovranità nazionale, che esclude il popolo dalla gestione della politica estera, ed il principio federativo sono in opposizione. Con il controllo popolare e costituzionale della politica interstatale verrà anche sconfitto il principio della politica di potenza, che regola oggi i rapporti fra Stati sovrani. Per la prima volta nella storia si affermerà il principio che i rapporti fra i popoli non devono essere basati sulla forza — come avviene attualmente — ma sul diritto. Per questo i popoli europei non potranno, se non negando il principio stesso su cui si fonda la Federazione europea, giustificare una eventuale politica imperialistica del governo federale. Ciò non significa che nei suoi rapporti con i paesi più poveri il governo europeo non sia tentato di sfruttare le loro risorse economiche e di ignorare i loro problemi di sviluppo: la logica dei rapporti fra Stati sovrani non ammette eccezioni, nemmeno per il governo europeo. Ma nessun governo europeo potrà negare ai popoli che lo desiderino di accettare la costituzione federale europea e di entrare a far parte della Federazione. La giustificazione ideologica dell’imperialismo risiede, in ultima istanza, nel nazionalismo, cioè nella negazione del diritto all’esistenza degli altri popoli. Il nazionalismo è la giustificazione ideologica della divisione dell’umanità in Stati indipendenti e sovrani. Questa arma ideologica non potrà mai essere fatta propria dai governanti europei, che dovranno invece impostare i loro rapporti con i paesi più poveri proprio nella prospettiva di metterli in condizione di entrare a far parte a pieno diritto della Federazione. In questa prospettiva, anche la politica degli aiuti cesserebbe di essere considerata come offensiva, perché gli aiuti sarebbero semplicemente considerati come un trasferimento anticipato (e imperfetto) di reddito, come già avviene automaticamente, grazie al sistema fiscale, all’interno dello Stato.
La nascita della Federazione europea avrà poi importanti conseguenze anche sulla politica estera dei paesi sottosviluppati. Il nazionalismo, cioè la cultura della divisione del genere umano, non ha ispirato solo la politica estera delle grandi potenze, esso ispira tuttora i rapporti internazionali fra i paesi del Terzo mondo. Lo Stato nazionale, unitario e burocratico, così come è sorto dalla Rivoluzione francese, è il modello politico imitato da tutti i popoli emergenti. Ciò ha condotto alla formazione di Stati sovrani di dimensioni assolutamente artificiali (ricalcati semplicemente sui confini dei territori conquistati dalle potenze coloniali) e tali da ostacolare, per la loro dimensione, una razionale programmazione dello sviluppo. II modello federale sarà un importante esempio da imitare per questi popoli, che già ora sono spinti a cercare forme di collaborazione interstatale (come, ad esempio, il mercato comune latino-americano) che, per non voler sacrificare il mito della sovranità, sono del tutto inadatte alla programmazione economica di vaste aree. La Federazione europea stimolerebbe così anche la creazione di altre unioni federali, che rappresenteranno senza dubbio una tappa intermedia importante verso una successiva unificazione con i popoli europei.
La Federazione europea farà così vivere nei rapporti internazionali l’idea della unificazione politica del genere umano, cioè della Federazione mondiale, che è anche l’unica situazione in cui i popoli della terra potranno abolire definitivamente la violenza nei loro rapporti e saranno finalmente in grado di programmare una distribuzione delle risorse mondiali nel rispetto di quel principio di giustizia, oggi così vilipeso dalle nazioni più potenti ed arroganti.
[1] Naturalmente vi sono estrapolazioni statistiche perfettamente legittime. Se si vuole conoscere l’andamento del consumo pro-capite di un certo bene, abbiamo un alto grado di probabilità di compiere delle osservazioni corrette e di estrapolare un trend vicino alla realtà. Ma voler stabilire se l’economia mondiale va verso la ripresa o verso la depressione, senza avere idee sul governo del mondo e sulle forze che dirigono l’economia mondiale equivale a comportarsi come un viandante che seguendo un sentiero sconosciuto in un bosco dice «va a destra», quando il sentiero volge verso destra, e «va a sinistra», quando il sentiero volge a sinistra. In verità questo viandante non sa esattamente dove questo sentiero lo sta conducendo.
[2] K. Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 50.
[3] La miglior esposizione di questa teoria è dovuta a Meir Merhav, Technological Dependence, Monopoly and Growth, Pergamon Press Inc., 1969; trad. it. Dipendenza tecnologica e sottosviluppo, Einaudi, Torino, 1973; in particolare il cap. I, da cui sono attinte anche le informazioni riportate.
[4] K. Marx, L’ideologia tedesca, op. cit., p. 44.
[5] Cfr. R. Nurkse, Problems of Capital Formation in Underdeveloped Countries, Basil Blackwell, Oxford, 1958; trad. it. La formazione del capitale nei paesi sottosviluppati, Einaudi, Torino, 1965, p. 9.
[6] Cfr. R. Nurkse, «Patterns of Trade and Development» in International Trade and Finance, Wieksell Lectures 1958-1964, Almqvist e Wiksell, Stoccolma, 1965, pp. 47-94.
[7] G.R. Helleiner, «Manufactures Exports from Less-Developed Countries and Multinational Firms», Economic Journal, 1973, pp. 21-47; Helleiner fa anche notare che è la particolare struttura tariffaria degli Stati Uniti a incoraggiare questo tipo di divisione del lavoro.
[8] P.N. Rosenstein-Rodan, «Problems of Industrialization of Eastern and South-Eastern Europe», Economic Journal, 1943; trad. it. in A.N. Agarwala e S.P. Singh, L’economia dei paesi sottosviluppati, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 223-33.
[9] Cfr. A. Young, «Increasing Returns and Economic Progress», Economic Journal, 1928; e R. Nurkse, La formazione del capitale nei paesi sottosviluppati, op. cit., pp. 15-22.
[10] P.N. Rosenstein-Rodan, «Notes on the Theory of the ‘Big Push’», in Economic Development of Latin America, (ed H. Ellis), Londra, Macmillan, 1961, pp. 57-67. Trad. it. in Economia del sottosviluppo (a cura di B. Jossa), Il Mulino, Bologna, 1973.
[11] Solitamente si è disposti ad ammettere che un governo «conservatore» o «progressista» costituisca una delle variabili politiche dello sviluppo economico. È sottinteso tuttavia che le dimensioni dello Stato, e quindi dell’economia, sono considerate un dato immodificabile. Come risulterà evidente dalle argomentazioni successive, qui si prenderà invece in considerazione anche la dimensione dello Stato come variabile politica.
[12] L’importanza delle esportazioni di manufatti per lo sviluppo economico è molto efficacemente analizzata da J. Jacobs, The Economy of Cities, Jonathan Cape, Londra, 1970; (trad. it. L’economia delle città, Garzanti, Milano, 1971); i rapporti città-campagna analizzati dalla Jacobs possono benissimo essere intesi come rapporti centro-periferia fra paesi industrializzati e sottosviluppati.
[13] I tentativi di attuare, specie in America latina, una «industrializzazione sostitutiva delle esportazioni» o industrializzazione inward looking sono tutti falliti. La soluzione isolazionista è in genere prospettata da coloro che vedono le difficoltà incontrate dai paesi sottosviluppati nel commercio internazionale, ma non sanno proporre nulla per superare tali difficoltà.
[14] Questo concetto di «governo del mondo», utile per considerare in modo unitario gli avvenimenti politici mondiali, è stato formulato da Mario Albertini nel corso di una conferenza sull’imperialismo tenuta a Pavia nel settembre 1970.
[15] Ludwig Dehio, «L’agonia del sistema degli Stati», in La Germania e la politica mondiale del XX secolo, Comunità, Milano, 1962, pp. 111-26.
[16] W. Ashworth, A Short History of the International Economy since 1850, Longman, Londra, 1970, p. 272.
[17] M. Kaser, Comecon, Oxford University Press, Londra, 1967; e N. Spulber and F. Gehrels, «The Operation of Trade within the Soviet Bloc», Review of Economics and Statistics, maggio 1958.
[18] M. Albertini, «L’integrazione europea, elementi per un inquadramento storico», in L’integrazione europea e altri saggi, Edizioni Il Federalista, Pavia, 1965.
[20] I dati riportati sono tratti da A. Marchal, «The Problems of the Common Market», in International Economic Relations (ed. P. Samuelson), Macmillan, Londra, 1969.
[21] Non sempre un miglioramento dei terms of trade è indice di un miglioramento della posizione internazionale del paese considerato. Un aumento dei prezzi all’esportazione può, per esempio, essere causato da una restrizione improvvisa dell’offerta. In questo caso le entrate complessive (che sono il risultato del prodotto della quantità per il prezzo) possono diminuire e non aumentare. Sulle difficoltà relative all’interpretazione dell’andamento dei terms of trade cfr. G. Haberler, Special Papers in International Economics, n. 1, Princeton University, 1961, cap. IV.
[23] P. Bairoch, Diagnostic de l’évolution économique du Tiers-monde 1900-1968, Gauthier-Villars, Parigi, 1967;e P.T. Ellsworth, «The Terms of Trade between Primary-Producing and Industrial Countries», Inter-American Economic Affairs, vol. 10, n. 1, 1961 (ripubblicato in Economic Policy for Development, ed. Livingstone, Penguin Books, 1971).
[24] Fonte: U.N., World Economic Survey 1962. Developing Countries,op. cit., p. 4 e U.N.C.T.A.D., Commodity Trade, vol. III, New York, 1964, p. 4.
[25] Cfr. Raul Prebisch, «Commercial Policy in the Underdeveloped Countries», American Economic Review, maggio 1959 e il rapporto dell’O.N.U. citato alla nota precedente.
[26] H.W. Singer, «The Distribution of Gains between Investing and Borrowing Countries», American Economic Review, maggio 1950, pp. 473-485; trad. it. in Economia del sottosviluppo, op. cit., pp. 337-51.
[27] R. Prebisch, «Commercial Policy in the Underdeveloped Countries», op. cit.; ed il rapporto di Prebisch in U.N.C.T.A.D., Policy Statement, New York, 1964, pp. 10-12.
[28] J.E. Meade, «International Commodity Agreements», in U.N.C.T.A.D., Commodity Trade, New York, 1964, p. 457.
[29] In alcuni casi le statistiche non convalidano questo drastico giudizio, ma una analisi accurata porta a concludere che la stabilità su alcuni mercati viene assicurata al prezzo di onerosi interventi governativi o per la previdenza delle imprese coloniali, che cercano di attenuare le fluttuazioni del mercato mondiale. Cfr. A.I. McBean, «The Short-Term Consequences of Export Instability», in Economic Policy for Development, op. cit., pp. 215-231.
[30] W. Krause, International Economics, Houghton Mifflin Company, Boston, 1965, pp. 238-54.
[32] Si è anche suggerito che siano organismi internazionali, come la Banca mondiale, ad assolvere questo compito. Ma ciò equivale solo a spostare il problema, perché la Banca mondiale è finanziata principalmente dagli Stati Uniti: è pertanto su di essi che ricadrebbe l’onere del finanziamento. Cfr. W. Krause, op. cit., p. 239.
[33] Per una analisi dei prodotti che si prestano sotto l’aspetto merceologico alla stipulazione di accordi internazionali cfr. J.A. Pincus, «What Policy for Commodities?», Foreign Affairs, 1964.
[34] L’importanza dell’International Wheat Agreement è tuttavia limitata. Esso regola solamente dal 40% al 10% del grano commerciato a livello internazionale. Cfr. W. Krause, op. cit., p. 248, n. 18.
[35] Le prime critiche vennero formulate in seno alle Nazioni unite. Cfr. U.N.C.T.A.D.,Commodity Trade, op. cit., e Trade in Manufactures, New York, 1964. Cfr. inoltre G. Zandano, «I rapporti commerciali e finanziari tra Terzo mondo e paesi avanzati», in Lezioni sull’economia italiana nell’integrazione internazionale (a cura di G. Vaciago), Edizioni di Comunità, Milano, 1974, pp. 21-90; in particolare pp. 45-58.
[36] Il tasso effettivo si ricava dalla formula: , dove v’ è il valore aggiunto reso possibile dall’applicazione della tariffa e v è il valore aggiunto in assenza della tariffa. Per una discussione su questo punto cfr. G. Zandano, Sviluppo economico e struttura delle tariffe: gli ostacoli tariffari alle esportazioni di manufatti e semi-manufatti dai paesi in via di sviluppo, Istituto per l’economia europea, Roma, 1967, cap. III.
[37] Qui riporteremo solamente i dati riassuntivi dello studio di B. Balassa, «Tariff Protection in Industrial Countries: An Evaluation», Journal of Political Economy, 1955, pp. 573-94; ristampato in Readings in International Economics (ed. Caves and Johnson), American Economic Association, Allen and Unwin, Londra, 1968, pp. 579-604.
[38] Zandano rileva (cfr. cit. alla n. 36) come esista una relazione positiva tra livello delle tariffe effettive e «intensità di lavoro» dei beni importati.
[39] B. Balassa, op. cit., p. 603.
[40] Per una discussione dettagliata sulla protezione dei beni agricoli si veda H.G. Johnson, Economic Policies toward Less Developed Countries, Brooking Institution, Washington 1967, pp. 84-94.
[44] A. Marchal, op. cit., p. 178 e tav. 2. Si confronti tuttavia questa tesi con le preoccupazioni fondate sul confronto delle tariffe medie di L.B. Krause, «European Economic Integration and the United States», American Economic Review, maggio 1963, pp. 185-196.
[45] La percentuale del 50% poteva inoltre essere superata: a) per i prodotti agricoli, nel caso in cui l’accordo raggiunto fosse stato tale da consentire l’espansione delle esportazioni americane; b) per i prodotti tropicali, in condizioni di reciprocità con la C.E.E.; c) per i prodotti la cui tariffa iniziale fosse stata inferiore al 5%.
[46] Per una analisi più dettagliata del problema si veda A. Majocchi, «A propos du ‘Kennedy Round’», Le Fédéraliste, n. 1, 1964, pp. 5-16.
[47] Cfr. i calcoli effettuati da M. Stamp, «Britain and the Free Trade Area Option», in H.G. Johnson, New Trade Strategy for the World Economy, Allen and Unwin, Londra, 1970, p. 206.
[48] A. Majocchi, «La conclusione del Kennedy Round», Federalismo Europeo, n. 5-6, 1967. Si deve tener conto che oltre ai risultati tariffari di cui si è accennato nel testo, il Kennedy Round consentì di ottenere importanti accordi anche sulle pratiche discriminatrici non tariffarie, come ad esempio la promessa, da parte statunitense, dell’eliminazione dell’American Selling Price, che imponeva come base per il calcolo della aliquota tariffaria non il prezzo del bene importato, ma il prezzo, notevolmente elevato, del corrispondente bene americano. Il Congresso americano non ha tuttavia mantenuto questo impegno.
[49] Secondo le Nazioni Unite (World Economic Survey, 1963) nel 1961 il valore assoluto più elevato di aiuti fu concesso dagli Stati Uniti. Ma la percentuale più elevata di aiuti, rispetto al reddito nazionale, fu sopportata dalla Francia (1,5%); seguono il Belgio (0,73%), gli Stati Uniti (0,67%), la Gran Bretagna (0,59%), l’Olanda (0,56%), la R.F.T. (0,53%) e l’Italia (0,19%).
Per l’area orientale si calcola che il totale degli aiuti per il periodo 1955-1962 ammonti a 7,1 miliardi di dollari (di cui il 70% è fornito dall’U.R.S.S.) destinato per 4,6 miliardi all’assistenza economica e per 2,5 miliardi all’assistenza militare. Per lo stesso periodo gli Stati Uniti hanno fornito un ammontare di aiuti superiore di 3,5 volte e gli Stati Uniti insieme agli altri paesi sviluppati del blocco occidentale hanno concesso aiuti per un ammontare superiore di 5 volte a quello del blocco orientale. Cfr. W. Krause, op. cit., pp. 330-335.
[50] P. Bairoch calcola che, sulla base delle definizioni correntemente utilizzate, l’ammontare delle risorse finanziarie concesse ai paesi del Terzo mondo comprende: a) una quota di circa il 27% di investimenti e prestiti del settore privato; b) una quota del 30% per prestiti di durata superiore all’anno; c) il 12% circa di crediti all’esportazione; d) l’aiuto, cioè il dono senza richiesta di rimborso, si riduce così al rimanente 30%. Da queste cifre vanno poi sottratti gli interessi sui prestiti da rimborsare al paese donante e le spese degli esperti che in genere sono comprese negli aiuti. L’aiuto vero e proprio alla fine non risulta superiore al 20-25%. Cfr. P. Bairoch op. cit., p. 233-34.
[51] W. Krause, op. cit., p. 540.
[53] U.N.C.T.A.D., Policy Statements, op. cit.
[54] Sui risultati della Conferenza si veda H.G. Johnson, Economic Policy toward Less Developed Countries, op. cit., pp. 33-38 e Appendice B.
[55] R. Prebisch, The Significance of the Second Session of U.N.C.T.A.D., in U.N.C.T.A.D., TD/96, maggio 1968, p. 2.
[56] Per una valutazione dei risultati della seconda conferenza U.N.C.T.A.D. si veda G. Myrdal, The Challenge of World Poverty, Penguin Books, Harmondsworth, 1971, pp. 294-302; e H.G. Johnson (ed), Trade Strategy for Rich and Poor Nations, Allen and Unwin, Londra, 1971, pp. 15-20. Una terza conferenza U.N.C.T.A.D. venne tenuta a Santiago del Cile nel 1972, ma senza apprezzabili risultati.
[57] Quando non viene citata altra fonte, i dati sono tratti da «The European Community and the United States», in European Taxation, vol. 14, n. 1, gennaio 1974, pp. 20-36.
[58] Si deve però notare che la bilancia commerciale fra U.S.A. ed Europa dal 1958 al 1972 ha sempre presentato un saldo negativo per la Comunità.
[59] Per una analisi più approfondita di questo punto si veda AA.VV., Monnaie Européenne et Etat Fédéral, Fédérop, Lione, 1975.
[60] Sull’analisi del confronto monetario U.S.A.-C.E.E. si veda D. Velo, «La crise du système monétaire international et le problème de la monnaie européenne», in AA. VV., Monnaie européenne et Etat Fédéral, op. cit.; e del medesimo autore «Le dollar contre l’Europe», Le Fédéraliste, 1973.
[62] H.A.J. Coppens, «The European Community and the Developing Countries seen in Global Perspective», in Ph.P. Everts (ed.) The European Community in the World, Rotterdam University Press, 1972, pp. 137-183; in particolare pp. 142-145.
[63] I dati precedenti sono tratti da G. Zandano, «I rapporti commerciali e finanziari tra Terzo mondo e paesi avanzati», op. cit., pp. 28-29.
[64] Cfr. G. Zandano, ibidem, p. 63.
[65] G. Zandano, ibidem, pp. 77-79.
[66] I dati riportati sono tratti da M.L. Williams, The Extent and Significance of the Nationalization of Foreign-owned Assets in Developing Countries 1956-1972, Oxford Economic Papers, vol. 27, luglio 1975, pp. 260-273.
[67] G. Zandano, op. cit., pp. 30-31.
[68] Secondo l’ISCO (Congiuntura estera, n. 4, 1974) l’indice dei prezzi delle materie prime agricole si è mantenuto relativamente stabile (almeno come trend) per tutto il decennio 1961-1971, mentre l’indice dei prezzi dei minerali e dei metalli ha mostrato successive impennate nel 1964 e nel 1969. Entrambi gli indici salgono rapidamente a partire dal 1972. Una analisi degli indici sintetici delle materie prime (ISCO, Congiuntura estera, n. 7/8, 1974) conferma questa tendenza: l’indice dei prodotti alimentari è salito da 106,9 nel 1971 a 186,6 nel 1973; lo zucchero, per gli stessi anni, da 125,9 a 267; il petrolio da 114,6 a 150,5 e a 413 agli inizi del ‘74; i metalli da 119,3 a 195,8; la lana da 71,7 a 230; la gomma da 84,3 a 177,9.
[69] U.N., World Economic Survey 1973, op. cit., tab. 1-8.
[71] Tutte le informazioni precedenti sono tratte da O.E.C.D., Economic Outlook, n. 17, Parigi, luglio 1975.
[72] Discorso tenuto all’Università di Chicago il 14 novembre 1974.
[73] R. Triffin, «Crisi del petrolio e problemi monetari internazionali e comunitari», Moneta e Credito, n. 106, giugno 1974, pp. 148-161.
[74] Le informazioni qui riportate sono tratte da O.E.C.D., Energy Prospects to 1985, Parigi, 1974.
[75] «L’alternativa di $ 6 e di $ 9 è stata scelta perché si è pensato che questi due valori assicurassero un ragionevole intervallo entro il quale i prezzi effettivi del petrolio si potrebbero trovare nel 1980 e nel 1985, anche tenendo conto del loro livello attuale. Si può notare che, in termini del livello generale dei prezzi alla fine del 1974, questi due limiti corrispondono grosso modo a $ 7,20 e $ 10,80, un intervallo che comprende il prezzo medio pagato attualmente per il petrolio arabo». O.E.C.D., cit., vol. 1, p. 41.
[76] È noto che il Vertice di Roma del dicembre 1975 ha deciso che le prime elezioni europee si tengano nella primavera del 1978 e che più dell’80% della popolazione europea è favorevole all’elezione diretta del Parlamento europeo e alla creazione di un governo europeo.
[77] H.A.J. Coppens, «The European Community and the Developing Countries seen in Global Perspective», op. cit., p. 149-153.
[78] L. Levi, Movimento dei lavoratori in Europa e società multinazionali, Editrice Libera Associazione Il Federalista, Pavia, 1974.
[79] R. Richta, Rivoluzione scientifica e socialismo, Editori Riuniti, Roma, 1969.
[80] F. Rossolillo, L’Europa per che fare?, Editrice Libera Associazione Il Federalista, Pavia, 1972.