Anno XVIII, 1976, Numero 1, Pagina 1
Nota rapida e bibliografia
ragionata sulla nazione
BERNARD BARTHALAY
La nazione è un fatto borghese? La classe capitalista è, in altri termini, la nazione?[1] L’osservazione empirica permette di stabilire una identità fra classe capitalista e nazione? Se la risposta a questa domanda fosse affermativa, l’osservazione empirica dovrebbe anche constatare che la classe lavoratrice è esclusa dalla nazione. Se la risposta fosse negativa, la divisione della società in classi non spiegherebbe la nazione.
Qualora si ritenesse — risposta affermativa — che i borghesi siano i soli esponenti della nazione, occorrerebbe ricordare che i proletari sono comunque degli uomini e condividono con i borghesi questa comune umanità. Ora, l’umanità non è un fatto borghese. L’identificazione della borghesia con la nazione sposta il problema, che riceve una risposta negativa. A meno che non si configuri, di fronte ad ogni nazione-borghesia, l’esistenza di una nazione-proletariato.[2] Bisogna allora riconoscere che le nazioni-proletariato hanno in comune una stessa condizione: lo sfruttamento; ma, allora, perché parlare di nazione, quando il concetto di classe si rivela cosi adeguato? E non è comodo, conformemente all’uso, chiamare «nazione» tout court la corrispondenza biunivoca che si stabilisce fra l’insieme di queste nazioni-classi borghesi e quello di queste nazioni-classi proletarie? In verità, è facile ridicolizzare l’imbarazzo del marxismo sulla questione nazionale.[3] Ma, poiché questo saggio non ha scopi polemici, una sola cosa deve contare: prendere atto dei pericoli che comporta il ricorso incontrollato alla terminologia nazionale. In prima approssimazione possiamo affermare che la nazione non è riducibile alla classe.
Ma, prima di approfondire il problema centrale, cioè quello di definire lo status teorico del concetto di nazione, conviene indicare quale funzione assume la nazione nel discorso rivoluzionario di Marx: nella società capitalista che lui aveva sotto gli occhi, il proletariato è escluso dalla nazione che la borghesia ha fondato in modo originario; la borghesia esercita la sua dittatura sulla nazione e si appropria di tutto il surplus. È vero. Ma la democrazia rappresentativa non si era ancora aperta, con il suffragio universale, ai partiti operai ed i sindacati dei lavoratori non avevano ancora stabilito un rapporto di forza capace di mettere in discussione l’appropriazione da parte dei capitalisti del prodotto del lavoro sociale. Come riuscire a mobilitare il proletariato contro i privilegi della borghesia meglio di quanto si possa fare riassumendo in termini nazionali l’alienazione di cui è vittima? La borghesia si era appropriata della nazione. Occorreva riprendergliela. In questo contesto, la nazione diventa la posta in gioco finale della lotta di classe.
Da quando la dialettica è stata rimessa sui suoi piedi, non si può sostenere che il problema della nazione cade dal cielo. Per definire il concetto, il modo di procedere materialistico consiste, dapprima (sincronicamente), nell’identificare la base materiale concreta, poi (diacronicamente), nello spiegare la formazione, l’esistenza ed il superamento delle nazioni.
Modo di produzione e formazioni sociali concrete.
Se la riproduzione della vita sociale è il punto di vista adeguato per studiare gli uomini nella loro realtà, indipendentemente dal fattore nazionale, la storia è determinata, in ultima istanza, dal modo di produzione, che è anche modo di divisione del lavoro. Nella società si stabilisce una differenziazione dei ruoli. Poiché non esiste un ruolo unico per ogni singolo individuo, ruoli simili danno luogo a delle classi: la società è sempre divisa in classi.[4] Ma questa società astratta, anonima, questa società di classi, non è ancora una nazione. Il problema, in effetti, si complica quando si tratta di dare un nome ad una società concreta, poiché esiste una differenza considerevole fra il concetto di un insieme di uomini reali, il cui lavoro si differenzia in base ad un unico modo, in cui la vita sociale si riproduce in un modo unico, ed una società concreta, in cui si articolano più modi di produzione, dominanti e dominati, residui o in nuce. Questo insieme di modi di produzione, la formazione sociale di Marx, si divide in tante classi quante possono essere determinate dall’incrociarsi delle divisioni in classi specifiche dei modi di produzione della formazione. La formazione sociale spiega la divisione in classi concrete, come il modo di produzione spiega la divisione in classi della società astratta, dove domina incontrastato. È chiaro: se c’è divisione (in classi), preesiste logicamente un dividendo (un insieme di uomini reali) che bisogna definire in profondità ed in estensione. Bisogna allora configurare le altre due facce del modo di produzione:[5] forze di produzione e rapporti di produzione.
Quanto più si sviluppano le forze di produzione, tanto più si rafforza il predominio del modo di produzione cui corrispondono. Il modo di produzione dominante tende a comprendere tutti gli aspetti della vita sociale e la coscienza sociale tende ad approfondirsi, come coscienza diffusa di appartenenza. Quando un modo di produzione si diffonde nello spazio, l’area territoriale entro cui vengono ascritti i rapporti di produzione corrispondenti, tende ad estendersi. Un centro esporta il suo modo di produzione verso una periferia e la coscienza diffusa di appartenenza acquista in estensione. La dominanza e la propagazione del modo di produzione definiscono la base territoriale delle formazioni sociali materialmente possibili. Ma la strutturazione da parte del modo di produzione interviene solo in ultima istanza. Le formazioni sociali concrete, che non coincidono con le formazioni possibili, sono surdeterminate: economicamente, politicamente e ideologicamente.
Nei limiti di quanto è materialmente possibile, nascono, vivono e muoiono le formazioni sociali concrete che si possono designare e datare. Le formazioni sociali esistenti sono il prodotto istantaneo delle determinazioni operanti sulla vecchia base sedimentaria. Le stratificazioni successive, intervenute prima dell’industrializzazione, non hanno uno status teorico facile da definirsi. Fatti di comunicazione (lingua e cultura) rappresentano tracce lasciate dalle formazioni sociali anteriori, il mancato sviluppo di formazioni in gestazione, il fallimento di formazioni premature o il superamento di formazioni consolidate. Al di là di queste generalità, si cade nell’analisi storica concreta. Ma si esce dal contesto di questa nota. Teniamo presente soltanto, per ora, l’esistenza di fatti linguistici e culturali «nazionali», anteriori all’industrializzazione, a cui si sovrappone, in condizioni da definire, un fatto nazionale moderno, contemporaneo all’industrializzazione. Dedichiamoci piuttosto al problema della gestazione delle formazioni sociali esistenti, intese come base materiale del fatto nazionale moderno.
Mercati di dimensione nazionale e mercato mondiale.
L’artigianato produceva per il mercato locale; l’industria per un mercato più vasto che tendeva a coincidere, del tutto naturalmente, con le unità politiche derivanti dalla centralizzazione monarchica. Sarebbe interessante esaminare la storia della tecnica per misurare quali ripercussioni il fatto che le innovazioni fossero condizionate al centro dalla grande isola britannica ha potuto avere sulla dimensione-tipo delle formazioni sociali europee quando l’industrializzazione si è diffusa sul Continente. Ma un mercato mondiale (con una moneta naturale, l’oro) è sempre esistito, limitato prima al Vecchio Mondo, poi esteso, all’alba dell’epoca moderna, al Nuovo Mondo. Delle merci vi erano scambiate come sui mercati di dimensione nazionale. Che cosa distingue, allora, i mercati industriali nazionali dal mercato mondiale? Tipicamente, due caratteristiche: i primi sono anche mercati della forza-lavoro e l’emissione di moneta (biglietti e depositi) vi diventa una decisione del potere politico. Grosso modo, si può, dire che in Europa i mercati nazionali di dimensione-tipo, rafforzati dagli sbocchi coloniali, sono stati sufficienti fino alla Grande crisi. È logico che il primo mercato nazionale a scoppiare sia stato il mercato tedesco. Il capitalismo tedesco era il più dinamico d’Europa, anche il più colpito dalla crisi, ma privo di colonie. Il Lebensraum ed il New Deal sono due facce della stessa medaglia: la creazione da parte del potere politico di sbocchi interni per una produzione di massa.
Dopo la Seconda guerra mondiale e la ricostruzione, i mercati nazionali di dimensione-tipo sono scoppiati di nuovo sotto la duplice pressione della crescita accelerata delle economie europee e del bisogno americano di liberalizzazione degli scambi. Il Mercato comune non è che una tappa verso il mercato mondiale, poiché sta per diventare, a sua volta, un mercato nazionale (libertà di circolazione e unione monetaria), il che mette in crisi le formazioni sociali esistenti (approfondimento delle contraddizioni in seno alla classe dominante, carenza di possibilità di espressione politica e sindacale degli interessi della classe operaia) e gli Stati stessi.
Stati territoriali sovrani e sistemi di Stati.
A proposito dello Stato, si impone una prima constatazione: se non si riconoscesse alla sfera politica una autonomia relativa rispetto alla determinazione operata, in ultima istanza, dal modo di produzione, non si capirebbe nulla della genesi storica delle formazioni sociali esistenti. Se lo Stato fosse solo uno strumento nelle mani della classe dominante e se il potere politico stesso dovesse essere definito in termini di classe sociale,[6] le formazioni sociali concrete avrebbero ogni possibilità di estendersi meccanicamente ai limiti della formazione sociale materialmente possibile. Del resto, riconoscere l’autonomia relativa della sfera politica, pur definendo la politica in termini di classe, fa cadere in contraddizione chi lo fa. Le classi sociali discendono dal materialismo storico; se la politica fosse solo una forma della lotta di classe, essa sarebbe totalmente determinata dal modo di produzione, inteso come modo di divisione del lavoro sociale, e si perderebbe l’autonomia relativa. Per conservarla, non c’è che una soluzione: far scomparire dalla definizione qualsiasi riferimento alla produzione-riproduzione della vita sociale; in questo modo la politica diventa la lotta intorno al potere per il potere[7] e l’insieme degli individui che ne fanno la loro attività principale, diventa la classe politica.[8] Le classi sociali assumono, allora, per la teoria della politica lo status di strati di formazione della classe politica:[9] la determinazione, in ultima istanza, viene conservata, ma è salvaguardata l’autonomia relativa.
Il potere decisivo è il potere dello Stato (da distinguere dai poteri dei partiti, degli enti locali, ecc.). Il riconoscimento dell’autonomia relativa della sfera politica porta a riconoscere allo Stato una causa autonoma: la mediazione degli interessi di classe[10] e anche degli interessi strettamente economici, in particolare sul mercato della forza-lavoro, come in materia monetaria, di regolamentazione e di calcolo. Tutti gli interessi sono operanti in questa mediazione, anche se alcuni sono più forti di altri. E sono proprio i più deboli che hanno bisogno dello Stato per farsi valere. Lo Stato non elimina la dominazione sociale. Ma non ne discende che lo Stato non sia niente altro che una pura e semplice conseguenza di questa dominazione. Se lo Stato è in crisi, la dominazione sociale diventa più forte e la violenza riappare nella vita pubblica. Il fatto è che lo Stato non è solo un fattore della riproduzione sociale, solo titolo a cui esso interessa il materialismo storico; esso risponde anche a bisogni primari, vitali di tutti (ordine pubblico, giustizia, salute, difesa…). Il fatto è che lo Stato costituisce un freno, un moderatore della dominazione sociale, così come risulta obiettivamente dai rapporti di produzione.
Il riconoscimento dell’autonomia relativa della sfera politica porta ancora a riconoscere allo Stato fra gli Stati un comportamento la cui logica sfugge alla determinazione esercitata in ultima istanza dal modo di produzione: aumentare la propria potenza, facendo diminuire quella degli altri Stati.[11] È il criterio della ragion di Stato, la cui accettazione comporta per l’analisi almeno due conseguenze:
1) la frazione della classe politica che esercita il potere statale, lo conserva fino a che agisce conformemente all’interesse obiettivo della formazione sociale che essa governa, o fino a che essa riesce a far accettare, in nome della ragion di Stato (ideologicamente) una politica che se ne discosti;
2) il funzionamento dei sistemi degli Stati obbedisce a delle costanti che orientano il comportamento di ciascuno degli Stati che ne fanno parte; all’interno di questi sistemi, la politica estera di ogni Stato e l’evoluzione dell’apparato statale, lungi dall’essere (sovra)-determinate dalla lotta interna intorno al potere statale, dipendono, in misura decisiva, da rapporti di potenza che si stabiliscono fra gli Stati che fanno parte del sistema e dalla posizione che ogni Stato assume in questo equilibrio. A tutto ciò conviene aggiungere che l’equilibrio può essere rotto o ristabilito (su scala più vasta) dall’egemonia di uno Stato su altri Stati, le cui ragioni di Stato tendono allora a convergere.
Così (per ritornare, al di là di considerazioni di ordine generale, alle formazioni sociali concrete), nel sistema europeo degli Stati, la Germania e l’Italia (sulla base di un mercato di dimensioni-tipo, il caso tedesco è particolarmente chiaro con lo Zollverein) sono nate dalla convergenza intorno alla Prussia ed al Piemonte delle ragioni di Stato di altri Stati regionali, alla mercé della duplice egemonia austriaca e francese.
Che lo Stato preceda o segua (cronologicamente) il mercato nel processo di costituzione di una formazione sociale non interessa ancora il fatto nazionale moderno. In effetti, la nazione compare solo con lo Stato, dapprima per una minoranza nel processo di unificazione, ma segue sempre come fatto maggioritario tendenzialmente unanimitario.
Che cosa è la nazione?
Da che cosa deriva, quindi, la nazione, in definitiva? Di che cosa si parla quando oggi si dice nazione, nazionale, nazionalità, nazionalista? Consultiamo, per esempio, il Petit Robert: «1° – Gruppo di uomini, cui si attribuisce un’origine comune… V. Razza / 2° – Gruppo umano, generalmente molto ampio, caratterizzato dalla consapevolezza della sua unità e dalla volontà di vivere in comune… V. Popolo /3° – Gruppo umano formante una comunità politica, stabilita su un territorio definito o su un insieme di territori definiti e personificata in una autorità sovrana. V. Stato, paese, potenza… / 4° – Insieme degli individui che compongono questo gruppo…».
Sarebbe una pura perdita di tempo soffermarsi a lungo a dimostrare la falsità dell’identificazione della nazione con la razza nella prima accezione. Basti ricordare che: 1) nella misura in cui si possono isolare grossolanamente dei gruppi umani con caratteristiche fisiche esteriori comuni, si trova che questi gruppi non coincidono affatto con le nazioni moderne; 2) è impossibile delimitare gruppi razziali dal punto di vista genetico; 3) è stabilito scientificamente che non esiste nell’uomo alcun rapporto costante tra le caratteristiche fisiologiche e quelle psicologiche.[12]
La seconda accezione pretende di trovare il fondamento della nazione nella volontà di vivere in comune. È il «plebiscito di ogni giorno» di Renan. In proposito occorre osservare che questa idea non ci consente di fare nessun passo avanti fino a che non si spiega «come» si vive in comune e su che cosa si fonda la «consapevolezza» dell’unità del gruppo. Precisare questo «come» e la base materiale dell’unità nazionale significa dover di nuovo definire la nazione. Questa accezione ci lascia, quindi, al punto di partenza.
Lo stesso vale — 3a e 4a accezione — per il territorio e per lo Stato (qualunque Stato). In Europa i territori degli Stati hanno assunto, con l’industrializzazione, la dimensione-tipo delle nazioni europee moderne, ma, nel corso della storia, i territori sono continuamente mutati in base alle politiche di potenza, fino a raggiungere la loro configurazione attuale. Le guerre, le conquiste, i trattati, i matrimoni, che hanno impresso loro questo aspetto, non furono certamente dettati da esigenze nazionali, ma dal gioco degli interessi dinastici delle monarchie, dalle necessità politiche e strategiche.
Se la razza, la volontà di vivere in comune, il territorio, ecc., non spiegano la nazione, se queste non sono rappresentazioni teoricamente adeguate, la nazione rimane purtuttavia una realtà, pensata attraverso quei simboli che la deformano.
La realtà nazionale.
In che cosa consiste questa realtà? Un esempio sarà sufficiente: un turista si ferma davanti alla cattedrale di Reims ed esclama: «Come è bella la Francia!». È ovvio che questa meraviglia architettonica non è un esempio dello stile francese, che non esiste, ma dello stile gotico fiorito. Tuttavia, al giudizio estetico si sovrappone un’altra motivazione: l’appartenenza (o, almeno, il riferimento) alla Francia. La nazione è, quindi, in prima approssimazione: 1) la sovrapposizione del riferimento all’identità di un gruppo umano alla motivazione specifica della maggioranza dei comportamenti, in quasi tutti i settori dell’attività umana; 2) il gruppo indotto da questo riferimento comune.
Basta questa constatazione per mettere in evidenza che le nazioni non esistevano prima dell’industrializzazione. I rapporti di produzione erano lungi dall’avere, persino per l’infima minoranza che accedeva al mercato mondiale, le dimensioni-tipo delle nazioni europee moderne. La vita sociale si riproduceva quasi esclusivamente nel quadro delle piccole unità territoriali. Pensare all’esistenza, anche solo virtuale, delle nazioni a partire da questo periodo, significa non tenere conto della divisione operata fra i sudditi di uno stesso Principe, delle barriere territoriali, praticamente invalicabili e della loro impossibilità di assumere, in qualche modo, la consapevolezza, anche se embrionale, di un’unità che non esisteva.
Ancora una volta, è l’industrializzazione che ha fatto cadere queste barriere. Prima la propagazione a partire dai centri, poi la dominazione del nuovo modo di produzione, si sono inscritte nella dimensione-tipo delle nazioni attuali e con esse gli aspetti economici, politici, giuridici… dell’attività umana. In conseguenza di ciò, la maggioranza dei comportamenti sono stati congiunti, nella coscienza sociale, all’identità del gruppo indotto dal riferimento comune a questa dimensione.
Ma, fino ad oggi, appare chiaramente solo la base materiale delle nazioni, che è anche quella della dimensione-tipo dei mercati industriali e degli Stati territoriali moderni. Ciò di cui si parla nel linguaggio nazionale è il luogo in cui non solo i comportamenti economici, politici, giuridici…, ma anche la coscienza di appartenenza, il senso intimo dell’identità e dell’affinità di gruppo, fanno riferimento a uno Stato.
La fusione ideologica dello Stato e della nazione.
Questa situazione era nuova, poiché la coestensività antica del quadro del potere politico e della formazione sociale era cancellata dalla memoria collettiva. Il modo di produzione feudale aveva sostituito il primato dell’ideologico (con il riferimento diffuso al quadro sovrannazionale della Cristianità) all’antico primato del politico. La propagazione-dominanza del modo di produzione capitalistico restaura questa estensività e reintroduce nell’uso il linguaggio patriottico caratteristico dei fatti «nazionali» greco ed ebraico: altare della patria, sacre frontiere, martiri della patria, come se ogni nazione fosse una divinità.
Esiste, tuttavia, una enorme differenza fra i fatti «nazionali» greco ed ebraico e tutti quelli che costellano la storia del feudalesimo (esiste, così, nel XII secolo un fatto «nazionale» occitano che verifica, del resto, ciò che la Grecia antica aveva già mostrato: i fatti nazionali, portatori di valori universali, non sono fatti di classe).
Data la loro limitata dimensione o il loro funzionamento territoriale (feudale e urbano) che favorivano localmente intensi e frequenti rapporti personali fra i membri del gruppo, i fatti «nazionali» pre-industriali comparivano e si mantenevano senza l’aiuto di un potere politico sovrano. Questa nazionalità era spontanea.[13] Le nazioni moderne, la cui dimensione-tipo non consente più questi rapporti personali intensi e frequenti, sono tuttavia il luogo in cui nasce un sentimento di identità. Che cosa è accaduto? In realtà l’Europa, le nazioni moderne sono il risultato dell’estensione artificiale e forzata, da parte dello Stato, a tutti i cittadini della lingua di una nazionalità spontanea preesistente sul suo territorio (la lingua franca in Francia, il toscano in Italia, il castigliano in Spagna, ecc.), intesa come veicolo per uniformare i costumi.
Per giungere ad una definizione soddisfacente della nazione e dello Stato nazionale, bisogna rispondere ancora a due domande:
1) perché questa funzione dello Stato e dei comportamenti nazionali è avvenuta sul Continente e non in Gran Bretagna? Il fatto è che in Gran Bretagna fanno riferimento allo Stato i comportamenti economici, politici, giuridici, ecc., ma non il senso dell’identità e dell’affinità di gruppo. Il fatto è che, malgrado l’esistenza di un comune attaccamento alla comunità politica britannica, gli Scozzesi, i Gallesi e gli Inglesi hanno la sensazione di appartenere a nazioni distinte.[14] Il fatto è che essi tengono ancora distinta (imperfettamente) la nazione dallo Stato. Perché le nazioni moderne si sono formate solo sul Continente, ma non in Gran Bretagna?
Il sistema europeo degli Stati ha obbligato gli Stati del Continente alla centralizzazione, mentre l’insularità politica ha preservato a lungo la Gran Bretagna da questa tendenza.[15] E lo Stato centralizzato non poteva resistere senza creare l’idea di un gruppo tanto omogeneo, per cui il potere era concentrato. Del resto, aveva i mezzi per farlo: la scuola pubblica, la coscrizione militare obbligatoria, le grandi cerimonie pubbliche, l’amministrazione, la tutela prefettizia imposta a tutta la popolazione, indipendentemente da qualunque diversità. La base politica delle nazioni moderne è, quindi, costituita dallo Stato burocratico accentrato;
2) perché questo Stato è pensato per mezzo dei simboli deformanti dell’idea di nazione e non attraverso l’idea, corrispondente alla realtà obiettiva, di un certo tipo di comunità politica? Perché qualunque situazione di potere è pensata dagli individui che la subiscono non attraverso rappresentazioni conformi alla realtà, fila attraverso rappresentazioni automistificatrici: le ideologie.
Lo Stato burocratico accentrato, protagonista di guerre senza precedenti nella storia del genere umano, ha generato non solo una forte comunità di interessi, ma anche una situazione militare che ha stretto nella sua morsa tutti i cittadini in tempo di pace, inculcando in massa il dovere di uccidere ed il rischio di morire, non per la difesa delle libertà pubbliche o delle conquiste sociali, ma per il gruppo, pensato come entità trascendente; questa osservazione è sufficiente per comprendere come lo Stato dovesse travestirsi da nazione, accreditando l’idea falsa di una comunità naturale, sacra, eterna,…
Allora, si può dire:
1) che la nazione è l’ideologia dello Stato burocratico accentrato;[16]
2) che, poiché lo Stato non è un semplice strumento nelle mani della classe (o delle classi) dominante, la nazione non è un fatto borghese;
3) che le formazioni sociali europee sono in crisi perché la propagazione-dominazione del modo di produzione capitalistico ha esteso molto al di là delle loro frontiere territoriali la base materiale della formazione sociale possibile;
4) che il mercato, approfittando della convergenza delle ragioni di Stato nazionali sotto l’egemonia politica e militare dell’America, ha incominciato ad assumere queste dimensioni più vaste;
5) che la contraddizione fra il mercato europeo e gli Stati nazionali, che perpetuano il confinamento delle lotte politiche all’interno delle nazioni e la divisione dei lavoratori all’interno della formazione sociale europea in gestazione, è la forma storica attuale di sviluppo delle contraddizioni del capitalismo. È questa che bisogna sfruttare per indebolire l’imperialismo.
Il problema teorico.
Queste conclusioni pongono prima un problema teorico: quello di scoprire i limiti della logica autonoma del mercato e dello Stato, pur tenendo presente, evidentemente, che il modo di produzione determina, in ultima istanza, la storia. In altri termini, si tratta di spiegare in quale modo la logica del mercato e quella dello Stato si articolano all’interno di un ambito circoscritto da questa determinazione strutturale. In questo contesto sembra necessario un duplice confronto fra:
1) la teoria dei prezzi relativi e della distribuzione del reddito, alla luce del dibattito aperto dal libro di Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci, e
2) da una parte la teoria della ragion di Stato e, dall’altra, il materialismo storico, il cui punto di vista può essere riassunto, a costo di qualche semplificazione, per quanto riguarda l’istanza economica, nell’idea che la determinazione del valore per mezzo del tempo di lavoro rappresenta l’anello di congiunzione fra l’analisi della divisione del lavoro, nel modo di produzione capitalistico, e l’analisi della distribuzione del reddito e, per quanto riguarda l’istanza politica, alla tesi del carattere sovrastrutturale dello Stato rispetto alla base economica.
Se il valore-lavoro non assume nessun ruolo in una teoria coerente dei prezzi relativi e della distribuzione del reddito[17] e se si riconosce l’importanza storica incontestabile della ragion di Stato, resta tutta da risolvere un enorme problema, quello della definizione, in termini storicamente convincenti ed euristicamente efficaci, dell’autonomia relativa delle istanze economica e politica rispetto al modo di produzione.
Fino a che non sarà chiarito questo punto, il problema del mercato mondiale e lo studio del processo (dialettico) di propagazione del modo di produzione capitalistico, analiticamente dissociabili, rimarranno mischiati o confusi (e non articolati dialetticamente) in una comune dimenticanza del sistema degli Stati e della logica autonoma del suo funzionamento, il che porta, in definitiva, a concepire lo spazio mondiale come uno spazio (astratto) polarizzato e non a passare la dialettica centro-periferia al vaglio di uno spazio (concreto) strutturato in formazioni sociali, che si formano e si dissolvono.
Il problema politico.
In questo modo viene posto il problema politico[18] del superamento delle nazioni: la distruzione della sovranità esclusiva degli Stati nazionali e la fondazione di uno Stato europeo hanno, senza alcun dubbio, un carattere costituente, storicamente istantaneo. La lotta di classe, di per sé sola, mantiene in piedi i poteri stabiliti (nazionali) perché si vince e si perde, si avanza e si retrocede concretamente solo rispetto ai poteri che possono decidere a vantaggio di questo o quel gruppo. Anche se, per ipotesi, essa potesse modificare (non sempre nel senso desiderato) il regime di questi poteri, si tratterebbe di una strategia nazionale, quindi (oggettivamente) conservatrice rispetto ai poteri stabiliti. Se si tratta di distruggere l’assetto del potere per creare un potere nuovo in un quadro nuovo, la sola base sociale adeguata è costituita dai bisogni primari di cui ho parlato. La mobilitazione unitaria di questi bisogni è la sola forza che possa abbattere i poteri nazionali esclusivi e creare un potere europeo. Questa mobilitazione può avere solo un carattere esplosivo, istantaneo, fuggevole, sulla base dell’iniziativa di una avanguardia rivoluzionaria che riuscirà a penetrare nella roccaforte del potere nazionale per attuare un colpo di mano: l’elezione europea.
Questo non significa mettere in disparte la lotta di classe. Sarebbe come dire, per esempio, che il Consiglio nazionale della Resistenza, in quanto strumento per ristabilire la repubblica, avesse instaurato la collaborazione di classe. In realtà, la Liberazione ha permesso alla lotta di classe di esprimersi, nel quadro repubblicano, con maggior vigore.
La cosa importante è la distinzione fra i compiti politici normali ed i compiti costituzionali, ancora più chiara se si tratta della fondazione di uno Stato nuovo su un territorio nuovo. Per quanto riguarda l’obiezione frequente che un’unità popolare senza discriminazione (convergenza degli interessi reali, sproporzionati, ma tutti operanti) avrebbe come effetto la fondazione di uno Stato europeo dominato dal capitale, non si tratta di una obiezione seria. Per l’umanità, più del risultato immediato, ciò che conta è il modo di costruzione dell’Europa. Quanto più forte ed esplicito sarà il carattere costituente dell’operazione, tanto maggior vantaggio deriverà all’umanità per le sue lotte future. Credere che spetterà ai protagonisti visibili della fondazione dello Stato europeo decidere la sua forma, la sua costituzione, il suo sviluppo storico, vuol dire credere che sono le decisioni degli individui e dei gruppi politici e non il modo di produzione a decidere in ultima istanza quale è il tipo di Stato possibile. Lo Stato europeo sarà semplicemente il risultato dei rapporti di forza nel mondo (più equilibrati, quindi, meno bellicosi) e dei rapporti sociali interni (migliore soddisfacimento dei bisogni primari, quindi, migliore mediazione degli interessi). Tutto il resto è solo infantilismo.
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[1] Cf. Pierre Dockes, La structure du marché mondial et la dialectique du développement capitaliste, Cahier n. 3 du Centre A.E.H., pp. 106-107.
[2] Questa concezione sembrerebbe riecheggiare quella di Boulainvilliers della coesistenza di «due nazioni» diverse sullo stesso territorio. Nel suo saggio «Pour un emploi contrôlé de la terminologie nationale et supranationale», Le Fédéraliste, V, 3, novembre 1963, Albertini rileva che la «distensione», come si direbbe oggi, seguita al Congresso di Vienna, fece perdere alla borghesia la convinzione di far parte della stessa nazione insieme al popolo. In Du gouvernement de la France depuis la Restauration (1820), Guizot affermava che la Rivoluzione francese era stata una vera e propria guerra fra «due popoli stranieri», i Franchi e i Galli, che erano ancora, secondo lui, «due razze distinte». Nello stesso periodo, Augustin Thierry scriveva: «Noi crediamo di essere una nazione e siamo due nazioni sulla stessa terra, due nazioni nemiche nei ricordi, inconciliabili nei progetti: un tempo una ha conquistato l’altra ed i suoi disegni, i suoi voti eterni, riguardano il rinverdimento di questa vecchia conquista, privata di valore dal tempo, dal coraggio dei vinti e dalla ragione umana». Citato da R. Johannet Le principe des nationalités, Parigi, 1923, pp. 132-133.
[3] Ci si può rallegrare del fatto che i marxisti finalmente incominciano a fare il punto sulla questione nazionale, senza nascondere le difficoltà e gli ostacoli. Il lavoro di Georges Haupt, Michael Lowy e Claudie Weill, Les marxistes et la question nationale (1848-1914), Parigi, 1974, è emblematico a questo proposito, anche se non risolutivo, in quanto lascia alla storia il compito di «risolvere la questione» (Lowy, p. 390). Si segnala anche «l’effort d’organisation de la critique matérialiste de l’idéologie nationale» fornito da La Taupe Bretonne (Cf. L’opera di Jean-Yves Guiomar, L’ldéologie nationale – Nation, Représentation, Propriété, Parigi, 1974).
[4] Bisogna sottolineare che la divisione in classi è indotta dal modo di produzione, non dalla differenziazione dei ruoli da un punto di vista esclusivamente economico. Il processo di produzione sociale comporta una propria differenziazione che fornisce, in seconda istanza, la base per la divisione fondamentale della società in classi e riunisce i gruppi economici senza confondersi con loro. Cf. André Nicolai, Comportement économique et structures sociales, pp. 56-65 e 97-114.
[6] Come fa, per esempio, N. Poulantzas (Pouvoir politique et classes sociales, I, p. 107) che definisce il potere come «la capacità di una classe sociale di realizzare i suoi interessi obiettivi specifici».
[7] «La politica è la ricerca del potere per se stesso» (Mario Albertini, «La politica», in La politica e altri saggi, Milano, 1963).
[8] Concetto che non è dovuto a Michels, come afferma N. Poulantzas, ma a Gaetano Mosca (Cf. Elementi di scienza politica, prima edizione 1896, seconda edizione 1923).
[9] Questa idea è dovuta a quello fra i liberali italiani che può essere considerato più autenticamente di sinistra, Piero Gobetti (a questo proposito, la testimonianza di Giorgio Amendola, Lettere a Milano, 1939-1945, Roma, p. 752 è più che eloquente: «Vedere la causa delle libertà democratiche connessa con quella del socialismo, vedere nel proletariato la classe che conduce le battaglie liberali, ha significato per Piero Gobetti e per quei liberali che l’hanno seguito su questa nuova strada, una spinta per procedere a tutta una riclassificazione dei valori politici»): «La dottrina della classe politica, accuratamente elaborata da Gaetano Mosca e da Vilfredo Pareto avrebbe potuto illuminare i significati della lotta nel campo sociale se fosse stata connessa più direttamente con le condizioni della vita pubblica e con il contrasto storico dei vari ceti. Il concetto di un’élite che si impone sfruttando una rete di interessi e condizioni psicologiche generali contro vecchi dirigenti che hanno esaurito la loro funzione, è schiettamente liberale come quello che scopre nel conflitto sociale la prevalenza degli elementi autonomi e delle energie reali, rinunciando all’inerzia di quelle ideologie che si accontentano di aver fiducia in una serie di entità metafisiche, come la giustizia, il diritto naturale, la fratellanza dei popoli. Il processo di genesi dell’élite è nettamente democratico: il popolo, anzi le varie classi, offrono nelle aristocrazie che le rappresentano la misura della loro forza e della loro originalità. Lo Stato che ne deriva non è tirannico e vi hanno contribuito i liberi sforzi dei cittadini, divenuti per l’occasione, combattenti. Il regime parlamentare, nonché contrastare a questa legge storica della successione dei ceti e delle minoranze dominanti, non è che lo strumento più squisito per lo sfruttamento di tutte le energie partecipanti e per la scelta pronta dei più adatti». (La rivoluzione liberale, Einaudi, Torino, 1964, p. 49). Le sottolineature in Amendola e in Gobetti sono nostre.
[10] «Lo Stato, che garantisce l’unità e la coesione di una formazione sociale divisa in classi, concentra e sintetizza le contraddizioni di classe della formazione sociale nel suo complesso, consacrando e legittimando gli interessi delle classi e frazioni dominanti nei confronti delle altre classi di tale formazione e facendosi contemporaneamente carico delle contraddizioni di classe mondiali». Nikos Poulantzas, (Les classes sociales dans le capitalisme aujourd’hui, 1974, p. 85; trad. it.: Classi sociali e capitalismo oggi, Etas Libri, Milano, 1975) riconosce allo Stato questa causa autonoma, ma la sua definizione del potere in termini di classe gli nasconde la causa reale dell’unilateralità di questa consacrazione-legittimazione a vantaggio della classe dominante (socialmente). Lo Stato è il risultato di rapporti di forza interni ed esterni (divisione del mondo in zone di influenza presa per una contraddizione di classe). Le potenze dominanti utilizzeranno tutti mezzi a loro disposizione per impedire una rottura dello status quo mondiale. Senza ciò, ci sarebbe alternanza e lo Stato rappresentativo, senza eliminare la dominazione sociale, consacrerebbe e legittimerebbe gli interessi delle classi (dominanti e dominata), da cui fosse uscita la frazione della classe politica al potere.
[11] Rinvio, su questo punto, alla voce «Ragion di Stato» di Sergio Pistone, nella Enciclopedia U.T.E.T., Torino.
[12] Sui pericoli insiti nel concetto di razza in antropologia e in genetica, è utile la lettura del saggio di F. Rossolillo «Les races n’existent pas», Le Fédéraliste, IX, 1, giugno 1967.
[13] In Francia spetta a Robert Lafont il merito di aver costruito una tipologia convincente ed efficace del fatto nazionale. Cf., per esempio, Sur la France, da p. 39 a p. 78.
[14] Al contrario è la Francia, non l’Occitania, che partecipa al Torneo delle cinque nazioni!
[15] È ciò che aveva già constatato A. Hamilton, il geniale esegeta della Costituzione americana (Hamilton, Jay & Madison, The Federatist, n. VIII).
[16] Questo risultato di un lavoro di Mario Albertini (Lo Stato nazionale, Milano, 1960) è diventato patrimonio comune dei federalisti europei.
[17] In questo senso, cf. Fernando Vianello, «Plusvalore e profitto nell’analisi di Marx», in Prezzi relativi e distribuzione del reddito, a cura di Paolo Sylos Labini e Pierre Mifsud, quaderno n. 3 del centro A.E.H., p. 54.
[18] È rischioso cercare di porre correttamente questo problema allo stato attuale delle scienze storico-sociali. La ricerca di una soluzione è ancora più incerta. Ma la posta in gioco è tale che è meglio sbagliare, provocare una discussione, piuttosto che tacere.