Anno XIX, 1977, Numero 3, Pagina 171
La riforma della scuola italiana
in una prospettiva europea*
M. MAJOCCHI - M. RAMPAZI
1. L’elezione europea e le sue conseguenze sulla riforma della scuola.
Tutti i progetti di riforma dell’ordinamento della scuola secondaria superiore hanno l’innegabile merito di aver approfondito il problema della ridefinizione dei contenuti e della nuova impostazione metodologica e di aver prospettato soluzioni strutturali più rispondenti alle esigenze emerse in seno alla scuola stessa, ma non tengono sufficientemente in conto il fatto che gli alunni che da questa scuola riformata usciranno a metà degli anni ‘80 troveranno innanzi a sé una realtà che potrà presentarsi profondamente trasformata. Il fatto che è in grado di determinare la svolta decisiva è rappresentato dalle prime elezioni del Parlamento europeo a suffragio universale diretto, che avranno luogo nel maggio-giugno 1978.
Se l’elezione europea è collocata nel contesto della decisione di arrivare all’Unione europea nel 1980 (Vertice di Parigi, 1972) e nella prospettiva dell’Unione economica e monetaria (Vertice dell’Aja, 1969), è chiaro che essa non significherà solo eleggere un organismo sostanzialmente privo di potere, ma indubbiamente potrà innescare un processo che, come ha affermato Willy Brandt al Congresso dell’Europa (Bruxelles, 1976), può fare del Parlamento europeo una Costituente permanente. L’elezione europea potrà segnare dunque il primo atto costituzionale formale di un processo di rifondazione della società e dello Stato che è auspicabile possa sfociare nella costruzione di uno Stato federale europeo.
Questo significa che si apre dinanzi a noi un bivio di fronte al quale dovremo operare una scelta che sarà contemporaneamente una opzione di Stato e di società: o l’Italia conserva la sovranità nazionale esclusiva, o si avvia a diventare uno Stato membro della Federazione europea.
Poiché chi si pone il problema della scuola deve porsi anche quello del tipo di società e di Stato in cui questa struttura va collocata, è indispensabile che fin da ora si incominci a riflettere sul significato che avrà la scelta dell’una o dell’altra alternativa: una cosa è pensare alla scuola inserita nello Stato e nella società italiana di oggi, altra cosa è pensare alla scuola italiana inserita in un quadro istituzionale, economico e sociale europeo. È evidente, ad esempio, come, dalla seconda prospettiva, si impongano talune domande che, dalla prima prospettiva, risultano addirittura prive di senso. Due sono sostanzialmente gli ordini di problemi, già oggi visualizzabili, che l’avvio del processo di unificazione europea porrà alla scuola: 1) come dovranno essere coordinati fra di loro sistemi scolastici così diversificati come quelli europei attuali; come sarà risolubile, in particolare, il dilemma fra conservazione o abolizione del monopolio, di fatto, della scuola da parte dello Stato, che si porrà senz’altro sia per la presenza della Gran Bretagna, dove la scuola non è centralizzata e non esiste il valore legale del titolo di studio, sia per l’esigenza di rispettare il principio del pluralismo, anche in materia scolastica, fra gli Stati membri dell’Unione europea; 2) quale modello educativo emergerà in conseguenza delle trasformazioni economiche e sociali che l’Unione europea potrà produrre; come, in particolare, si porrà la questione del rapporto fra scuola e mercato del lavoro.
Tutti questi problemi possono essere meglio compresi se si valutano le implicazioni che le due alternative, intese nelle loro componenti istituzionali ed economico-sociali, hanno sulla scuola.
2. La scelta di Stato.
Se si pensa all’Italia come ad uno Stato nazionale esclusivo, si è indotti a non mettere in discussione il principio del monopolio della scuola, detenuto di fatto dallo Stato, e quello, ad esso strettamente connesso, del riconoscimento del valore legale del titolo di studio, che costituisce lo strumento fondamentale posto a garanzia di questo monopolio.
Se il contesto cui ci si riferisce è, invece, quello di uno Stato membro di un’Unione, pluralistica e multinazionale, si deve prevedere che si porrà senz’altro il problema di ridefinire le modalità di controllo sulla scuola. In altri termini, nella Federazione europea diventa aberrante pensare ad una istituzione educativa unica, centralizzata, che prescriva uniformità di contenuti al fine di garantire valore legale al titolo di studio, senza rispettare le diversità, negando e sopraffacendo le peculiarità delle singole tradizioni culturali. D’altro lato, è anche difficile pensare alla conservazione del monopolio della scuola da parte dei singoli Stati membri e ad una serie di istituzioni scolastiche nazionali centralizzate, simili a quelle esistenti oggi, per due ragioni: 1) si porrebbe nuovamente il problema del coordinamento fra titoli di studio rilasciati da differenti ordinamenti scolastici, il che porterebbe, al limite, alla necessità di creare un organismo di coordinamento che, di fatto, diventerebbe una sorta di super-Ministero dell’istruzione europeo, contraddittorio con il principio del pluralismo e con l’esistenza nello Stato federale di un popolo plurinazionale; 2) in una struttura statuale basata sull’autonomia delle comunità locali, quale quella federale, fortissime sarebbero le spinte per la realizzazione di quella struttura scolastica affidata alle comunità, partecipativa e democratica, che oggi non è attuabile, anche se ne è avvertita l’esigenza. Finché la scuola rimane monopolio dello Stato, si può pensare, tutt’al più, a forme di decentramento di alcune competenze secondarie, mentre è una contraddizione in termini ritenere di poter realizzare forme effettive di controllo sui contenuti a livello locale.
L’impossibilità di perpetuare, nel contesto europeo, il monopolio della scuola da parte del potere centrale significa anche, inevitabilmente, l’eliminazione del valore legale del titolo di studio. Questo fatto avrà un’importanza decisiva in quanto porrà le premesse necessarie perché si possano superare le contraddizioni in cui ci si dibatte oggi quando ci si pone il problema della flessibilità delle strutture scolastiche e dei contenuti.
Il principio della uniformità dei contenuti e la centralizzazione di ogni direttiva qualificante in materia scolastica, a tale principio strettamente collegata, sono due cardini sui quali si regge ancora oggi la scuola dello Stato nazionale. Se questo è vero e se chi si pone l’obiettivo di progettare una riforma dell’ordinamento scolastico rimane in un’ottica di conservazione dello Stato nazionale, non si vede la possibilità di conciliare da un lato la necessità di uniformità, legata al riconoscimento del valore legale del titolo di studio, con le proposte di flessibilità dei curricula, di insegnamento personalizzato, di vasta sperimentazione, e dall’altro il principio di accentramento delle decisioni con una qualsiasi forma di partecipazione di tutte le componenti della società al momento educativo e con l’esigenza del controllo democratico per una effettiva gestione sociale della scuola.
Se la scelta che si farà per la scuoia nel quadro europeo sarà tale da abolire ogni forma di monopolio, sia a livello centrale, sia a livello di Stati membri, tutte queste contraddizioni potranno essere, di fatto, superate. Dalla possibilità di eliminare la strozzatura costituita dal valore legale del titolo di studio, consegue che il principio della uniformità non rappresenta più un criterio al quale non si possa rinunciare. Rimosso questo impedimento, diventa veramente attuabile una struttura scolastica flessibile ed aperta alla sperimentazione, che può perseguire l’obiettivo di favorire il pieno sviluppo della personalità e delle potenzialità di ogni individuo.
3. La scelta di società.
La capacità di dare al sistema scolastico una struttura destinata a durare nel tempo ed a soddisfare le istanze educative delle prossime generazioni dipende dalla possibilità di prevedere quali saranno, a breve, medio e lungo termine, le linee tendenziali di evoluzione della società e dell’economia europea, legate all’una o all’altra opzione istituzionale. Per questo, per valutare correttamente in quali termini si porrà il problema del modello educativo cui dovrà adeguarsi la scuola in Europa e, in particolare, del rapporto che si creerà fra scuola e mercato del lavoro, è opportuno riflettere su: a) quali saranno, a breve termine, le modificazioni prodotte nel mercato del lavoro europeo dall’avvio dell’Unione economica e monetaria, reso possibile dall’elezione del Parlamento europeo e dallo schieramento dei partiti e delle forze sociali a livello europeo; l’Unione economica e monetaria significherà, infatti, la libera circolazione del lavoro e del capitale; b) quali saranno, a medio e lungo termine, le linee tendenziali di sviluppo dell’economia e della società europea unificata.
a) In prospettiva europea si profila, già a breve termine, un grande mutamento nelle caratteristiche del mercato del lavoro in cui, dovranno inserirsi i giovani che negli anni futuri completeranno l’istruzione secondaria superiore. Una volta avviata la costruzione dell’Unione economica e monetaria, non si potrà più fare riferimento ai mercati del lavoro italiano, francese, tedesco, ecc., ma al mercato del lavoro europeo. Ciò determinerà un mutamento delle qualifiche ed una ridefinizione degli sbocchi lavorativi, conseguente alla formazione in Europa di un unico mercato del lavoro e del capitale. Questo fatto, da solo, oltre a porre problemi di diversificazione degli indirizzi professionali, contribuirà certamente a ridimensionare il fenomeno della disoccupazione intellettuale. Se a ciò si aggiunge che in Europa sarà possibile, con l’avvio dell’Unione economica e monetaria, risolvere la crisi che oggi travaglia l’economia europea, si può configurare, in un futuro abbastanza prossimo, una situazione in cui i giovani non dovranno più subordinare le proprie scelte lavorative, e quindi anche di istruzione, ad un endemico stato di crisi e di carenza di opportunità di impiego. Le scelte di politica scolastica, soprattutto per il livello secondario superiore, dovranno, perciò, tenere conto che inevitabilmente si riproporranno quelle istanze di aumento generalizzato del livello educativo che oggi la crescente disoccupazione intellettuale rende improponibili.
Quest’ultima osservazione può essere meglio compresa se si riflette sul fatto che la scelta del quadro nazionale comporta la rinuncia a far uscire le economie europee dalla situazione di stallo in cui si trovano oggi. L’impossibilità di superare le crisi ricorrenti dei sistemi economici europei, se non con misure fortemente recessive, si traduce in una compressione forzata dei bisogni sociali. Si determina, inoltre, un freno a quel processo di mobilità ascendente, e quindi di attenuazione delle diseguaglianze, che si accompagna allo sviluppo economico. Nel contesto nazionale attuale non c’è per la scuola altra alternativa se non quella di subordinare le funzioni educative all’esigenza di selezionare precocemente sulla base delle diverse prospettive occupazionali, fondate sulla distinzione basilare fra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Perché vi sia equilibrio fra domanda ed offerta di lavoro manuale, è indispensabile che una parte degli studenti venga «dissuasa», ad opera della scuola, dall’aspirazione di proseguire gli studi. Questa funzione diventa ancora più importante quando, in periodi di crisi economica, nasce o si aggrava il fenomeno della disoccupazione intellettuale. Se per l’economia non è possibile, data la fase recessiva, assorbire la nuova forza-lavoro intellettuale disponibile, si cerca nella scuola la soluzione del problema. Dato che un titolo di studio elevato crea la legittima aspettativa di trovare un impiego adeguato, e dato che questa aspettativa è destinata ad essere spesso frustrata in periodi di persistente crisi economica, occorre consentire ad un numero sempre minore di giovani di accedere ai livelli scolastici più avanzati.
Solo quando la scuola non sarà più condizionata dall’esigenza anomala, perché basata su squilibri del mercato del lavoro, di «dissuadere» dalla prosecuzione degli studi, si potrà porre in modo corretto il problema dell’istruzione professionale, sia per la definizione dei contenuti, sia per la determinazione del «momento», all’interno del processo formativo, in cui deve essere effettuata.
b) A medio e lungo termine, la permanenza del quadro nazionale attuale significa la rinuncia alla ricerca di un’alternativa che consenta alla società europea di superare il malessere prodotto dalle contraddizioni insite nel modo di produzione industriale. Gli Stati europei non sono in grado, da soli, di compiere il salto qualitativo necessario per superare la fase «industriale» e per proiettarsi verso quella di sviluppo «post-industriale», basato sull’automazione. Questa è la condizione necessaria perché possa innescarsi un processo di liberazione dell’uomo dall’alienazione del lavoro manuale, parcellizzato e puramente esecutivo. Solo in una prospettiva in cui sia profondamente modificato il rapporto uomo-lavoro, diventa realizzabile un nuovo modello di società basato sull’eliminazione delle diseguaglianze attuali e dei limiti allo sviluppo della personalità individuale.
Le potenzialità dell’economia europea unificata, invece, sono tali da far prevedere l’avvio, ad una scadenza visualizzabile oggi, di un nuovo modello di sviluppo, basato sull’automazione. Questo implicherà oltre l’inevitabile ridefinizione del ruolo lavorativo degli individui, la quale comporterà la tendenziale scomparsa del lavoro manuale e delle funzioni puramente esecutive, anche la creazione delle premesse perché ognuno possa «riappropriarsi» del proprio lavoro. L’introduzione dell’automazione in tutti i settori della vita economica permetterà, infatti, all’individuo di sottrarsi all’alienazione conseguente alla parcellizzazione esasperata delle funzioni e renderà attuabile l’autogestione.
Il diverso quadro economico e sociale prodotto dall’avvento dell’automazione creerà il bisogno di un nuovo modello educativo, basato su un’immagine dell’uomo liberato dal lavoro manuale. Sarà questo il contesto nel quale aspirazioni, oggi irrealizzabili, quali quella alla «scuola per tutti a tutti i livelli», ad un’educazione «onnicomprensiva e a misura di ogni individuo», alla «educazione permanente», troveranno la loro giusta collocazione.
4. L’armonizzazione e i suoi limiti.
La prospettiva delle elezioni europee e dell’avvio dell’Unione economica e monetaria incomincia già oggi a porre concretamente una serie di problemi connessi all’attuazione dell’art. 57 dei Trattati di Roma. Si incomincia, cioè, a riflettere sul modo in cui deve essere regolata la questione della diversità dei curricula e dei titoli di studio rilasciati a livello nazionale a individui che potranno, in un prossimo futuro, accedere ad un mercato del lavoro unificato.
Fino ad ora, chi ha incominciato a prospettarsi questo problema, lo ha affrontato in termini di armonizzazione dei corsi di studio in vista della possibilità di un reciproco riconoscimento dei titoli che abilitano ad esercitare una professione o ad accedere a gradi superiori di istruzione nei vari paesi della Comunità (basti pensare al recente provvedimento di reciproco riconoscimento della laurea in medicina fra i vari paesi membri della Comunità).
Il primo motivo di perplessità che sorge a questo punto riguarda le effettive possibilità di «armonizzare» i corsi di studio, considerato che i progetti di riforma della scuola secondaria superiore configurano strutture e programmi ancora molto rigidi e lontani da quelli che si stanno sperimentando in altri paesi della Comunità. Non è infondato, quindi, il dubbio che tutto si risolva in un semplice riconoscimento reciproco dei titoli di studio, indipendentemente, o quasi, dal curriculum preparatorio. Il che potrebbe portare con sé una serie di fenomeni negativi, quale, ad esempio, la corsa all’iscrizione nelle scuole di quegli Stati dove, a parità di titolo, si propone un curriculum più facile.
Al di là, comunque, dei dubbi sulla realizzabilità del progetto, ci pare indispensabile puntualizzare una questione di fondo. La armonizzazione è la soluzione coerente con una visione che non ipotizza un quadro di riferimento diverso da quello attuale.
In primo luogo essa presuppone la conservazione del monopolio della scuola da parte dello Stato nazionale che, come si è già accennato, è posto in crisi dall’approssimarsi della scadenza dell’elezione europea.
In secondo luogo, razionalizzando e congelando le attuali strutture scolastiche, che sono più o meno rigidamente orientate alla immissione in un mercato del lavoro di dimensioni nazionali, l’armonizzazione genererà seri ostacoli all’adeguamento del sistema scolastico alle nuove esigenze imposte dal mercato del lavoro europeo.
Oltre a queste considerazioni, occorre tener presente che esiste un impedimento obiettivo a qualunque progetto di armonizzazione in funzione del reciproco riconoscimento dei titoli di studio: si tratta del fatto che in Gran Bretagna non esiste il valore legale del titolo di studio e che, presumibilmente, qualsiasi tentativo di introdurlo incontrerà fortissime resistenze. La probabile opposizione inglese porrà inevitabilmente l’alternativa fra il mantenimento o l’abolizione del valore legale del titolo di studio in tutti i paesi della Comunità.
5. Considerazioni conclusive e una proposta di sperimentazione.
In una prospettiva europea di lungo periodo, l’opzione per l’abolizione del valore legale del titolo di studio pare la più evolutiva. Questa permetterebbe, infatti, di rimuovere l’unico serio vincolo che, in una società di tipo federale, quindi con una ridefinizione completa del ruolo e dei poteri delle comunità locali, impedirebbe a queste ultime di assumersi la competenza del settore scolastico. È solo nel contesto di una scuola affidata alle comunità locali, in una struttura federale, che si possono soddisfare tutte quelle esigenze di autonomia, di legame con il territorio, di sperimentazione, che oggi, nella scuola dello Stato nazionale accentrato, sono di fatto disattese.
Sottrarre la scuola al monopolio dello Stato, abolendo il valore legale del titolo di studio, non significa necessariamente favorire lo sviluppo di un sistema scolastico di élite, come quello anglosassone, fondato su una netta discriminazione fra coloro che possono permettersi di frequentare scuole private e coloro che devono ricorrere alla scuola pubblica, di livello qualitativo meno elevato. Se la scuola, pur non essendo più monopolio dello Stato, viene affidata ad una pluralità di enti pubblici, in concorrenza fra di loro, ma che garantiscano la gratuità della frequenza, è possibile anche salvaguardare il principio di non discriminazione sulla base della classe sociale di provenienza.
In una prospettiva europea, inoltre, esistono le condizioni perché sia possibile superare un altro grave limite che, fondatamente, si oppone oggi in Italia all’abolizione del valore legale del titolo di studio ed alla assunzione delle competenze in materia scolastica da parte delle Regioni o di altri enti locali: la possibilità di creare sperequazioni anche a livello educativo fra regioni sviluppate e regioni sottosviluppate, cioè fra enti territoriali ricchi, in grado di creare strutture avanzate, ed enti territoriali poveri, incapaci di fornire alla scuola le risorse necessarie affinché questa diventi competitiva. Si tratta di un problema che non ha le sue radici nella scuola, ma in un distorto modello di sviluppo che in Italia ha creato, ad esempio, il divario fra Nord e Sud. Se esistono in Europa le condizioni per ridefinire il modello di sviluppo e diventa possibile reperire le risorse necessarie per colmare tale divario, non ha più ragione di sussistere neppure l’obiezione che oggi, di fatto, rende improponibile in Italia qualsiasi progetto di affidare la scuola alle comunità locali.
***
A breve e medio termine, la scelta di questa alternativa solleverà senza dubbio difficoltà che, tuttavia, non paiono insuperabili come quelle che si potranno presentare a chi insisterà sulla linea dell’armonizzazione, restando ancorato al quadro nazionale attuale.
Si può ipotizzare, ad esempio, che si porrà il problema di realizzare per gradi il passaggio della scuola alle competenze di più poteri locali, in concorrenza fra di loro. Se a ciò si aggiunge la necessità di giungere ad operare una scelta definitiva in materia scolastica solo dopo un periodo di ampia sperimentazione di contenuti, di metodologie, di strutture flessibili, ecc., non pare fuori luogo proporre, per la fase di transizione verso lo sbocco europeo, di affidare agli organi decentrati oggi esistenti, ad esempio le Regioni, la creazione e la gestione di una struttura scolastica sperimentale parallela a quella statale. Già in questa situazione sarà impossibile, perché contraddittorio con l’esistenza di due centri di decisione e con la sperimentazione, mantenere il principio del valore legale del titolo di studio, basato sull’accertamento della uniformità dei contenuti e delle abilità.
Poiché sarà comunque necessario, almeno per alcune attività, garantire un certo grado di serietà di preparazione, si può pensare alla introduzione di una sorta di esame di idoneità all’esercizio della professione, affidato agli enti utenti o ai rappresentanti degli utenti delle prestazioni professionali, sotto il controllo del potere pubblico.
* Si tratta del documento di lavoro redatto in occasione della tavola rotonda tenuta il 4 marzo 1977 nel quadro della settimana di dibattito e di informazione civica «Pavia per l’Europa».