Anno XIX, 1977, Numero 3, Pagina 155
L’importanza dell’opera storiografica di Lipgens
sugli inizi del processo di unificazione europea
SERGIO PISTONE
Nella storiografia sul processo di unificazione europea il libro di Walter Lipgens, Die Anfange der europäischen Einigungspolitik. 1945-1950. I. Teil: 1945-1947 (Ernst Klett Verlag, Stuttgart, 1977), costituisce senza dubbio una svolta. Su questo tema, così centrale nella storia europea e mondiale del secondo dopoguerra, erano finora apparse opere di storia diplomatica, di memorialistica (assai valide le memorie di Monnet, Fayard, Paris, 1976), di storia delle idee (soprattutto per le fasi precedenti il 1945) e pure alcuni lavori dedicati ai movimenti federalisti, relativi però a singoli ambiti nazionali e, comunque, assai sintetici.[1] Era mancato l’avvio di una ricerca storiografica che affrontasse il tema nella sua globalità, che si proponesse cioè di ricostruire in modo approfondito e sistematico sia le linee essenziali dell’evoluzione storica generale, in particolare dell’evoluzione del sistema degli Stati, in cui si colloca il processo di unificazione europea, sia il ruolo dei governi e dei partiti europei, sia infine il ruolo del pensiero e dell’azione dei movimenti europeistici e federalistici e delle personalità più incisive in tale ambito, e di chiarire il complesso rapporto di interrelazione esistente fra questi diversi fattori. Con il libro di Lipgens, che affronta il tema precisamente in questi termini e che mostra il grado di approfondimento e completezza della sua indagine anche nel semplice fatto di aver dedicato ai primi due anni del dopoguerra un’opera di 650 pagine, si può senz’altro dire che questo tipo di lavoro storiografico sulla unificazione europea ha preso un avvio decisamente valido. E si può osservare altresì che le prospettive del suo sviluppo sono molto promettenti se si tiene presente non solo che lo stesso autore sta lavorando al secondo tomo, relativo agli anni 1948-50, di quest’opera, ma che questa si inserisce in un grande progetto di ricerca collettiva — di cui egli è il principale promotore — sull’unificazione europea, che rientra nei programmi di attività dell’Istituto universitario europeo di Firenze, e che si propone di portare avanti fino alla fase attuale l’indagine su tale processo storico.
Questo libro, che apre dunque un capitolo nuovo in sede storiografica, appare in una fase di svolta dello stesso processo di unificazione europea. Appare in un periodo cioè in cui, per l’effetto combinato della crisi della C.E.E. — che ha aperto una situazione in cui o si rilancia su nuove basi l’integrazione o si dissolve irrimediabilmente quanto essa ha raggiunto negli anni passati — e della decisione, legata alla crisi, di attuare nel 1978 la prima elezione diretta del Parlamento europeo, è di nuovo all’ordine del giorno il problema dell’unificazione politica, nel senso che si può lanciare una battaglia con questo obiettivo fornita di effettive possibilità di successo.[2] Proprio per questo è particolarmente utile e tempestiva la pubblicazione di un simile lavoro, ovviamente per chi crede alla funzione eminentemente pratica della storiografia ed è quindi convinto che la coscienza politica illuminata ha la sua base insostituibile in una valida conoscenza dello sviluppo storico. In effetti, l’adozione di una linea politica valida nella fase attuale di crisi della Comunità europea, in cui vi è perciò spazio per le capacità creative e innovative, non può che essere favorita dalla conoscenza e dalla comprensione approfondite del processo di unificazione nel suo complesso e, in particolare, della sua fase iniziale. E ciò è ancor più vero se si considera che nella fase presente stanno riemergendo con forza — proprio perché il processo d’integrazione si svolge negli anni della distensione e della crisi sempre più avanzata del bipolarismo — alcuni temi molto dibattuti al momento dell’avvio. Mi riferisco in particolare al tema dell’Europa come terzo modello rispetto ai sistemi politici ed economico-sociali delle due superpotenze e avente come propria vocazione quella di contribuire in modo decisivo al superamento dei blocchi contrapposti. Basti pensare, come sintomo assai appariscente in tal senso, al fenomeno dell’eurocomunismo, che, specie nella versione italiana e spagnola, ha nell’affermazione della scelta per un’Europa né antiamericana né antisovietica un suo contrassegno decisivo, e che, quindi, si sta avvicinando su questo punto a quella che fu, come vedremo, una delle tesi più caratteristiche elaborate dalle forze aderenti all’Unione europea dei federalisti nell’immediato dopoguerra. Tanto più proficua appare dunque la conoscenza in profondità di quella fase di avvio del processo di unificazione europea.
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Ciò premesso, per individuare gli insegnamenti fondamentali estraibili dall’opera di Lipgens, e che appaiono utili sia per comprendere meglio le fasi successive del processo di integrazione europea, che per potere più validamente padroneggiare teoricamente e praticamente la fase presente, occorre anzitutto ricordare in forma assai sintetica i principali contributi conoscitivi offerti da quest’opera. Essi possono essere riassunti in tre punti, relativi all’idea dell’unificazione europea nella resistenza, all’evoluzione della costellazione internazionale fra il 1945 e il 1947, che dapprima ha impedito e poi favorito l’avvio del processo di unificazione, e infine al ruolo delle organizzazioni europeistiche.
Circa il primo punto, viene qui con buona ragione riproposto un contributo fondamentale della precedente opera storiografica dell’autore,[3] cioè la messa in luce che l’idea dell’unificazione europea, con tutte le motivazioni e giustificazioni di fondo che saranno fatte proprie nell’immediato dopoguerra dalle forze aderenti all’Unione europea dei federalisti, era già stata formulata nei progetti di politica estera di quasi tutti i movimenti di resistenza antifascista, con l’eccezione di quelli comunisti, negli anni dal 1941 al 1944. Anche se su questo tema erano già apparsi alcuni utili contributi storiografici,[4] è merito impareggiablle della ricerca di Lipgens l’aver dimostrato, con un’indagine sistematica ed estremamente accurata nella documentazione, come in tutti i paesi europei siano emerse in tale periodo (con importanti anticipazioni nel periodo fra le due guerre) talune riflessioni di fondo, sulla necessità del superamento della divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani, stupefacentemente simili, nonostante un sostanziale reciproco isolamento, almeno fino al 1944, delle diverse resistenze nazionali. Queste riflessioni, che hanno in generale come base l’esperienza diretta e immediata del crollo degli Stati nazionali di fronte all’espansione imperiale hitleriana, e che indicano come il concetto di «resistenza europea» abbia sotto questo aspetto un significato reale e non retorico, vengono dall’autore sintetizzate in cinque tesi.
1. — La giustificazione centrale, proposta da quasi tutti gli autori, dei progetti di federazione europea si fondava sull’individuare la vera radice del nazionalismo esasperato, del totalitarismo fascista e dell’implicita tendenza alla deificazione dello Stato nella crisi del sistema degli Stati nazionali sovrani in Europa.[5] Questo sistema non era dunque più degno di essere conservato, ma si trattava al contrario di proteggere i veri valori, le libertà individuali, i diritti dell’uomo religiosi, politici, ecc., per mezzo di una federazione che, sola, avrebbe potuto impedire il ritorno dei nazionalismi statolatri e dei fascismi negli Stati membri.
2. — Pure fondamentale ed espressa da quasi tutti i gruppi nel mezzo delle pene della guerra era la tesi che occorreva attraverso l’unificazione europea impedire definitivamente agli Stati nazionali di precipitare periodicamente nella guerra la popolazione europea. Alla luce dell’esperienza fallimentare della Società delle Nazioni era però chiaro che solo un’unione federale europea avrebbe potuto eliminare le «guerre civili intereuropee»; e, a questo proposito, emergeva in alcuni dei documenti più significativi l’ulteriore argomento secondo cui il «problema tedesco» avrebbe potuto essere risolto solo garantendo una sostanziale limitazione della sovranità statale tedesca, accompagnata da una disposizione analoga dei vicini.
3. — Quale indicazione centrale circa il come eliminare i nazionalismi totalitari e le guerre, in tutte le prese di posizioni si sottolineava, tenendo presente l’esperienza del diritto di veto della S.d.N., la necessità di un governo federale sopranazionale con reali ed efficaci poteri. Non il rinnovamento di una disarticolata S.d.N., ma solo una autorità federale sopranazionale, istituita e controllata dai popoli attraverso una elezione diretta, avrebbe potuto gestire in comune quelle competenze che potevano essere esercitate in maniera efficace solo su scala europea: politica estera, sicurezza e direzione dell’economia. Non veniva però prospettato un centralismo europeo, ma al contrario altre competenze dovevano essere trasferite dalle autorità centrali statalnazionali alle regioni e alle comunità più piccole, la cui autonomia avrebbe così dovuto essere garantita da una struttura federale globale fondata sul principio di sussidiarietà.
4. — In tutti i documenti era pure segnalata l’esigenza economica di un mercato comune europeo, in grado di superare lo spezzettamento in tante piccole economie chiuse, che aveva prodotto la decadenza economica dell’Europa di fronte alle emergenti potenze mondiali e alimentato le spinte espansionistiche ed egemoniche fasciste. Ciò peraltro appariva un dato acquisito già dalla crisi del 1929 e nei testi della resistenza (i quali significativamente non polemizzavano mai contro l’unificazione economica dell’area europea realizzata dai nazisti, ma sempre soltanto contro il suo carattere imperialistico-egemonico) veniva aggiunto generalmente solo in forma supplementare agli argomenti precedenti.
5. — Infine nel 1944, verso la conclusione della guerra, veniva formulato il motivo supplementare secondo cui l’Europa avrebbe potuto conservare la sua specifica forma di civiltà e un diritto di codecisione politica fra le nuove emergenti potenze mondiali dell’U.R.S.S. e degli U.S.A., fra l’Est e l’Ovest, solo se si fosse unita su base federale. Per altro quest’ultimo argomento, che poteva prestarsi anche a interpretazioni in termini di semplice politica di potenza, veniva espresso solo sporadicamente e con cautela, poiché gli esponenti della resistenza miravano essenzialmente al superamento della politica di potenza.[6] Pertanto quasi tutti i documenti sottolineavano a questo riguardo l’esigenza di un’organizzazione politica di pace su scala mondiale, nella quale doveva inquadrarsi la federazione europea in quanto premessa, punto d’appoggio e stimolo. Appariva evidente infatti che la creazione di una efficace organizzazione globale di pace aveva come premessa l’avvicinamento a un sistema di equilibrio mondiale nell’ambito del quale venissero eliminate le più rilevanti asimmetrie, nel senso che, accanto alle già esistenti unioni continentali degli U.S.A. e dell’U.R.S.S.. si costituissero unioni ugualmente vitali delle regioni, come l’estremo oriente e l’Europa, ancora spezzettate e produttrici di disordine e di guerre.
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Il fatto che una presa di coscienza così chiara e diffusa da parte dei movimenti di resistenza della necessità dell’unificazione europea, come risposta alla crisi storica del sistema degli Stati nazionali sovrani in Europa, non abbia potuto nei primi due anni del dopoguerra avere neppure un inizio di traduzione nella realtà politica è da imputarsi essenzialmente all’influenza negativa, e in gran parte inaspettata, esplicata a questo riguardo dalla costellazione diplomatica di quegli anni. I movimenti europeistici nati nella resistenza e pure i partiti nei loro progetti di unità europea formulati in tale periodo avevano in generale più o meno esplicitamente inserito nei loro calcoli, oltre ad una relativa autonomia di decisione degli Stati europei liberati, l’aspettativa di un orientamento favorevole all’unificazione da parte delle massime potenze occidentali — ricordando in particolare che Churchill aveva proposto nel 1940 la fusione fra Inghilterra e Francia ed era tornato sul tema dell’unità europea in un messaggio-radio del 1943 — e per lo meno non pregiudizialmente negativo da parte della stessa U.R.S.S. Questa speranza andò però delusa nell’immediato dopoguerra. Da una parte, l’U.R.S.S. rifiutò categoricamente ogni idea di unità sopranazionale europea, con la motivazione ufficiale che ciò avrebbe significato di fatto la ricostituzione del cordone sanitario nei suoi confronti, ma in realtà perché vedeva nella conservazione dello spezzettamento dell’Europa in una congerie di staterelli economicamente inadeguati e politicamente rissosi e impotenti una condizione insostituibile del mantenimento e del rafforzamento della posizione di potenza acquistata con la vittoria, e dell’espansione del comunismo di stretta osservanza sovietica nel continente europeo. In tal senso, è assai significativa, secondo Lipgens, la condanna da parte di Stalin nel 1948 dello stesso progetto di una federazione dei paesi comunisti dell’Europa orientale portato avanti da Dimitrov e Tito. Dall’altra parte, gli U.S.A., diventati la massima potenza occidentale in conseguenza del declino inglese, non si opposero al rifiuto sovietico fino a quando non abbandonarono, con l’apertura della guerra fredda, il disegno di un ordine mondiale di pace fondato sulla cooperazione russo-americana, ed escludente perciò la creazione di un’organizzazione regionale nell’Europa occidentale. Pertanto le due superpotenze disposero alla fine della guerra, invece che il superamento, la ricostituzione del sistema degli Stati nazionali sovrani (con l’eccezione della Germania), anche se ormai si trattava di una sovranità più formale che sostanziale, essendo essi subordinati al nuovo sistema bipolare che stava togliendo ogni spazio di effettiva autonomia alle ex-potenze europee. In tal modo poterono comunque rioccupare il campo le burocrazie nazionali e pure le disposizioni mentali nazionalistiche che negli anni della resistenza si erano decisamente indebolite.
A questo, che è il dato determinante per capire il mancato avvio dell’integrazione nei primi due anni del dopoguerra, si somma il fatto non certo privo di importanza, secondo l’autore, che gli unici due Stati europei che avevano ancora conservato un minimo di autonomia, cioè la Gran Bretagna e la Francia, lo usarono, non per opporsi all’impostazione delle superpotenze, bensì per perseguire nel nuovo quadro mondiale il puro egoismo nazionale.
La Gran Bretagna, in cui la vittoria laburista costrinse all’opposizione Churchill, si concentrò in sede internazionale, nel tentativo di conservare un ruolo di terza potenza mondiale, sia pure di ordine inferiore alle altre due; non assunse perciò alcuna iniziativa europeistica, neppure nella direzione limitativa, auspicata da Churchill dopo la guerra, di un’unità continentale senza partecipazione britannica. Quanto alla Francia, le tesi federaliste europee della resistenza furono in quella fase messe a tacere da de Gaulle, che tentò di riprendere la politica tradizionale, basata sulla rivalità franco-tedesca e sull’alleanza fra Francia e Russia come garanzia contro la Germania, della quale cercò di ottenere il definitivo spezzettamento in tanti staterelli. Una politica che fu sostanzialmente proseguita da Bidault fino a quando nella conferenza di Mosca dei ministri degli esteri dell’aprile del 1947 il completo rifiuto russo di appoggiare la politica tedesca della Francia dimostrò in modo inequivocabile e definitivo che l’accordo stipulato da de Gaulle e Bidault con l’Unione Sovietica subito dopo la liberazione della Francia era lettera morta. Dichiarazioni favorevoli all’unità europea provennero in quel periodo soltanto dai governi di paesi, come l’Italia e il Belgio, troppo deboli per poter esercitare un’influenza anche minima sul piano internazionale, mentre la Germania, certamente la più aperta per ovvi motivi al discorso europeo, non aveva ancora un governo che esprimesse la sua voce.
Pertanto il processo di integrazione europea poté prendere concretamente avvio solo in seguito ad una spinta proveniente dall’esterno, quando cioè, nel contesto della rottura fra U.S.A. e U.R.S.S. e del conseguente scoppio della guerra fredda, gli americani si decisero a favorire tale processo, condizionando gli aiuti del Piano Marshall all’avvio appunto della cooperazione fra gli Stati europei appartenenti alla propria zona d’influenza. Dalla risposta dei governi europei a questa potente spinta esterna nacquero appunto le prime organizzazioni europee, l’O.E.C.E. anzitutto, e quindi il Consiglio d’Europa, le quali esaurirono ben presto la loro spinta integrativa, a causa della frenante presenza britannica in esse, ma crearono comunque alcune premesse fondamentali della successiva creazione delle Comunità europee.
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Se sull’evoluzione della costellazione internazionale che prima ha impedito e poi favorito l’avvio dell’integrazione la ricerca di Lipgens non contiene novità in senso assoluto, e si segnala soprattutto per la notevole organicità e chiarezza di inquadramento di questa situazione, il suo contributo più decisamente innovatore (che coincide anche con la parte più consistente del lavoro) è rappresentato dalla ricostruzione completa e rigorosa dello sviluppo organizzativo, dell’elaborazione teorica e soprattutto del ruolo politico in questo periodo delle organizzazioni europeistiche, e cioè: i gruppi aderenti all’Unione europea dei Federalisti) lo United Europe movement (Churchill committee di Londra), il Conseil français pour l’Europe unie, la Lega europea di cooperazione economica di Van Zeeland, l’Unione parlamentare europea di Coudenhove-Kalergi. Dalla sua analisi assai convincente emerge in particolare come il ruolo politico svolto in un rapporto di cooperazione dialettica, data la diversità rilevante delle basi teoriche, delle strategie di azione e degli stessi progetti circa i modi di costruire l’Europa e i punti d’arrivo di queste organizzazioni sia stato di importanza storica decisiva. In sostanza, esse hanno creato l’elemento europeo autonomo della politica americana di unità europea, l’elemento cioè in mancanza del quale questa politica non avrebbe avuto successo, non avrebbe permesso alla società europea di esprimere le energie indispensabili alla ripresa economica e politica nella prospettiva dell’integrazione.
In termini concreti, le organizzazioni europeistiche tennero viva nella coscienza pubblica la rivendicazione dell’unità europea nella fase in cui a livello governativo ogni via di realizzazione era chiusa. In tal modo dimostrarono che questa rivendicazione presso una parte importante dell’opinione pubblica era preesistente alla spinta esterna proveniente dagli U.S.A. e fecero quindi sì che gli americani, al momento della loro svolta verso la politica di unità europea, potessero richiamarsi fondatamente ad una volontà unitaria manifestatasi autonomamente in Europa.
In questo contesto l’attività più continuativa e in profondità — anche perché si trattava di organizzazioni di militanti (che a Montreux raggiunsero la cifra di oltre 100.000 iscritti), e non di semplici comitati di personalità — è senza dubbio quella svolta dai gruppi che si unirono nell’U.E.F., l’organizzazione sopranazionale fondata a Parigi nel dicembre 1946 sotto la guida di Brugmans, e che tenne il suo primo congresso a Montreux nell’agosto del 1947. Il loro merito principale consiste nell’aver ricuperato integralmente e proposto all’opinione pubblica il messaggio federalista europeo della resistenza. Ciò avvenne con efficacia crescente, dopo un anno di scoraggiamento e di impotenza connessi al surricordato contesto politico generale, a partire dal momento in cui, nell’estate del 1946, cominciarono a diventare sempre più evidenti le divergenze fra le superpotenze e i pericoli di un conflitto fra esse. Nella nuova situazione che andava delineandosi i gruppi federalisti in Europa occidentale — mentre in quella orientale occupata dalla Russia fu impossibile ogni attività in tale direzione — poterono in effetti proporre con nuovo impulso e crescente rapidità di diffusione l’idea della federazione europea come contributo alla soluzione dei problemi che le superpotenze non apparivano in grado di risolvere e cioè come colonna portante di un reale ordine di pace mondiale.
Del patrimonio federalista europeo ereditato dalla resistenza essi svilupparono pertanto soprattutto la tesi dell’Europa come terza forza fra U.S.A. e U.R.S.S., interpretandola peraltro, più nettamente di quanto non avvenne nella resistenza, anche in termini politico-sociali, nel senso cioè che l’Europa doveva unirsi anche per poter dare vita ad un sistema politico ed economico-sociale diverso sia dal capitalismo americano che dal collettivismo sovietico. In sostanza, essa doveva avviarsi verso traguardi sempre più avanzati di giustizia sociale (che postulano un intervento pubblico crescente nella vita economico-sociale), conservando e potenziando allo stesso tempo le libertà individuali e i diritti democratici di partecipazione, precisamente tramite la realizzazione nei rapporti interstatali ed in quelli infrastatali del federalismo fondato sul principio di sussidiarietà.
La tesi dell’Europa come terza forza non impedì all’U.E.F., data la ormai evidente totale chiusura dell’U.R.S.S. a ogni discorso di unità europea, di giungere nel suo congresso di Montreux alla scelta (che era l’unica ragionevole, ma che provocò delle fratture nelle file federaliste e il distacco dall’organizzazione di alcuni militanti di primo piano) di approvare la prospettiva di integrazione aperta dal Piano Marshall, di accettare, in altri termini, lo schieramento atlantico nella guerra fredda come il quadro in cui avviare concretamente la lotta per l’unificazione politica europea. Con questa decisione, in effetti, si prese, da una parte, realisticamente atto della divisione che si stava rapidamente realizzando dell’Europa (e più in generale del mondo) in due blocchi contrapposti, di una realtà cioè che non dipendeva fondamentalmente dalle scelte degli europei, bensì dall’evoluzione dei rapporti fra le superpotenze, e che costituiva ormai il quadro politico concreto da cui non poteva prescindere chiunque volesse agire incisivamente nella realtà. Dall’altra parte, fu in quello stesso contesto espressa in modo forte e chiaro la consapevolezza che la lotta per l’unificazione federale degli Stati democratici dell’Europa occidentale, essendovi nel quadro atlantico a causa delle esigenze interne ed internazionali della politica americana delle effettive possibilità in tal senso, offriva l’unica possibilità di superare la dipendenza dei paesi europei occidentali dall’America e quindi, più in generale, di superare in futuro la stessa subordinazione dell’Europa nel suo complesso alle grandi potenze. Per queste ragioni, ha certamente ragione Lipgens ad affermare che l’atteggiamento dell’U.E.F. di fronte al Piano Marshall non implica alcuna rottura con le tesi di fondo del messaggio federalista europeo della resistenza, ma rappresenta la loro applicazione alle condizioni concrete del dopoguerra, delineatesi stabilmente dopo un breve periodo di transizione.
Accanto all’attività dell’U.E.F., un ruolo di decisiva importanza fu pure quello svolto dalle altre organizzazioni europeistiche, le quali, se da una parte erano assai inferiori per numero di membri ed estensione all’U.E.F. e sostenevano posizioni di carattere più confederalistico che federalistico (e assai lontane, in generale, dalla tesi dell’Europa come terza forza), dall’altra parte avevano come esponenti personalità politiche note e influenti.
In particolare, ebbe secondo l’autore un’importanza straordinaria l’intervento di Churchill (dal cui impulso nacque lo United Europe movement diretto da Duncan Sandys), il quale, pur avendo in mente un’integrazione europea senza la Gran Bretagna, con il famoso discorso di Zurigo del 19 settembre 1946, che tra l’altro lanciò l’idea di un esercito europeo e l’appello alla riconciliazione franco-tedesca, parlò allora in un certo senso a nome dell’Europa e diede una voce di grande autorevolezza, e che fu sentita in tutto il mondo, alla rivendicazione dell’unità europea.
Un rilievo pubblico e un peso politico assai notevole ebbe inoltre l’azione promossa presso i parlamentari dei paesi europei occidentali da Coudenhove-Kalergi. A una lettera-questionario, da lui inviata a 4.000 parlamentari e contenente l’invito a esprimere la propria approvazione o il rifiuto dell’idea della federazione europea, giunsero in effetti fra il novembre del 1946 e il maggio del 1947 ben 1329 risposte delle quali solo 39 negative. Ciò dimostrò che, prima del lancio ufficiale, con il discorso di Marshall all’Università di Harvard del 5 giugno 1947, della nuova politica americana di unità europea, vi era nei parlamenti europei-occidentali una disposizione favorevole a tale obiettivo (certo, già legata al clima della incipiente guerra fredda) percentualmente assai forte soprattutto nei sei paesi che dettero poi vita alle Comunità europee (97% delle risposte pervenute, 43% dei parlamentari cui fu inviata la lettera).
Sia Churchill che Coudenhove concorsero infine in modo non irrilevante — e questo è l’altro aspetto più significativo del loro contributo politico in questa fase — allo stesso emergere del nuovo orientamento americano verso l’Europa: il primo tramite le sue relazioni con i politici americani e con una serie di articoli molto efficaci sul Colliers Weekly, il secondo col rendere immediatamente pubblici in America i risultati della sua inchiesta presso i parlamentari, i quali fecero d’improvviso apparire l’idea europea non più come una utopia, ma come una possibilità concreta.
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Alla luce di questi, che sono a mio avviso i fondamentali contributi conoscitivi della ricerca di Lipgens, si possono sviluppare due riflessioni, una relativa alla teoria del processo di integrazione europea, l’altra a proposito dell’adesione all’idea dell’unificazione dell’Europa occidentale da parte dell’eurocomunismo.
Circa il primo punto, è legittimo osservare che la ricostruzione storica ora esaminata contiene un’importante conferma, con riferimento alla fase iniziale del processo di integrazione europea, della validità della teoria che sottolinea l’importanza centrale, quali fattori dello sviluppo dell’integrazione europea, delle situazioni di crisi gravi di fronte a cui si vengono a trovare i governi nazionali, da una parte, e dell’intervento attivo delle organizzazioni europeistiche, dall’altra.
Questa teoria, che fu già impostata nei suoi elementi essenziali da Spinelli nel 1941[7] e che ha poi costituito, attraverso gli approfondimenti dello stesso Spinelli e quindi di Mario Albertini, la base teorica permanente della strategia del Movimento federalista europeo,[8] si fonda, nel suo nucleo centrale, sulla tesi che le classi politiche nazionali, cioè i governi e i partiti, sono a un tempo gli attori principali dello sviluppo dell’unificazione europea e fattori ostacolanti. Se cioè, da una parte, la unificazione può avviarsi e progredire effettivamente solo attraverso le decisioni dei governi nazionali, dall’altra, essi sono portati oggettivamente a ostacolare o ritardare o limitare nelle sue conseguenze un processo che implica il superamento sia pur graduale delle sovranità nazionali, vale a dire la perdita di poteri sostanziali e decisivi a vantaggio di un nuovo potere sopranazionale, comportante una ridistribuzione dei ruoli ed una complessa ristrutturazione organizzativa e politico-ideologica delle forze politiche. Proprio per questo, perché il processo vada avanti, occorre l’intervento di fattori politici in grado di costringere le classi politiche nazionali a decisioni comportanti immediatamente o mediatamente, a seconda del grado di sviluppo dell’integrazione effettuabile nel caso concreto, la perdita di poteri.
Un fattore del genere è costituito appunto anzitutto dalle situazioni di crisi, cioè da quelle situazioni in cui la scelta non è se sviluppare l’integrazione o conservare lo status quo, bensì in cui, in mancanza di una scelta integrativa, si andrebbe incontro a pericoli assai gravi per il mantenimento dei poteri nazionali. Il fattore della crisi, per essere efficace, deve però essere integrato da un ruolo attivo di forze, le organizzazioni europeistiche appunto, le quali almeno nel loro settore più avanzato abbiano come unico obiettivo la creazione del nuovo potere europeo e non la conquista dei poteri nazionali, e sappiano quindi restare sul campo e mantenere viva la rivendicazione europea nei momenti difficili, anche a costo dell’isolamento. Così facendo, esse non solo potranno costituire l’indispensabile punto di riferimento politico delle scelte integrative dei governi nel momento in cui le situazioni di crisi le porranno all’ordine del giorno, ma potranno anche spingere i governi ad andare più avanti di quanto questi intenderebbero.
Questa teoria, frutto di riflessioni a cui la teoria della ragion di Stato e la dottrina hamiltoniana dello Stato federale danno un apporto decisivo, trova dunque pienamente conferma nella ricostruzione storica di Lipgens, anche in riferimento alla fase di avvio del processo d’integrazione finora mai studiata in modo così approfondito e completo.
Da essa viene in effetti sottolineato con più ricchezza di dettagli il ruolo del Piano Marshall, nel contesto della incipiente guerra fredda, quale elemento che ha aperto una crisi a cui i governi europei hanno risposto con l’avvio del processo di integrazione. Come chiarisce Lipgens, fino a quel momento le tendenze europeistiche furono presenti a livello governativo solo negli Stati che avevano ben poco da perdere in conseguenza della integrazione, mentre i governi relativamente più forti si irrigidirono nel perseguimento dell’egoismo nazionale. Solo con l’alternativa, posta dal Piano Marshall, dell’aiuto americano condizionato all’integrazione e con la guerra fredda, che costringeva alla collaborazione come condizione della sopravvivenza dei regimi democratici in Europa occidentale, si produsse invece una situazione in cui l’integrazione si prospettava come la via meno gravida di incognite anche per gli Stati relativamente più forti.
Quanto all’azione delle organizzazioni europeistiche, ancor più illuminanti sono le indicazioni di Lipgens, che testimoniano, come si è visto, un loro ruolo decisivo, anche se non poté ancora esprimersi in quel breve periodo di tempo, e in assenza degli insegnamenti forniti dall’esperienza dei primi tentativi integrativi, in interventi incisivi quali quello di Monnet a proposito della C.E.C.A., quello di Spinelli circa l’articolo 38 della C.E.D.[9] e quello di questi anni del M.F.E. e dell’U.E.F. sull’elezione diretta del Parlamento europeo. I risultati dell’analisi storica di Lipgens non possono dunque che essere di conforto a quelle forze federaliste che nella fase attuale del processo di integrazione sottolineano teoricamente l’importanza decisiva dell’azione delle organizzazioni europeistiche sovranazionali e sovrapartitiche e la realizzano praticamente nel modo più conseguente.
Venendo infine al discorso eurocomunista su un’Europa occidentale unita né antiamericana, né antisovietica, si può osservare come l’emergere di questa tesi costituisca un importante motivo di conferma a posteriori della validità della scelta, fatta dall’U.E.F. nel congresso di Montreux, di perseguire l’integrazione dell’Europa occidentale come l’unica politica capace di aprire una prospettiva di superamento dei blocchi contrapposti. In effetti, fra le motivazioni ufficiali della decisione del P.C.I. di favorire il rafforzamento e lo sviluppo anche politico della Comunità europea vi è la considerazione che l’integrazione europeo-occidentale, pur essendosi avviata e sviluppata nelle sue prime fasi in funzione degli interessi americani nel conflitto globale con l’U.R.S.S., ha, con il suo sia pur solo parziale e precario successo, contribuito a porre le basi di un ricupero di autonomia di questa parte dell’Europa. Pertanto, se l’integrazione andrà avanti, potrà offrire all’Europa la possibilità di svolgere un ruolo decisivo ai fini del superamento dei blocchi e di una distensione più effettiva, e farà d’altro canto emergere il quadro politico adeguato alla scelta da parte degli europei di un autonomo modello politico-sociale, alla costruzione cioè di un socialismo dal volto umano.[10]
Ora, non è possibile in questa sede sottoporre a una analisi approfondita questo tipo di argomentazione sviluppata dal P.C.I., per individuarne i punti poco chiari e le eventuali contraddizioni, né è possibile affrontare la complessa discussione relativa al carattere prevalentemente tattico o invece strategico della nuova linea dei comunisti italiani sull’unità europea.[11] Mi limito a sottolineare un fatto che mi sembra degno della massima attenzione: l’attuale orientamento del P.C.I. verso l’unità europea e le argomentazioni su cui si fonda contribuiscono a dimostrare che il processo di integrazione dell’Europa occidentale, pur con tutti i condizionamenti e le contraddizioni che lo hanno caratterizzato e lo caratterizzano tuttora, ha rappresentato effettivamente — conformemente all’ipotesi formulata dall’U.E.F. al momento dell’avvio del processo e allora criticata con estrema asprezza dal P.C.I. — un fenomeno estremamente dinamico e quindi, in particolare, il fattore decisivo di mutamento dei rigidi equilibri internazionali ed interni determinatisi in Europa nel quadro del bipolarismo e della guerra fredda.
Questa considerazione, che si può fare confrontando l’attuale posizione del P.C.I. sull’Europa con quella elaborata dall’U.E.F. all’inizio del processo d’integrazione, non deve, a mio avviso, condurre a condannare moralisticamente la posizione assunta allora dai comunisti e da altri settori della sinistra, i quali, per non rompere con l’U.R.S.S., rifiutarono la prospettiva dell’integrazione europea nel quadro atlantico. Proprio su questo punto, per altro abbastanza marginale rispetto al tema trattato, mi sembra insufficiente l’analisi di Lipgens, poiché non mette adeguatamente in luce un dato importante che concorre a spiegare quella scelta.
In sostanza, la politica di integrazione europea nel quadro atlantico favoriva oggettivamente nell’immediato, dati gli orientamenti di fondo della politica americana, le forze moderate e conservatrici dei paesi europei e indeboliva nettamente le forze orientate verso il socialismo. Era cioè certamente una scelta a favore della libertà, ma avente come contropartita per un periodo non certo breve la rinuncia a una reale prospettiva socialista. Ed è un fatto che, al di fuori dei gruppi federalisti politicamente più autonomi e teoricamente più lucidi, nelle motivazioni dei partiti e delle forze economico-sociali che appoggiarono la prospettiva europea aperta dal Piano Marshall l’elemento preminente era la volontà di conservare lo status quo economico-sociale e non certo l’idea di un’Europa autonoma e terza forza anche sul piano politico-sociale. Se ciò è chiaro, si può ben comprendere che per i comunisti e una parte della sinistra non comunista il legame con l’U.R.S.S. apparisse anche come il legame con la prospettiva socialista, dal momento che l’U.R.S.S. — pur con tutti i limiti e le contraddizioni del suo regime, che la sinistra non comunista aveva ben presenti, a differenza dei comunisti, allora chiusi a ogni critica verso il modello sovietico — rappresentava allora di fatto l’unica contestazione del sistema capitalistico dominato dagli U.S.A. In altri termini, come le forze moderate nel loro complesso accettarono l’integrazione europea nel quadro atlantico anche e in misura decisiva in funzione antisocialista, così i comunisti e una parte dei socialisti, che avevano compreso il vero significato storico dell’unificazione europea altrettanto poco che i moderati e i conservatori, la rifiutarono per motivazioni opposte. Il fatto che questo atteggiamento si sia alla lunga venuto vistosamente modificando è precisamente una dimostrazione, come si diceva prima, che lo sviluppo dell’integrazione europea ha creato le premesse di un’Europa capace, in prospettiva e sempre che ovviamente si giunga ad un’unità irreversibile, di scegliere un modello politico-sociale autonomo da quelli delle superpotenze.
[1] Si vedano in particolare: W. Cornides, «Die Anfänge des europäisch föderalistischen Gedankens in Deutschland 1945 bis 1949», Europa-Archiv, VI, 1951, pp. 4243-4258; L. Levi e S. Pistone, Trent’anni di vita del Movimento federalista europeo, Milano, 1973; A. Greilsammer, Les mouvements fédéralistes en France de 1945 a 1974, Paris-Nice, 1975.
[2] Cfr. in proposito le tesi elaborate dall’attuale presidente della Unione europea dei federalisti, Mario Albertini, in «Elezione europea, governo europeo e Stato europeo», Il Federalista, XVIII, 1976, pp. 200-212. Qui viene in particolare sottolineato che l’esigenza di avviare la creazione di una moneta europea — in mancanza della quale, dato l’attuale regime di fluttuazione dei cambi, il mercato comune agricolo e industriale è destinato ad essere smantellato dal progressivo ritorno ai protezionismi nazionali — pone inevitabilmente il problema dell’istituzione di un’autorità sopranazionale dotata di poteri sovrani nel settore economico-monetario, mentre d’altro canto l’elezione diretta del Parlamento europeo, implicante la formazione di partiti europei con programmi europei, rende politicamente perseguibile tale obiettivo.
[3] Cfr. soprattutto Europa-Föderationspläne der Widerstandsbewegung 1940-1945, München, 1968; «Europäische Einigungsidee und Briands Europaplan im Urteil der deutschen Akten», Historische Zeitschrift, CCIII, 1966, pp. 46-89 e 316-363; «L’idea di unità europea nella resistenza in Germania e in Francia», in S. Pistone (a cura di), L’idea dell’unificazione europea dalla prima alla seconda guerra mondiale, Torino, 1975.
[4] Vanno tenuti presenti in particolare, anche in relazione alla bibliografia in essi contenuta, H. Halin, L’Europe unie, objectif majeur de la Résistance (con prefazione di P.H. Spaak), Paris-Bruxelles, 1967 e M. Albertini, A. Chiti-Batelli, G. Petrilli, Storia del federalismo europeo, a cura di E. Paolini, Torino, 1973.
[5] Il concetto di crisi dello Stato nazionale, emergente nei progetti federalisti europei della resistenza, indica essenzialmente la contraddizione fra la crescente interdipendenza degli uomini, dovuta allo sviluppo della rivoluzione industriale e richiedente organizzazioni statali di dimensioni continentali, e la tendenza degli Stati nazionali europei a conservare la propria sovranità assoluta — una contraddizione che è appunto alla radice delle tendenze imperialistiche ed egemoniche alla conquista dello spazio vitale, che hanno portato al crollo del sistema europeo degli Stati. Questo concetto rappresenta il fondamento teorico dell’intera storiografia di Lipgens, che nella crisi dello Stato nazionale individua appunto il vero filo conduttore della crisi europea manifestatasi con le guerre mondiali e il fascismo. Sul piano teorico, esso è stato sviluppato e approfondito soprattutto da M. Albertini, Federalismo e Stato federale, Milano, 1963, e L. Levi, Crisi dello Stato nazionale, internazionalizzazione delle forze produttive e internazionalismo operaio, Torino, 1976.
[6] A questo proposito, in Europa Föderationspläne…, cit., p. 18, Lipgens mette anche in luce che quasi tutti i progetti federalisti della resistenza erano orientati verso la concessione dell’indipendenza alle colonie e indicavano il «rifiuto dell’idea imperiale e coloniale» come una conseguenza ovvia della federazione europea.
[7] Cfr., di Spinelli, gli scritti raccolti in Problemi della federazione europea, Roma, 1944, e in particolare, Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche.
[8] Cfr. A. Spinelli, Dagli Stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa, Firenze, 1950 e L’Europa non cade dal cielo, Bologna, 1960, e M. Albertini, L’integrazione europea e altri saggi, Pavia, 1965. Inoltre, Trent’anni di vita del Movimento federalista europeo, cit. e L. Levi, L’integrazione europea, Torino, 1964.
[9] Cfr. M. Albertini, «La fondazione dello Stato europeo. Esame e documentazione del tentativo intrapreso da De Gasperi nel 1951 e prospettive attuali», Il Federalista, XIX, 1977, pp. 5-55.
[10] Cfr. La via europea al socialismo, a cura di I. Delogu, Roma, 1976, e M. Cesarini Sforza - E. Nassi, L’eurocomunismo, con un’introduzione di L. Valiani, Milano, 1977.
[11] Alcune considerazioni in proposito le ho svolte in «I comunisti e il problema della difesa europea», Comuni d’Europa, 1973, 10, pp. 5-8, e in un documento (redatto in collaborazione con Lucio Levi nell’ambito di una ricerca condotta per la Fondazione Agnelli) su «L’influenza dell’elezione diretta del Parlamento europeo sull’evoluzione del sistema dei partiti in Europa e in Italia in particolare», che è stata parzialmente pubblicata in Critica sociale, LXIX, 1977, 3, pp. 24-27.