Anno XX, 1978, Numero 4, Pagina 178
La politica industriale europea
DARIO VELO
La crisi industriale, che investe oggi con l’Italia tutto il mondo occidentale, ha carattere strutturale. I tentativi di interpretare la crisi come un fenomeno congiunturale o come un «incidente di percorso» determinato da fattori esogeni — in ultima analisi, la crisi petrolifera — si scontrano con l’evidenza dei fatti.
Il rallentamento dello sviluppo industriale ha cominciato a manifestarsi ancor prima del crollo del sistema monetario internazionale e della crisi energetica. I primi indicatori del fenomeno sono stati la caduta dei profitti e il crescente indebitamento delle imprese nella generalità dei paesi industrializzati. Sintomo grave, perché gravido di conseguenze, è stato la caduta, a partire dagli ultimi anni ‘60, degli investimenti per costruzioni ad uso industriale; questo dato indica che gli investimenti si sono orientati essenzialmente verso la razionalizzazione dei processi produttivi esistenti piuttosto che verso la loro espansione e l’innovazione. Nello stesso periodo si è assistito ad un declino della produttività verificatosi congiuntamente ad una crescente concentrazione industriale; a fronte della crisi industriale, la difesa è stata ricercata nelle fusioni, a scapito della piccola-media industria che strutturalmente è più esposta alla recessione.
La crisi si è manifestata in modi e con intensità diversa da paese a paese; comune a tutti i paesi industrializzati è tuttavia la tendenza di fondo.
L’interpretazione che questi dati suggeriscono è che gli anni ‘60 abbiano segnato la conclusione del ciclo di sviluppo iniziatosi nell’immediato dopoguerra. Questo ciclo era stato caratterizzato dallo sforzo dei paesi europei in primo luogo, e del Giappone in secondo luogo, di recuperare il ritardo accumulato nei confronti dell’economia statunitense. In questo periodo le moderne produzioni di massa, nate negli Stati Uniti all’inizio del secolo perché sorrette dall’esistenza di un mercato interno di dimensioni continentali, si erano diffuse alimentando lo sviluppo e il commercio internazionale. Ciò era stato reso possibile dalla stabilità dei rapporti internazionali, fondata sulla leadership statunitense.
Questo meccanismo di sviluppo non ha più possibilità di ripetersi. Colmato lo squilibrio esistente fra l’economia statunitense e le altre economie industrializzate, per esse si pone l’esigenza di sviluppare settori nuovi. Per l’Europa ciò implica l’avvio di una politica industriale europea; per gli Stati Uniti ciò impone di fondare lo sviluppo sui settori innovativi in misura maggiore che in passato, potendo contare sempre meno sulla domanda trainante di origine europea.
In secondo luogo, il meccanismo di sviluppo realizzatosi nel dopoguerra non ha possibilità di riprodursi, perché il suo successo ha distrutto la stabilità internazionale su cui si fondava. Ciò vale in primo luogo per l’Europa. Il processo di integrazione europea si è sviluppato grazie alla convergenza delle ragioni di Stato degli Stati europei e alla stabilità delle condizioni economiche di base garantite dalla leadership statunitense; ma il successo dell’integrazione, ponendo in crisi la supremazia statunitense, ha distrutto la base su cui l’integrazione stessa si fondava. Per l’Europa si tratta di creare un nuovo quadro di stabilità, garantito autonomamente dalla propria unità, entro cui sviluppare la propria economia.
Ciò vale inoltre per i paesi del Terzo mondo. Nel meccanismo di sviluppo realizzatosi nel dopoguerra poco era lo spazio per le giuste esigenze del Terzo mondo. Vista la possibilità, negli spazi lasciati aperti dalla crisi, di far valere le proprie rivendicazioni, è certo che i paesi del Terzo mondo si batteranno per non ritornare ad un meccanismo di sviluppo che li danneggiava.
Il ritorno alla stabilità internazionale necessaria per sostenere il progresso dell’economia mondiale oggi può essere garantito solo dalla fondazione di un nuovo ordine economico mondiale.
Le tendenze protezionistiche indotte dalla crisi.
In questo quadro, la crisi energetica e la crisi del sistema monetario internazionale si presentano come fenomeni indotti, che a propria volta hanno contribuito a destabilizzare ulteriormente i rapporti economici.
A fronte del precipitare della crisi, ogni Stato, preso isolatamente, si è trovato di fronte ad esigenze antitetiche. Da un lato c’è l’esigenza di difendere l’economia, limitando gli effetti del disordine internazionale. Questa esigenza è particolarmente sentita dai paesi europei che, stante la loro divisione, sono esposti più di ogni altro alle tensioni che si determinano a livello internazionale. L’esperienza vissuta negli anni settanta lo sta a dimostrare. Sull’Europa si sono concentrati gli effetti di ondate destabilizzanti provenienti dal resto del mondo: dai paesi del Terzo mondo sotto forma di incremento vertiginoso dei prezzi delle materie prime; dagli Stati Uniti sotto forma di crescenti deficit nella bilancia dei pagamenti e dal Giappone sotto forma di una rovinosa concorrenza in alcuni settori industriali.
Dall’altro lato, c’è l’esigenza di mantenere l’economia aperta al commercio internazionale. Anche questa esigenza è particolarmente avvertita dai paesi europei, che hanno un’economia bisognosa di materie prime, un’economia cosiddetta di trasformazione, le cui possibilità di sviluppo dipendono dallo sviluppo degli scambi con il resto del mondo. Negli ultimi decenni è andata inoltre approfondendosi l’integrazione del sistema economico europeo con quello statunitense; buona parte della tecnologia d’avanguardia utilizzata dai paesi europei proviene dagli Stati Uniti. Questa tendenza di fondo non può essere abbandonata dall’Europa, pena l’involuzione verso un’economia di sussistenza.
In mancanza di una strategia unitaria per affrontare gli aspetti strutturali della crisi e per risolvere gli effetti destabilizzanti provocati dal suo precipitare, queste esigenze divengono contraddittorie. Il tentativo unilaterale di mantenere l’economia aperta al commercio internazionale, perseguendo un disegno nel lungo periodo ottimale per tutti, nel breve termine implica l’insorgere di deficit con l’estero insostenibili per qualsiasi economia. Mentre il tentativo contrario di privilegiare gli interessi nazionali è destinato a suscitare comportamenti analoghi negli altri paesi; l’efficacia delle misure prese è velocemente erosa e la conseguenza ultima è solo di aggiungere ai problemi esistenti i nuovi generati dall’involuzione protezionistica.
Nei momenti di crisi, in assenza di una strategia unitaria, non è possibile altra logica che quella del «ciascuno per sé». Con essa gli Stati più forti possono cercare di riversare su quelli più deboli l’onere dell’aggiustamento. Di qui l’involuzione protezionistica degli anni ‘70.
Ciò ha avuto conseguenze gravissime per tutta la comunità internazionale. L’integrazione economica ha ormai dimensione mondiale; nessuna economia può sottrarsi alle conseguenze di una crisi internazionale. Gli effetti più gravi tuttavia sono stati sofferti dall’Europa, perché l’involuzione protezionistica ha colpito non solo gli scambi dell’Europa con il resto del mondo, ma anche gli scambi fra gli Stati europei. Stante la divisione dell’Europa, gli scambi infra-europei seguono le sorti del commercio internazionale, benché abbiano natura ormai di commercio interregionale.
La ricerca di una risposta positiva alla crisi è diventata una esigenza improcrastinabile, in primo luogo per l’Europa.
L’avvio di una politica industriale europea.
Di fronte all’esigenza di dare una risposta positiva alla crisi, l’Europa si è trovata priva degli strumenti d’intervento necessari. Invero, il trattato di Roma dava all’Europa uno strumento, seppur imperfetto, per regolare lo sviluppo industriale e i rapporti con le altre economie. Tale strumento è lo stabilimento di una tariffa esterna comune per tutta la C.E.E. Tuttavia, nel corso degli anni, la Comunità non si è mai servita di questo strumento in modo elastico; esso è andato poi perdendo di rilevanza in conseguenza delle riduzioni tariffarie concordate nell’ambito del G.A.T.T. In turni successivi la Comunità ha dimezzato mediamente la sua tariffa esterna comune; più recentemente, con gli accordi di Lomé, gli accordi con i paesi mediterranei e lo schema generalizzato di preferenze, essa ha di fatto abolito i dazi su una percentuale molto rilevante delle proprie importazioni. A ciò si aggiunga che l’Europa ha inoltre smantellato il sistema di contingentamenti che limitava il commercio con i paesi dell’est; in conseguenza si è trovata a dover fronteggiare anche la crescente concorrenza di questi paesi, che spesso, non va dimenticato, praticano forme di dumping, spinti dall’esigenza di equilibrare i propri conti, fortemente deficitari, con l’estero.
D’altro lato, non va dimenticato che la manovra tariffaria è andata perdendo strutturalmente efficacia, per il diffondersi di varie forme di intervento diretto dei poteri pubblici nell’economia. Gli obiettivi perseguiti un tempo modificando i dazi, oggi vengono raggiunti più efficacemente orientando la produzione con sussidi, con misure fiscali o con il diretto intervento di imprese pubbliche.
In questa situazione due erano le vie che si aprivano all’Europa. La prima è la creazione degli strumenti necessari per avviare una strategia economica europea; ciò pone la necessità di varare una politica industriale europea. La seconda via è la utilizzazione di tutte le possibilità d’iniziativa esistenti per fronteggiare con una risposta comunitaria la crisi, al fine di creare le condizioni favorevoli al varo, in un momento successivo, di una politica industriale europea in senso stretto.
È stata questa seconda soluzione ad essere adottata. Questa scelta si comprende. Essa corrisponde al fatto che l’Europa non possedeva il potere necessario per avviare una coerente e incisiva politica industriale europea. In queste condizioni, l’unico obiettivo realisticamente perseguibile poteva essere soltanto di fronteggiare i punti di crisi più gravi con gli strumenti disponibili. I punti di crisi più gravi sono costituiti in ultima analisi dai settori maggiormente esposti alla concorrenza internazionale in cui esiste un elevato rapporto capitale/prodotto; in questi settori la rigidità dei processi produttivi fa sì che flessioni anche lievi della domanda si traducano immediatamente in perdite rilevanti, tali da compromettere gli equilibri economici e finanziari delle imprese. Gli strumenti di intervento a disposizione della Comunità sono la raccomandazione e l’iniziativa, o poco più — fatta eccezione dei settori di competenza C.E.C.A.
Così si comprende perché gli interventi della Comunità abbiano teso in linea di massima a formare cartelli fra i produttori europei in alcuni settori di base, riconvertibili solo nel lungo termine, per garantire prezzi minimi e, se necessario, quote di mercato.
Un primo bilancio dei cartelli anti-crisi.
Merito fondamentale dei cartelli anti-crisi è dunque di offrire una soluzione praticabile per fronteggiare una situazione di emergenza, agevolando la transizione da un vecchio a un nuovo assetto e limitando i danni provocati dalla trasformazione. Essi non pongono in discussione la nascita del nuovo assetto; semplicemente permettono di gestire la morte del vecchio assetto, sdrammatizzandone l’impatto.
Questa politica può in alcuni casi avere validità anche in una prospettiva a medio termine. Ciò può accadere in alcuni settori tradizionali di base, quali la siderurgia, la cantieristica, la chimica primaria, la tessitura, per i quali il problema è gestire una riduzione della capacità produttiva parallelamente all’incremento di produzione da parte dei paesi del Terzo mondo che vantano rilevanti vantaggi comparati.
Inoltre, anche in una prospettiva di lungo periodo, va detto che è interesse strategico dell’Europa mantenere un minimo di capacità produttiva in questi settori di base, per non rendere l’economia totalmente esposta alle alee del commercio internazionale.
Questi aspetti positivi non debbono tuttavia nascondere i gravi limiti dell’azione comunitaria. Innanzitutto va detto che, per questi stessi settori, i cartelli anti-crisi assumerebbero valore negativo in ultima analisi una degenerazione autarchica se diventassero lo strumento per difendere oltre un certo limite temporale e oltre un certo livello «strategico» imprese non competitive.
La strategia comunitaria, ove dovesse perpetuarsi, sarebbe destinata ad aggravare le tensioni internazionali. Misure di protezione delle industrie nazionali in crisi possono essere sostenute con successo a livello internazionale se presentate come misure di transizione per rendere meno gravosa la nascita di un nuovo ordine economico, concordato e sorretto dal generale consenso delle parti. Ma le stesse misure sono destinate a fomentare reazioni protezionistiche, se presentate come misure unilaterali al di fuori di un accordo internazionale di lungo periodo. Si pensi, a tal fine, che oggi i paesi del Terzo mondo giocano le proprie possibilità di decollo economico sullo sviluppo di quegli stessi settori industriali che l’Europa protegge.
Questo limite è destinato a rendere inefficace, anche sul piano interno, l’azione comunitaria. Nella misura in cui la politica dei cartelli anti-crisi alimenta la contrapposizione fra Europa e paesi in via di sviluppo, come conseguenza è prevedibile che questi ultimi si orienteranno verso l’adozione di misure unilaterali per proteggere i propri interessi, cioè diventano prevedibili nuove tensioni dei prezzi per i prodotti energetici e le altre materie prime. Se ciò dovesse accadere, le misure di stabilizzazione comunitaria sarebbero travolte e l’economia troverebbe il proprio equilibrio a livelli sempre più bassi.
In secondo luogo, la politica dei cartelli anti-crisi non è in grado di regolare in modo evolutivo i rapporti fra Europa e Stati Uniti — più in generale, fra Europa e i restanti paesi industrializzati. Su questo fronte è oggi in gioco la conquista dei settori a tecnologia avanzata. Una politica di difesa, quale è la politica dei cartelli anti-crisi, non può essere per definizione stessa, né tanto né poco, una politica creativa e di sostegno dei settori d’avanguardia. Di fronte a questi limiti dell’azione comunitaria si comprende come le imprese europee continuino a manifestare la propensione ad allearsi con altri partners extracomunitari più forti. Il ritardo tecnologico dell’Europa in tal modo si aggrava. In questo quadro, la politica dei cartelli anti-crisi appare come una soluzione rinunciataria, che relega l’Europa a una posizione subordinata nell’ordine economico internazionale che sta formandosi.
La politica industriale europea.
Il problema è dunque definire quali caratteristiche debba avere una politica industriale europea di lungo periodo. Il carattere strutturale della crisi industriale è già stato da noi sottolineato inizialmente; da quelle indicazioni si desume che, per l’essenziale, la definizione di una politica industriale europea nel lungo periodo coincide con la definizione di una nuova divisione del lavoro a livello internazionale, che recepisca le istanze dei paesi emergenti e sostenga in Europa lo sviluppo dei settori a tecnologia avanzata oggi monopolio quasi incontrastato degli Stati Uniti.
Il problema della ristrutturazione industriale ha dimensione mondiale; e per ricercare la migliore utilizzazione delle risorse sul piano mondiale è necessario prendere coscienza delle trasformazioni, di portata storica, oggi in corso.
Per le economie sviluppate oggi è in discussione la transizione dalla fase industriale alla fase post-industriale dello sviluppo. L’automazione tende a sostituire il lavoro materiale dell’uomo. La disponibilità di energie liberate permette di privilegiare obiettivi che nella società industriale erano subordinati alle esigenze produttive primarie; diventano così pensabili modelli di sviluppo fondati sulla crescita, accanto ai settori a tecnologia avanzata, delle attività direttamente dedicate all’uomo e al territorio.
Questa tendenza implica la specializzazione dei paesi sviluppati nei settori ad alta intensità di ricerca e nelle attività terziarie.
Nei paesi del Terzo mondo a propria volta oggi è in discussione la possibilità di avviare lo sviluppo industriale, incentivando i settori a tecnologia tradizionale — le cosiddette «industrie mature» — che tendono ad essere abbandonati dai paesi industrializzati. Dal successo di questo tentativo dipende la possibilità dei paesi del Terzo mondo di uscire, in una prospettiva a medio termine, dall’attuale stato di subordinazione economica, acquisendo le competenze e specializzazioni necessarie per poter competere in condizioni di parità con le economie industrializzate.
Le tendenze in atto nei paesi industrializzati e in quelli in via di sviluppo sono complementari, sia nel senso che si conciliano, sia nel senso che l’avanzare dell’una dipende dai progressi dell’altra.
Ciò, una volta ancora, è particolarmente vero per l’Europa, che più degli Stati Uniti vede le proprie possibilità di sviluppo dipendere dagli scambi internazionali.
Non sfugge tuttavia che questa complementarietà fra interessi di fondo della comunità internazionale necessita, per tradursi in comportamenti effettivamente complementari da parte degli Stati, di un adeguato assetto internazionale. Per l’Europa, ciò pone il problema della creazione di un esecutivo europeo in grado di svolgere una coerente ed efficace politica industriale europea.
Nell’assetto istituzionale che caratterizza oggi l’Europa non c’è possibilità di avviare una politica industriale che risponda ai requisiti descritti. Come già abbiamo visto, la linea di condotta possibile è quella avente unicamente carattere difensivo, con l’esito di porre l’Europa in concorrenza con i paesi in via di sviluppo e al tempo stesso di ostacolare l’innovazione nel sistema economico europeo, con l’effetto finale di deprimere il commercio mondiale e le possibilità di sviluppo dell’intera comunità internazionale.
L’avvio di una politica industriale europea non può fondarsi su una base di potere costituita dagli Stati nazionali europei, perché questa rende praticabile solo la strada del coordinamento e della collaborazione comunitaria. L’esperienza ha dimostrato l’inadeguatezza strutturale di questa soluzione. Accordi multilaterali sono stati stipulati tra imprese e tra governi europei per raggiungere la «soglia minima» richiesta dagli investimenti nei settori di punta e per assicurare uno sbocco di mercato di dimensioni adeguate; ma questi accordi hanno dato risultati deludenti. Basti pensare alle esperienze del Concorde in campo aeronautico, dell’Eurodif e dell’Urenco in campo energetico, dell’Esro in campo spaziale. Il limite invalicabile di questi accordi è il loro carattere confederale, che impone un dosaggio rigido dei vantaggi e degli oneri afferenti ai vari partecipanti e quindi impedisce il salto di qualità verso una struttura produttiva europea.
L’inadeguatezza dell’assetto confederale oggi esistente come base di una politica industriale europea è confermata ponendosi dal punto di vista delle relazioni internazionali. Porre il problema di dare vita ad una politica industriale europea significa porre il problema di regolare in modo nuovo i rapporti con gli Stati Uniti, con l’Unione Sovietica e con i paesi del Terzo mondo. Ma è chiaro che l’Europa potrà essere un soggetto attivo in questa negoziazione così da tutelare i propri interessi e contribuire alla ricerca di una soluzione evolutiva solo se potrà agire come un’unità. Fino a quando permarrà divisa, l’Europa sarà fatalmente un soggetto passivo nella scena internazionale.
La necessità di un progresso istituzionale dell’integrazione europea — la nascita di un esecutivo dotato di sovranità economica — come condizione per il varo di una politica industriale europea risulta evidente, infine, ove ci si ponga dal punto di vista degli strumenti necessari per avviare una coerente politica industriale europea. La Comunità dovrebbe disporre, per sostenere la propria azione, di rilevanti risorse finanziarie proprie, dovrebbe avere la possibilità di manovrare il credito e la fiscalità e di sostenere con commesse la domanda nei settori a sviluppo artificiale. Ora, non solo è evidente che la Comunità non dispone oggi di questi strumenti, ma è chiara altresì la scarsa probabilità che questi strumenti possano esserle affidati nelle condizioni oggi vigenti, sulla base di accordi intergovernativi. Questi strumenti sono — e possono essere soltanto — prerogativa di un governo europeo.
Ciò indica che l’avvio di una politica industriale a livello europeo, nel senso pieno del termine, è destinato a rimanere un obiettivo irrealistico fino a quando non esisterà una volontà pubblica europea, cioè fino a quando la C.E.E. non disporrà delle strutture attraverso le quali possano esprimersi, confrontandosi sulla base di una lotta politica europea, i diversi interessi politici e i gruppi di pressione.
Il fatto è che l’Europa ha oggi l’occasione per raggiungere la propria unificazione politica. L’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale garantisce la base politica per trasformare la Comunità europea in uno Stato federale. Il rilancio dell’Unione economico-monetaria pone oggi in discussione il trasferimento della sovranità monetaria, e con essa della sovranità economica, dagli Stati agli organi europei. Non c’è chi non veda come la Comunità, con l’elezione diretta del Parlamento europeo e la moneta europea, sarebbe a tutti gli effetti uno Stato, certo bisognoso ancora di rafforzarsi, ma ormai in grado di garantire il costante e irreversibile progresso del processo di integrazione.
L’avvio di una politica industriale europea va dunque pensato nel quadro della realizzazione dell’Unione economico-monetaria. Al di fuori di questo quadro è destinato a ripetersi il circolo vizioso per cui la politica industriale non può essere avviata per la mancanza di autorità degli organismi comunitari, mentre questi ultimi puntano sulla politica industriale come mezzo per acquisire autorità.
La politica industriale va pensata nel quadro dell’Unione economico-monetaria perché la politica industriale pone in discussione l’esercizio del potere economico dell’Europa, mentre il progetto di Unione economico-monetaria pone in discussione la creazione di tale potere, o meglio il trasferimento di tale potere dagli Stati all’Europa.
Queste conclusioni sono verificate ove ci si ponga nella prospettiva, simmetricamente contraria, di pensare una politica industriale al di fuori dell’Unione economico-monetaria. Non sfugge che qualsiasi progresso nel settore della politica industriale europea sarà sempre estremamente fragile fino a quando su di esso penderà la spada di Damocle costituita dalla instabilità monetaria che caratterizza l’Europa divisa. Ciò accade perché la debolezza della moneta e della bilancia dei pagamenti impone di orientare le scelte di politica economica, e in particolare di politica industriale, verso l’obiettivo di migliorare i conti con l’estero e non verso l’obiettivo dello sviluppo equilibrato economico e sociale nel quadro europeo.
La posizione dell’Italia.
L’avvio di una politica industriale europea nel quadro della realizzazione dell’Unione economico-monetaria corrisponde agli interessi profondi di tutti gli Stati europei; per i paesi europei più deboli, costituisce problema di importanza vitale.
Lo sviluppo industriale realizzatosi nella C.E.E. ha avuto carattere dualistico, perché, in assenza di un’autorità in grado di regolare il mercato, le tendenze spontanee giocano a favore delle aree più sviluppate. La crisi degli anni ‘70 e la politica del «ciascuno per sé» adottata dai paesi europei hanno accentuato il carattere dualistico dello sviluppo comunitario, dando vita all’«Europa a due velocità». Per i paesi deboli è oggi essenziale bloccare, con il varo di una coerente politica economica ed industriale, questa logica perversa prima che sia troppo tardi. Si consideri che l’allargamento della Comunità, prevedibile per un futuro non lontano, a paesi più deboli dell’Italia, in mancanza del rafforzamento della Comunità renderebbe ancor più grave e probabilmente irrimediabile per un lunghissimo periodo di tempo la spaccatura.
Il varo della politica industriale fondata sui cartelli anti-crisi non può essere considerato una risposta adeguata al problema. Questa politica è oggi difesa da alcuni paesi deboli, fra cui l’Italia, perché essa permette di attenuare i problemi dell’occupazione divenuti drammatici nelle aree periferiche. Ma è evidente che una strategia del genere da un lato non corrisponde, come visto, alle esigenze dell’economia europea nel suo insieme, dall’altro lato implica una divisione del lavoro intra-europeo regressiva, che specializza le economie più deboli nelle lavorazioni obsolete.
Il rilancio dell’Unione economico-monetaria oggi in corso in Europa offre ai paesi deboli l’occasione per ottenere il varo di una politica industriale che, rilanciando lo sviluppo economico, al tempo stesso rimedi agli squilibri territoriali esistenti.
L’Unione economico-monetaria non può esaurirsi all’aspetto monetario. Il rigore della stabilizzazione monetaria non avrà possibilità di imporsi se non sarà sorretto dallo stabilimento delle condizioni per cui il rigore possa essere praticato dai paesi deboli senza subire tutto l’onere dell’aggiustamento. Ciò pone l’esigenza della solidarietà europea. Ma a nessuno sfugge che tale solidarietà avrà tante maggiori possibilità di realizzarsi, se i paesi deboli sapranno presentare soluzioni in grado di conciliare i loro legittimi interessi con quelli più generali dell’Europa. La richiesta del varo di una politica industriale e regionale europea in concomitanza con il varo dell’Unione monetaria risponde a questa esigenza.
In questo quadro va detto che la realizzazione di una politica industriale europea può essere uno strumento efficace per affrontare il problema del sottosviluppo relativo delle aree depresse europee. Ciò può avvenire in due modi. Il modo più evidente è la localizzazione nelle aree depresse delle industrie di punta sostenute dai programmi europei; l’obiettivo è realistico perché per i settori d’avanguardia la scelta della localizzazione non è vincolata da particolari esigenze produttive. In secondo luogo, il legame che può essere stabilito fra politica industriale e politica regionale dipende dai settori produttivi incentivati dalla politica industriale stessa. È probabile che uno sviluppo industriale fondato in maggiore misura sulle imprese che operano al diretto servizio del territorio sia più favorevole alle aree periferiche rispetto ad altri modelli di sviluppo.
Va detto che l’Italia ha oggi più di ogni altro partner europeo la responsabilità di farsi carico di iniziative per il varo di una coerente politica industriale europea. Ciò perché strutturalmente i limiti del processo di integrazione tendono a gravare soprattutto sui paesi più deboli. In gioco oggi è la partecipazione stessa dell’Italia all’Europa, e questa non dipende solo da quanto l’Italia può fare al suo interno, ma anche da come procede la costruzione europea.