IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XX, 1978, Numero 2-3, Pagina 79

 

 

L’Europa e il mondo tra
libero scambio e protezionismo
 
GUIDO MONTANI
 
 
 
1. La crisi del commercio internazionale.
Il commercio internazionale è in crisi. Dopo gli avvenimenti del 1973, ad anni di cedimento si alternano anni di lieve ripresa. Ma il trend è abbastanza netto. Il tasso medio annuo di aumento dell’ultimo quinquennio è inferiore alla metà di quello del decennio precedente (8,5%). L’espansione eccezionale degli scambi mondiali nel dopoguerra, che non ha confronti nella storia del commercio mondiale, sembra oramai definitivamente esaurita.
La contrazione del commercio mondiale è un indice preoccupante di una inversione di tendenza dell’assetto economico mondiale. In effetti, si sta assistendo al ritorno di pratiche protezionistiche, palesi — come l’introduzione di tariffe doganali e le restrizioni ai movimenti di capitali — o od occulte — come le fluttuazioni monetarie, le manovre fiscali e le sovvenzioni alle industrie non competitive. L’ordinamento economico internazionale, che nel dopoguerra ha consentito l’affermazione del libero scambio, oggi è contestato da più parti e non si vede ancora con chiarezza quali siano le possibili soluzioni della crisi. Da un lato, come in sede di negoziati G.A.T.T., si iniziano trattative per le riduzioni tariffarie nella speranza che la logica che ha guidato le fasi precedenti possa prevalere di nuovo. Ma, dall’altro, quasi ogni giorno assistiamo all’introduzione di misure per proteggere le industrie in crisi e l’occupazione nazionale in Europa e negli Stati Uniti, come è accaduto recentemente per l’industria siderurgica.
Nella storia del commercio internazionale non è la prima volta che si manifesta questa drammatica alternativa fra libero scambio e protezionismo. Fra le due guerre mondiali si è posto il medesimo dilemma. E vi sono ragioni per ritenere che oggi ci troviamo in una situazione simile proprio perché quei problemi, che hanno causato la grande crisi, non sono stati risolti e si ripropongono con la medesima gravità e cogenza.
È bene soffermarsi pertanto, anche se molto sommariamente, ad analizzare le cause profonde dell’attuale disordine economico internazionale, per non cadere nell’illusione che si possa uscire dalla crisi con semplici provvedimenti congiunturali e di breve periodo. La crisi è strutturale e può essere affrontata adeguatamente solo introducendo importanti modifiche istituzionali all’attuale assetto economico mondiale. L’alternativa fra libero scambio e protezionismo si gioca a livello mondiale e non dipende dalla buona o cattiva disposizione di questo o quel governo, ma dalla scelta per una diversa distribuzione del potere nel mondo.
Non si può, infine, più pensare che la libertà di commerciare sia legata esclusivamente all’altezza delle tariffe doganali: nelle economie moderne, dove lo Stato interviene in mille modi per orientare la produzione, i sussidi alle imprese in difficoltà o la fiscalizzazione degli oneri sociali possono avere gli stessi effetti distorsivi della concorrenza internazionale. Per questo è indispensabile affrontare il problema della ripresa del commercio internazionale in relazione a quello della ristrutturazione industriale, in corso sia nei paesi avanzati che nel Terzo mondo.
 
2. Il declino dell’Europa e del libero scambio.
Nel secolo scorso, l’espansione del commercio mondiale ha coinciso in gran parte con l’espansione di quello europeo. La supremazia del Regno Unito sui mari e sui mercati finanziari ha consentito l’unificazione del mercato mondiale, grazie all’abbattimento progressivo delle barriere tariffarie e all’adozione di un sistema monetario universalmente accettato, il gold standard.
Dopo la fine del primo conflitto mondiale, ci si illuse, tuttavia, di poter rimettere in sesto il vecchio ordine economico senza tener conto che nuovi fattori erano intervenuti a modificare la bilancia mondiale delle forze. Un nuovo centro di potere si affacciava ormai sulla scena internazionale. Nel 1870, la produzione di ghisa era pari a 6,1 milioni di tonnellate nel Regno Unito e a 1,7 negli U.S.A. Nel 1920, essa era di 8,2 milioni nel Regno Unito e di 37,5 negli U.S.A. La quota delle esportazioni di manufatti sul totale mondiale era, sempre nel 1870, del 31,8% per il Regno Unito e del 23,3% per gli U.S.A. Per il periodo 1926-29 l’importanza relativa dei due paesi venne capovolta: la quota degli U.S.A. salì al 42,2% mentre quella del Regno Unito scese al 9,4%. Sul fronte finanziario, New York si affiancava ormai a Londra come centro di importanza mondiale e, data la difficoltà, mai conosciuta prima, di mantenere la convertibilità in oro della sterlina, il dollaro venne sempre di più utilizzato come moneta degli scambi internazionali.
Ma al bilanciamento della forza economica degli Stati Uniti e dell’Europa non corrispose allora una adeguata suddivisione delle responsabilità internazionali. Mentre Londra continuava a funzionare come centro finanziario internazionale, manovrando il tasso di sconto e gli investimenti in funzione dell’andamento della congiuntura internazionale, la piazza di New York metteva in pratica solo una politica economica in funzione delle esigenze americane. Cosi avvenne che la sostanziale unità del mercato mondiale acquisita nel periodo prebellico venne incrinata e sulle due sponde dell’Atlantico, ma specie in Europa, ogni paese cominciò a praticare una politica monetaria e commerciale indipendente, a difesa di obiettivi nazionali di sviluppo e di occupazione.
Nel 1929, l’Europa nel suo insieme, con il 47,4% delle esportazioni mondiali, occupava ancora il primo posto nel commercio mondiale. Ma il Regno Unito, a causa di crescenti difficoltà nella sua bilancia dei pagamenti, si orientava sempre più verso il protezionismo. La Germania non aveva altra via per far fronte al pagamento dei debiti di guerra che contenere le importazioni. E simile era il comportamento degli altri paesi europei. L’ordine economico internazionale era ormai divenuto una pura parvenza: da un sistema multilaterale di scambi si scivolava inesorabilmente verso il bilateralismo. In effetti, ai primi tentennamenti del commercio mondiale, ben presto tutti seguirono l’esempio degli Stati Uniti, che nel 1930 elevarono intorno al loro mercato nazionale la più imponente delle barriere protettive (la tariffa Smoot-Hawley). L’America rinunciò allora ad esercitare il suo ruolo di potenza mondiale e gli Stati europei non avevano più la capacità di farlo. La crisi internazionale era inevitabile.
 
3. La leadership americana, l’integrazione europea e la ripresa del libero scambio.
Nel secondo dopoguerra, apparve a tutti evidente che l’Europa, prostrata dal più sanguinoso dei conflitti, non poteva più svolgere un ruolo guida nel mondo, che venne in effetti diviso dalle superpotenze in due grandi sfere egemoniche. Nella fase della guerra fredda, gli Stati Uniti, vincendo le interne resistenze isolazionistiche, seppero esercitare sul mondo occidentale una benefica influenza. Essi garantirono il funzionamento, da un lato, del Fondo monetario internazionale, che assicurò un lungo periodo di cambi stabili e di convertibilità generalizzata delle monete, e dall’altro del G.A.T.T., che costituì il foro entro il quale vennero progressivamente contrattate le riduzioni tariffarie multilaterali che trasformarono l’occidente in un vasto e libero mercato.
In questa fase, la solidarietà americana verso l’Europa, che già si era manifestata nella guerra al nazismo, continuò sotto forma di assistenza economica. Nel 1947, con il Piano Marshall, gli Stati Uniti fornirono ai loro alleati europei una ingente quantità di aiuti per rimettere in sesto le economie europee, che mai avrebbero potuto riprendere a funzionare, con tanta efficienza e in così breve lasso di tempo, in modo autonomo. Si calcola che nel 1950 la quasi totalità dei paesi beneficiati potesse produrre il 20% in più del livello del 1938. I generosi aiuti del Piano Marshall (11,4 miliardi di dollari dal 1948 al 1951) attenuarono il cosiddetto dollar shortage, cioè la grave scarsità di dollari da parte dei paesi europei, bisognosi di importare dagli U.S.A. beni capitali e di consumo.
Gli aiuti americani vennero concessi anche in funzione antisovietica: una Europa prospera avrebbe infatti contenuto con più energia la pressione staliniana. Ma a differenza dell’U.R.S.S., che volle egemonizzare l’organizzazione economica (Comecon) dei paesi dell’Europa orientale, gli Stati Uniti spinsero gli europei a darsi delle istituzioni autonome, dalle quali essi erano esclusi. Così nacquero il Consiglio d’Europa e, in seguito, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio e il progetto della Comunità europea di difesa.
Fu in questo contesto di solida collaborazione fra Europa e America che nacque e poté svilupparsi la Comunità europea. All’inizio, il Mercato comune non fu nient’altro che una unione doganale, ma i trattati di Roma prevedevano la sua trasformazione in una vera e propria unione politica ed economica. Gli effetti sul benessere europeo e mondiale della creazione del Mercato comune furono notevoli. Basta osservare che, in volume, per il periodo 1958-1971 le importazioni ed esportazioni intracomunitarie sono aumentate del 505% e che per lo stesso periodo le esportazioni extracomunitarie sono aumentate del 174%. Non vi sarebbe stato nessun «miracolo economico» italiano, tedesco, ecc. senza la Comunità europea. Infine, la creazione del Mercato comune ha avuto un effetto positivo anche sull’andamento del commercio mondiale, perché tutte le stime fatte in proposito mostrano che esso ha «creato» commercio, al netto di effetti protezionistici che possono manifestarsi quando viene istituita una unione doganale. Non vi è dubbio pertanto che il Mercato comune ha rappresentato un importante fattore di sviluppo economico, sociale e civile del dopoguerra.
 
4. La crisi internazionale e il ritorno del protezionismo.
Questo periodo di stabilità e prosperità internazionale doveva tuttavia aver termine con la fine della guerra fredda. Sul fronte occidentale, l’Europa economica divenne abbastanza ricca e importante da contrastare la politica americana, come dimostrano le minacce di de Gaulle di convertire le riserve francesi di dollari in oro e le trattative del Kennedy Round. Sul fronte orientale, la leadership sovietica sul mondo comunista venne invece contestata dalla Cina. La fase della distensione, caratterizzata dal superamento della tensione fra le superpotenze, fu pertanto generata dal loro tentativo di mantenere la propria egemonia sulle rispettive zone di influenza.
In questa situazione di relativa debolezza delle superpotenze, due sono i fattori che hanno contribuito a incrinare il vecchio ordine economico mondiale. Il primo riguarda l’assetto monetario. Verso la fine degli anni sessanta, divenne evidente che, dato l’elevato interscambio europeo e l’enorme quantità di oro e valute pregiate accumulate dalle banche centrali europee, sarebbero state possibili speculazioni internazionali di vaste proporzioni sulle monete europee, fra di loro e nei confronti del dollaro, sempre più debole come moneta di riserva. Il Vertice europeo dell’Aja del 1969 cercò di porre un argine al fenomeno auspicando la creazione di una «Unione economica e monetaria europea». Nel 1970, in effetti, venivano accettate dalla Comunità le proposte contenute nel Rapporto Werner sulla «realizzazione per fasi dell’Unione economica e monetaria».
Ma questo progetto fallì per l’impossibilità, ormai evidente oggi, di coordinare le economie europee prima di avere delle istituzioni monetarie comuni. Quando il 15 agosto 1971 il governo americano dichiarò l’inconvertibilità del dollaro, il sistema delle parità fisse di Bretton Woods venne definitivamente abbandonato e si iniziò la fase delle fluttuazioni monetarie generalizzate. L’Europa del Mercato comune, che aveva potuto funzionare grazie all’utilizzazione del dollaro come moneta europea — si pensi solo alla sua importanza per il mercato agricolo —, si trovò del tutto indifesa. Nonostante il Piano Werner fosse ormai adottato, ogni paese manovrò tassi di interesse e masse monetarie in funzione di obiettivi interni di politica economica; così si realizzò la divergenza progressiva, e non la convergenza, delle economie europee. Con le fluttuazioni monetarie in Europa e nel mondo si compì un passo decisivo verso una situazione di sempre più grave disordine monetario, che potrebbe facilmente degenerare nel caos e nel ritorno al bilateralismo prebellico negli scambi mondiali.
Il secondo fattore dell’incrinatura del vecchio ordine, che rivela la portata storica dell’attuale crisi internazionale, riguarda i rapporti fra paesi industrializzati e Terzo mondo. Con la fine del periodo coloniale, per questi paesi l’emancipazione politica non è stata accompagnata da un miglioramento sostanziale, o anche solo dalla speranza di un miglioramento, della loro condizione di povertà. La loro emarginazione dal commercio mondiale si è accentuata, in termini relativi. La quota delle esportazioni dei paesi sottosviluppati sul totale mondiale, che era salita dal 16% all’inizio del secolo al 31% nel 1950, è scesa, con regolare progressione, ancora al 17,8% nel 1970. Essi esportano prevalentemente materie prime e importano manufatti. Hanno bisogno di aiuti finanziari e tecnici e chiedono di poter esportare le loro produzioni sui mercati più ricchi. Ma fino ad ora gli aiuti sono stati scarsi e gli ostacoli tariffari ed istituzionali dei paesi avanzati impediscono loro di puntare, per il loro sviluppo, sugli sbocchi dei mercati di massa.
Per queste ragioni, a causa della crisi della leadership americana sul mondo occidentale e delle nuove pressanti rivendicazioni dei paesi emergenti del Terzo mondo, sta prevalendo la politica del «ciascuno per sé». Al disordine monetario internazionale si accompagna l’aumento indiscriminato dei prezzi delle materie prime, come estremo tentativo dei paesi più poveri di farsi giustizia. I paesi industrializzati, per conto loro, hanno reagito alle difficoltà internazionali con la decisione di incentivare le esportazioni e di contenere le importazioni. Così, anche se a parole il principio della cooperazione internazionale resta salvo, in verità viene praticata la politica ben più spregiudicata e remunerativa, ma solo nel brevissimo periodo, del beggar my neighbour.
 
5. Ristrutturazione industriale e commercio internazionale.
Nel dibattito in corso fra le forze politiche e sociali non è ancora emerso con sufficiente chiarezza che il problema della ristrutturazione industriale ha una dimensione mondiale e che la sua soluzione, in senso progressivo o regressivo, è legata al futuro assetto del commercio internazionale. Il mondo ormai è interdipendente. Occorre pertanto ricercare quelle alternative che consentano di sfruttare nel miglior modo possibile le risorse naturali ed umane sul piano mondiale. Ciò sarà tanto più facile e possibile quanto più si prenderà coscienza della natura del processo di trasformazione che sta investendo tanto le economie avanzate quanto i paesi in via di sviluppo.
Nelle economie avanzate è in corso il passaggio dal modo di produzione industriale a quello post-industriale. La lavorazione alla catena di montaggio viene sempre più contestata e si rivela conveniente passare a processi produttivi semi-automatizzati o completamente automatizzati, in cui la lavorazione materiale viene eseguita dalle macchine sotto il controllo di personale altamente qualificato. Questo trend storico, per quanto contrastato nel breve periodo, non cessa di avanzare perché corrisponde ad una aspirazione fondamentale della nostra società: la liberazione dal lavoro parcellizzato e ripetitivo. Ciò significa che nei paesi ad economia avanzata occorrerà procedere ad un vasto piano di ristrutturazione delle industrie cosiddette «mature», come ad esempio quelle relative a certe produzioni tessili, per potenziare invece i settori di punta come l’aeronautica, l’elettronica, ecc. Nello stesso tempo, occorre affrontare l’urgente problema della riqualificazione della manodopera che viene liberata dal progresso tecnologico e dalla contrazione delle produzioni mature. Il passaggio da un tipo di produzione ad un altro aumenterà la produttività ed il benessere, ma potrà avvenire senza tensioni sociali, sofferenze e sprechi, solo se affrontato con consapevolezza dalle forze politiche e sociali.
Nei paesi del Terzo mondo, d’altro lato, si comincia a intravvedere la possibilità di fare decollare l’economia incentivando la produzione e l’esportazione di manufatti richiedenti una tecnologia elementare o intermedia e una manodopera poco qualificata. È questo il primo indispensabile passo per poter competere, in un secondo tempo, coi paesi avanzati sul fronte dei beni ad alto contenuto tecnologico, richiedenti competenze e specializzazioni oggi ancora non disponibili alle popolazioni del Terzo mondo.
È ovvio che queste due tendenze in atto nei paesi industrializzati e sottosviluppati sono complementari solo nella misura in cui i primi sono disposti a rinunciare a proteggere le loro industrie mature e ad importare questi beni dai paesi emergenti, con costi della manodopera più bassi. Ciò comporta un avanzamento nella divisione internazionale del lavoro, perché comunque i paesi del Terzo mondo non possono competere nei settori a tecnologia d’avanguardia, ma possono godere dei vantaggi di questa specializzazione nella misura in cui sono in grado di importare macchine sempre più perfezionate, efficienti ed a basso costo.
Purtroppo, bisogna però constatare che nell’attuale situazione di crisi internazionale vi è un orientamento decisamente contrario allo sviluppo in senso progressivo della divisione internazionale del lavoro. In particolare, gli Stati europei, a causa della loro divisione, sono solo capaci di attuare delle politiche di difesa della produzione e dell’occupazione nazionale. Ciò è anche giusto, in mancanza di altre alternative. Difendere l’occupazione e la produzione interna, con sussidi ed emissioni monetarie, per quanto inflazionistico sia, evita comunque una disastrosa caduta della domanda aggregata che potrebbe condurre a crisi di sovrapproduzione simili a quelle degli anni trenta. Ma rispetto alla tendenza secolare esaminata, tale politica assume un doppio significato regressivo. Da un lato, ostacola l’introduzione di processi automatizzati ad alta produttività e, dall’altro, impedisce il dislocamento delle industrie mature a tecnologia intermedia al Terzo mondo. Non vi sarà ripresa del commercio mondiale fino a che non si accetterà di rendere complementare, e non concorrente, lo sviluppo delle economie avanzate e delle economie arretrate.
 
6. L’Unione monetaria europea e la ripresa del libero scambio.
Per riassumere, l’attuale situazione internazionale risulta caratterizzata dai seguenti fattori. In primo luogo, vi sono enormi spinte al mutamento provenienti dal desiderio dei paesi europei di svolgere in campo internazionale un ruolo più attivo e indipendente dalle superpotenze. A ciò si accompagna, nei paesi avanzati, la progressiva affermazione del modo di produzione post-industriale. Sul fronte dei paesi sottosviluppati si manifesta invece la spinta sia a forzare il mercato delle materie prime per modificare la distribuzione internazionale della ricchezza, sia ad impadronirsi delle produzioni mature e ad invadere i mercati più ricchi.
L’attuale assetto internazionale è in contrasto con l’affermazione di queste forze. Gli Stati Uniti hanno troppe incombenze internazionali per avere anche la forza di provvedere a significative aperture al Terzo mondo, il quale, è bene ricordarlo, invia solo il 20% delle sue esportazioni verso il Nord-America contro il 38% verso l’Europa. L’Europa, d’altro canto, che rappresenta il principale sbocco dei paesi sottosviluppati e risulta di gran lunga la prima potenza commerciale mondiale — la Comunità a nove esporta per il 34% del totale mondiale rispetto al 12% degli U.S.A. —, non è in grado di assumersi responsabilità internazionali. Gli Stati europei sono costretti a praticare politiche commerciali difensive, che ostacolano il loro sviluppo e quello dei loro partners. È la divisione dell’Europa il principale fattore che impedisce il progresso delle forze produttive su scala mondiale e che può condurre al ritorno del nazionalismo economico.
Si verifica pertanto, in questi anni, una situazione altrettanto grave di quella che ha condotto alla grande crisi del 1929. Allora, di fronte alla debolezza degli Stati europei in declino, l’America, ancora insensibile al suo destino di superpotenza, si rifiutò di prendersi carico della gestione dell’economia mondiale. Questo errore non fu più ripetuto nel secondo dopoguerra e tutti abbiamo sperimentato i benefici effetti di un vasto e libero mercato mondiale. Ora questi risultati sono di nuovo messi in discussione a causa della debolezza americana e dell’impotenza europea. Una situazione in cui la principale potenza commerciale mondiale non possiede ancora una propria moneta, ma alimenta il disordine monetario perché utilizza il dollaro per gli scambi intraeuropei, è destinata a finire. Se gli europei non vorranno incamminarsi con più decisione sulla via dell’unità, saranno costretti a riconoscere senza più reticenze l’egemonia dell’America sul mondo occidentale, anche se ciò si accompagnerà certamente ad una situazione di stagnazione economica e sociale.
Tuttavia gli europei hanno oggi l’occasione per realizzare l’unificazione politica dell’Europa e gettare le premesse di una equal partnership euro-americana che garantirebbe la fondazione di un nuovo e progressivo ordine mondiale per un lungo ciclo storico. L’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale costituisce in effetti la base politica indispensabile per trasformare la Comunità europea in un vero e proprio Stato federale. Con la partecipazione dei cittadini, delle forze sociali e dei partiti alla costruzione dell’Europa diventa possibile rilanciare, come ha recentemente proposto il Presidente della Commissione della Comunità Roy Jenkins, il progetto di Unione economica e monetaria. Infatti, solo se l’Europa saprà dotarsi di un’unica moneta, di un unico fondo di riserve internazionali (e le riserve in oro dell’Europa sono le più consistenti del mondo), di una sola bilancia dei pagamenti, il governo della Comunità potrà impostare una efficace politica economica internazionale, anche nei confronti delle superpotenze. Ed è facilmente prevedibile, su questa base, che si possa avviare una proficua collaborazione fra Europa ed America, perché esistono interessi convergenti sulle due sponde dell’Atlantico, per riformare il sistema monetario internazionale, con la moneta europea che potrebbe affiancarsi al dollaro come moneta di riserva, e rilanciare un nuovo ciclo di riduzioni tariffarie per far riprendere lo sviluppo del commercio internazionale sulla base di accordi multilaterali.
Nel quadro dell’Unione monetaria europea cadrebbero tutti gli ostacoli che oggi soffocano lo sviluppo delle forze produttive. L’abbattimento delle barriere economiche intraeuropee e la costituzione di una bilancia europea dei pagamenti consentirebbero ai paesi della Comunità di progettare il proprio sviluppo senza più temere i vincoli derivanti da una debole posizione internazionale. Si potrebbero avviare piani a dimensione continentale per la riconversione industriale, per incentivare le industrie di punta, dallo sviluppo delle quali dipende la possibilità di alleggerire la pressione occupazionale sui settori maturi. In questo modo si getterebbero anche le basi per fruttuosi accordi commerciali con il Terzo mondo, che ha bisogno di vendere, non solo le sue materie prime, ma anche i suoi manufatti, per importare macchinari ed esperienza tecnologica.
Per concludere, il commercio dei paesi occidentali rappresenta la quasi totalità del commercio mondiale. È comunque da esso che dipendono le tendenze generali. Il quadro attuale rappresenta un freno alla sua evoluzione e solo una Europa unita e consapevole del suo ruolo può costituire un fattore capace di invertire l’attuale tendenza al nazionalismo economico. La scelta per la Unione monetaria, come ha indicato Jenkins, non è facile. Ma è possibile e dipende solo dalla volontà degli europei. Il mondo ha bisogno di maggiore stabilità e di prospettive a lungo termine. L’America, nel dopoguerra, ha fatto ormai il suo compito. Spetta ora agli europei affiancarsi ai loro partners d’oltre Atlantico per prendersi il proprio carico di responsabilità. Ciò è necessario e doveroso, perché da questa scelta degli europei dipende anche il futuro, per un lungo ciclo storico, di tutta l’umanità.

 

 

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