Anno XXII, 1980, Numero 1-2, Pagina 10
Dallo SME all’unione economica e monetaria:
il ruolo della politica fiscale
ALBERTO MAJOCCHI
1. — Il processo di integrazione economica europea si avvia in questo secondo dopoguerra in un contesto internazionale caratterizzato da un sistema di cambi fissi. La moneta che costituisce il mezzo di pagamento riconosciuto internazionalmente è il dollaro, e le singole valute europee mantengono i rapporti di parità stabiliti sia nelle loro relazioni reciproche, sia rispetto alla moneta-chiave del sistema. In questa situazione risulta notevolmente favorita l’espansione degli scambi non solo all’interno della Comunità, ma anche fra la Comunità e il resto del mondo. Particolarmente elevata, anche a seguito dello sviluppo dell’Unione doganale, è la crescita dell’integrazione interna, con un tasso di espansione circa doppio rispetto a quello relativo alle esportazioni extra-comunitarie, che pure crescono in misura rilevante nel periodo 1958-1971. Nello stesso tempo, la stabilità monetaria favorisce l’evoluzione delle politiche comuni, e in particolare lo sviluppo della politica agricola che perviene al livello della fissazione di prezzi comuni per l’intera Comunità.
Queste condizioni si modificano radicalmente all’inizio degli anni ‘70, ed il punto di svolta definitivo è costituito dalla decisione americana del 15 agosto 1971 di rendere inconvertibile il dollaro. Prive di uno stabile punto di riferimento le monete europee cominciano a fluttuare, provocando il repentino fallimento del primo tentativo, avviato con il vertice dell’Aja del 1969 e che prende successivamente corpo con il rapporto Werner, di giungere, conclusa la costruzione dell’Unione doganale, ad una vera e propria Unione economica e monetaria.
2. — Il fallimento del piano Werner, oltre che a queste mutate condizioni internazionali che si riflettono sulla scena europea, è imputabile anche ad altri due fattori, che è opportuno considerare per i riflessi che avranno successivamente nell’elaborazione delle regole istitutive dello SME. Essi sono: 1) la mancanza di un grado sufficiente di flessibilità nei tassi di cambio durante il periodo transitorio che porta verso l’obiettivo finale di una vera e propria integrazione monetaria; 2) l’assenza di misure economiche parallele, che sostengano le economie più deboli vincolate dalla riduzione dei margini consentiti di fluttuazione.
Le considerazioni che si possono svolgere relativamente al primo punto sono abbastanza lineari. In una situazione in cui i singoli paesi mantengono una relativa autonomia di condotta di politica fiscale e monetaria, e reagiscono con misure nazionali agli shocks interni ed esterni, l’andamento delle economie europee è evidentemente divergente. Il vincolo imposto al comportamento dei tassi di cambio non è quindi sufficiente, se si tratta di una misura presa isolatamente, ad impedire che si manifestino andamenti diversificati di alcune variabili strategiche che influenzano la bilancia dei pagamenti. Se in conseguenza si manifestano situazioni caratterizzate da deficit consistenti, i paesi in questione sono indotti a variare il tasso di cambio, come misura di riaggiustamento adeguata almeno per il breve periodo. Questo è quanto si è verificato durante la prima esperienza relativa agli accordi di cambio, la cui rigidità ha reso necessaria per alcuni paesi la fuoruscita dal sistema.
Per quanto riguarda il secondo punto, è evidente che soprattutto i paesi «deboli» risentono di difficoltà consistenti durante la fase di transizione verso l’integrazione monetaria. Il processo dovrebbe quindi essere accompagnato da misure economiche di sostegno, per non rendere eccessivamente onerosa la rinuncia alla manovra del tasso di cambio nel breve periodo. Da questo punto di vista il piano Werner risulta assolutamente carente, limitandosi a prevedere un’armonizzazione parziale delle politiche economiche dei diversi paesi.
3. — A causa quindi delle sue debolezze intrinseche, ma soprattutto per le condizioni di disordine monetario internazionale culminate nella crisi del dollaro come moneta di riserva, il tentativo di pervenire all’unificazione monetaria attraverso lo schema gradualistico previsto dal piano Werner fallisce totalmente ancor prima che scoppi la crisi petrolifera, di fronte alla quale i paesi europei si presentano in ordine sparso e affidandosi alla regola aurea dell’«ognun per sé e Dio per tutti». I paesi che vengono colpiti in misura più rilevante dalla tassa petrolifera, o che non sono in grado di provocare la variazione dell’assorbimento interno necessario per finanziarne il pagamento senza indurre disavanzi nella bilancia dei pagamenti, sono costretti a ricorrere a svalutazioni ripetute del tasso di cambio; d’altro lato i paesi che riescono a condurre in porto rapidamente le manovre restrittive della domanda interna si ritrovano con un surplus crescente di bilancia dei pagamenti e con una progressiva rivalutazione della propria moneta. Si innestano quindi processi di causazione cumulativa, con un circolo vizioso per i paesi deboli ed un circolo virtuoso per i paesi forti, che porta a quella «Europa a due velocità», la cui esistenza viene denunciata nel rapporto Tindemans.
Ma il protrarsi di questa situazione di disordine monetario all’interno della CEE, dopo aver praticamente sconvolto l’unitarietà del mercato agricolo, rischia anche di distruggere il livello di integrazione già raggiunto nel settore industriale. È per reagire a questa situazione che viene avanzato il progetto di creazione del Sistema monetario europeo.
4. — Non è il caso in questa sede di descrivere analiticamente le regole che governano lo SME. Dal nostro punto di vista è sufficiente ricordare che esse garantiscono una maggiore flessibilità durante la fase di transizione, consentendo margini più ampi di fluttuazione per le monete più deboli; non si limitano ad accordi di cambio, ma includono la creazione di una moneta parallela (l’ECU) e una parziale messa in comune di riserve per finanziare, attraverso meccanismi creditizi ad hoc, i paesi con difficoltà di bilancia dei pagamenti; ed infine prevedono trasferimenti di risorse a favore delle economie più deboli, per garantire una graduale convergenza delle prestazioni economiche dei diversi paesi. Nonostante queste innovazioni, che fanno dello SME qualcosa di sostanzialmente diverso rispetto al «serpente», si tratta pur sempre di una risposta parziale rispetto al problema da risolvere e all’obiettivo da conseguire, che è quello di creare in Europa una «zona di stabilità monetaria». Usando la terminologia di Corden, lo SME è soltanto una «pseudo-unione monetaria» in quanto gli Stati membri, pur essendo vincolati al rispetto di certe condizioni, mantengono ancora la sovranità monetaria e sono quindi in grado di assumere comportamenti che influenzano le variabili economiche interne in modo che esse possono risultare incompatibili con le condizioni di equilibrio della bilancia dei pagamenti, rendendo così inevitabile un riaggiustamento delle parità. Questa eventualità, d’altra parte, non consente di realizzare tutti i vantaggi che si possono derivare da condizioni di stabilità monetaria, influenzando in modo negativo i movimenti internazionali di capitali e il flusso di nuovi investimenti verso le aree deboli del sistema.
5. — L’obiettivo ulteriore che si deve realizzare è quindi la trasformazione dello SME in una vera e propria Unione monetaria, il che implica la creazione di una moneta comune e di una Banca centrale — di cui l’ECU e il Fondo monetario europeo costituiscono soltanto l’embrione —, quest’ultima con il compito di gestire la politica monetaria per l’intera Comunità. Soltanto se la volontà politica è indirizzata verso il raggiungimento di questo obiettivo è possibile guidare in modo coerente l’evoluzione dello SME e superare le difficoltà che inevitabilmente emergeranno durante la fase di transizione.
È in questa prospettiva che va analizzato il ruolo della politica fiscale. Se l’obiettivo finale da conseguire è la moneta comune, che rappresenta una tappa indispensabile nel processo volto a dare un governo all’economia europea, occorre allora considerare se, e in che misura, è possibile un’evoluzione delle politiche comuni capace da un lato di favorire il processo di convergenza delle diverse economie e, dall’altro, di sostenere il processo di integrazione monetaria in modo tale da rendere non onerosa la transizione verso la moneta europea. Questa richiesta di un rafforzamento delle politiche comuni implica d’altro lato una dimensione accresciuta del bilancio della Comunità, altrimenti rischia di trasformarsi in una esercitazione retorica priva di contenuto concreto.
6. — Se quindi si ritiene che lo SME rappresenti soltanto una inversione di tendenza rispetto al passato più recente ed un primo passo verso l’obiettivo finale di una vera e propria Unione monetaria, e che necessariamente il suo sviluppo debba essere accompagnato da un rafforzamento delle politiche comuni che passi attraverso un’espansione del bilancio comunitario, occorre prendere avvio, per orientare la discussione, dalla definizione di un modello di riferimento in base al quale valutare la situazione attuale e guidarne l’evoluzione futura.
Un punto di partenza adeguato può essere rappresentato dalla distinzione introdotta da Musgrave sulle diverse funzioni del settore pubblico e dal modello di finanza federale come struttura «ottimale» di governo dell’economia, elaborato da Oates, al fine di giungere ad una definizione adeguata dei livelli di governo a cui debbono essere assegnate le funzioni economiche dell’operatore pubblico.
Nel quadro della moderna economia del benessere, Musgrave rileva che un sistema economico fondato sul libero gioco delle forze di mercato è inadeguato da tre punti di vista. In primo luogo, anche se il sistema opera in piena occupazione e con una efficiente allocazione dei fattori della produzione, non è detto che la distribuzione dei redditi, che dipende dalla proprietà dei mezzi di produzione, sia da considerarsi ottimale dal punto di vista sociale. Esiste quindi spazio per un intervento pubblico che miri ad una redistribuzione del reddito. In secondo luogo, un’economia di mercato non è in grado di assicurare con certezza pieno impiego dei fattori con prezzi stabili. È quindi compito dell’operatore pubblico intervenire con gli strumenti della politica fiscale e della politica monetaria per garantire il mantenimento dell’economia ad elevati livelli di produzione e di occupazione, compatibilmente con un livello relativamente stabile dei prezzi. In terzo luogo, l’operatore pubblico deve produrre direttamente i beni e i servizi per cui non vale il principio di esclusione, nel senso che il consumo di questi beni pubblici da parte di un individuo non riduce le possibilità di consumo da parte di altri, ovvero correggere le imperfezioni di un libero mercato laddove l’allocazione delle risorse può essere negativamente influenzata da fenomeni di esternalità, che provocano eccessi di produzione in certi settori e vuoti di produzione in altri.
A partire da questa concettualizzazione introdotta da Musgrave sul tipo di funzioni economiche che l’operatore pubblico deve svolgere, può svilupparsi l’analisi della distribuzione «ottimale» di funzioni fra i diversi livelli di governo, prendendo avvio da una valutazione dei due casi estremi, quello di un sistema completamente centralizzato e, al limite opposto, di un sistema altamente decentrato, per valutarne l’efficacia dal punto di vista dello svolgimento adeguato di queste tre funzioni, e per giungere alla definizione di un sistema federale come struttura «ottimale» di governo.
7. — Per quanto riguarda l’obiettivo della stabilizzazione, un sistema centralizzato presenta innegabili vantaggi. Innanzitutto, è evidente che l’offerta di moneta deve essere controllata da una autorità responsabile per l’intera area. Se i governi regionali disponessero della facoltà di battere moneta, ciascuno di essi sarebbe indotto a cercare di appropriarsi di risorse reali prodotte in altre parti del territorio attraverso creazione di mezzi di pagamento ed, in conseguenza, si genererebbe una spirale inflazionistica inarrestabile. Privi quindi dello strumento monetario, i governi regionali devono fare affidamento sullo strumento fiscale per stabilizzare le rispettive economie. Ma l’efficacia di questa manovra è molto limitata, in quanto l’economia regionale è assai aperta e quindi, essendo alta la propensione media (e marginale) all’importazione, l’effetto espansivo (o restrittivo) sulla domanda interna di un aumento della spesa (o delle imposte) è assai ridotto.
La centralizzazione delle responsabilità di stabilizzazione dell’economia non significa tuttavia che gli strumenti di prelievo e di spesa non possano essere in parte decentrati ai livelli inferiori di governo. La conclusione operativa che scaturisce dalle osservazioni precedenti è che, qualora esista un’autonomia fiscale degli enti regionali, l’operatore pubblico centrale deve disporre di strumenti finanziari di coordinamento in primo luogo per evitare comportamenti «perversi» da parte di questo settore della finanza pubblica, ed inoltre per prevenire il manifestarsi di forme di concorrenza fiscale fra i diversi enti che, attraverso la concessione di incentivi fiscali, cercano di attirare nuove attività produttive o comunque di ampliare la propria base imponibile.
8. — Le considerazioni precedenti portano ad affrontare il problema distributivo. Proprio per la possibilità che gli effetti di concorrenza fra gli enti inferiori annullino l’efficacia di una politica di redistribuzione del reddito, è necessario che anche questa responsabilità venga attribuita in modo primario all’autorità centrale. Se in una comunità viene attuata una politica redistributiva molto incisiva, attraverso l’imposizione di aliquote fortemente progressive al di sopra di un certo livello di reddito e la concessione di sussidi per chi si trova al di sotto di quel livello, e se questa stessa politica non viene seguita dagli enti confinanti, è evidente che l’efficacia di questa politica verrà svuotata attraverso il trasferimento delle residenze, in quanto i più ricchi tendono a trasferirsi in altre zone fiscalmente meno severe e i più poveri a trasferimenti nella comunità dove prevale una politica più egualitaria. In quest’ultima, quindi, il livellamento delle condizioni di vita potrà realizzarsi attraverso una diminuzione del reddito pro-capite e porterà in definitiva al dissesto dell’ente in quanto, al limite, scompare la base imponibile e tutti i residenti hanno diritto alla concessione del sussidio. Evidentemente, se l’efficacia della politica redistributiva è limitata in particolare dalla mobilità dei residenti, essa varia in misura direttamente proporzionale al variare delle dimensioni dell’ente, ossia sarà tanto più ridotta quanto più limitate sono le dimensioni dell’ente stesso. Dato che, per una molteplicità di fattori, la mobilità internazionale risulta in generale inferiore rispetto alla mobilità interna, ne consegue che l’attribuzione all’ente centrale di governo della responsabilità della politica redistributiva ne assicura il massimo di efficacia.
9. — Se passiamo a considerare l’aspetto allocativo, il problema della ripartizione ottimale fra i diversi livelli di governo della produzione di servizi pubblici appare notevolmente più complesso. In generale, rispetto alla teoria generale dei beni pubblici occorre introdurre un ulteriore elemento: l’ambito spaziale entro cui si manifestano i benefici dell’attività pubblica. Alcuni dei servizi prodotti dall’operatore pubblico sono tali che di essi beneficiano tutti coloro che vivono nel paese, senza che si manifestino significative differenziazioni a seconda della località di residenza. In questo caso, una produzione decentrata di questo servizio non raggiungerebbe probabilmente una condizione di «ottimo» paretiano. Prendiamo il caso della difesa. Se una regione fosse responsabile per l’acquisto di mezzi offensivi e difensivi, e si comportasse in modo da massimizzare il benessere dei residenti nell’ambito della propria comunità, essa spingerebbe la propria attività fino al punto in cui il costo addizionale di ogni acquisto fosse pari alla somma dei benefici che ne scaturiscono per i propri residenti, trascurando così di prendere in considerazione i benefici che derivano ai residenti delle altre regioni dall’accrescimento della capacità militare del paese. La produzione di questo servizio sarebbe quindi inferiore all’ottimo e questo in misura tanto maggiore quanto più ristretto è lo spazio su cui insiste l’autorità responsabile del servizio.
Al contrario, se il compito è attribuito al governo centrale, questo potrà prendere in considerazione i benefici che derivano all’intera collettività dalla produzione del servizio e si può ritenere che, in questo caso, una forma centralizzata di governo possa garantire un livello di produzione efficiente di questo tipo di beni pubblici.
10. — Una struttura di governo centralizzata risulta quindi più efficace per stabilizzare l’economia, attuare programmi di redistribuzione del reddito e garantire livelli adeguati di produzione dei servizi pubblici che beneficiano l’intera collettività. Vi è tuttavia un limite fondamentale proprio di questa struttura di governo, ossia che essa, garantendo un livello uniforme di prestazioni su tutto il territorio, non tiene conto della diversità del sistema di preferenze che caratterizza ciascuna comunità regionale. Se la produzione dei servizi pubblici, i cui benefici si estendono in un ambito territoriale definito, viene invece affidata all’ente responsabile del governo di quell’area, questo ente potrà fornire il servizio nella quantità e nella qualità richiesta dai cittadini che ne usufruiscono. La massimizzazione del benessere viene garantita in misura più adeguata in quanto ciascun ente sarà indotto a fornire la combinazione di beni pubblici e beni privati che meglio risponde alle preferenze dei suoi cittadini.
Se, ad esempio, la maggioranza è favorevole ad un ampliamento della gamma, o un miglioramento della qualità, dei servizi pubblici prodotti, l’ente regionale è giustificato ad aumentare la tassazione a carico dei cittadini — riducendone così la capacità di acquisto di beni privati — per finanziare la produzione di beni pubblici. Ma naturalmente questa combinazione, prescelta da un singolo ente, non corrisponde necessariamente a quella ritenuta ottimale dagli altri enti del medesimo livello. Una struttura decentrata di produzione dei servizi corrisponde quindi più adeguatamente alle preferenze individuali rispetto ad una struttura centralizzata, che garantisce invece una produzione uniforme su tutto il territorio.
I vantaggi di una soluzione decentrata risultano rafforzati se consideriamo la mobilità dei fattori della produzione. In realtà, soprattutto per enti territorialmente contigui che presentino tuttavia una diversità rilevante nella combinazione prescelta fra beni pubblici e privati, può manifestarsi un effetto di concorrenza, nel senso che la scelta della localizzazione può essere influenzata anche sulla base di questa combinazione.
Vi sono infine due ulteriori vantaggi che derivano da una soluzione pluralistica del problema allocativo. In primo luogo, la concorrenza fra i diversi produttori stimolerà i processi innovativi, in vista di una riduzione dei costi o di miglioramenti di qualità. In secondo luogo, a livello regionale può risultare più evidente il costo reale di un progetto, in quanto le decisioni di spesa sono collegate più direttamente al prelievo delle risorse necessarie per finanziare il progetto.
In definitiva, si può quindi concludere che, dal punto di vista allocativo, una soluzione decentrata presenta rilevanti vantaggi rispetto all’obiettivo di massimizzazione del benessere della collettività.
11. — Dall’analisi precedente risulta che sia la soluzione unitaria che quella pluralistica presentano vantaggi distinti relativamente al raggiungimento degli obiettivi allocativi, distributivi e di stabilizzazione che l’operatore pubblico si propone. La conclusione operativa che se ne può dedurre è che, dal punto di vista economico, la struttura «ottimale» di governo è di tipo federale, in quanto essa combina i vantaggi di una soluzione accentrata con quelli di una soluzione decentrata, attribuendo all’operatore pubblico centrale la responsabilità redistributiva e di stabilizzazione, nonché di provvedere alla fornitura dei servizi i cui benefici si estendono all’intera collettività, mentre ai livelli di governo inferiori viene attribuito il compito di garantire i beni e servizi i cui benefici si estendono in ambiti territorialmente delimitati dall’area della relativa competenza politica.
12. — Il modello Mosgrave-Oates di distribuzione delle funzioni economiche fra i diversi livelli di governo si riferisce ad una federazione già compiutamente realizzata dal punto di vista politico in cui, secondo la nota definizione di Wheare, «il governo federale garantisce la molteplicità nell’unità. Può realizzare l’unità laddove l’unità è necessaria, ma può assicurare che vi sia varietà e indipendenza in quei settori in cui l’unità e l’uniformità non sono necessarie».
Non è qui il caso di procedere ad una valutazione del grado di sviluppo costituzionale della Comunità europea. È certo comunque che essa rappresenta una realtà istituzionale in evoluzione, con una struttura di governo del tutto atipica rispetto al modello delle federazioni storicamente già realizzate. È con questa realtà che occorre porre a confronto il modello che abbiamo sommariamente delineato per trarne alcune prime valutazioni di merito.
13. — Il ruolo nella politica di stabilizzazione che deve essere attribuito alla Comunità è importante in quanto, a causa della accresciuta interdipendenza fra i sistemi economici europei, da un lato le politiche nazionali di controllo della congiuntura hanno perso efficacia dato che gran parte delle variazioni di domanda indotte attraverso l’uso della politica monetaria e fiscale tendono a manifestare i loro effetti in aree della Comunità diverse da quella in cui si è inizialmente realizzata la manovra; d’altro lato, si verifica una sempre più accentuata sincronia congiunturale, ossia le fasi di boom o di recessione si trasmettono rapidamente da un paese all’altro attraverso variazioni delle importazioni e delle esportazioni. Se quindi l’andamento congiunturale tende ad armonizzarsi all’interno della Comunità, è a livello dell’insieme che esso può essere più efficacemente sottoposto a controllo.
Nello stesso tempo, la dipendenza dalle importazioni della Comunità nel suo complesso è pari a circa la metà della propensione all’importazione dei singoli paesi membri. In conseguenza, la dispersione di effetti che consegue da manovre di politica fiscale (e quindi il volume di variazioni fiscali necessarie per conseguire un determinato obiettivo) è evidentemente minore rispetto a quanto avviene in ciascun paese preso isolatamente.
Occorre tuttavia sottolineare subito che, nella situazione attuale, la Comunità non dispone di strumenti adeguati per sviluppare una politica di stabilizzazione autonoma. Il controllo della politica monetaria è nelle mani delle singole banche centrali, mentre le dimensioni del bilancio comunitario sono del tutto insufficienti a questo scopo. Da quanto detto si può trarre una prima conclusione. Se la politica di stabilizzazione, in un’area economicamente integrata, rimane affidata ai governi sub-centrali, essa non solo risulta inefficace rispetto al raggiungimento degli obiettivi che normalmente ad essa vengono affidati, ma provoca inoltre andamenti divergenti nelle diverse economie — a causa delle differenti propensioni nazionali alla piena occupazione e alla stabilità dei prezzi e, più in generale, per la diversa struttura degli equilibri economico-sociali che influenzano le scelte politiche — che rendono più difficile lo sviluppo del processo di integrazione.
14. — In una situazione di generale recessione, con bassi livelli di utilizzo della capacità produttiva e quindi elevata disoccupazione, la risposta adeguata di politica fiscale a livello europeo consisterebbe in una manovra di sostegno della domanda attraverso un’espansione della spesa o una riduzione del prelievo fiscale. In questo modo l’effetto di creazione di domanda tende a diffondersi uniformemente su tutta l’area, rafforzandosi vicendevolmente e accelerando gli effetti moltiplicativi di creazione del reddito. Se questo non avviene, in quanto il bilancio della Comunità non dispone di margini di manovra sufficienti per avere un impatto adeguato sull’andamento dell’economia europea, ogni paese membro utilizza separatamente gli strumenti disponibili per conseguire gli obiettivi di rilancio.
In questo caso, l’aumento del disavanzo pubblico provoca una espansione della domanda che si riflette immediatamente sulle importazioni, riducendo il valore del moltiplicatore del reddito. D’altro lato, se gli altri paesi non adottano simultaneamente lo stesso tipo di politica espansiva, le esportazioni non si sviluppano ad un tasso pari a quello delle importazioni. Le difficoltà di bilancia dei pagamenti si accentuano se la politica espansiva tende a tradursi in un’accelerazione dell’inflazione, che a sua volta deteriora il conto esterno attraverso una riduzione del grado di competitività della produzione nazionale. Se a questo aggiungiamo l’effetto negativo sui movimenti di capitale generato dalle aspettative di svalutazione della moneta, si può facilmente arrivare alla conclusione che l’effetto più probabile della manovra espansiva consiste in un’accelerazione della spirale inflazione-svalutazione, senza un impatto consistente sui livelli di reddito e di occupazione.
15. — Una situazione di questo tipo è del tutto incompatibile con la trasformazione dello SME in una vera e propria Unione monetaria. Da un punto di vista astratto, è evidente che non si può rinunciare a gestire con gli strumenti della politica fiscale una economia moderna: se questo non avviene a livello comunitario, gli Stati membri necessariamente utilizzano gli strumenti nazionali di intervento che hanno a disposizione. Ma, in un’economia caratterizzata da un grado elevato di interdipendenza, la politica nazionale di stabilizzazione è largamente inefficace. Da qui il tentativo, avviato negli anni ‘70 attraverso la fluttuazione monetaria, di «isolare» i singoli mercati manovrando lo strumento dei cambi. Gli effetti protezionistici ed il rischio di una disgregazione del Mercato comune indotti da questa esperienza hanno tuttavia reso evidente la necessità di pervenire in Europa alla creazione di una zona di stabilità monetaria, in quanto economia e moneta costituiscono un blocco e non si può conservare un’economia europea con nove monete nazionali indipendenti. Ma non si può arrivare ad una moneta comune — che costituisce l’obiettivo necessario da conseguire a partire dallo SME — se non si attribuisce alla Comunità la possibilità di gestire in modo efficace una politica di stabilizzazione, utilizzando un bilancio di dimensioni adeguate.
16. — Questa esigenza è ulteriormente rafforzata se si tiene presente che l’esistenza di un bilancio centralizzato costituisce uno strumento di notevole importanza per consentire da un lato di attenuare le fluttuazioni congiunturali di carattere regionale, e nello stesso tempo per aiutare le regioni in crisi a risolvere i loro problemi di bilancia dei pagamenti. Come osserva giustamente Kaldor, «una regione che fa parte di una comunità politica, con un sistema comune di servizi pubblici e una base comune di imposizione, ottiene ‘aiuti’ automaticamente ogni qualvolta si deteriorano le sue relazioni commerciali con il resto del paese. Vi è un importante stabilizzatore automatico che arresta il funzionamento del moltiplicatore delle esportazioni: dal momento che le imposte pagate al governo centrale variano parallelamente al livello del reddito e della spesa locale, al contrario delle spese pubbliche (anzi queste possono variare in funzione compensativa attraverso opere pubbliche, contributi per la disoccupazione, ecc.), un peggioramento della bilancia commerciale tende ad essere ritardato (ed infine arrestato) dalla variazione del saldo fiscale regionale — nel rapporto tra quanto la regione paga al Tesoro e quanto riceve da esso (…). Questa mi sembra la giustificazione principale dell’assenza di un equivalente al ‘problema della bilancia dei pagamenti’ a livello regionale».
In effetti, se nella regione in deficit si manifesta nel corso del processo di aggiustamento una contrazione dell’attività produttiva, diminuisce automaticamente il gettito delle imposte prelevate dal potere centrale. Il fenomeno opposto si verifica nella regione in surplus. D’altra parte la quota di spese (ad esempio, nel settore della sicurezza sociale) che si dirige verso il paese con una bilancia dei pagamenti passiva aumenta. Si tratta di un meccanismo che non richiede decisioni politiche specifiche e che, al pari dei c.d. stabilizzatori automatici, tende ad attenuare gli effetti di reddito, ma produce al contempo effetti riequilibranti sulla bilancia dei pagamenti. Il pagamento delle imposte è infatti assimilabile alle importazioni, mentre le spese sociali, dal punto di vista regionale, corrispondono ad esportazioni. È evidente che questo meccanismo di aggiustamento può essere rallentato o accentuato attraverso interventi discrezionali da parte dell’operatore pubblico centrale.
In particolare, se l’obiettivo prioritario della Comunità è di stabilizzare il reddito e l’occupazione nelle diverse aree regionali, in particolare in quelle più deboli e maggiormente esposte ai rischi della transizione verso l’Unione monetaria, si deve rilevare come la politica regionale consenta di risolvere simultaneamente anche i problemi di bilancia dei pagamenti di queste aree. Se in una regione si manifesta un eccesso di importazioni rispetto alle esportazioni, i meccanismi automatici di aggiustamento operano attraverso una riduzione del reddito, e quindi delle importazioni. Se la politica della Comunità mira ad evitare che questo effetto si manifesti, attraverso un aumento dei flussi di spesa localizzati nella regione in deficit, il riaggiustamento della bilancia dei pagamenti si realizza ugualmente attraverso un saldo fiscale positivo che compensa l’eccedenza dei pagamenti privati rispetto agli introiti di valuta nella regione in questione. Evidentemente, questo risultato può essere conseguito soltanto se le disponibilità di fondi per la politica regionale sono sufficientemente ampie, il che non avviene nella situazione attuale della Comunità.
17. — Le osservazioni precedenti consentono anche di far giustizia di un argomento che mira a salvare la sovranità assoluta degli Stati in materia fiscale, pur procedendo nel cammino verso l’integrazione monetaria. Si sostiene infatti che non è necessario trasferire risorse alla Comunità per consentire un rafforzamento delle politiche comuni; al contrario, è sufficiente un coordinamento delle politiche fiscali nazionali per ottenere gli stessi effetti. Se tutte le politiche fiscali si muovono in senso espansivo, esse si sostengono vicendevolmente, evitando di creare i problemi di bilancia dei pagamenti che sorgono se un solo paese adotta una politica di rilancio della domanda. Parallelamente, le manovre restrittive devono coinvolgere variazioni di bilancio di minor volume, in quanto le esportazioni sono frenate dalla caduta della domanda negli altri paesi della Comunità.
La fragilità di questa argomentazione appare evidente se si analizza la praticabilità politica della proposta. Appare infatti del tutto oscuro attraverso quali meccanismi sia possibile influenzare i processi di formazione della volontà politica in nove diversi paesi in modo tale che le decisioni di politica fiscale risultino perfettamente coordinate e orientate nella stessa direzione. Ma anche nell’ipotesi, che alla luce dell’esperienza passata appare del tutto irrealistica, che questo si verifichi, non si manifestano gli effetti di sostegno delle aree deboli e di aggiustamento automatico di bilancia dei pagamenti indispensabili per garantire un regolare funzionamento dell’Unione monetaria.
Nello stesso tempo, occorre ricordare che, anche in presenza di una politica fiscale efficace a livello comunitario, l’esigenza di un coordinamento nella gestione dei bilanci nazionali non viene meno, se si vuole evitare il manifestarsi di quel fenomeno che nella letteratura finanziaria viene definito l’«effetto perverso» — o destabilizzante — della finanza locale. Occorre infatti tener presente che, in ogni caso, almeno nella fase iniziale, i bilanci nazionali manterranno una dimensione prevalente rispetto a quella del bilancio comunitario. Un coordinamento delle politiche dei paesi membri è quindi indispensabile per conseguire gli obiettivi che la Comunità nel suo complesso si propone. A questo fine è però necessario che la Comunità non si affidi alla buona volontà dei governi nazionali, ma possa disporre, come si è già ricordato illustrando il modello Musgrave-Oates, di strumenti finanziari (un sistema di grants) capaci di influenzare nel senso voluto le scelte dei diversi paesi.
18. — Nello schema teorico di Musgrave-Oates al governo centrale va anche assegnata una responsabilità prevalente per il perseguimento dell’obiettivo redistributivo. Da questa esigenza nasce anche l’attribuzione al livello superiore di governo della gestione dell’imposta personale progressiva sul reddito, che rappresenta lo strumento principe di prelievo per conseguire la distribuzione «ottimale» del reddito. Non è casuale che questo non avvenga — e non si prevede che avvenga in un futuro ravvicinato — nel caso della Comunità europea. L’obiettivo principale della Comunità in questo settore, durante la fase di transizione verso l’Unione economica e monetaria, non è infatti costituito dalla redistribuzione fra gli individui, bensì fra le aree. Da questo punto di vista non è necessario che la Comunità possa disporre, come mezzo di finanziamento, di un prelievo a struttura fortemente progressiva. D’altra parte, se i paesi membri utilizzano questo tipo di imposta, difficilmente si manifestano gli effetti di concorrenza, e i conseguenti trasferimenti di residenza che tendono a svuotare i contenuti di questa politica, dato che la mobilità della popolazione, nella situazione attuale, è ancora assai limitata fra i diversi paesi della Comunità.
Se la fonte principale di finanziamento del bilancio comunitario è rappresentata dall’imposta sul valore aggiunto, il cui gettito è sostanzialmente in linea con le dimensioni del prodotto interno lordo, è dal lato della spesa che si può realizzare la redistribuzione fra aree, caratterizzando le politiche comuni in modo tale da favorire le regioni più deboli. Anche qui occorre tuttavia osservare che la dimensione attuale del bilancio, al di là della sua composizione qualitativa, non è sufficiente per impostare una politica redistributiva capace di rendere non onerosa la transizione verso l’Unione monetaria. E questa considerazione vale indipendentemente dalla disputa che si è aperta fra alcuni paesi e la Commissione sugli effetti del bilancio, su cui ritorneremo, con alcune brevi osservazioni, nella parte conclusiva di questo scritto.
19. — Il fatto che la politica redistributiva rimanga in questa fase attribuita al livello nazionale di governo può tuttavia essere giustificato, nonostante lo scarto apparente rispetto al modello, sulla base di alcuni importanti considerazioni di efficienza. Negli Stati europei il peso rilevante assegnato all’obiettivo della giustizia sociale in senso lato — accompagnato dal venir meno di ogni vincolo di equilibrio di bilancio dato che il disavanzo viene finanziato attraverso emissioni monetarie — rende difficile la gestione del sistema economico attraverso un’efficace politica di stabilizzazione a livello macro. La soluzione di tutti i conflitti sociali viene infatti a gravare sull’operatore pubblico, che deve sobbarcarsi il compito di provvedere alla difesa di tutti i ceti deboli, o presunti tali. Lo Stato, nelle sue diverse articolazioni, tende ad assumere sempre di più il ruolo di pagatore di ultima istanza, rinunciando a svolgere una mediazione fra i diversi interessi conflittuali che si manifestano nel corpo sociale. Da qui l’espansione continua della spesa pubblica, sollecitata dalla perenne rincorsa fra i diversi gruppi che mirano a ristabilire le condizioni di partenza, alterate dalla concessione di ulteriori privilegi a favore di una determinata categoria; e, d’altro lato, il tentativo, ben più agevole per chi non dispone di soli redditi da lavoro dipendente, di ricostituire una gerarchia nelle retribuzioni nette attraverso il fenomeno dell’evasione fiscale. Lo Stato assiste impotente allo scatenarsi di questa rissa fra le corporazioni, che genera un divario crescente fra entrate e spese. Questo disavanzo, a sua volta, viene coperto con creazione di moneta che alimenta il processo inflazionistico. E con questo prelievo surrettizio si ristabilisce — precariamente — l’equilibrio del sistema, mentre gli obiettivi perseguiti di una maggiore giustizia sociale vengono frustrati dagli effetti distributivi perversi di questo tipo di imposta.
Nella definizione del ruolo del bilancio comunitario si è visto, al contrario, come ad esso debba essere affidata la funzione di stabilizzazione e di redistribuzione fra aree, mentre rimane compito dei bilanci nazionali far fronte a quelle spese con più forte incidenza redistributiva fra gli individui. Le pressioni che provengono dalla società tendono, in questo caso, a scaricarsi sugli enti sub-centrali che — nella prospettiva qui suggerita di un’evoluzione dello SME in una vera e propria Unione monetaria — non dispongono più della possibilità di gestire la politica monetaria ed, in conseguenza, di coprire i disavanzi con la tassa inflazionistica. Si prefigura quindi la possibilità di un risanamento della finanza pubblica in quanto il livello di governo che controlla la moneta non opera direttamente nel settore della politica sociale in senso lato, e può quindi indirizzare la propria condotta di politica fiscale sulla base degli obiettivi macroeconomici che intende perseguire; d’altro lato i governi regionali possono adottare politiche sociali più incisive soltanto inasprendo il livello di tassazione — o riducendo il livello di altre spese —, e rendendo quindi palese il costo, in termini politici, delle scelte che necessariamente un sistema di finanza in equilibrio impone.
Nello stesso tempo viene smentita la tesi secondo cui, in una Unione monetaria, vi sarebbe un appiattimento verso il basso dei diversi sistemi nazionali di valori sociali, in quanto i paesi con una minore propensione ad attuare politiche socialmente avanzate si ritroverebbero avvantaggiati nella concorrenza, e viceversa per i paesi più progressisti, che pagherebbero con più alti tassi di inflazione la politica di incisive riforme sociali. In realtà è noto che l’inflazione non ha mai premiato le classi più deboli, e che nessuna profonda trasformazione sociale è possibile in un contesto minato da un simile flagello. Ma, al di là di questo, occorre ricordare che la tesi in questione è priva di fondamento in un’Unione monetaria, in cui gli Stati membri hanno perso il diritto sovrano di battere moneta. In questo caso non si può barare al gioco e le riforme si possono fare soltanto se si dispone della forza politica necessaria per mediare fra interessi contrapposti e se la politica redistributiva significa in concreto — e non soltanto in apparenza — un trasferimento di reddito a favore delle classi più deboli, finanziato con un prelievo di risorse a carico delle classi privilegiate.
Infine, si deve sottolineare che finanza in equilibrio non significa rinunzia da parte degli enti sub-centrali alla possibilità di indebitamento. Essi sono in grado di indebitarsi soltanto se dispongono di un credito adeguato per finanziarsi sul mercato comune dei capitali. Il che implica che il prestito venga utilizzato in modo produttivo, e non per sostenere il consumo presente a scapito del consumo futuro. Come ha mostrato Ingram, fenomeni di questo tipo si sono verificati storicamente nell’ambito della federazione americana e, più recentemente, nel caso di Portorico, che ha potuto approvvigionarsi per parecchi decenni sul mercato dei capitali di New York.
20. — Resta infine da discutere brevemente il problema della funzione allocativa. Si è visto che in un sistema federale la produzione di beni pubblici deve essere suddivisa fra il governo centrale e i livelli inferiori di governo, a seconda dell’area in cui si manifestano in misura prevalente i benefici. Il criterio economico per decidere se un determinato bene deve essere prodotto da parte della Comunità o da parte degli Stati membri è costituito principalmente dall’esistenza di economie di scala e/o di effetti esterni. Su questa base è possibile procedere ad un esame sistematico delle diverse funzioni, per valutare quali siano effettivamente attribuibili allivello di governo costituito dalla Comunità. È d’altra parte evidente che, anche in questo caso, i criteri di valutazione economica sono necessari, ma non sufficienti. L’esempio classico è rappresentato dalla difesa, che costituisce il caso tipico di un bene pubblico federale, ma la cui attribuzione al livello comunitario incontra notevoli difficoltà di ordine politico.
21. — Le considerazioni svolte in precedenza ci hanno consentito di mettere in evidenza il ruolo strategico che deve svolgere il bilancio della Comunità, in particolare durante la fase di transizione dallo SME all’Unione monetaria. Ma per giungere ad una decisione politica in ordine alla dimensione adeguata del bilancio comunitario, è necessaria una informazione quantitativa, in quanto la volontà di procedere in questa direzione rischia di rimanere paralizzata dall’ignoranza delle trasformazioni necessarie per conseguire questo obiettivo.
Un contributo importante alla conoscenza di questi problemi è rappresentato dal rapporto della Commissione MacDougall. Studiando l’esperienza di alcuni Stati federali e unitari, esso contribuisce a mettere in luce l’importanza della funzione redistributiva interregionale della finanza pubblica. La Tav. 1 offre una indicazione sulla misura in cui vengono ridotti i differenziali di reddito medio pro-capite all’interno dei paesi presi in considerazione. La percentuale media di livellamento delle diseguaglianze interregionali nei sette paesi è pari a circa il 40%, con l’Australia e la Francia al di sopra e gli Stati Uniti e la Germania al di sotto della media. Pure l’Italia, anche se in misura più ridotta, si colloca al di sopra della media. I flussi della finanza pubblica influenzano gli standards di vita regionali sia direttamente attraverso il prelievo di imposte e i trasferimenti alle famiglie, sia indirettamente attraverso trasferimenti fra i diversi centri di governo, sia attraverso l’offerta differenziata di servizi pubblici. Il confronto viene effettuato fra il reddito medio pro-capite regionale e i livelli che risultano tenendo conto dei prelievi, dei trasferimenti e dell’offerta di servizi pubblici.
TAVOLA 1.
Percentuale di riduzione delle disparità di reddito interregionale per intervento delle finanze pubbliche centrali o federali.
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Media delle riduzioni registrate nelle singole regioni per le disparità pro-capite dei redditi personali (regioni non ponderate con il numero degli abitanti)
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Variazioni conseguenti agli interventi di finanza pubblica nel coefficiente di Gini relativo alle disparità regionali di reddito personale (regioni ponderate con il numero degli abitanti)
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Federazioni
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Germania
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29
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39
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Australia
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53
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53
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Canada
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32
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28
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USA
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28
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23
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Media delle Federazioni
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35
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36
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Stati a struttura unitaria
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Francia
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54
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52
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Italia
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47
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44
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Regno Unito
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36
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31
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Media degli Stati a struttura unitaria
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46
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42
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Media delle Federazioni e degli Stati a struttura unitaria
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40
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39
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Fonte: Report of the Study Group on the Role of Public Finance in European Integration, Brussels, 1977, vol. I: General Report, p. 30.
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Questo effetto redistributivo del bilancio centrale produce effetti economici di rilievo per le aree regionali. I trasferimenti interregionali di reddito attraverso la finanza pubblica riflettono il fatto che nelle regioni più ricche si manifesta una eccedenza del prelievo fiscale rispetto alla spesa, che aiuta a sostenere il surplus di parte corrente nella bilancia regionale dei pagamenti. Nelle regioni deboli, viceversa, l’eccesso delle importazioni rispetto alle esportazioni viene almeno in parte «finanziato» attraverso l’eccedenza della spesa pubblica rispetto al prelievo fiscale. Si manifesta quindi un trasferimento reale di risorse dalle aree forti alle aree povere. I dati della Tav. 2, che riguardano alcune regioni della Francia, della Repubblica Federale Tedesca, dell’Italia e del Regno Unito, servono a dare un’idea dell’ordine di grandezza di questo fenomeno. Nonostante le incertezze metodologiche di queste valutazioni (ad esempio, per l’Italia il deficit del bilancio pubblico centrale è distribuito fra le regioni sulla base del prodotto regionale), dalla tavola appare la consistenza empirica della tesi formulata da Kaldor relativamente al ruolo della finanza pubblica nella soluzione dei problemi di bilancia regionale dei pagamenti (definita come differenza fra prodotto e spesa regionale).
TAVOLA 2.
Saldi della finanza pubblica e della bilancia dei pagamenti (in percentuali del prodotto regionale lordo).
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Deflusso (-) o afflusso (+) dei fondi pubblici
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Eccedenza (+) o disavanzo (-) delle partite correnti della bilancia dei pagamenti
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Regioni o Länder relativamente poveri
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Germania (media 1968-70)
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Bassa Sassonia
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+ 3,4
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- 6,5
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Schleswig-Holstein
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+ 6,0
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- 9,8
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Saar
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+ 9,0
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-13,6
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Francia (1972)
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Bretagna
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+11,0
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-15,0
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Regno Unito (1964)
|
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Galles
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+ 7,8
|
-12,1
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Scozia
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+ 6,1
|
- 7,8
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Irlanda del Nord
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+16,1
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-21,7
|
Italia (media 1971-73)
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|
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Umbria
|
+ 7,8
|
-17,4
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Abruzzi
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+14,8
|
-14,8
|
Basilicata
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+28,0
|
-42,3
|
Calabria
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+23,5
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-25,8
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Regioni o Länder relativamente ricchi
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Germania (media 1968-70)
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Baden-Würtemberg
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- 5,9
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+ 7,9
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Renania del Nord - Vestfalia
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- 4,5
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+ 5,2
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Assia
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- 2,9
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+ 2,2
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Regno Unito (1964)
|
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South East
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- 4,8
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+ 2,4
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West Midlands
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- 2,9
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+ 3,2
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Italia (media 1971-73)
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Piemonte
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- 7,4
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+10,9
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Lombardia
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-11,1
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+15,3
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Liguria
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- 4,4
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+12,6
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Fonte: General Report, cit., p. 33.
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Inoltre, di notevole rilievo è pure la funzione di stabilizzatore automatico del reddito che ha il sistema fiscale. Se varia una componente interna della domanda, e quindi il reddito, dato che il gettito fiscale tende a seguire direttamente l’andamento dei livelli di attività produttiva, mentre alcune componenti della spesa (in particolare, nel settore della sicurezza sociale) variano in senso inversamente proporzionale, il funzionamento della finanza pubblica tende ad attenuare automaticamente le fluttuazioni nei livelli di reddito e di occupazione. La situazione è diversa nell’ipotesi che vari la domanda esterna. Se, ad esempio, le esportazioni diminuiscono, la stabilizzazione automatica tende a frenare l’operare degli effetti di reddito, che consentirebbero di coprire almeno in parte, attraverso una riduzione delle importazioni, il disavanzo di bilancia commerciale. In una regione all’interno di uno Stato, accanto ai meccanismi interni di stabilizzazione automatica del reddito che agiscono attraverso il bilancio pubblico centralizzato, opera, come si è visto, un meccanismo di stabilizzazione automatica della bilancia dei pagamenti, in quanto si riducono i pagamenti al centro per imposte ed aumentano le entrate per trasferimenti. Valutazioni empiriche intorno a questi effetti sono piuttosto difficili. Nel caso della Francia e del Regno Unito si è stimato che le contrazioni di reddito dovute ad una caduta delle esportazioni regionali sono compensate, in una misura compresa fra il 50% e il 66%, attraverso i meccanismi di natura fiscale.
22. — Dopo aver richiamato sommariamente alcuni risultati dell’indagine condotta dalla Commissione MacDougall, possiamo procedere rapidamente ad un confronto con la situazione attuale della Comunità.
1) Nel 1975, mentre la spesa pubblica (media ponderata) rappresenta negli Stati membri il 45% del prodotto interno lordo, la spesa pubblica comunitaria è pari allo 0,7% del PIL europeo.
2) Le diseguaglianze fra i diversi paesi della Comunità sono almeno altrettanto ampie come sono in media le disparità esistenti fra le regioni all’interno degli Stati membri. Ma mentre a livello statale la finanza pubblica riduce in media le diseguaglianze nei redditi pro-capite di circa il 40%, il potere redistributivo fra i paesi membri della finanza comunitaria è molto limitato (l’1% secondo il Rapporto MacDougall), in parte per le ridotte dimensioni del bilancio, in parte per la struttura del bilancio stesso.
3) Parallelamente, mentre flussi netti attraverso la finanza pubblica pari al 3-10% del prodotto regionale, con punte fino al 30%, sono comuni all’interno di uno Stato, consentendo così di finanziare deficit consistenti di bilancia regionale dei pagamenti, questo non avviene a livello comunitario, dove pure non si manifestano gli effetti di stabilizzazione automatica delle fluttuazioni cicliche, che a livello infrastatale compensano, in una misura compresa fra il 50% e il 66%, le variazioni di reddito conseguenti ad una caduta delle esportazioni.
Alla luce di queste considerazioni, quali sono le proposte emerse dall’analisi della Commissione MacDougall? Occorre innanzitutto premettere che essa considera tre scenari possibili per lo sviluppo dell’integrazione europea. In primo luogo, una federazione con un largo settore pubblico in cui la spesa pubblica federale rappresenta una quota del PIL pari al 20-25%, come avviene negli USA e nella Repubblica Federale Tedesca. In secondo luogo, una federazione con un settore pubblico limitato, dell’ordine del 5-7% del PIL o del 7,5-10% se è inclusa la difesa. Caratteristica essenziale di questa seconda ipotesi è che il settore della sicurezza sociale in senso lato rimanga prevalentemente affidato agli Stati membri. Questa dimensione di bilancio viene ritenuta adeguata per garantire «un livellamento geografico della produttività e degli standards di vita e una compensazione delle fluttuazioni temporanee del reddito sufficienti per sostenere un’unione monetaria». Il terzo scenario viene definito come il «periodo dell’integrazione pre-federale», durante il quale viene gradualmente sviluppata la struttura istituzionale della Comunità, grazie anche all’elezione diretta del Parlamento europeo. In questo caso si prevede che la spesa pubblica al livello della Comunità cresca fino al 2-2,5% del PIL europeo.
È su questo terzo scenario che si concentra l’attenzione degli estensori del rapporto. In merito, essi avanzano ipotesi dettagliate, che è opportuno riportare per esteso.
«a) La Comunità è già, e lo diventerà sempre di più sulla base dei piani esistenti, coinvolta nella politica di aiuti allo sviluppo. Vi è spazio per trasferimenti dal livello nazionale a quello comunitario per un ammontare di circa 2-4 miliardi di unità di conto. Si potrebbero così conseguire economie di scala riducendo i costi amministrativi sia per il paese donatore che per quello che riceve gli aiuti ed aumentando la consistenza degli aiuti ricevuti in quanto viene distribuita l’area di raccolta su uno spazio più vasto.
b) Noi non riteniamo che vi sia una giustificazione in questa fase — ma le circostanze potrebbero cambiare — per un rilevante impegno della Comunità nel settore dei servizi sociali, che rappresentano più del 50% della spesa pubblica totale degli Stati membri, con la possibile eccezione dell’istruzione professionale e dell’assicurazione contro la disoccupazione — vedi sotto e) 2) 3) —. La Comunità è interessata in questioni come gli standards di insegnamento delle lingue europee, il riconoscimento reciproco dei titoli di studio e la reciprocità nei servizi sanitari e della sicurezza sociale, ma questi impegni non implicano larghe disponibilità di denaro pubblico.
c) Si dovrebbe provvedere ad attuare risparmi ovunque possibili, ad esempio in agricoltura e, anche se di importi meno rilevanti, attraverso uno sfruttamento delle economie di scala, ad esempio, nelle tecnologie avanzate, attraverso una rappresentanza politica comune nei paesi terzi di più ridotte dimensioni etc.
d) Nei settori industriali al di fuori dell’agricoltura, per cui l’intervento della Comunità è previsto o prevedibile (per esempio, siderurgia, pesca, energia, certi settori in declino), l’ammontare dei sussidi diretti di bilancio non dovrebbe risultare molto elevato. Ma non devono essere confuse con le spese di bilancio le somme molto più ampie che, prese a prestito sul mercato dei capitali direttamente dalla Comunità o con la garanzia della Comunità, potrebbero in alcuni casi risultare appropriate.
e) È nell’area delle politiche strutturali, cicliche, regionali e dell’occupazione che si manifesta, a nostro avviso, la maggiore necessità di una spesa sostanziale da parte della Comunità. Lo scopo di queste politiche dovrebbe essere prevalentemente quello di aiutare a ridurre le differenze interregionali nella dotazione di capitale e nella produttività. Noi abbiamo considerato sei alternative: 1) una partecipazione, più estesa rispetto alla situazione attuale, della Comunità negli aiuti della politica regionale (incentivi alla occupazione o agli investimenti, infrastrutture pubbliche, sviluppo urbano); 2) una partecipazione, più estesa rispetto alla situazione attuale, della Comunità nelle politiche di mercato del lavoro (incluse l’istruzione professionale e altre misure destinate a favorire l’occupazione); 3) un fondo comunitario per la disoccupazione organizzato nel modo suggerito dal rapporto Marjolin, con una parte di contributi relativi ai lavoratori occupati che affluiscono alla Comunità e una parte dei sussidi ai disoccupati che provengono dalla Comunità. Questo non significa che debbano necessariamente aumentare la spesa pubblica totale o i contributi pagati nella Comunità nel suo insieme. A parte il vantaggio politico di mettere il cittadino in contatto diretto con la Comunità, il fondo potrebbe avere effetti redistributivi significativi e contribuirebbe anche a bilanciare le fasi recessive temporanee in singoli Stati membri, avvicinando parzialmente l’obiettivo della messa in atto dei meccanismi necessari per sostenere un’unione monetaria; 4) una politica limitata di integrazioni di bilancio per gli Stati membri molto deboli per elevare la loro capacità fiscale almeno al 65% della media comunitaria e per assicurare che i loro servizi pubblici e la sicurezza sociale non siano molto inferiori a quelli della maggior parte della Comunità; 5) un sistema di contributi ciclici ai governi regionali o locali che dovrebbero dipendere dalle condizioni economiche regionali; 6) uno ‘strumento finanziario per favorire la convergenza congiunturale’ che aiuti a prevenire che acuti problemi congiunturali per gli Stati membri deboli provochino accresciute divergenze economiche.
Noi riteniamo che una scelta fra queste sei possibilità, o loro varianti, che implichi una spesa di bilancio dell’ordine di 5-10 miliardi di unità di conto in media per anno, possa incominciare ad essere considerata economicamente significativa. Un ‘pacchetto’ di 10 miliardi di unità di conto potrebbe ridurre le diseguaglianze negli standards di vita fra gli Stati membri in una misura pari a circa il 10%, in confronto ad una misura pari a circa il 40% per la media dei paesi presi in considerazione, e potrebbe essere considerato un punto di partenza accettabile.
Laddove, fra le possibilità prese in considerazione (al di fuori del proposto fondo per la disoccupazione), sono previsti dei sussidi, essi dovrebbero risultare nella misura massima possibile ‘cost-effective’. Questo potrebbe implicare, per esempio, l’impiego di sussidi specifici incentivanti (provvedendo la Comunità una quota del costo totale), che prevedano l’uso di quote variabili fra l’80% e il 20% per gli Stati o le regioni più poveri e più ricchi, in modo che il denaro affluisca dove è più necessario; e possibilmente l’imposizione di vincoli di carattere macroeconomico (in termini di inflazione, di politica monetaria etc.) per alcuni sussidi, per accrescere la possibilità che ne risulti una maggiore convergenza economica.
Il costo netto delle proposte, precedentemente illustrate, tenendo conto dei risparmi, delle economie di scala, e dei puri trasferimenti di spese dal livello nazionale a quello comunitario, come pure degli effetti favorevoli che si prevedono in termini di tasso di sviluppo e di stabilità del prodotto lordo comunitario, non dovrebbe accrescere la spesa pubblica complessiva della Comunità a tutti i livelli come quota del prodotto reale di più di un punto percentuale. Tenendo conto dei trasferimenti di spesa dal livello nazionale a quello comunitario, il bilancio della Comunità dovrebbe crescere dallo 0,7% del PIL europeo al 2-2,5%».
Le conclusioni che emergono dal rapporto sono dunque di notevole rilievo: con un aumento di un punto percentuale della spesa pubblica complessiva a livello europeo è possibile rendere efficaci le politiche comuni in modo tale da garantire la convergenza delle diverse economie e non onerosa la transizione dalle monete nazionali alla moneta europea per le economie più deboli.
23. — Possiamo a questo punto trarre alcune conclusioni dall’analisi svolta. La creazione del Sistema monetario europeo rappresenta un contributo importante allo sviluppo del processo di integrazione europea in quanto costituisce una inversione della tendenza generata dalla fluttuazione dei cambi che, dopo aver praticamente distrutto il Mercato comune agricolo, rischiava di portare alla disgregazione del Mercato comune industriale. Occorre comunque ribadire che lo SME non è un punto di arrivo, ma soltanto un punto di partenza.
Il suo limite principale deriva dal fatto che si tratta di una pseudo-unione monetaria, ossia di un accordo che mira a stabilire delle parità fisse mantenendo la sovranità monetaria dei diversi paesi che ad esso aderiscono. Ma un sistema di cambi fissi, con pluralità di istituti di emissione, è destinato a lungo andare al fallimento in quanto la politica monetaria non può garantire sia la stabilità interna che l’equilibrio nei conti con l’estero, e dato che è improbabile che le banche centrali rinunzino a perseguire l’obiettivo della stabilità interna solo per tener fermo il cambio, gli squilibri di bilancia dei pagamenti sono, a cambio fisso, inevitabili e non possono non tradursi, prima o poi, in una modifica delle parità.
Si tratta quindi di passare dalla pseudo-unione all’Unione monetaria vera e propria, in cui esiste una sola politica monetaria e una sola banca centrale, e il problema dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti si pone soltanto per gli scambi dell’Europa nel suo complesso con il resto del mondo. Lo SME può avere possibilità di successo soltanto se viene considerato come una fase transitoria in vista della creazione dell’Unione monetaria. Ma è di estrema importanza che questo esito del processo venga definito con chiarezza, il che implica che venga fissata una scadenza per il varo della moneta europea. È questa l’unica via per attuare un radicale rovesciamento delle aspettative, che rappresenta una condizione necessaria per la ripresa di un processo di crescita stabile.
La fissazione dell’obiettivo della moneta europea deve tuttavia essere accompagnata da uno sviluppo effettivo delle politiche comuni, se si vuole garantire un’equa distribuzione dei costi della transizione in modo tale che essa non risulti eccessivamente onerosa per le economie più deboli. È da questo punto di vista che si pone il problema della finanza pubblica comunitaria. Oggi il bilancio della Comunità è di dimensioni insufficienti per garantire una effettiva capacità di governo dell’economia europea. Occorre quindi accrescere la spesa comunitaria, soprattutto nel settore delle politiche strutturali, con un forte orientamento verso il riequilibrio regionale. Soltanto in questo modo è possibile garantire una effettiva convergenza delle diverse economie e il funzionamento dei meccanismi di aggiustamento delle bilance regionali dei pagamenti senza che i paesi deboli debbano ricorrere a politiche restrittive del reddito e dell’occupazione. L’importanza del rapporto MacDougall sta nell’aver indicato, con precisione quantitativa, che un aumento delle dimensioni del bilancio comunitario fino al 2,5% del PIL europeo è sufficiente per conseguire questi risultati. Si tratta inoltre di un obiettivo realistico, in quanto importa un aumento della spesa pubblica complessiva a tutti i livelli dell’1%, tenendo conto dei trasferimenti di funzioni di spesa dal livello nazionale a quello comunitario.
Si deve d’altra parte tener presente che il problema del bilancio comunitario è comunque all’ordine del giorno in quanto, anche sulla base dell’attuale lenta dinamica delle spese, si prevede che le fonti di entrata risulteranno insufficienti a partire dal 1981. In questa situazione già da parte di alcuni paesi è stato dato avvio al tentativo di ricondurre in equilibrio il bilancio attraverso una riduzione delle spese, svuotando così di significato le politiche comuni. Un primo segno concreto di questo orientamento si può cogliere nella decisione del Consiglio dei ministri relativa al progetto di bilancio per il 1980 proposto dalla Commissione, in cui sono state radicalmente tagliate le spese per la politica regionale. È chiaro che questa linea politica è in contrasto con le esigenze di uno sviluppo equilibrato dello SME verso l’obiettivo di una vera e propria Unione economica e monetaria. Questa tendenza deve quindi essere radicalmente rovesciata per imporre un’espansione del bilancio comunitario, affrontando fin d’ora con chiarezza il problema delle nuove fonti di entrata per evitare che il ricorso a contributi nazionali — come è stato suggerito da alcuni governi — possa intaccare il principio, sancito dalla decisione sulle risorse proprie, dell’autonomia finanziaria della Comunità.
La linea seguita dai paesi deboli dello SME (in particolare, dall’Italia e dal Regno Unito) è stata invece quella di puntare ad ottenere una compensazione finanziaria sulla base di una valutazione contabile dei costi e dei benefici che derivano ai diversi paesi con la struttura attuale di bilancio. Soprattutto nel caso italiano «questa decisione — come osserva Ruffolo — costituisce un altro grave passo falso. Infatti essa imposta il problema della politica comunitaria italiana non in termini di valutazioni economiche delle politiche della CEE, ma in puri termini contabili, di do ut des finanziario. Ora la Commissione, nel rapporto preparato per il Consiglio, ha dimostrato che negli ultimi anni l’Italia, a differenza dell’Inghilterra, ha ricevuto dalla CEE più di quanto ha dato. È vero che gli italiani avevano insistito sulla necessità di accertare anche gli effetti economici della strategia comunitaria. Ma, ponendo in primo piano il contenzioso finanziario, si è finito per porre in secondo piano proprio il problema fondamentale». E questo problema fondamentale consiste nel rafforzamento delle politiche comuni — che è necessario oggi e lo sarà ancora di più domani con l’allargamento della CEE a Grecia, Spagna e Portogallo —, attraverso gli strumenti e secondo le indicazioni che emergono dal Rapporto MacDougall.
È comunque evidente che il conseguimento di questi traguardi è legato al rafforzamento istituzionale della Comunità, ossia allo sviluppo di istituzioni a livello europeo capaci di garantire il governo dell’Unione economica e monetaria. Senza entrare in questa sede nel merito della questione, è sufficiente osservare che questo sviluppo è reso possibile dalla trasformazione democratica della Comunità avviata con l’elezione diretta del Parlamento europeo. Spetta quindi alle forze politiche e sociali battersi, nel corso della prima legislatura del nuovo Parlamento, per questo obiettivo strategico da cui dipende il successo dell’Unione economica e monetaria e la garanzia dell’irreversibilità del processo di unificazione politica dell’Europa.