IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXIII, 1981, Numero 2, Pagina 71

 

 

Dalla Costituente italiana
alla Costituente europea*
 
ANTONIO PADOA SCHIOPPA
 
 
Viviamo settimane di angoscia per la storia del nostro Paese. L’impressione che l’Italia si trovi in un vicolo cieco, e che le prospettive di un risanamento della vita pubblica, delle istituzioni e degli stessi comportamenti sociali si allontanino anziché avvicinarsi si rafforza e guadagna terreno. È una impressione che si avverte, pur in modi diversi, anche in altri paesi europei: tramonto di un’epoca, incertezza sul futuro, assenza di prospettive ideali e di concreti obiettivi di azione politica sono elementi comuni ormai a gran parte d’Europa. La crisi non è certo solo italiana.
In questa fase della nostra storia, una riflessione sulle ragioni della crisi e sulle prospettive del suo superamento diviene, prima che opportuna, necessaria, e giustifica l’iniziativa del convegno odierno. È nei momenti di crisi che diviene essenziale formulare una diagnosi esatta della situazione, e indirizzare la volontà verso un obiettivo comune, di cui si sia individuata la priorità rispetto ad ogni altro.
Appunto a questo scopo, è opportuno anzitutto considerare in via retrospettiva, in chiave storica, la vicenda politica e le tappe dell’idea europea e dei tentativi di unificazione del nostro continente negli ultimi decenni. A ciò sono rivolte le mie considerazioni introduttive, alle quali seguiranno le due relazioni che si propongono, rispettivamente, di compiere la diagnosi della odierna situazione delle istituzioni comunitarie, e di individuare gli obiettivi istituzionali verso i quali puntare.
Nella storia dei popoli e degli Stati, il momento costituente ha di regola coinciso con fasi e con vicende eccezionali, non di rado drammatiche. La Costituzione materializza l’atto di volontà politica con il quale si introduce un mutamento di regime, che spesso segue e corona una lunga vicenda di preparazione e, comunque, costituisce una svolta nella storia di un popolo. Così è accaduto con la Costituzione americana del 1787, testo di capitale importanza per la storia costituzionale moderna; così, negli anni cruciali della Rivoluzione francese, con la fondamentale costituzione del 1791; così con le Costituzioni europee del 1848, che segnano la ripresa del principio della democrazia rappresentativa dopo l’eclisse dei decenni seguiti alla Restaurazione. Così è avvenuto, infine, negli Stati europei riemersi dalla seconda guerra mondiale e dalla buia prospettiva di una conquista totalitaria che minacciava di cancellarne l’identità storica. Gli uomini della resistenza europea — coloro che l’hanno vissuta, che non sono coloro che ad ogni momento ne parlano — hanno alimentato in sé e negli altri una forza morale cui si deve una parte non piccola della rinascita del dopoguerra: sono uomini che per un ideale hanno rischiato la vita; a differenza, sia detto di passaggio, dei terroristi dei nostri giorni, che per un ideale — quando di ideale si tratta — mettono a repentaglio la vita degli altri, e per sé pretendono l’impunità.
La Costituzione italiana del 1947, uscita dal fervido travaglio dei lavori dell’Assemblea costituente, reca ben visibili le tracce delle molteplici matrici culturali presenti al momento della sua formazione. È una sintesi felice di principi del liberalismo classico, di principi ispirati al solidarismo cattolico e di principi di matrice socialista. In essa sono presenti, inoltre, anche taluni spunti di superamento della struttura dello Stato nazionale monolitico, i cui limiti ed i cui pericoli non pochi esponenti della politica e della cultura — anche se non certo tutti — erano allora in grado di scorgere, forse meglio di quanto oggi non accada: troppo recente e tragica era la vicenda che aveva, per due volte in venticinque anni, insanguinato il mondo per responsabilità precipua degli Stati europei e delle loro classi dirigenti, perché non risultasse scossa dalle fondamenta la certezza che l’assetto fondato sulla coesistenza di tanti Stati sovrani sia un dato irreversibile e razionale nella storia d’Europa (e del mondo).
Ecco allora introdursi il principio regionalistico, tanto nella Costituzione della Repubblica federale tedesca che in quella italiana, pur applicata per questa parte solo molti anni più tardi. Ecco farsi strada in taluni testi costituzionali, quali il nostro, la possibilità del trasferimento (art. 11 della Costituzione) di funzioni e di competenze ad organi sovrannazionali. Ecco, soprattutto, la consapevolezza della precarietà dell’ordine internazionale e la ricerca di nuove forme di organizzazione tra Stati, che valessero a scongiurare il rischio terribile di nuove guerre.
Sono gli anni nei quali matura in molte coscienze l’ideale del federalismo: quell’ideale che, formulato per la prima volta da Emanuele Kant nei suoi termini concettuali più rigorosi ed universali, attuato lontano dall’Europa fin dalla fine del ‘700, riscoperto tra le due guerre da pochi intellettuali isolati, aveva finalmente preso corpo, a partire dal 1941, per impulso soprattutto di Altiero Spinelli. Sono, per l’idea europea, gli anni della speranza. La lucida intelligenza di Spinelli aveva identificato l’obiettivo da raggiungere — lo Stato federale europeo — e l’ostacolo formidabile che si frapponeva al conseguimento della meta: lo Stato nazionale, con le sue stratificazioni di interessi politici ed economici contrari per natura ad ogni trasferimento di sovranità. In Francia, un uomo dal tratto modesto e dalla volontà inflessibile, un uomo che la storia futura considererà tra i più grandi del nostro secolo, Jean Monnet, riusciva a far adottare dal ministro Robert Schumann, e quindi dalla Germania di Adenauer, l’istituzione di una Comunità sovrannazionale europea del carbone e dell’acciaio, che eliminasse alla radice uno tra i contrasti di interessi più profondi tra la Francia e la Germania, causa non ultima delle due guerre mondiali.
Nel breve giro di quattro anni, dal 1950 al 1954, la prospettiva dell’unificazione europea si precisa, sino a divenire concreta e addirittura imminente. Sull’onda della realizzazione della CECA nasce l’iniziativa della Comunità europea di difesa, volta ad innestare il processo (ormai inevitabile, per ragioni di equilibrio militare tra i blocchi) del riarmo della Germania occidentale sul piano europeo, anziché sul piano nazionale tedesco. La nascita di un esercito europeo unico, con truppe ed ufficiali dei diversi paesi, avrebbe consentito all’Europa di difendersi con le proprie forze: un obiettivo ancor oggi attuale, pur in un contesto mondiale mutato, e tanto più rilevante se ci si rende conto che la storia, come la natura, aborre il vuoto, e che le società ed i popoli incapaci di provvedere a se stessi sono destinati alla decadenza. Ora è evidente che in paesi retti a regime democratico, un esercito sovrannazionale non poteva nascere senza che contemporaneamente si giungesse ad un potere politico comune al di sopra degli Stati nazionali: era questo l’obiettivo politico fondamentale al quale Spinelli ed i federalisti avevano immediatamente puntato, acquisendo il sostegno senza riserve di De Gasperi prima, ed in seguito, per impulso anzitutto dello stesso De Gasperi, del governo tedesco e di una parte del governo e della classe politica francese.
La realizzazione dell’unità politica dell’Europa parve per alcuni mesi assai prossima. L’opinione pubblica, mobilitata da un movimento federalista attivissimo, sosteneva in larga misura le tesi dei federalisti. La stessa classe politica, in talune sue componenti non secondarie, si era allineata alle tesi dei fautori dell’unità europea. In quei mesi, sottoscrivevano le tesi federaliste addirittura personaggi come Michel Debré, pur di indiscussa ortodossia gollista. Certo, una parte non trascurabile dello schieramento politico in Europa avversava l’iniziativa della CED, in particolare all’interno delle sinistre; tuttavia la battaglia presentava buone prospettive di successo non solo in Italia e in Germania, ma nella stessa Francia, ove pure le resistenze ed i timori per il riarmo tedesco erano ben più forti che altrove, ed ove l’ideale federalista aveva messo radici meno salde rispetto agli altri paesi europei.
L’esito della vicenda è ben noto. Nella notte del 30 agosto 1954 l’Assemblea nazionale francese respinse il progetto dell’esercito europeo, rifiutandone la ratifica dopo un dibattito convulso e drammatico. Primo ministro era Pierre Mendès France, la cui ostilità appena dissimulata nei confronti della CED fu probabilmente decisiva, dal momento che lo scarto tra i fautori e gli avversari del trattato era ridotto. Una ricostruzione storica approfondita delle vicende francesi di quelle settimane e di quei giorni non è stata ancora compiuta: ma è certo che si trattò di una decisione dettata dal timore e dalla paura: la paura che rende ciechi, il timore che si ripetesse un passato che invece era ormai concluso irreversibilmente. Per l’unità europea, il naufragio della CED fu un colpo terribile, dal quale in certo senso l’Europa non si è più ripresa. L’impegno prodigato con intelligenza e capacità non comuni da Mendès France in altre direzioni sul piano del giudizio storico non vale a controbilanciare la portata negativa di quella singola decisione, di quel voto, al quale il suo nome resterà per sempre legato.
È possibile oggi fare tesoro dell’esperienza di allora, tenendo presente che quanto più l’obiettivo è alto, tanto più le forze avverse si mobilitano e gli ostacoli al suo raggiungimento si moltiplicano. Mi pare essenziale non dimenticare che la battaglia tra i fautori della federazione europea ed i difensori dello Stato nazionale è stata perduta una prima volta in Francia, ventisette anni or sono, in primo luogo per l’assenza in quel paese di una valida organizzazione europeistica capillare, in grado di mobilitare tutte le forze popolari potenzialmente favorevoli all’Europa unita. È mancata d’altra parte, sempre in Francia, l’iniziativa culturale indispensabile a dare ai fautori dell’Europa il supporto di una parte almeno degli intellettuali. Anzi, il fallimento del 1954 ha creato in Francia — lo rileva giustamente Spinelli — una situazione sino ad oggi non rimossa di vero e proprio «terrorismo ideologico» nei confronti dei già esili elementi di cultura federalista ivi presenti. Ora è certo che senza la Francia il cammino verso l’Europa unita è impercorribile; quanto di Europa oggi esiste è d’altronde il frutto soprattutto dell’iniziativa francese, nel bene e nel male, nei risultati e nei limiti. Proprio per questo, è indispensabile sapere che le future battaglie sulla via dell’unificazione europea — se ci saranno, come auspichiamo, e in quanto ci saranno — troveranno di nuovo in Francia il loro momento più drammatico, ed in Francia saranno vinte o perdute. L’esperienza del passato insegna, mi pare, che le prospettive saranno infauste — poiché in Francia nell’ultimo quarto di secolo l’indifferenza o l’ostilità verso l’ideale europeo coerentemente concepito sono non diminuite, ma al contrario aumentate — a meno che non prenda corpo, da Parigi, una mobilitazione intellettuale e politica su basi nuove: solo a queste condizioni si può sperare che la classe politica francese non ripeta, al momento decisivo, una scelta dettata dagli interessi particolari, dalla paura, dalla cecità.
Dalle ceneri del fallimento della CED sono nate, negli anni immediatamente successivi, le istituzioni della Comunità europea dirette a realizzare il Mercato comune. I fautori dell’Europa, a cominciare da Jean Monnet, non si erano rassegnati alla sconfitta, ed una parte, la migliore, degli stessi interessi della vita economica premeva per la realizzazione di un mercato più ampio, di dimensioni continentali. I trattati del 1957, opera essenzialmente del francese Pierre Uri sotto la guida di Monnet, ratificati dai sei membri originari della CEE senza eccessive difficoltà (la consapevolezza che l’Europa tutta avesse perduta un’occasione storica era viva persino negli avversari della CED), sono tuttora alla base di un edificio certo incompiuto, ma imponente nelle sue dimensioni. La via dell’unificazione economica quale veicolo dell’unificazione politica dell’Europa, aperta da Jean Monnet e da lui proseguita senza soste — ne offre testimonianza la splendida autobiografia, quasi ignorata in Francia e in Italia fuorché dai federalisti — si era aperta, e sarebbe stata la via percorsa nei venti anni seguiti al 1957. Sarebbe miope ignorarne la portata e i risultati, in primo luogo l’impulso che ne è venuto al benessere materiale degli Stati europei: un impulso che ha spinto l’Inghilterra, dapprima ostile, a ricercare con insistenza e ad ottenere infine l’ingresso nella CEE; che spinge oggi, dopo la Grecia, altri paesi mediterranei ad entrare, speriamo senza ritardi, nella Comunità. Esso è abbastanza potente da aver indotto paesi come la Spagna, il Portogallo, la Grecia a superare ed a respingere le degenerazioni totalitarie, che altrimenti sarebbero state inarrestabili. Sono risultati importanti, impensabili al di fuori della cornice istituzionale della Comunità. E tuttavia, sono risultati parziali e soprattutto precarii: le vicende di questi giorni ne offrono una testimonianza ulteriore.
Sul terreno dell’economia, la costruzione dell’Europa è proseguita non senza successi. Il Trattato istitutivo della Comunità europea è però un trattato «aperto» e «incompiuto» (mi si passi l’espressione non certo tecnica), nel senso che prevede ed in qualche misura anticipa gli sviluppi futuri anche istituzionali della Comunità. Ora, proprio su questo terreno il cammino è proceduto con enorme lentezza: dal 1958 la Francia di de Gaulle — il quale pure non aveva respinto il Trattato: prova significativa della necessità profonda dell’unificazione non solo economica dell’Europa, che si imponeva ai suoi stessi avversari, al di là dei postulati ideologici — si collocò in prima linea tra gli Stati decisi ad impedire che l’edificio comunitario assumesse i caratteri di una struttura sovrannazionale. Sedici lunghi anni sono così trascorsi, dal 1958 al 1974, nei quali il Mercato comune lentamente si realizza, ma deliberatamente viene a mancare (e la responsabilità non è certo soltanto della Francia di de Gaulle e di Pompidou) la volontà politica di proseguire la costruzione europea, così da rendere irreversibile il cammino iniziato.
Sono gli anni dell’attesa, in cui pare oscurarsi e addirittura tramontare la prospettiva europea: quella prospettiva senza la quale non soltanto le realizzazioni della Comunità risultano inesplicabili, ma l’edificio stesso rischia continuamente di venire infirmato fin dalle basi. Per lunghi anni la Comunità ha progredito in modo quasi insensibile, soltanto sulla spinta di scadenze indilazionabili, senza la volontà né la capacità di procedere sul solo terreno che è suscettibile di conservare e di accrescere la saggezza degli uomini organizzati in società: il terreno delle istituzioni.
Occorreva possedere una particolare chiarezza di idee e, ancor più, forza morale e fede nella razionalità della storia per perseverare nell’azione a sostegno dell’Europa unita: è quanto avvenne per opera di un piccolissimo nucleo di uomini, spesso ignorati e talora derisi dalle forze politiche detentrici del potere reale e dagli intellettuali che, come sempre, nella stragrande maggioranza ne assecondano più o meno consapevolmente le tendenze. L’obiettivo scelto dai federalisti fu quello dell’elezione europea; ed è merito in primo luogo di Mario Albertini — la storia futura lo proverà, se saprà compiere correttamente il proprio mestiere, che è quello di scavare al di sotto delle apparenze — l’aver posto instancabilmente l’accento su questo obiettivo, concentrando su di esso e su di esso solo le poche forze disponibili, e promuovendo fin dal 1967 un progetto di legge di iniziativa popolare per l’elezione unilaterale a suffragio universale da parte dell’Italia dei parlamentari di Strasburgo. Fu una battaglia di anni, che pareva disperata e che, invece, valse a mantener desta l’attenzione di una parte della classe politica europea su un’innovazione che gli stessi trattati di Roma prevedevano e che solo l’assenza di volontà politica aveva impedito di realizzare.
Senza l’ardente ostinazione dei federalisti, la prospettiva dell’elezione europea non sarebbe rimasta sul campo fino al momento in cui, salito nel 1974 alla presidenza della Repubblica francese un uomo più aperto all’ideale europeo, membro da anni di quel comitato Monnet che l’infaticabile combattente per l’Europa aveva costituito fin dalla fine degli anni ‘50, la proposta di eleggere a suffragio universale il Parlamento europeo di Strasburgo venne lanciata e, dopo vicende che sono ancora nella nostra memoria, accolta un anno più tardi dal Consiglio europeo di Roma del dicembre 1975, ratificata nei nove paesi della Comunità — anche in Francia, grazie ad un articolo provvidenziale della costituzione gollista del 1958 — ed attuata finalmente nel 1979.
Si apriva così, dopo venti anni di stasi quasi assoluta, una pagina nuova sul cammino accidentato dell’unificazione europea. Il Parlamento europeo eletto a suffragio universale poteva costituire il catalizzatore delle forze e delle energie politiche favorevoli all’unificazione del continente, in un processo destinato a non più arrestarsi per la dinamica politica insita nel ritmo stesso delle consultazioni elettorali. Questa era la previsione dei federalisti, questa potrebbe essere la realtà di domani. Il raggiungimento di obiettivi ulteriori di unificazione economica — in primo luogo la moneta, rimasta fuori dai Trattati di Roma e lucidamente individuata quale obiettivo strategico per questa fase storica da Mario Albertini e dai federalisti; in seguito dal Presidente della Commissione Jenkins nel discorso all’Università di Firenze dell’ottobre 1977; infine dal Consiglio europeo con la prima, parziale iniziativa di istituzione dello SME — diveniva e diviene ormai possibile proprio per la presenza di un organo politico dotato di grande potenzialità, quale è il Parlamento di Strasburgo.
Esso sta dimostrando, in questi anni, di poter soddisfare alle attese che ne hanno promosso ed accompagnato la nascita: non soltanto per le battaglie e le posizioni coraggiosamente assunte in tema di bilancio comunitario, ma anche e soprattutto per l’iniziativa di un progetto di riforma istituzionale della Comunità, avviata da colui che può già ora considerarsi come la figura centrale della prima legislatura del Parlamento europeo direttamente eletto, e cioè Altiero Spinelli, di nuovo in prima linea nella battaglia per l’Europa.
La discussione e gli orientamenti del Parlamento europeo nella sessione del prossimo luglio potranno essere decisivi al riguardo, poiché un progetto di natura esplicitamente costituente che dovesse uscire dal Parlamento di Strasburgo e venire inviato ai Parlamenti nazionali per le ratifiche costituirebbe un risultato politico di straordinario rilievo.
L’azione politica di alto livello non vede mai disgiunti realismo ed ideale, ciò che è possibile e ciò che è necessario, e qui appunto sta la sua forza. Anche per questo è oltremodo importante l’individuazione precisa delle carenze della Comunità nel suo assetto odierno, nonché delle linee lungo le quali è auspicabile che si sviluppino e si trasformino le istituzione europee. Ciò forma appunto l’oggetto delle due relazioni che seguono a questa mia.
Mi sia soltanto ancora consentito, nel concludere, di sottolineare che l’obiettivo finale di chi si batte per l’Europa è di semplice, elementare evidenza: consiste nella unificazione politica dell’Europa come stadio intermedio ma essenziale per l’unificazione politica del genere umano: un ideale che ritroviamo al cuore dei più diversi indirizzi culturali, dal liberalismo al marxismo, e che lo stesso cristianesimo, su un altro piano, prefigura («…ut unum sint»). È un ideale al quale il federalismo ha dato, per la prima volta, una coerente formulazione istituzionale. È forse utile sottolineare che l’ansia di giustizia sociale che forma l’anima della cultura e della politica delle sinistre nell’età contemporanea trova una possibile realizzazione soltanto in un ordine internazionale fondato sul modello politico del federalismo.
Sono mete che possono sembrare utopistiche. Eppure esse risultano naturali solo che si osservi la terra dall’alto, solo che la si veda come essa appare da un satellite. Ma gli uomini non vivono sui satelliti, essi hanno solo due dimensioni nella loro vita associata, come le termiti.
Anche per ciò, gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di questi obiettivi in Europa saranno certamente ancora grandissimi. Essi non potranno venir superati se non con le forze congiunte di un Parlamento europeo fortemente impegnato e di un’opinione pubblica mobilitata ed orientata in forme ed in misura diverse rispetto al passato: soprattutto, per le ragioni sopra ricordate, con riguardo alla Francia.
La vicenda dell’unificazione europea, iniziata quasi quaranta anni or sono, è tuttora aperta al successo, ma anche al possibile fallimento. Quattro decenni costituiscono un tempo ben lungo in un’epoca come l’attuale, nella quale assistiamo ad una accelerazione senza precedenti del corso storico; il tempo che ci è lasciato per decidere del nostro destino — ed insieme col nostro, probabilmente, anche di quello dell’intero pianeta — potrebbe non essere più molto. L’opinione pubblica appare tuttora assolutamente disinformata sulla prospettiva europea. E chi ha la ventura di avvicinare i giovani ed i giovanissimi sa quanto esili, per non dire quasi inesistenti, siano i canali attraverso i quali giunge loro l’ideale del federalismo, che pure risulta, per chi vi si accosta, vitale e chiarificatore rispetto ai problemi difficili ed esaltanti posti dalla realtà del mondo di oggi: problemi rispetto ai quali gli strumenti offerti dalle ideologie tradizionali risultano in troppi casi inadeguati, superati, contraddittori, fuorvianti.
Il tempo che ci è lasciato potrebbe non essere più molto. Già si possono scorgere da anni, in Italia e in Europa, i segni della decadenza, l’attenuarsi della facoltà di giudicare la situazione reale dell’Europa stessa e del mondo, l’incapacità di orientare il pensiero e l’azione verso gli obiettivi — culturali, tecnologici, economici, di organizzazione del territorio e della vita associata — imposti dallo stadio raggiunto dalla civiltà moderna. È bensì vero che sono le crisi ad offrire l’occasione per i progressi talora improvvisi della storia; ma proprio le vicende di queste settimane, che pure dovrebbero rendere evidente a chiunque, ed in primo luogo ai governi dei paesi della Comunità, l’assoluta urgenza di istituire una moneta europea, mostrano invece quanto consistenti siano i rischi di una perdita della percezione dei problemi reali, dei pericoli, dei rimedi. Deus amentat quos perdere vult.
Il tempo potrebbe non essere più molto. Sta in noi, sta in primo luogo negli intellettuali pensosi del futuro e nelle forze politiche consapevoli della posta in gioco individuare mali e rimedi, ed indirizzare, prima che sia tardi, la propria azione concorde nella direzione giusta.


* Si tratta della prolusione introduttiva al Convegno «La riforma istituzionale della Comunità europea. Problemi e prospettive» organizzato dal Movimento europeo e dal Movimento federalista europeo e svoltosi a Milano il 13 giugno 1981.

 

 

 

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