Anno LIII, 2011, Numero 2, Pagina 103
C’è un futuro per la ricerca
e l’ innovazione in Europa?
MASSIMO MALCOVATI
Da decenni, ormai, non passa giorno senza che economisti, politici e giornalisti ci ricordino che l’economia europea sta perdendo terreno nei confronti non solo degli altri paesi più industrializzati, ma anche — e soprattutto — dei paesi emergenti[1] e senza che venga indicata, con una concordanza di opinioni che raramente si ritrova nel dibattito politico, la via maestra per uscire da questa situazione: puntare sulla ricerca scientifica e sull’innovazione tecnologica come unico strumento disponibile per riguadagnare la competitività perduta e raggiungere livelli di crescita economica che consentano di ridurre contemporaneamente la disoccupazione e il debito pubblico degli Stati europei. Nel mercato mondiale, in cui la materia prima più abbondante e a buon mercato è la mano d’opera non qualificata, infatti, c’è spazio solo per prodotti maturi offerti a prezzi sempre più bassi o per prodotti ad alto contenuto tecnologico e ad alto valore aggiunto. Dal momento che è impossibile che gli europei riescano a competere con il basso costo della mano d’opera nei paesi emergenti dell’Asia e dell’Africa, la sola alternativa è l’innovazione tecnologica.
D’altra parte, l’emergenza climatica e l’incombente carenza di fonti fossili di energia impongono all’economia mondiale una profonda riconversione che porti all’introduzione di nuove tecnologie ecosostenibili e basate su fonti di energia rinnovabili. Si tratta di una immane sfida per far fronte alla quale i tempi stanno diventando sempre più stretti e per fronteggiare la quale tutte le maggiori economie stanno adottando energiche politiche, sia stimolando la ricerca e lo sviluppo in questi campi, sia, nelle economie emergenti, cercando di colmare il gap tecnologico di fronte al quale si trovano.[2]
Sebbene sia unanimemente riconosciuto che l’obiettivo di sviluppare un’economia fortemente innovativa è da tempo completamente fuori della portata dei singoli Stati nazionali europei presi singolarmente e che possa quindi essere perseguito solo a livello europeo,[3] solo la ricerca applicata, in quanto strumento al servizio della produzione industriale, rientrava nelle competenze delle Comunità europee e nell’Unione europea definita dall’Atto Unico e dai successivi Trattati. La situazione è cambiata con il Trattato di Lisbona.
La “strategia di Lisbona”: un’esperienza fallimentare.
Le iniziative che l’Europa avrebbe dovuto prendere peruscire dalla crisi in cui sta inesorabilmente cadendo erano state identificate con straordinaria lucidità fin dal 1993 da Jacques Delors, allora Presidente della Commissione europea, con il Libro Bianco Crescita, competitività, occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo[4] (“Rapporto Delors”). Il quadro istituzionale sul quale Delors contava per la realizzazione degli obiettivi indicati nel rapporto era però il fragile quadro intergovernativo dell’Unione europea; la sola importante innovazione suggerita era l’emissione di Union bonds per finanziare la costruzione delle grandi infrastrutture proposte.
Sono stati necessari quasi dieci anni perché il Consiglio europeo del marzo 2000, a Lisbona, traducesse parte delle proposte di Delors nella “strategia di Lisbona”, presentata come una grande innovazione istituzionale destinata a trasformare entro il 2010 l’economia europea “nell’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggior coesione sociale”.[5] Gli interventi proposti coprivano tutti gli aspetti necessari per entrare nella società dell’informazione (creazione di un’area europea della ricerca, di reti trans-europee di trasmissione dati a banda larga, aumento della spesa per ricerca e sviluppo, miglioramento del sistema scolastico, ecc.), per completare rapidamente il mercato interno soprattutto per quanto riguarda i servizi, i mercati finanziari, le commesse pubbliche, per reindirizzare la spesa pubblica a sostegno dell’accumulo di capitale (fisico e umano) e verso la sua sostenibilità a lungo termine, ammodernando il modello sociale europeo e investendo sul capitale umano (attraverso la formazione professionale e la formazione permanente, ecc.).
Per raggiungere questi obiettivi, il Consiglio europeo affermava che “non è necessario alcun nuovo processo”: sarebbe bastato semplificare e coordinare meglio le procedure già in atto in seno all’Unione: “Tali miglioramenti saranno sostenuti dal Consiglio europeo che assumerà un ruolo preminente di guida e di coordinamento… Il raggiungimento dell’obiettivo strategico sarà facilitato dall’applicazione di un nuovo metodo di coordinamento aperto… ideato per aiutare gli Stati membri a sviluppare le loro politiche…”.[6] Per quanto riguardava il finanziamento degli interventi previsti, il Consiglio europeo di Lisbona affermava: “Per raggiungere il nuovo obiettivo strategico ci si baserà soprattutto sul settore privato, così come su partenariati pubblico-privato… Il ruolo dell’Unione è di fungere da catalizzatore del processo, creando un quadro efficace per mobilizzare tutte le risorse disponili…”.[7]
Di fatto, il coordinamento si è rivelato inefficace: gli Stati hanno scelto ciascuno proprie priorità, hanno indirizzato il grosso dei finanziamenti verso progetti nazionali, hanno adottato riforme che in molti casi vanno addirittura in senso opposto a quello indicato dalla strategia di Lisbona, con il risultato che il 2010 è trascorso senza che nessuno degli obiettivi della strategia di Lisbona fosse stato raggiunto.
Per quanto riguarda la ricerca, è significativa la descrizione della situazione fatta dalla Commissione europea nel 2007 con il Libro Verde Inventing our future together – The European Research Area: New Perspectives: “…Nel 2006 è stata definita una ‘road-map’ per la creazione di nuove e potenziate infrastrutture di ricerca pan-europee. Le priorità immediate dovrebbero essere: assicurare che la road-map includa effettivamente il grosso delle infrastrutture previste…; completare la road-map in aree non ancora coperte…; sostenere le proposte a livello politico; mobilitare i fondi necessari… Questa road-map dovrebbe costare 14 miliardi di euro in 10 anni… il bilancio dell’UE non è sufficientemente ampio per coprire il cofinanziamento della costruzione delle infrastrutture, per sostenere il libero accesso ad esse e per stimolare la loro messa in rete… Un’altra difficoltà nel mettere in piedi nuove forme di infrastrutture di ricerca pan-europee è la mancanza di una struttura giuridica che consenta le partecipazioni più adatte…”.[8] “Il finanziamento nazionale e regionale… resta ampiamente scoordinato. Questo comporta la dispersione di risorse, eccessive duplicazioni… e l’incapacità di giocare il ruolo che altrimenti le capacità di ricerca e sviluppo europee potrebbero giocare, in particolare nel fronteggiare le grandi sfide mondiali… Le riforme introdotte a livello nazionale spesso sono prive di una vera prospettiva europea e di coerenza transnazionale”.[9] Dal 2007 al 2011 la situazione non è sostanzialmente cambiata. Afferma la Commissione europea nel 2011: “Il finanziamento pubblico della ricerca e dell’innovazione è primariamente organizzato a livello nazionale. Nonostante qualche progresso, i governi nazionali e regionali lavorano ancora in larga misura secondo le loro diverse strategie. Ciò porta a costose duplicazioni e frammentazioni…”.[10]
L’Agenda “Europa 2020”.
Di fronte alla crisi che nel 2008 ha investito l’intera economia mondiale, mettendo a nudo le debolezze strutturali dell’economia europea, la Commissione europea, nel marzo del 2010, ha lanciato l’agenda “Europa 2020” con cinque obiettivi principali:
— aumentare il tasso di occupazione della popolazione compresa tra 20 e 64 anni dall’attuale 69% ad almeno il 75%;
— aumentare gli investimenti per ricerca e sviluppo dall’attuale 1,6% del PIL al 3% (soprattutto nel settore privato);
— ridurre di almeno il 20% le emissioni di CO2 rispetto al 1990, aumentare la quota di energie rinnovabili fino al 20% del consumo totale e raggiungere un aumento del 20% nell’efficienza energetica;
— ridurre dall’attuale 15% al 10% l’abbandono scolastico precoce ed aumentare dal 31 al 40% la quota della popolazione tra i 30 e i 34 anni che ha completato l’educazione terziaria;
— ridurre del 25% il numero di Europei che vivono al di sotto del livello di povertà, facendo uscire dalla povertà 60 milioni di persone.[11]
In quest’ottica, sono proposte 7 azioni-simbolo a sostegno della crescita che dovrebbero impegnare sia l’Unione che gli Stati membri: Unione innovativa (miglioramento dell’accesso ai finanziamenti per la ricerca e l’innovazione); Gioventù in movimento (aumentare la performance dei sistemi educativi e l’attrattività internazionale dell’educazione europea); Un’agenda digitale per l’Europa (accelerare la diffusione dell’internet veloce e far maturare i benefici di un mercato unico digitale per famiglie e imprese); Un’Europa efficiente nell’uso delle risorse (diminuzione dell’uso di energia derivata dal carbonio, aumento di fonti alternative, modernizzazione del sistema di trasporti); Una politica industriale per l’era della globalizzazione (migliorare l’ambiente industriale e sostenere lo sviluppo di una solida base industriale competitiva); Un’agenda per nuovi mestieri e posti di lavoro (modernizzazione del mercato del lavoro favorendo la mobilità e l’acquisizione di professionalità per tutta la vita); Piattaforma europea contro la povertà (assicurare la coesione sociale e territoriale in modo che i benefici della crescita e dell’impiego siano ampiamente condivisi).[12]
Se gli obiettivi proposti sono senza dubbio molto ambiziosi, la strategia e gli strumenti proposti dalla Commissione per la loro realizzazione non sono dissimili da quelli del 2000: “Il Consiglio europeo avrà la piena sovranità e sarà il punto focale della nuova strategia. La Commissione effettuerà il monitoraggio dei progressi verso gli obiettivi, faciliterà gli scambi di politiche ed avanzerà le proposte necessarie per guidare l’azione e il progresso delle iniziative-simbolo. Il Parlamento europeo sarà una forza trainante nella mobilitazione dei cittadini ed agirà da co-legislatore nelle iniziative chiave. Questo approccio compartecipativo dovrebbe essere esteso ai Comitati dell’Unione europea, ai parlamenti nazionali, alle autorità nazionali, locali e regionali, ai partners sociali e alla società civile in modo che tutti siano coinvolti nel concretizzare il progetto”.[13]
Il nuovo quadro istituzionale creato dal Trattato di Lisbona.
Rispetto al primo decennio del secolo, è cambiato però il quadro istituzionale nel quale una politica europea della ricerca potrebbe svilupparsi. Con l’entrata in vigore, nel 2010, del Trattato di Lisbona, infatti,
— nei settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio l’Unione ha competenze per condurre azioni, in particolare la definizione e l’attuazione di programmi, senza che l’esercizio di tale competenza possa avere per effetto di impedire agli Stati membri di esercitare la loro (Art. 4, par. 3.3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, TFUE);
— la creazione di uno spazio europeo della ricerca è un obiettivo dell’Unione in collaborazione con gli Stati nazionali, attraverso un coordinamento della loro azione in materia di ricerca e sviluppo tecnologico per garantire la coerenza reciproca delle politiche nazionali e della politica dell’Unione (artt. 179, 180 e 181 del TFUE, ex-artt. 163, 164 e 165 del Trattato che istituisce la Costituzione europea, TCE);
— l’attività in questi campi è definita da un programma quadro pluriennale (adottato dal Parlamento europeo e dal Consiglio secondo la procedura legislativa ordinaria[14]), che identifica gli obiettivi scientifici e tecnologici da realizzare, le grandi linee d’azione, l’importo massimo messo a disposizione sul bilancio dell’Unione (Art. 182.1 del TFUE, ex-art. 166 del TCE);
— gli specifici programmi di attuazione del programma quadro sono adottati dal Consiglio secondo una procedura legislativa speciale[15] e previa consultazione del Parlamento europeo e del Comitato economico e sociale (Art. 182.4);
— a integrazione delle azioni previste dal programma quadro pluriennale, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale, stabiliscono le misure necessarie all’attuazione dello spazio europeo della ricerca (Art. 182.5);
— nell’ambito del programma quadro possono essere decisi programmi complementari cui partecipano solo alcuni Stati che ne assicurano il finanziamento (Art. 184 del TFUE, ex-art. 168 del TCE);
— il Consiglio può decidere, su proposta della Commissione e sentito il Parlamento, la creazione di imprese comuni (Art. 187 del TFUE, ex-art. 171 del TCE).[16]
Nel quadro del Trattato di Lisbona, inoltre, gruppi di Stati possono dar luogo a cooperazioni rafforzate in settori che non rientrino nelle competenze esclusive dell’Unione e quindi anche nel campo della ricerca.
La complessità del problema.
E’ sufficiente questo nuovo quadro istituzionale a dar origine ad un’efficiente politica europea della ricerca e dell’innovazione? Il fatto che ricerca e sviluppo (R&D) siano competenze concorrenti permette all’Unione di finanziare interventi diretti in questi campi. Ma il bilancio dell’UE (circa 1% del PIL, pari per il 2011, a 142-143 miliardi di euro, di cui la metà va al finanziamento della politica agricola comune e all’amministrazione dell’Unione) consente interventi efficaci?
Per tentare di rispondere è necessario riflettere brevemente su che cosa significhi sviluppare nuove tecnologie: in fondouna nuova tecnologia altro non è che l’applicazione pratica alla vita di tutti i giorni di nuove conoscenze sul mondo fisico o biologico (vorrei qui discutere solo delle grandi tecnologie, che toccano la vita di tutti giorni, tralasciando le tecnologie settoriali, il cui sviluppo e soprattutto la cui diffusione sono condizionati molto spesso dalle specifiche dinamiche di ciascun settore: andamento del mercato, necessità di ammortizzare precedenti investimenti, ecc.).
Già questa semplicistica definizione mette in luce il fatto che la nascita di una nuova tecnologia comporta diversi aspetti: l’acquisizione di nuove conoscenze, la loro utilizzazione per creare nuovi strumenti o modi d’agire (lo “sviluppo” della tecnologia), la diffusione della tecnologia una volta sviluppata, i problemi etici e sociali sollevati dalla sua applicazione.
Una breve analisi di come si pongano gli Stati europei e l’Unione europea sotto questi aspetti in confronto ai paesi più dinamici mette in luce una serie di dati apparentemente contraddittori da cui risulta come i risultati positivi — che pure si possono constatare — mascherino in realtà debolezze che richiederebbero forti interventi.
L’acquisizione di nuove conoscenze è il frutto della ricerca scientifica di base sulle tematiche più disparate: è impossibile prevedere a priori quali nuove conoscenze siano suscettibili di originare nuove tecnologie (nessuno, ad esempio, avrebbe previsto che ricerche sui virus che infettano i batteri avrebbero fornito la chiave per arrivare ai geni responsabili dei tumori umani).[17] La ricerca di base, per definizione, non può essere programmata, ma solo stimolata, tanto più che, molto spesso, l’innovazione nasce dall’incontro di conoscenze in campi anche molto distanti fra loro. Ciò da un lato ha un costo elevato, richiede una visione politica lungimirante e quindi un potere politico capace di farsi carico di finanziamenti senza la certezza di risultati economici a breve-medio termine e dall’altro presuppone l’esistenza di una rete di ricercatori molto ampia, che affronti i più svariati campi di studio, nella quale idee, dati e persone circolino con la massima libertà.
Le fragilità dell’Europa.
Per quanto riguarda i numeri, Europa e USA, ciascuno col 20-25% del totale mondiale,[18] hanno pressappoco un ugual numero di ricercatori, ma la Cina, tra il 2000 e il 2006 ha raddoppiato il numero dei suoi, superando di gran lunga il Giappone e collocandosi poco al di sotto di USA ed Unione europea.[19] C’è però una sostanziale differenza tra i ricercatori europei e statunitensi per quanto riguarda la loro mobilità, sia personale, sia tra discipline, sia tra accademia ed industria: mentre è normale per un ricercatore negli Stati Uniti spostarsi da un centro di ricerca di uno Stato ad uno di un altro, da un centro di ricerca universitario ad uno industriale o viceversa, da una disciplina ad un’altra, in Europa tutto ciò rasenta l’impossibilità. Per di più, proprio per le migliori condizioni offerte dagli USA, una fetta non trascurabile della ricerca USA è svolta da ricercatori temporaneamente o stabilmente “immigrati”: in tal modo i costi della loro formazione (spesso migliore di quella statunitense) sono sostenuti da altri paesi (tra cui molti europei[20]), mentre i risultati della ricerca sono acquisiti ed utilizzati prioritariamente a vantaggio dell’economia degli USA.
Ecco come la Commissione europea nel 2007 descriveva la situazione del Vecchio continente nel Libro verde sullo stato di avanzamento dell’area scientifica europea: “Oggi la massima parte dei ricercatori europei vede ancora le proprie opportunità soffocate da confini istituzionali e nazionali, da condizioni di lavoro carenti e da limitate prospettive di carriera… La mobilità attraverso i confini o tra accademia e industria tende ad essere penalizzata anziché premiata…”.[21] E valutando le possibilità di successo della creazione dell’Area scientifica europea, constatava che “…l’idea di un’Area scientifica europea potrebbe non essere pienamente completata prima di 10 o 15 anni”.[22]
La rete dei ricercatori deve essere fortemente permeabile alle informazioni e alle idee: prendendo come misura di questa caratteristica il numero di articoli scientifici pubblicati, risulta che l’Europa produce il 37.6% del totale mondiale; gli USA il 31.5%; la Cina l’8,4% (tra il 2000 e il 2006 l’incremento delle pubblicazioni scientifiche di cui almeno un autore era cinese è stato del 178%); il Giappone l’7,8%;[23] l’Europa, quindi, è la parte del mondo che “produce più scienza”: i suoi ricercatori sono tra i più produttivi. Tuttavia, se si cerca di valutare l’impatto dei risultati ottenuti (in base al numero di articoli pubblicati sulle riviste maggiormente citate nel mondo scientifico) la leadership europea scompare (Stati Uniti, Canada e Australia hanno una maggior percentuale di articoli pubblicati su queste riviste rispetto all’Unione europea).[24] Considerando i settori d’avanguardia, poi, quelli cioè in cui negli ultimi anni si è avuto il maggior incremento nel numero delle pubblicazioni scientifiche, risulta una “specializzazione” delle economie in competizione con quella europea, che manca a quest’ultima: di fronte ad una leadership statunitense nel campo delle scienze della salute e ad una giapponese nei campi della scienza dei materiali e nell’ingegneria geologica, la produzione scientifica europea non presenta invece alcuna rilevante specializzazione (il suo contributo ai diversi campi non differisce percentualmente dal suo contributo all’insieme della produzione mondiale).[25]
Un altro aspetto interessante che, in un certo senso, rientra nel modello sociale europeo, è il fatto che l’Europa è la parte del mondo dove esiste la massima concentrazione di archivi di dati scientifici e di riviste scientifiche ad accesso libero e gratuito attraverso internet (quasi il 50% del totale mondiale).[26]
Ma il fatto che l’Europa nel suo insieme rientri tra i maggiori “produttori” e “distributori” di ricerca del mondo non si traduce in una leadership mondiale nel campo dell’innovazione. Non basta infatti produrre risultati scientifici: occorre anche tradurli in strumenti pratici, cioè in tecnologia.
E’ qui dove l’Europa sta rapidamente perdendo terreno, a dispetto di un’apparente tenuta nei confronti dei suoi concorrenti. Se prendiamo come metro di valutazione della capacità di tradurre nuove conoscenze in tecnologia il numero dei brevetti depositati,[27] si osserva che quelli degli USA sono il 33,1% del totale mondiale, quelli europei il 30,9% (i Giapponesi il 16,3%): a prima vista la differenza è piccola, ma, nelle aree di punta, le cose cambiano. Nelle biotecnologie i brevetti USA sono 39,7%, gli europei il 24,9; nelle nanotecnologie quelli USA sono il 42,9%, gli europei il 26,6; nelle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, quelli USA sono il 34,6%, gli europei il 24,8 (quelli Giapponesi stanno in ciascun caso attorno al 14-18%).[28] Inoltre questo tipo di analisi mette in luce due ulteriori aspetti di un certo rilievo: da un lato un relativo predominio europeo si riscontra in campi a medio contenuto tecnologico, come quello delle macchine utensili, dei trasporti, dei materiali metallici e dall’altro la prevalenza europea presenta una certa rigidità, rimanendo concentrata nel tempo negli stessi settori, mentre le economie statunitense e giapponese presentano una maggior flessibilità.[29]
Una dato — seppur marginale — legato alla divisione dell’Europa, è il costo della brevettazione: depositare un brevetto nei 13 principali paesi europei costa 11 volte più che brevettarlo negli interi USA.[30] Non essendo stato possibile raggiungere un accordo unanime tra gli Stati europei sulle proposte della Commissione per la creazione di un brevetto europeo, a causa dell’opposizione dell’Italia e della Spagna (per motivi di nazionalismo linguistico), è stata proposta una cooperazione rafforzata a 25 per la sua creazione. La cooperazione rafforzata ha completato l’iter di approvazione il 10 marzo 2011[31] e la Commissione ha preparato le proposte di Regolamento per la sua attuazione, che dovranno essere recepite dagli Stati partecipanti, senza Italia e Spagna.
I fattori della debolezza di fondo della ricerca e dell’innovazione in Europa.
All’origine della situazione che abbiamo descritto si possono individuare diversi fattori. Il primo è senza dubbio la frammentazione del mondo della ricerca impietosamente descritta anche dalla Commissione europea nel Libro verde del 2007 sull’Area scientifica ricordato più sopra.
Un secondo fattore sta nel fatto che in Europa esiste certamente una scarsa comunicazione tra ricerca di base (quasi esclusivamente universitaria) e mondo imprenditoriale. Per ovviare a questo limite, la Commissione europea ha lanciato le “piattaforme tecnologiche europee” che riuniscono aziende, istituti di ricerca, mondo finanziario ed istituzioni pubbliche, sotto una guida industriale, per definire e sostenere un’agenda di ricerca comune per singole aree tecnologiche.[32] Ne sono state avviate in 36 campi diversi (nanomedicina, chimica sostenibile, trasporto europeo, salute animale globale, reti elettriche, approvvigionamento idrico, ecc.). Si tratta di iniziative “dal basso”: la Commissione vi partecipa come osservatore ed è impegnata in un dialogo strutturato sulle priorità di ricerca. Contemporaneamente, però, i singoli Stati hanno creato le proprie piattaforme, dando origine a problemi di sovrapposizione e di coordinamento tra iniziative nazionali ed europee e quindi di efficienza del sistema; d’altra parte l’approccio settoriale, privo di una visione della complessità d’insieme, ne riduce l’efficacia. Questi inconvenienti sono stati messi in evidenza da un pannello di esperti incaricato di valutare queste iniziative: nel suo rapporto, ha indicato una serie di miglioramenti da introdurre nel sistema, rimanendo però legato ad un approccio intergovernativo.[33] Dello stesso tipo è l’iniziativa Europa INNOVA lanciata dalla Commissione a partire dal 2005, i cui principali strumenti sono reti di clusters di imprese organizzate per settore per scambiare buone pratiche, reti settoriali di finanziatori per identificare i fabbisogni di finanziamento delle imprese, panels di esperti accademici ed industriali e di decisori politici per elaborare raccomandazioni strategiche.[34]
Un terzo fattore della fragilità europea è la relativa limitatezza dell’entità dei finanziamenti dedicati alla ricerca e allo sviluppo: gli USA investono poco meno del 3% del PIL (36% delle risorse mondiali); l’Europa (Stati + UE) poco più del 2% (27% delle risorse mondiali).[35] Come rileva la Commissione europea, a ciò si aggiunge il fatto che, tra il 2000 e il 2006, “nonostante incoraggianti progressi nell’aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo, l’incidenza complessiva della spesa per ricerca e sviluppo [sul PIL] nell’Europa a 27 è rimasta invariata”.[36] Questo è in buona parte dovuto al fatto che gli investimenti in ricerca delle imprese europee sono nettamente inferiori rispetto a quelli delle imprese statunitensi, giapponesi e coreane:[37] i finanziamenti pubblici in Europa (UE + Stati) corrispondevano nel 2006 allo 0,6% del PIL, mentre quelli delle imprese all’1,17%.[38] Va rilevato inoltre che l’incidenza del finanziamento delle imprese sul PIL in Cina ha raggiunto quella europea.
Un ulteriore sintomo delle carenze del quadro europeo nel favorire la ricerca e lo sviluppo è dato dal fatto che le imprese europee continuano ad investire in ricerca e sviluppo negli Stati uniti più di quanto le imprese statunitensi facciano in Europa.[39] Un esempio di questa tendenza è dato da Enel Green Power, che, grazie all’esperienza nello sfruttamento dell’energia geotermica acquisita nella zona di Lardarello in Toscana, ha ottenuto un finanziamento statunitense per costruire, in collaborazione con il Politecnico di Milano e l’MIT, nel deserto del Nevada, due impianti sperimentali di produzione di energia elettrica allo scopo di studiare la valorizzazione di siti con risorse geotermiche a basse temperature.[40]
Un aspetto completamente ignorato dalle statistiche e dalle considerazioni dell’Unione europea e pudicamente sottaciuto dai commentatori e dai politici è il peso degli interessi militari nell’indirizzare la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie. Basti citare internet, nata da una commessa del Dipartimento della difesa statunitense a quattro università, il sistema di trasporti via container (messo a punto dalla difesa americana per far fronte esigenze di spostamento di grandi quantità di materiali legati alla guerra in Vietnam gestiti dalla Defense Logistic Agency) e il GPS, messo a punto per esigenze militari e in un secondo tempo esteso all’uso civile, ma introducendovi un errore che lo rendeva utilizzabile solo per la navigazione oceanica, errore poi ridotto (con la conseguente utilizzabilità terrestre) nel tentativo di evitare la concorrenza da parte del progetto Galileo dell’Unione europea. Anche se, a differenza del periodo della guerra fredda, quando tecnologie inizialmente sviluppate per esigenze militari hanno trovato in un secondo tempo amplissima diffusione in campo civile, attualmente tecnologie tendenzialmente civili trovano applicazioni e sviluppi per esigenze militari, l’importanza di questo fattore rimane comunque elevata. Basti un esempio a questo proposito: nel settembre del 2009 il Naval Facilities Center della marina militare statunitense ha stipulato un contratto per oltre 8 milioni di dollari con la Lockheed-Martin per lo sviluppo di sistemi di produzione di energia basati su tecnologie OTEC (Ocean Thermal Energy Conversion) da installare nelle proprie infrastrutture.[41] L’anno precedente, la Locked-Martin aveva ottenuto dal Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti una commessa per lo sviluppo di tubi adatti al pompaggio di acqua marina a grandi profondità, indispensabili per gli impianto basati sull’OTEC.
Ma il principale fattore della debolezza europea, dal quale, in ultima analisi, derivano tutti i precedenti, è che gli USA hanno una politica della ricerca coerente e basata su indirizzi precisi, portata avanti da istituzioni dotate dei poteri e dei mezzi necessari alla sua realizzazione, a sua volta riflesso del fatto che gli USA sono uno Stato che, nel bene e nel male, impone alla propria classe politica di farsi carico sia dei problemi interni del continente nel suo insieme, sia della sua situazione internazionale, compresa quella militare, non solo a breve, ma anche a medio-lungo termine. E’ esemplare, a questo proposito, la ripartizione degli stanziamenti dell’American Recovery and Reinvestment Bill 2009,[42] che, attraverso esenzioni fiscali per 432 miliardi di dollari e stanziamenti per oltre 350 miliardi, si proponeva di preservare e recuperare posti di lavoro, di promuovere la ripresa economica, di assistere le fasce di popolazione maggiormente colpite dalla recessione, di rendere disponibili gli investimenti necessari per aumentare l’efficienza dell’economia e per stimolare progressi scientifici e tecnologici, per investire nei trasporti, nella protezione dell’ambiente e in altre infrastrutture capaci di generare vantaggi economici a lungo termine, e di stabilizzare i bilanci federale e statali. Così sono stati stanziati 26,8 miliardi di dollari per investimenti in tecnologie informatiche applicate alla medicina e per incentivarne l’uso; 10 miliardi ai National Institutes of Health per ricerche e costruzione di laboratori; 1,1 miliardi per ricerche comparative sull’efficienza dei trattamenti medici; 100 miliardi per l’istruzione (compresi aumenti di stipendio agli insegnanti); 105,3 miliardi per infrastrutture (tra cui 48,1 miliardi per i trasporti, 18 per la protezione e il recupero dell’ambiente, 7,5 per l’accesso ad internet a banda larga e wireless, 21,5 per infrastrutture elettriche: smart grids, ecc.); 27,2 miliardi per ricerche e investimenti sull’efficienza energetica e sulle energie rinnovabili; 7,6 miliardi per la ricerca scientifica (di cui 3 alla National Science Foundation[43] per ricerche di base, 2 al Dipartimento dell’energia per ricerche di base in fisica e per il miglioramento dei laboratori, 400 milioni per creare un’Agenzia di progetto sull’energia che sostenga ricerche ad alto rischio di insuccesso, ma ad alta resa potenziale, 300 milioni al National Institute of Standards and Technolgy per finanziare nuove costruzioni universitarie). Molti di questi finanziamenti sono sotto il controllo dello House Committee on Science and Technology.[44] Ecco come il Presidente del Comitato ha spiegato la ripartizione di questi fondi: “…L’innovazione — e soprattutto le nuove tecnologie energetiche — è la via per risolvere i cambiamenti climatici, per far fronte alle nostre crescenti necessità energetiche, per rinvigorire la nostra economia e per assicurare la nostra competitività a lungo termine. Finanziare la ricerca, la tecnologia e nuovi tipi di infrastrutture contribuirà ad affrontare il problema che sta alla base di tutto questo: la competitività economica. Se non agiamo, potremmo creare posti di lavoro, ma solo per perderli in futuro per la competizione straniera”.[45]
Non si tratta di interventi una tantum: alla fine di giugno 2010 sono stati stanziati altri due miliardi di dollari a sostegno di due progetti sull’energia solare (costruzione di una delle più grandi centrali solari e creazione di due fabbriche di pannelli fotovoltaici di ultima generazione) che porteranno alla creazione di circa 5000 posti di lavoro. Va notato che la ditta le cui fabbriche produrranno i nuovi pannelli solari è nata all’interno della Colorado State University. Ed ecco come Obama ha commentato la decisione: “E’ il terreno sul quale dobbiamo competere con decisione per garantire che le industrie e i mestieri del futuro mettano radici profonde in America”.[46]
Chiaramente, negli Stati Uniti sono state fatte delle scelte, stabilite delle priorità, sono stati pianificati interventi in settori diversi, ma che si sostengono a vicenda, affrontando i problemi nella loro complessità, si sono identificate le istituzioni responsabili dell’attuazione dei progetti e si sono messe a disposizione ingenti risorse: in altre parole, ci sono una politica, la volontà e i mezzi per realizzarla.
L’Europa, per parte sua, è ancora alle prese con la definizione di un “Comune quadro strategico”.[47] Alla base di queste drammatiche differenze sta il fatto che negli USA c’è uno Stato, in Europa no.
D’altra parte, quando poi una nuova tecnologia è definita, il suo sfruttamento economico e quindi la sua introduzione e la sua diffusione (che sono alla base del suo effetto propulsivo sull’economia nel suo insieme) da un lato richiedono spesso la creazione, la gestione e la manutenzione di massicce infrastrutture (si pensi alla rete di satelliti per il GPS, o alle reti per internet, o alle reti ferroviarie per l’alta velocità) e dall’altro portano a modificazioni spesso profonde non solo del mercato, ma anche di comportamenti della popolazione.
La creazione e la gestione delle infrastrutture richiede quindi sia che vengano effettuati massicci investimenti, spesso superiori alle possibilità del mercato, sia, a causa delle loro profonde implicazioni sull’intera società, che vengano anzitutto fatte scelte strategiche che tengano conto non solo di fattori strettamente economici, ma anche sociali, ambientali, ecc., che si manifestino la volontà politica e il consenso per la loro realizzazione, che sia predisposta una pianificazione a largo raggio che includa gli investimenti necessari, indirizzando e coordinando interventi pubblici e privati e infine che vengano concretamente attuati tutti i passi necessari. Tutto questo rappresenta in realtà uno dei principali aspetti dell’attività di uno Stato e solo con estrema lentezza e difficoltà riesce ad essere realizzato attraverso la cooperazione intergovernativa che caratterizza l’Unione Europea: si pensi ad esempio alle difficoltà nella realizzazione del progetto Galileo di posizionamento satellitare, delle “autostrade informatiche” del piano Delors o anche solo della realizzazione delle reti ferroviarie transeuropee ad alta velocità.
Tali lentezze e difficoltà rappresentano un importante disincentivo o addirittura un ostacolo allo sfruttamento economico di nuove tecnologie sviluppate in Europa: è questo ad esempio il caso del treno a levitazione magnetica ad alta velocità (Maglev) messo a punto dalla Siemens in Germania, ma realizzato e funzionante a Shanghai (con una velocità operativa commerciale di 431 km/h ed in grado non solo di ammortizzare i costi di costruzione e di gestione, ma di produrre significativi introiti). Le difficoltà del consorzio Airbus legate alle dispute franco-tedesche sulla localizzazione della fase finale dell’assemblaggio dell’A-320 lo hanno costretto, per far fronte alle richieste del mercato, a spostare parte della produzione in Cina dove ha costituito una joint venture con un consorzio locale (Tianjin Free Trade Zone e China Aviation Industry Corporation).[48] Com’era prevedibile,[49] grazie a questa ed altre joint ventures in campo aeronautico, l’industria cinese è ormai in grado di produrre autonomamente aerei commerciali competitivi rispetto ai modelli di Airbus e di Boeing: nel novembre 2010 la Comac (Commercial Aircraft Corporation of China) ha presentato all’air show di Zhuhai il prototipo del C919 da 150 passeggeri, che sarà operativo a partire dal 2014.[50]
Conclusione.
Il tempo stringe. L’esperienza dimostra che i paesi europei stanno sperperando il patrimonio che erano riusciti ad accumulare nel secondo dopoguerra e stanno inesorabilmente perdendo posizioni tra i paesi sviluppati, mettendo a repentaglio non solo il loro benessere, ma anche il modello sociale e politico che hanno saputo costruire. O i popoli europei riusciranno in tempi brevi a dar vita ad un vero Stato federale capace di trasformare gli obiettivi del Piano Delors, dell’Agenda di Lisbona, dell’Agenda Europa 2020 in concrete azioni politiche, invertendo nettamente l’attuale tendenza, oppure si autocondanneranno ad una decadenza sempre più rapida, che non inciderà solo sul loro tenore di vita, ma anche sulle strutture stesse della convivenza civile.
[1] Secondo dati della Commissione europea, già nel 2006 la Cina ha superato gli USA e l’Unione europea come esportatore di prodotti ad alto contenuto tecnologico (Commissione europea, A more research-intensive and integrated European Research Area – Science, Technology and Competitiveness key figures report 2008-2009,http://ec.europa.eu/research/era/docs/en/ec-facts-figures-1.pdf#view=fit&pagemode=none, p. 78).
[2] E’ significativo, da questo punto di vista, quanto scriveva Federico Rampini su La Repubblica del 20 settembre 2010 (“L’Asia lancia la guerra delle monete, parte la sfida economica all’Occidente”): “il segretario al Tesoro Geithner è quasi reticente quando dice che la Repubblica Popolare ‘tollera il furto di tecnologie straniere’. Ormai si è aperta un’altra fase: il governo cinese quel furto lo organizza, attraverso un esproprio di Stato. E’ significativo quel che sta accadendo nell’industria dell’automobile. Le autorità di Pechino stanno per varare una nuova normativa che imporrà alle case automobilistiche straniere di divulgare le loro tecnologie ‘verdi’ — motori elettrici e ibridi — se vogliono mantenere l’accesso al mercato cinese. La nuova legislazione fa parte di un piano decennale preparato dal ministero dell’Industria cinese per ‘conquistare la leadership mondiale’ nella nuova generazione di auto a zero emissioni. Il governo potrà costringere qualsiasi produttore estero ad avere un socio locale col 51% del capitale, in modo da rendere l’industria nazionale partecipe di tutte le innovazioni tecnologiche elaborate all’estero.” Si veda anche l’esempio dell’Airbus citato più sotto.
[3] Cfr., ad esempio, il memorandum della Commissione europea Why Europe needs research spending, del 9 giugno 2005, reperibile all’indirizzo: http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=MEMO/05/199&format=HTML&aged=0&language=EN.
[4] Commissione delle Comunità europee, Crescita, competitività, occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo. Libro Bianco, Bollettino delle Comunità europee, Supplemento 6/93.
[5] Presidency Conclusions – Lisbon European Council – 23 and 24 March 2000, http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/ec/00100-r1.en0.htm.
[7] Ibidem.
[8] Commissione europea, Inventing our future together – The European Research Area: New Perspectives, Green Paper 04.04.2007, http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2007:0161:FIN:EN:PDF, p. 15.
[9] Commissione europea, Inventing our future together, op. cit., p. 7.
[10] Commissione europea, From Challenges to Opportunities: Towards a Common Strategic Framework for EU Research and Innovation Funding, Green paper 09.02.2011, http://ec.europa.eu/research/csfri/pdf/com_2011_0048_csf_green_paper_en.pdf, p. 4.
[11] Commissione europea, Europe 2020 – A strategy for smart, sustainable and inclusive growth, Bruxelles, 3.3.2010, http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2010:2020:FIN:EN:PDF, p. 5.
[12] Commissione europea, Europe 2020…, op. cit., pp. 5-6.
[13] Commissione europea, Europe 2020…, op. cit., p. 6.
[14] La procedura legislativa ordinaria è quella che in precedenza era indicata come “codecisione”, e quindi una procedura nella quale l’atto non può essere adottato se non c’è l’accordo sia del Parlamento europeo, sia del Consiglio.
[15] Le procedure legislative speciali sono quelle nelle quali l’atto è adottato dal Consiglio, con una partecipazione del Parlamento europeo, che può essere un semplice parere non vincolante oppure l’approvazione (in ogni caso il PE in queste procedure ha un ruolo subordinato a quello del Consiglio perché, ad esempio, non può proporre emendamenti, e quindi non può influire sul contenuto dell’atto: di fatto, può dire sì o no, e quindi ha un potere di veto).
[16] Queste imprese possono, in teoria, sia cercare autonomamente finanziamenti sul mercato, sia autofinanziarsi con i profitti della loro attività.
[17] La cosiddetta ricerca finalizzata, che è stata la sola ricerca finanziata da parte di diversi governi europei e dalla Comunità europea per parecchi anni nella seconda metà del ‘900, è in realtà ricerca applicata, cioè applicazione a specifici problemi di conoscenze già acquisite, oppure è semplicemente una forma di mascheramento del finanziamento di ricerca di base da parte di una classe politica (e di ricercatori) che non ha il coraggio di accettare il fatto che la ricerca di base debba essere finanziata indipendentemente dai risultati pratici che può produrre nel breve periodo.
[18] Le Monde Diplomatique, “Géographie des savants”, L’Atlas du Monde diplomatique, http://www.monde-diplomatique.fr/cartes/geographiesavants.
[19] Commissione europea, A more research-intensive and integrated European Research Area…, op, cit., p. 51.
[20] Secondo la Commissione europea, il 40% della ricerca e sviluppo degli USA è fatto da personale formato in Europa (Cfr. Guido Montani, “Il ruolo del bilancio europeo nella politica economica europea”, Il Federalista, 47 (2005) p. 161).
[21] Commissione europea, Inventing our future together, op, cit., p. 12.
[23] Commissione europea, A more research-intensive and integrated European Research Area…, op, cit., pp. 61-62.
[24] Va inoltre ricordato che tra il 2000 e il 2003 la percentuale di articoli di cui almeno un autore era cinese, pubblicati sulle stesse riviste, ha raggiunto quelle del Giappone e della Corea del Sud (Commissione europea, A more research-intensive and integrated European Research Area…, op, cit., p. 64).
[25] Commissione europea, A more research-intensive and integrated European Research Area…, op, cit., p. 66.
[26] Commissione europea, A more research-intensive and integrated European Research Area…, op, cit., pp. 134-135.
[27] In realtà si tratta di un parametro che ha due limiti: da un lato, non tutte le invenzioni vengono brevettate; dall’altro, parte dei brevetti depositati non viene mai sfruttata commercialmente, mentre altri sboccano su importanti innovazioni tecnologiche. Tuttavia esso rimane un indice dell’orientamento verso lo sfruttamento pratico dei risultati della ricerca scientifica.
[28] Dati del 2005 da: Commissione europea, A more research-intensive and integrated European Research Area…, op, cit., pp. 67-68.
[29] Commissione europea, A more research-intensive and integrated European Research Area…, op, cit., p. 70.
[30] Commissione europea, Enhancing the patent system in Europe, Comunicazione al Parlamento europeo e al Consiglio, 3.4.2007, http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2007:0165:FIN:EN:PDF.
[31] “Council decision of 11 March 2011 authorizing enhanced cooperation in the area of the creation of unitary patent protection”, Official Journal of the European Union, 22.3.2011, p.L76/53, http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:076:0053:0055:EN:PDF.
[32] Commissione europea, Industrial Policy in an Enlarged Europe, Communication from the Commission to the Council, the European Parliament, the Economic and Social Committee and the Committee of the Regions, http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2002:0714:FIN:EN:PDF p. 19
[33] Strengthening the role of European Technology Platforms in addressing Europe’s Grand Societal Challenges, Report of the ETP Expert Group, http://www.eurosfaire.prd.fr/7pc/doc/1264002088_fa_industrialresearch_b5_full_publication_rp_en.pdf.
[34] Commissione europea, Attuare il programma di Lisbona: potenziare la ricerca e l’innovazione – Investire per la crescita e l’occupazione: una strategia comune, Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle Regioni, 12.10.2005, http://ec.europa.eu/invest-in-research/pdf/download_en/comm_native_com_2005_0488_4_en_acte.pdf, p. 6.
[35] Le Monde Diplomatique, “Géographie des savants”, L’Atlas du Monde diplomatique, op, cit.
[36] Commissione europea, A more research-intensive and integrated European Research Area…,op, cit., p. 18.
[37] Commissione europea, A more research-intensive and integrated European Research Area…, op, cit., p. 28.
[38] Commissione europea, A more research-intensive and integrated European Research Area…, op, cit., p. 38.
[39] Commissione europea, A more research-intensive and integrated European Research Area…, op, cit., p. 12.
[40] Patrizia Feletig, “L’esperimento dell’Enel nel Nevada: utilizzare anche temperature più basse”, La Repubblica, 11 aprile 2011, p. 27.
[41] OTEC News, http://www.otecnews.org/2009/11/01/us-navy-signs-8-million-otec-deal-with-lockheed-martin/.
[42] http://www.gpo.gov:80/fdsys/pkg/PLAW-111publ5/pdf/PLAW-111publ5.pdf.
[43] La National Science Foundation è un’agenzia federale che finanzia la ricerca di base e l’educazione in tutti i campi, esclusa la medicina (che è invece di competenza dei National Institutes of Health). Nel 2010 aveva un budget di 6.87 miliardi di dollari, con cui copre circa il 20% del finanziamento federale di tutta la ricerca di base dei colleges e delle università statunitensi.
[44] Lo House Committee on Science and Technology è un comitato della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, la cui giurisdizione copre la ricerca e lo sviluppo federali in campo non militare. Il Comitato controlla numerose agenzie federali, tra cui la NASA, il Dipartimento dell’Energia, il National Institute of Standards and Technology, l’Environmental Protection Agency (EPA), l’Agency for Toxic Substances and Disease Registry (ATSDR), la National Science Foundation, la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), ecc.
[45] http://science.house.gov./press/PRArticle.aspx?NewsID=2339.
[46] Federico Rampini, “Obama scommette sul sole: due miliardi al fotovoltaico”, La Repubblica, 4 luglio 2010, p. 25.
[47] Commissione europea, From Challenges to Opportunities…, op, cit., p. 4.
[48] “Airbus delivers 50th Chinese assembled A320”, Flightglobal, 1.6.2011, http://www.flightglobal.com/articles/2011/06/01/357391/airbus-delivers-50th-chinese-assembled-a320.html.
[49] Wieland Wagner, “Playing With Fire: Airbus in China”, Spiegel On Line International, 5.8.2006, http://www.spiegel.de/international/spiegel/0,1518,415039,00.html.
[50] Wang Zhuoqiong, “China ready to challenge airbus, Boeing”, Asiaonebusiness, 8.1.2011, http://www.asiaone.com/Business/News/Story/A1Story20110108-257085.htm.