Anno XLII, 2000, Numero 1, Pagina 11
Euro e dollaro.
Per un sistema monetario mondiale
ANTONIO MOSCONI
1. Passaggio a nord-ovest.
La questione più importante del nostro tempo, per la scienza economica, riguarda la de-nazionalizzazione della teoria keynesiana. La maggior parte degli economisti si trastulla a recitarne il requiem oppure ad invocarne un’impossibile riesumazione da parte delle politiche economiche nazionali. Lo stretto e misterioso «passaggio a nord-ovest», che dal keynesismo nazionale conduce a quello regionale e globale, non è mai stato esplorato.
L’età dell’oro, sembrano testimoniare i numeri, fu una «vera» età dell’oro e l’economia, che oggi ci appare «globale», è meno aperta di quanto non lo fosse quando la flotta inglese dominava gli oceani.[1] Questa visione si limita alle bilance commerciali, senza riguardo agli investimenti diretti che hanno trasformato la divisione internazionale del lavoro dal tradizionale scambio di prodotti manufatti con prodotti «coloniali» all’attuale delocalizzazione trasversale. E’ vero, però, che la creazione monetaria, che Keynes voleva subordinata alla ragione umana e non alla superstizione dell’oro, mai meno di oggi ha soddisfatto (in termini qualitativi, nonostante l’esuberanza quantitativa) gli obiettivi di sviluppo, benessere, felicità della vita, piena occupazione ed equa distribuzione del reddito. Ciò deriva dal fatto che le monete nazionali con funzione internazionale sono governate da istituzioni la cui base di legittimazione democratica è assai ristretta rispetto all’estensione del potere da esse esercitato. In altri termini gli Stati che hanno via via goduto del potere di emettere moneta cartacea internazionale, per effetto della loro supremazia militare, hanno contraddetto di fatto, attraverso il «signoraggio», il sacro principio della rivoluzione americana: «no taxation without representation».[2]
I sistemi internazionali a moneta unica hanno costituito la rappresentazione monetaria di equilibri di potere che via via si sono spostati dal concerto europeo delle potenze (il gold standard, fondato sull’oro) agli imperi fondati su di una reale supremazia economica (il gold-exchange standard, fondato sulla convertibilità in oro della sterlina prima e del dollaro poi), fino agli imperi degli «apparati militar-industriali»[3] (monete nazionali inconvertibili, come il pound, il reichsmark ed oggi il dollaro di Nixon). I sistemi universali sono stati sempre, finora, preordinati a servire interessi particolari sui quali gli storici dell’economia hanno fatto ormai piena luce. Non poteva essere che così in un mondo diviso in Stati nazionali dotati di sovranità esclusiva ed assoluta. Ogni sistema monetario, infatti, è definito dalla base di potere che rende possibile l’affermarsi della fiducia (oppure il soffocamento delle manifestazioni di sfiducia) e che impone le ragioni di scambio. Tutto ciò non comporta che si debbano buttar via, col nazionalismo, anche quegli strumenti di controllo e di gestione del capitalismo che, sperimentati nei limiti e con le deformazioni degli Stati nazionali, appaiano revisionabili ed applicabili da parte delle future federazioni regionali e di quella mondiale.
1.1 Due guerre, tre Keynes.
Nel primo dopoguerra Keynes si oppose al ripristino del sistema aureo. Egli considerava stravagante affidare la creazione monetaria ai capricci della produzione e dell’accumulazione del metallo anziché commisurarla alle necessità dell’economia; aveva previsto gli effetti deflazionistici che il ritorno all’oro, alla parità d’anteguerra, avrebbe provocato; aveva capito come tutto ciò avrebbe spostato il centro del mondo dall’Europa agli Stati Uniti, i soli detentori di tutte le riserve auree. Nel 1923, quando «anche la moneta d’oro era diventata una moneta regolata» (dagli Stati Uniti), Keynes denunciò, nel Tract,[4] la sopravvivenza della «superstizione dell’oro» ed accusò la politica americana di accumulazione aurea per i suoi effetti deflazionistici a livello mondiale.
Nel 1936, quando Hitler aveva già occupato la Renania smilitarizzata, infrangendo così il trattato di Versailles, Keynes rivalutò nella General Theory[5] le politiche mercantiliste poiché esse avrebbero favorito innanzitutto l’aumento della «domanda effettiva» e solo in un secondo tempo quello dei prezzi. In realtà Keynes, a differenza di Robbins, aveva riconosciuto la drammatica priorità del riarmo britannico contro la minaccia nazista.[6] Gli istinti vitali, in un mondo che correva verso la guerra, condussero il liberale Keynes a rivalutare gli avanzi commerciali, l’accumulazione di oro e perfino il protezionismo.
Sotto questo profilo la General Theory costituisce una regressione rispetto alle sue posizioni precedenti. Il mondo era regredito e Keynes col mondo. Come Stalin aveva respinto l’approccio federalista di Lev Trotzkij all’internazionalismo socialista, perché avrebbe indebolito l’Unione Sovietica accerchiata, così Keynes aveva praticamente ignorato il contributo di Robbins diretto a dimostrare come l’ordine economico internazionale potesse essere fondato soltanto sul federalismo.[7]
Colpevole dell’interruzione della rivoluzione liberale, a giudizio di Robbins, era la reazione nazionalista. Egli criticava il liberalismo internazionale ottocentesco per avere ritenuto che un’autorità sovranazionale si sarebbe rivelata superflua. La sua critica si richiamava esplicitamente ad Hamilton e agli altri fondatori del federalismo americano ed investiva, naturalmente, anche il nazionalismo monetario, fermandosi tuttavia impaurita di fronte alla prospettiva di una moneta internazionale. Robbins, infatti, una volta che gli Americani e i Sovietici ebbero vinto la guerra, non ritenne più prioritario per la Gran Bretagna il problema dell’unità europea e passò il resto dei suoi giorni a discolparsi per non aver capito la rivoluzione keynesiana.
Nel secondo dopoguerra, a Bretton Woods, Keynes propose inutilmente il più grande dei suoi piani, quello per una moneta cartacea mondiale ancorata all’oro: il bancor. Lo scopo era evidentemente quello di internazionalizzare, nei limiti del possibile, il potere di batter moneta che, con l’adozione del piano White, passò invece di fatto agli Stati Uniti.
1.2 Il mondo dopo Keynes.
I paesi sconfitti nella II guerra mondiale accumularono così ingenti quantità di dollari la cui convertibilità in oro divenne sempre più aleatoria a mano a mano che il volume dei dollari in circolazione fuori dagli Stati Uniti si faceva smisuratamente più grande della quantità di oro disponibile per la loro copertura. Questa fu la forma assunta dalle «riparazioni» nel secondo dopoguerra. La convertibilità del dollaro fu «sospesa» il 15 agosto 1971. Due piani monetari alternativi, ma entrambi velleitari, erano sul terreno dello scontro quando Nixon impose al mondo il dollar standard. Il piano francese di Rueff, una fuga all’indietro, ed il piano Triffin, una fuga in avanti.
Rueff ebbe enorme influenza sulla politica monetaria di De Gaulle. Pur partendo da una diagnosi precisa dei mali di un gold-exchange standard che precipitava inesorabilmente verso il dollar standard, egli non sposò la politica conforme al corso della storia (fin dal 1959 il Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa, presieduto da Jean Monnet, aveva proposto la creazione di un «fondo europeo di riserve», cui gli Stati membri della Cee avrebbero dovuto girare, almeno in parte, le proprie riserve perché esse fossero gestite in comune), ma si abbandonò all’impossibile sogno di dare una risposta nazionale all’egemonia americana attraverso il ritorno all’oro.[8] La politica francese di conversione in oro delle riserve già detenute in dollari non ottenne altro risultato se non quello di affrettare la dichiarazione di inconvertibilità della valuta americana. Il ritorno all’oro presentava contraddizioni insanabili. Esso sarebbe stato in contrasto col corso storico, indirizzato verso l’affermazione di monete fiduciarie; avrebbe riportato la creazione monetaria sotto il dominio di automatismi e di superstizioni, anziché estendere il controllo della sua corrispondenza a finalità umane condivise; infine non avrebbe potuto contrastare l’egemonia americana, fondata sulla supremazia economica e militare. La denuncia, da parte di Rueff, del «peccato monetario dell’Occidente»,[9] dopo il colpo di mano americano, fu commovente quanto inutile.
L’idea keynesiana di una moneta mondiale ispirò, invece, i diversi piani monetari di Triffin, aventi obiettivi sempre più limitati ma gradi di realizzabilità politica via via crescenti. Il primo piano Triffin era diretto a trasformare il Fondo monetario internazionale in una banca delle banche centrali. Il secondo suggeriva che le eccedenze delle bilance dei pagamenti venissero trasformate in depositi garantiti presso il Fondo monetario internazionale e che a questa istituzione venisse attribuito il potere di finanziare o meno i deficit valutari dei singoli paesi. La montagna partorì un topolino: i diritti speciali di prelievo. Essi introdussero nel sistema monetario internazionale una pseudo-moneta cartacea, convertibile in oro soltanto in quanto convertibile in dollari (la cui convertibilità in oro venne soppressa poco dopo); ma non costituiscono una vera e propria moneta cartacea mondiale perché il loro impiego è sottoposto a numerose limitazioni e soprattutto perché la decisione sulla loro emissione deve essere presa con un quorum di maggioranza tale da consentire un diritto di veto tanto agli Stati Uniti che all’Unione europea. Venuto in contatto con i federalisti europei, per iniziativa di Alfonso Jozzo, Triffin effettuò una riflessione più profonda, che cambiò il corso della sua vita, sul rapporto fra moneta e potere. Si trasferì dagli Stati Uniti al nativo Belgio per dedicarsi al suo terzo piano, quello buono, per la creazione della moneta europea. Egli era rimasto assai colpito, nel 1970, dal pensiero di Albertini.
1.3 Albertini e la moneta europea.
Soltanto Albertini,[10] infatti, seppe spiegare perché il nuovo ordine monetario non avrebbe potuto essere fondato né sull’oro di Rueff né sul credito di Triffin. Egli riuscì nello scopo portando alla luce il rapporto necessario fra moneta e potere e paragonando l’oro al diritto primitivo, caratterizzato dall’autotutela, e la moneta cartacea al diritto sviluppato. Senza un potere mondiale la cartamoneta mondiale sarebbe stata una finzione, un paravento del dollaro. Dal punto di vista economico, Albertini descriveva la differenza tra la moneta nazionale e quella internazionale come segue: «Con la moneta nazionale (di carta), gli aspetti economici della ragion di scambio possono manifestarsi in modo autonomo. La parità, come rapporto uguale per tutti tra i mezzi monetari e i beni o i servizi, è costantemente assicurata, o immediatamente ristabilita dopo le crisi gravi, entro ristretti margini di variazione. E i margini di variazione (la politica monetaria) dipendono dalla volontà pubblica, sono funzione delle caratteristiche e delle esigenze del mercato nazionale, possono essere considerati come giusti o falsi secondo i criteri della politica economica. Con la moneta internazionale, al contrario, gli aspetti economici della ragion di scambio non si manifestano in modo autonomo. La parità è stabilita dal rapporto dei mezzi monetari tra di loro e con la moneta internazionale, e soltanto indirettamente si riferisce ai beni ed ai servizi; le variazioni di questa parità si manifestano nei cambi fissi, nella loro fluttuazione, nella loro disintegrazione in un ventaglio di parità. Queste variazioni possono essere considerate giuste o false in relazione alle esigenze del commercio internazionale e non seguendo i criteri di una vera politica economica. La moneta nazionale ha un solo aspetto di potere: lo Stato. Gli aspetti di potere della moneta internazionale, al contrario, variano in funzione della distribuzione (ineguale) del potere politico nel mondo come sistema di Stati e dipendono in generale dalla balance of power che si manifesta nel sistema ed in particolare dalla posizione di potere di ogni Stato nel sistema».
Possono derivarne, concludeva Albertini, tre diverse situazioni: il disordine internazionale, l’egemonia di uno Stato e la convergenza della «ragion di Stato» tra diversi Stati.
«La moneta mondiale — invece — è esterna a questo quadro perché la sua base politica richiede la soppressione del sistema mondiale degli Stati sovrani (sovranità assoluta) e la sua sostituzione con una Federazione mondiale. Non c’è altro modo per trasformare i rapporti di forza attuali tra gli Stati (diritto primitivo) in rapporti giuridici veri e propri, cioè dipendenti da una volontà pubblica. Ciò è sufficiente per affermare che è completamente privo di senso accettare la sovranità assoluta degli Stati armati — cioè i rapporti fra gli Stati come rapporti di forza — ed immaginare, malgrado tutto, dei progetti di moneta mondiale, come lo è, del resto, pensare che l’ONU, organizzazione di Stati sovrani e armati, possa garantire la pace».
Soltanto l’unificazione monetaria europea poteva, in quella fase, essere posta all’ordine del giorno della storia come un problema definito, con una sola soluzione.
«Lo scopo economico è di trasformare un gruppo di monete nazionali, con delle possibilità internazionali limitate e subordinate, in una moneta nazionale (europea) che copra tutto lo spazio in questione. Si tratta pertanto di adoperare il mezzo politico: una volontà pubblica, costituzionalmente definita, sul medesimo spazio. Ciò equivale a dire che non si può progettare l’unificazione monetaria dell’Europa senza progettare la creazione di uno Stato federale europeo… Il punto decisivo mi sembra questo: bisogna accettare, e sostenere, contro la logica, un’operazione graduale di unificazione monetaria preliminare, e non successiva, alla creazione di un potere politico europeo perché i protagonisti della esecuzione del processo (l’iniziativa non è certamente loro), non si comportano seguendo criteri logici… Si tratta di un espediente, ma ci sono degli espedienti utili. Forse ci sono degli espedienti che possono spingere le forze politiche su un piano inclinato».
Questa grande intuizione di Albertini fu in grado di riorientare gli sforzi di avanguardie generose (valga per tutti l’esempio di Triffin) verso un obiettivo, la moneta europea ed il potere europeo, la cui raggiungibilità era definibile non fideisticamente, ma secondo criteri scientifici. Infatti, secondo Albertini, esistevano in Europa tutte le circostanze storiche ritenute necessarie da Wheare per la nascita di una federazione, tranne quella di una leadership efficace. Poiché si trattava di rinunciare alle sovranità nazionali, non si poteva contare sull’azione delle leaderships nazionali, ma soltanto sull’azione di «una leadership europea occasionale… sul piano inclinato verso l’Europa… verso una situazione che si potrebbe definire come una costituente strisciante», operando su «un punto limitato», ma decisivo per la formazione della volontà pubblica democratica, che egli aveva identificato nella «elezione unilaterale diretta dei delegati al Parlamento europeo».
Guido Carli aveva maturato la stessa convinzione di Albertini riguardo alla moneta, ma non aveva riconosciuto la possibilità di anticipare l’unione monetaria rispetto a quella politica. «Perché si possa ridurre l’influenza esercitata dalla politica monetaria americana sul resto del mondo è necessario che si proceda alla creazione di aree monetarie abbastanza ampie affinché si realizzi nel loro interno una politica autonoma di regolazione del ciclo economico; ciò vuole che si riconosca che il processo di unificazione economica non può continuare oltre i livelli raggiunti se non si procede sulla strada dell’unificazione politica. E’ quest’ultima, ormai, che deve fungere da forza traente del processo, e non viceversa».[11]
Altri, come Tietmeyer[12] e la maggior parte dei responsabili delle politiche monetarie dei paesi europei, resistettero all’idea che l’unione monetaria precedesse quella politica fino alla firma del Trattato di Maastricht (e forse anche oltre).
Col fallimento della politica gollista si è aperta la strada che, come previsto da Albertini, ci ha condotto alla creazione dell’euro. Quarant’anni sono stati necessari per realizzare quel disegno superando il pregiudizio nazionalista in Europa. E’ stato necessario subire il lungo ritardo imposto dalla «eresia francese» per dimostrare che la sola alternativa all’affermazione del dollaro come moneta «fiduciaria» era costituita dall’integrazione politica dell’Europa. Gli Stati nazionali erano fuori gioco. La moneta europea, e non l’oro, era in grado di modificare la balance of power nei confronti del dollaro. Essa sola poteva colmare il divario apertosi fra la struttura continentale dell’economia e la sovrastruttura politica e monetaria, ancorata agli schemi classici degli Stati nazionali del XIX secolo, e poteva consentire all’Europa di affrontare il processo di globalizzazione. Albertini aveva ragione ed oggi abbiamo l’euro, consapevolmente voluto dai federalisti, contro la logica, come «espediente» che potrà «spingere le forze politiche su un piano inclinato». Come? Attraverso l’esplosione della contraddizione. Ma gli esiti possibili sono ancora due: quello che noi federalisti ci poniamo come obiettivo e l’altro, innominabile. Gli attacchi all’euro dimostrano come i gruppi d’interesse più conservatori, europei ed americani, non si siano rassegnati. L’attribuzione all’euro dell’elevata disoccupazione europea costituisce il loro principale argomento propagandistico.
1.4 Keynes + Robbins per la nuova economia federalista.
Come la disoccupazione del primo dopoguerra fu attribuita al ritorno all’oro, così quella attuale viene addebitata, dalle forze reazionarie americane e da alcuni parassiti europei annidati sotto l’ala dell’aquila imperiale, ai parametri di Maastricht. Occorre però tener conto, in questa circostanza, della inversione del rapporto fra potere e moneta: noi abbiamo affidato alla moneta il compito di provocare, con la sua contraddizione originale, la fondazione dello Stato federale europeo. Perciò le politiche dell’occupazione, dello sviluppo e del riequilibrio territoriale potranno essere adeguate soltanto quando la contraddizione di una moneta senza governo avrà determinato la creazione di un governo democratico dell’euro. Quel giorno dovremo coniugare i fini di Albertini con la strumentazione di Keynes riscoprendo, di quest’ultimo, proprio quei pensieri, senza confini nazionali e senza motivazioni di breve periodo, che egli sospettava si sarebbero rivelati utili soltanto «quando saremo tutti morti».
Altiero Spinelli, in un rapido quanto efficace saggio[13] del 1978, propose un programma keynesiano alla sinistra europea. «Il punto più importante… potrebbe e dovrebbe essere l’adozione di un piano di rinnovamento e ammodernamento globale dell’amministrazione pubblica la quale, a seguito del malgoverno che dura da oltre mezzo secolo, ha modi di formazione, strutture, e livelli di correttezza morale del tutto inadeguati alle esigenze di uno Stato moderno… Le imprese tendono a diventare parassitarie, la disoccupazione cresce, i sindacati tendono ad asserragliarsi nella difesa di chi ha il lavoro, le forze politiche manovrano febbrilmente e alternativamente le leve delle facilitazioni e delle restrizioni. Per uscire da questo circolo vizioso bisogna chiedersi in primo luogo non già se ci sia la possibilità di un’offerta crescente di prodotti, ma se ci sia la possibilità di individuare una grossa domanda potenziale, capace di essere convertita in domanda reale, cioè dotata dei mezzi monetari… La società consumistica è entrata in crisi in ragione di squilibri economici sviluppatisi nel suo seno, ma essa maturava ben altri mali… il grande e crescente dissesto ecologico, il crescente addensarsi della popolazione nelle città e, parallelamente, la non-vivibilità civile delle città stesse, la degradazione continua della qualità della vita, …la concentrazione dell’economia consumistica nei paesi avanzati… (mentre) i paesi in via di sviluppo (e le aree arretrate di quelli ricchi) sono stati i grandi perdenti dello sviluppo consumistico delle società occidentali».
L’esortazione di Spinelli a ripassare Keynes non poteva essere più chiara.
E’ Keynes che ha saputo condensare il pensiero economico del periodo fra le due guerre in un’opera specificamente diretta ad offrire ai politici una soluzione per il problema della disoccupazione strutturale di massa che minacciava di travolgere, come di fatto travolse, la democrazia e la pace in un grande numero di paesi. Egli considerava l’economia come una scienza morale, fondata sull’introspezione e sul di valore, che si occupa delle motivazioni, delle aspettative, delle incertezze psicologiche e intendeva dimostrare che il sistema economico poteva trovarsi in una condizione di equilibrio stabile al di sotto della piena occupazione poiché non esisteva nel sistema alcun meccanismo automatico capace di ricondurre l’economia verso un equilibrio di piena occupazione. Si trattava, cioè, di dimostrare l’evidenza. Quanto era sotto gli occhi di tutti doveva essere anche teoricamente possibile.
Per la prima volta il sistema capitalistico stava correndo un rischio mortale, ma la maggior parte degli economisti si affannava a dimostrare che quanto accadeva non era teoricamente possibile. Per la teoria quantitativa della moneta, infatti, si supponeva che non esistesse capacità produttiva inutilizzata. In ipotesi di economia chiusa il reddito era uguale al consumo più il risparmio. Quest’ultimo doveva essere perciò uguale agli investimenti. Non potevano esserci investimenti senza un precedente risparmio reale, cioè senza una precedente astensione dal consumo. Il prezzo che rendeva uguali il risparmio e l’investimento era il tasso d’interesse. La disoccupazione, pertanto, dipendeva soltanto dalla rigidità verso il basso dei salari monetari, responsabile della riduzione della propensione ad investire. Insomma, la colpa era dei sindacati.
Keynes affrontò l’impresa intellettuale di smontare questa rassicurante quanto impotente costruzione capovolgendo il punto di vista classico. Le decisioni di risparmiare e di investire venivano prese da gruppi diversi e sulla base di differenti valutazioni; nessun meccanismo poteva garantire la loro corrispondenza ex-ante, mentre ex-post l’equivalenza contabile veniva ristabilita soltanto per il tramite di oscillazioni del reddito e dell’occupazione. Per arrivare a questo punto occorreva negare il ruolo del tasso d’interesse come prezzo di equilibrio fra risparmi ed investimenti. Keynes spiegò, infatti, il tasso dell’interesse come prezzo di equilibrio della domanda e dell’offerta di moneta, capace di spiegare le decisioni di risparmio ma indipendente (sebbene non del tutto) dalla efficienza marginale del capitale, la quale determinava invece le decisioni di investimento. L’equilibrio si sarebbe raggiunto, ex-post, in corrispondenza della uguaglianza fra il tasso d’interesse e l’efficienza marginale del capitale.
La domanda di moneta, che Keynes definiva «preferenza per la liquidità», dipendeva da tre cause: l’entità delle transazioni (funzione a sua volta del livello di attività e dei prezzi, cioè del reddito monetario), il movente precauzionale (la gente risparmia denaro non per impiegarlo ma per paura del futuro) e quello speculativo (la domanda di moneta è alta quando il rendimento dei titoli è inferiore al suo livello atteso, e viceversa). In breve, la domanda di moneta era una funzione del reddito e del tasso di interesse.
L’offerta di moneta, invece, era frutto di decisioni delle autorità monetarie. Esse controllavano l’intera massa monetaria (circolante e depositi bancari) sia con politiche idonee ad influenzare i tre canali dell’emissione cartacea (per i bisogni del Tesoro, dell’Estero e dell’Economia) sia imponendo un limite alla moltiplicazione dei depositi e del credito attraverso la disciplina delle riserve ed il tasso di sconto; aumentando l’offerta monetaria potevano ridurre il saggio dell’interesse, in presenza di una certa disponibilità dei privati e delle imprese a detenere moneta secondo le modalità descritte dalla funzione di domanda monetaria. Anche l’offerta di moneta era pertanto una funzione del reddito e del tasso di interesse.
L’efficienza marginale del capitale, dal canto suo, altro non era se non il rapporto fra il reddito atteso dagli investimenti ed il prezzo di offerta dei beni capitali. Se l’efficienza marginale del capitale fosse stata inferiore al tasso d’interesse, gli imprenditori non avrebbero avuto convenienza ad investire. Tutto il trucco, naturalmente, stava nella parola «atteso». Lo stato delle aspettative, infatti, alimentava quegli animal spirits che muovevano gli imprenditori ad investire (e a disinvestire) anche contro il senso comune, così come, dal lato della funzione di domanda della moneta, esso determinava gli stati di fiducia o di panico dai quali dipendeva «il prezzo richiesto dai risparmiatori per separarsi dal proprio denaro», cioè il tasso d’interesse. Tutto questo si poteva riconoscere soltanto concependo, come faceva Keynes, l’economia come un ramo della scienza morale, cioè come scienza dei comportamenti umani di fronte alla ricchezza ed al bisogno.
Una volta dimostrata la possibilità teorica di un equilibrio stabile di sottoccupazione, la prescrizione delle terapie, che più interessava a quel «visionario pratico»,[14] veniva di conseguenza. Per rompere un equilibrio di sottoccupazione, in assenza di qualsiasi meccanismo automatico, era necessario, secondo Keynes, uno shock esterno capace di modificare lo stato delle aspettative. Una anticipazione della spesa pubblica, rispetto alla formazione del risparmio necessario a finanziarla, in presenza di capacità produttive inutilizzate, avrebbe generato l’offerta reale aggiuntiva necessaria a rendere non inflazionistica quella anticipazione. Quanto più ci si fosse avvicinati al livello di saturazione delle capacità produttive tanto maggiore sarebbe stata la parte di una iniezione di liquidità che si sarebbe risolta in un aumento dei prezzi e non dell’attività produttiva. Gli allievi di Keynes completarono la teoria col moltiplicatore (Kahn) e con l’acceleratore (Harrod) degli investimenti. In una società paralizzata dalla paura per il futuro la propensione al risparmio sarebbe stata più alta ed il moltiplicatore inferiore. Il contrario sarebbe accaduto in presenza di uno stato delle aspettative pregno di ottimismo. Così la psicologia collettiva costituiva la base del comportamento economico. Al contrario dei keynesiani «idraulici», quelli «fondamentalisti» rimasero attaccati più a quella visione che non alla soffocante accademia econometrica. Ed è proprio quella visione che, coniugata con quella di Robbins, può guidare la ricerca del «passaggio a nord-ovest» che porta dal keynesismo nazionale a quello federale.
2. UEM e teoria keynesiana.
L’Unione economica e monetaria non è soltanto una faccenda per banchieri centrali. Essa è una tappa fondamentale della costruzione europea, che avanza superando resistenze interne ed internazionali. Il mercato unico non potrebbe sopravvivere senza la moneta unica. Potrebbero resistere entrambi senza un ulteriore passo verso l’unificazione politica? Le sinistre europee di governo hanno tentato agli esordi, con la consueta eccezione italiana,[15] di porre il problema come se si trattasse di una contraddizione da risolvere fra l’Europa monetaria e quella sociale, fra la stabilità monetaria e l’occupazione. Però non è così. Analisi rigorose, condotte su decine di paesi e per decine di anni, dimostrano come i paesi monetariamente virtuosi abbiano creato occupazione e quelli inflazionisti l’abbiano, invece, sistematicamente distrutta.[16] Anche nell’Unione questi due obiettivi, occupazione e stabilità monetaria, non sono in conflitto fra di loro, ma si sostengono l’un l’altro. Si potrà avanzare con l’armonizzazione fiscale e si potrà riattivare il piano Delors, senza suscitare contraddizioni insanabili né tensioni inflazionistiche all’interno dell’Unione, soltanto se un potere politico europeo, capace di adottare le decisioni richieste da un mondo caratterizzato ancora una volta, come quello keynesiano, dalla compresenza di bisogni insoddisfatti e di risorse inutilizzate, prenderà il posto dell’estenuante «metodo comunitario».
E’ falso, come ben sanno gli autori del falso, identificare l’ortodossia monetarista con l’unificazione monetaria e quest’ultima con la disoccupazione europea. Tenterò di rileggere questa vicenda con occhiali di Keynes, per evidenziare come sia stata la dis-unione dell’Europa, e non la sua tardiva ed incompleta unione, ad agire negativamente sul saggio dell’interesse, sull’efficienza marginale del capitale, sulla domanda effettiva e sull’occupazione. Sarà una lettura «fondamentalista», ma confortata dai risultati econometrici cui sono pervenuti keynesiani «idraulici» della levatura scientifica di Modigliani.[17] La disoccupazione europea, contrariamente alla vulgata «liberista, liberale e libertaria», non è provocata, se non marginalmente, da rigidità nell’organizzazione del mercato del lavoro; bensì dai tassi di interesse storicamente elevati e dall’efficienza marginale del capitale storicamente bassa. L’unificazione economica e monetaria dell’Europa consente sia una riduzione del costo del denaro che un innalzamento del profitto atteso dagli investimenti.
2.1 L’UEM ed il saggio dell’interesse.
Cominciamo dal saggio dell’interesse. Secondo il «dilemma di Triffin» l’adozione del dollaro come moneta internazionale avrebbe comportato la possibilità di cadere in una delle due opposte situazioni: bilancia dei pagamenti americana attiva, con carenza di dollari e possibile deflazione nel resto del mondo, oppure passiva, con abbondanza di dollari e possibile inflazione. Il primo caso si verificò soltanto nel periodo della ricostruzione e della ripresa post-bellica; il secondo, che continua ancora oggi, ha attraversato due fasi distinte, caratterizzate dalla diversa origine del disavanzo esterno statunitense, causato dai movimenti di capitali fino al 1982 e dalle partite correnti negli anni successivi, con effetti sostanzialmente differenti sul resto del mondo.
Fino al 1982 la bilancia esterna degli Stati Uniti, per le partite correnti, fu in sostanziale pareggio. I capitali che gli Stati Uniti attiravano dal resto del mondo potevano conseguentemente essere reinvestiti all’estero. Gli Stati Uniti operavano come una banca: raccoglievano risparmi dai paesi che ne accumulavano in eccedenza e li investivano in quelli nei quali presumevano esistere le maggiori opportunità di sviluppo. Anzi ne investivano molti di più, creando credito a livello internazionale così come le banche lo creano all’interno degli Stati, ma senza sottostare ad alcun vincolo. Già nel 1971, nel mezzo della presidenza Nixon, il mercato dell’eurodollaro apparve a Carli come una «piramide di carta».[18] Il fenomeno divenne esplosivo quando Richard Nixon ed Henry Kissinger crearono, all’inizio degli anni ‘70, le condizioni e gli strumenti necessari (dollaro inconvertibile e prezzo del barile di petrolio) per scaricare sull’Europa e sul resto del mondo il costo della politica imperiale americana.
Dal 1982 gli Stati Uniti cominciarono a registrare passivi crescenti nella bilancia dei pagamenti correnti. Essi iniziarono ad importare più beni e servizi dal resto del mondo di quanti ne esportassero. Il disavanzo venne finanziato dai capitali che continuavano ad essere investiti in quel paese di Bengodi dal resto del mondo, ma che non potevano più essere reinvestiti all’estero come accadeva precedentemente. Per i paesi in via di sviluppo non esportatori di petrolio fu un disastro. Molti di essi furono costretti, nonostante l’indicibile miseria delle popolazioni, a diventare esportatori netti di risorse reali per rendere credibile la promessa di rimborso del debito, sia pure nei tempi lunghi previsti dagli accordi di riscadenzamento.
Fu proprio allora, quando il mondo aveva bisogno di una boccata d’ossigeno monetaria, che Reagan decise di dare priorità alla lotta contro l’inflazione. Egli adottò il più micidiale cocktail di politica economica mai trangugiato dall’Europa e dal mondo, con l’obiettivo dichiarato di trasferire ricchezza dagli Americani poveri a quelli ricchi, dal resto del mondo agli Stati Uniti, dal settore pubblico a quello privato. L’attuazione del precetto venne garantita da una miscela di politica monetaria restrittiva, affidata al nuovo Presidente della Fed, Paul Volcker (un friedmanita) e di politica di bilancio espansiva, fondata sulla supply side economics, resa popolare dalla curva di Laffer. Gli effetti dal lato dell’offerta di moneta e da quello della sua domanda furono stravolgenti.
La restrizione dell’offerta di moneta assicurò agli Stati Uniti un dollaro dotato di forte potere d’acquisto e propagò al resto del mondo un regime di tassi d’interesse eccezionalmente elevati. Ne conseguirono il collasso finanziario dei paesi in via di sviluppo e l’accumulo esponenziale del debito pubblico nei paesi europei. La domanda di moneta, d’altro canto, fu mantenuta elevata dalla politica di bilancio attuata sia con l’incremento della spesa pubblica (con un occhio di tutto riguardo per quella militare), sia con la riduzione delle entrate fiscali. Attraverso la cosiddetta «politica dell’offerta» l’Amministrazione americana tagliò le imposte sui redditi (dei ricchi). In questo modo essa pretendeva di stimolare l’offerta e la crescita del reddito nazionale, determinando un aumento del gettito fiscale ed una conseguente riduzione dell’iniziale disavanzo pubblico, nonostante i livelli già alti d’inflazione. Come era stato previsto dagli economisti keynesiani, il deficit del bilancio statale e quello della bilancia esterna di parte corrente degli Stati Uniti si gonfiarono a dismisura. Il cocktail, tristemente noto col nome di reaganomics, trasformò gli Stati Uniti nel primo debitore mondiale e costrinse l’Europa ad adottare politiche monetarie estremamente restrittive. Il contro-shock petrolifero, l’indebolimento del dollaro ed il crollo di borsa del 1987 non valsero a ridurre i tassi d’interesse reali. Ci voleva l’euro. Gli Stati Uniti riuscirono così ad «esportare» inflazione e disoccupazione, mentre l’Europa fu costretta ad accumulare una quantità immensa di crediti in dollari, in gran parte esigibili «a vista» (cioè cartamoneta). In breve: gli Stati Uniti poterono investire su sé stessi, in formazione, ricerca, sviluppo, innovazione, mentre l’Europa dovette investire in biglietti verdi. Le riserve valutarie ufficiali degli Stati Uniti ammontano a 50 miliardi di dollari, quelle dei paesi dell’Unione europea a 350. Come abbiamo visto, ricordando con Albertini gli aspetti di potere della moneta, tutto ciò è potuto accadere in virtù del fatto che gli Stati Uniti assicuravano la difesa dell’Europa nei confronti dei «rossi» (i quali, secondo l’opinione prevalente degli storici, non avevano intenzione alcuna di attaccarci). La delega della nostra difesa ad una potenza straniera è stata determinata, a sua volta, dalla divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani e dall’esito devastante delle due guerre civili europee scatenate dal nazionalismo.
Da qualunque punto di vista si esamini la questione, pertanto, si constata come la divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani costituisca la causa ultima dell’eccessiva restrizione dell’offerta di moneta, dell’eccessiva domanda di liquidità internazionale e della conseguente e prolungata elevatezza dei tassi d’interesse. Questi esiti erano stati previsti proprio dagli economisti inglesi. Dopo Keynes, anche Hicks non aveva mancato di osservare che «solo in un’economia nazionale molto indipendente, una Banca centrale nazionale può essere una vera Banca centrale; con lo sviluppo di mercati mondiali, e soprattutto di mercati finanziari mondiali, le Banche centrali nazionali scendono di un gradino; diventando banche singole in un sistema ad estensione mondiale non sono più al ‘centro’. Quindi il problema che era stato risolto in parte con l’istituzione di Banche centrali nazionali è riapparso, ed è ancora non risolto (anche se stiamo cercando di risolverlo) a livello mondiale».
D’altro canto, aveva aggiunto Hicks, il bilancio pubblico come stabilizzatore alternativo o addizionale, l’idea rivoluzionaria emersa dalla General Theory, incontra una difficoltà analoga: «I bilanci pubblici sono i bilanci di governi nazionali. Essi sono uno strumento davvero strano per controllare un sistema monetario diventato tanto internazionale».[19]
Oggi è un economista francese, Fitoussi, a tenere alta la bandiera del fondamentalismo keynesiano. Egli rileva come un livello eccessivo dei tassi d’interesse non si limiti a scoraggiare gli investimenti e a deprimere l’occupazione, ma abbia «conseguenze più diffuse, più insidiose, più strutturali, che in verità potremmo qualificare come culturali… Il futuro si trova poco alla volta deprezzato e l’orizzonte temporale delle decisioni umane accorciato da una meccanica implacabile ai cui termini gli agenti tirano le conseguenze del livello dei tassi d’interesse imposti loro. Il tasso d’interesse è il tasso al quale viene scontato il tempo, il barometro del valore che accordiamo al futuro. Il tasso d’interesse è anche la misura esatta del deprezzamento del nostro avvenire… Il valore attuale, cioè presente, delle somme future è tanto minore quanto più il tasso d’interesse è elevato. E’ dunque esso che determina i termini dello scambio tra il futuro e il presente… Più è elevato meno la società è capace di discernere ciò che va al di là del breve periodo, meno essa dà importanza a ciò che possiederà nel futuro… Non investire oggi significa vivere senza prospettive, come se dovessimo morire domani… Intuitivamente, sembra che ciò non sia senza rapporto con il declino delle ideologie — nel senso nobile del termine — nelle nostre società. Che cosa è un’ideologia se non una costruzione generosa verso il futuro, un sistema di valori che implica la fiducia nell’uomo, in un suo futuro migliore? …Una società in cui gli uomini si comportano come se non avessero più futuro, una società che cerca di conservare piuttosto che di costruire, può prendere la forma di un godimento avido del presente oppure, al contrario, di una nevrosi del presente. E’ generalmente l’inquietudine a dominare in una società del genere, come è normale ogni volta che il futuro è ipotecato, ogni volta che è negato, che diventa il luogo di tutti i pericoli e di troppa incertezza».[20]
Le conseguenze, lamenta Fitoussi, si propagano in ogni direzione: gli imprenditori, costretti a ricavare un rendimento almeno uguale a quello dei mercati finanziari, preferiscono la liquidità rispetto all’investimento; i salariati rimettono in discussione il contratto sociale, cioè quell’insieme di convenzioni implicite che limitano le tendenze inegualitarie del mercato del lavoro; il legame fra le generazioni si indebolisce perché i giovani, privati della prospettiva di un graduale aumento delle remunerazioni, non hanno più il tempo di aspettare la contropartita della loro sovvenzione agli anziani; le imprese non hanno più il tempo di aspettare che la formazione interna produca i suoi effetti, quindi selezionano i soggetti in base alla qualificazione più immediatamente produttiva; i redditi della rendita sono anormalmente favoriti rispetto ai redditi da lavoro e da attività d’impresa; l’individualismo viene favorito rispetto alla azione collettiva; precarietà, rassegnazione e paura dell’avvenire contribuiscono al disincanto della società.
Dobbiamo pertanto attribuire una enorme importanza, non soltanto economica, ma di svolta culturale, al ribasso dei tassi che la creazione dell’euro ha consentito.
2.2 L’UEM e l’efficienza marginale del capitale.
L’efficienza marginale del capitale è definita da Keynes come la relazione tra una serie di annualità di profitti futuri attesi da un investimento addizionale ed il costo di produzione corrente di quell’investimento. Con la denominazione moderna di «tasso interno di redditività», essa costituisce oggi uno dei metodi più usati per la valutazione degli investimenti. I due concetti, però, corrispondono soltanto quando la stima degli esborsi e degli incassi futuri, derivanti dall’investimento, rifletta veramente lo stato delle aspettative degli imprenditori. Qualora, invece, si basi su procedure di estrapolazione del passato e non sulla genuina rappresentazione del futuro, essa non è spiegata dal modello keynesiano, fondato sulle aspettative imprenditoriali.
Hicks aggiunse al modello una distinzione molto opportuna fra l’investimento «difensivo» e quello «nuovo». «Di solito il vantaggio marginale dell’investimento difensivo sarà elevato; verrà realizzato, se i finanziamenti necessari sono disponibili, quasi ad ogni condizione. Per fermarlo sarà necessaria una pressione di liquidità davvero molto forte. L’investimento nuovo, invece, è molto più sensibile. Perciò, la ragione per cui è difficile controllare l’investimento in un boom può essere data dal fatto che nel boom l’investimento è diventato in gran parte difensivo; e la ragione per cui è difficile avviare l’investimento in una recessione è dovuta al fatto che non è possibile farlo senza stimolare investimento nuovo».[21]
E’ soprattutto l’investimento nuovo a richiedere un collegamento fra l’analisi macroeconomica di Keynes e quella microeconomica di Schumpeter. Per gli economisti classici, in condizioni di equilibrio, il profitto e la disoccupazione non esistevano. Ma l’economia è un processo dinamico, composto da una serie continua di disequilibri, nel corso del quale gli imprenditori introducono innovazioni (nuovi prodotti, nuove tecnologie produttive, nuovi mercati, nuovi modelli organizzativi) che, se fortunate, consentono loro di acquisire un vantaggio sui concorrenti. E’ questo vantaggio, per Schumpeter, a consentire il profitto, fino a quando esso non sarà eroso dall’imitazione. Per difendere il vantaggio più a lungo possibile gli innovatori dispiegano un ampio ventaglio di strategie di barrieramento; tuttavia, nel lungo periodo, soltanto le imprese che investono il profitto temporaneo per ottenere un processo di innovazione permanente possono conservare il distacco sui concorrenti. Si spiega così la «distruzione creatrice» del capitalismo e l’irriducibile tendenza della concorrenza a trasformarsi in oligopolio o monopolio. Il potere di mercato delle imprese, la loro redditività, la loro capacità di distribuire salari più elevati, di attrarre personale più qualificato e di finanziare altre innovazioni, sono tanto più elevati quanto maggiore è il grado di concentrazione dell’offerta.[22] Sebbene nei moderni mercati oligopolistici le decisioni d’investimento siano assunte sempre meno da «imprenditori» schumpeteriani e sempre più da «tecnostrutture» galbraithiane, resta pur vero che esse sono prese da soggetti diversi da quelli che decidono il risparmio.
L’unificazione europea potrà accrescere l’efficienza del capitale e restituire vitalità al capitalismo favorendo frequenti e diffusi ricambi imprenditoriali, economie dimensionali e grandi investimenti comuni.
La mancata circolazione paretiana delle élites è fenomeno comune a tutta l’Europa ed è spiegato dal congelamento dei rapporti di classe durante la guerra fredda. L’Italia ne costituisce il caso limite ed esemplare. Nonostante il pensiero rigoroso e l’opera instancabile di uomini come Luigi Einaudi, Ernesto Rossi, Pasquale Saraceno e tanti altri, la ricostruzione finanziata dagli Stati Uniti arricchì, oltre ai soliti «padroni del vapore»,[23] cresciuti nella serra autarchica del fascismo e coi profitti di guerra, una nuova classe di «bucanieri». Alle prime riforme del centrosinistra quella bella «imprenditorìa» reagì assommando alle fughe di capitali endemiche quelle epidemiche. I più retrogradi fra i padroni del vapore, cioè gli industriali elettrici, furono lautamente rimborsati dallo Stato per la cessione all’Enel delle loro aziende. L’impiego di quegli ingenti capitali da parte dei «salotti buoni» di turno, la Centrale e la Bastogi, ebbe esiti catastrofici, confermando, a caro prezzo per il paese, la pochezza di quella classe imprenditoriale. L’affiancamento della «razza padrona»[24] ai padroni del vapore non sortì miglior esito, eccezion fatta per la creazione dell’Eni. Tuttavia ancora oggi ben pochi riconoscono, fra le cause del basso rendimento del capitale, l’inadeguatezza culturale e morale delle classi dirigenti economiche. Si distingue Galbraith: «Non sono mai stato tanto colpito dal potere del capitale finanziario quanto, col passare degli anni, dalla sua mancanza di intelligenza e, a volte, dalla sua stupidità. Quando ero giovane mi preoccupavo molto del potere delle grandi società capitalistiche. Adesso mi preoccupo della loro incompetenza».[25]
La questione del ricambio del sangue, cioè di chi comanda nelle imprese, viene oggi definita corporate governance. Essa influenza profondamente i meccanismi di selezione di coloro che valutano e decidono gli investimenti, i sistemi di controllo preventivo e consuntivo su tali decisioni, la rapidità delle azioni correttive fino alla più severa di esse, consistente nel ricambio dei gruppi dirigenti; in definitiva determina la fiducia degli investitori e la possibilità stessa dello sviluppo capitalistico attraverso l’apporto di nuovi capitali di rischio. Rileva in proposito la Banca d’Italia come, nel nostro paese, il controllo dei gruppi piramidali riguardi un terzo delle imprese con più di 50 dipendenti (pari alla metà dell’attività totale) e come un altro 42% delle imprese (pari ad un quarto dell’attività globale) sia a controllo famigliare o di coalizione.
«Il modello della proprietà statale è andato producendo risultati economici sempre peggiori… Al tempo stesso, negli assetti proprietari privati venivano in luce la fragilità degli strumenti di esercizio del controllo, l’inefficienza delle soluzioni date al conflitto di interessi fra soggetti controllanti e azionisti di minoranza, l’esistenza di vaste commistioni fra interessi privati e interessi societari, gli ostacoli che questi problemi frappongono alla crescita delle imprese… Dall’analisi degli assetti proprietari e di controllo sono emersi la notevole diffusione della forma organizzativa del gruppo piramidale… (che) pone problemi straordinari per la tutela dei diritti patrimoniali degli azionisti di minoranza delle società controllate: gli interessi del soggetto che esercita la direzione unitaria del gruppo possono, infatti, differire da quelli dei partecipanti non controllanti, poiché i primi sono legati al rendimento del gruppo nel suo complesso, mentre i secondi dipendono dai risultati economici delle singole imprese… Il riconoscimento giuridico del gruppo piramidale e l’adozione di misure speciali di trasparenza e di tutela degli interessi degli azionisti di minoranza delle società controllate appaiono dunque necessarie… Oltre alla funzione di meccanismo per l’esercizio del controllo, i gruppi piramidali possono svolgere almeno altre quattro funzioni: ridurre, grazie all’autonomia giuridica, le responsabilità patrimoniali del vertice rispetto al caso in cui le stesse unità fossero organizzate in divisioni di una singola impresa; accrescere gli strumenti per l’incentivazione della dirigenza; offrire strumenti per il coordinamento fra imprese controllate da vertici diversi; ridurre la trasparenza a danno di soggetti privati o a danno dello Stato, per ottenere benefici fiscali, contributi o sussidi».[26]
Un linguaggio così crudo da parte della Banca d’Italia, che non può certamente essere iscritta d’ufficio fra i rivoluzionari di professione, è reso possibile dalla caduta del comunismo e dall’unificazione economica e monetaria dell’Europa. Infatti la guerra fredda e la divisione dell’Europa avevano congelato il ricambio dei gruppi dirigenti e deformato i criteri di selezione. Nell’UEM e nel gioco globale la competitività non potrà più fondarsi sulla capacità di ottenere aiuti e protezioni dagli Stati. La separazione tra proprietà e management, tra investitori e gestori, dovrà diventare una cosa seria. Le imprese dovranno essere gestite da uomini più competenti e meno rapaci, selezionati e controllati da una proprietà altrettanto professionalizzata per l’esercizio del suo differente mestiere. La diffusione dell’azionariato, favorita dalla gestione del risparmio delle famiglie da parte di svariate tipologie di operatori professionali, farà saltare il collo di bottiglia costituito, per lo sviluppo di molte aziende, dal controllo familiare. Molti istituti che regolano la vita delle società e delle borse dovranno essere profondamente rinnovati. Le istituzioni finanziarie dovranno, al limite, «distruggere quello che c’è oggi in previsione di qualcosa che dovrà realizzarsi e che sa soltanto il cielo se verrà» anziché «privilegiare coloro che ci sono rispetto a quelli che potrebbero esserci» nel tentativo «di mantenere il vertice della struttura industriale legato ad alcune famiglie o ad alcuni personaggi».[27]
Il fatto che il progresso dell’unificazione europea abbia posto all’ordine del giorno la questione del governo societario costituisce dunque il primo motivo per attendersi un innalzamento dell’efficienza marginale del capitale rispetto a quella realizzata nell’ambito degli Stati nazionali.
La dimensione del mercato e l’estensione dell’area concorrenziale dell’economia agiscono sul livello dei profitti, dell’autofinanziamento, dell’accumulazione di capitale, dei nuovi investimenti, delle innovazioni, quindi delle aspettative di nuovi profitti, non soltanto imponendo differenti criteri di selezione dei gruppi di comando, ma anche per gli effetti diretti di scala, per la possibilità di usufruire di maggiori economie esterne e di ripartire più diffusamente le diseconomie. Questo è il secondo mezzo a disposizione dell’UEM per accrescere l’efficienza marginale del capitale. Le imprese americane hanno goduto di un grado di concentrazione molto maggiore rispetto a quelle europee. Esse si sono strutturate fin dall’inizio per un mercato di dimensioni continentali. L’offerta europea, invece, è rimasta a lungo frammentata fra gli Stati nazionali e, in alcuni casi, come quello italiano, persino al loro interno, in particolare per le industrie che lavorano per soddisfare la domanda pubblica. Colmare i ritardi è costoso e spesso impossibile. Rileva Thurow: «Le barriere di costo all’entrata sono elevate e il tempo necessario per mettersi in pari con i leaders del settore è lungo. Per raggiungere i livelli dell’industria aeronautica statunitense, per esempio, l’industria europea ha impiegato più di due decenni e più di 26 miliardi di dollari di finanziamenti pubblici».[28]
Anche l’approccio di Biehl[29] al potenziale di sviluppo regionale, dimostra come non siano i fattori di produzione tradizionali, il lavoro privato e il capitale privato, le principali cause determinanti lo sviluppo economico, bensì i «fattori di potenzialità», tutti beni pubblici: l’infrastrutturazione, la posizione geografica (vicinanza o distanza in rapporto ai centri principali delle attività economiche continentali o anche mondiali), l’agglomerazione (concentrazione spaziale della popolazione, dei produttori e dei consumatori entro una regione) e la struttura settoriale (grandezza relativa dei settori agricolo, industriale e dei servizi; livello di sviluppo in termini di reddito pro-capite).
«Date le forti disparità interregionali entro la Comunità europea… (è necessario) un trasferimento di risorse tra le regioni a posizione centrale, agglomerate e ben strutturate con un’elevata dotazione di infrastrutture, e le regioni periferiche… Questo trasferimento dovrebbe avvenire principalmente attraverso i Fondi strutturali della Comunità europea… Ciò implica, comunque, che il sistema finanziario della Comunità europea sia riformato con lo scopo di fornire la Comunità di una progressiva fonte di entrate».[30]
E’ inoltre competenza degli Stati ripristinare, per quanto possibile, l’efficienza tassando le attività che generano diseconomie e sussidiando quelle che producono economie. Gli Stati nazionali, però, sono sempre più inadeguati rispetto alle funzioni di correzione degli squilibri generati dalla integrazione continentale e globale dell’economia. Quello di Biehl giace fra i progetti fondamentali non realizzati dall’UEM.
Da un punto di vista keynesiano il congelamento del Piano Delors costituisce l’episodio più grave, poiché un piano di investimenti pubblici europei è il terzo requisito per accrescere l’efficienza marginale del capitale in Europa. Nonostante i venti milioni di disoccupati, gli Stati nazionali ancora pretendono di dare al problema soluzioni locali, anziché dotare l’Unione di risorse di bilancio proprie, sufficienti per la generazione di effetti moltiplicatori, attraverso la stimolazione di quegli investimenti che risultino, da un lato, necessari per accrescere la produttività dei capitali privati e, dall’altro, più efficaci se «pensati» almeno per la scala continentale. Il capitalismo, per sua natura, soffre di due gravi limitazioni: l’orizzonte temporale troppo breve e l’assenza di una visione del contesto sociale nel quale le scelte individuali si formano. Ma lasciamolo dire a Thurow.
«Ciascuna generazione prende decisioni che dal punto di vista del capitalismo sono corrette, ma il risultato finale è un suicidio collettivo… A un livello profondo, i valori del capitalismo sono in conflitto con il capitalismo stesso. La riuscita o il fallimento del capitalismo dipendono dagli investimenti che realizza, e ciononostante esso predica una teologia del consumo. Le infrastrutture tecniche (strade, aeroporti, acquedotti, rete elettrica, ecc.) e sociali (ordine pubblico, accesso all’istruzione, ricerca e sviluppo) sono indispensabili al progresso economico, ma la teologia del capitalismo non ne prevede la necessità. Storicamente il capitalismo ha risolto le proprie contraddizioni interne sfruttando il settore pubblico per la realizzazione di gran parte degli investimenti, nelle infrastrutture, nella ricerca e nell’istruzione, di cui esso non voleva occuparsi. Il capitalismo privato ha potuto contare sulle ‘applicazioni secondarie’ del settore pubblico. Ma lungi dall’ammettere di aver bisogno di aiuto per funzionare in modo efficiente, il capitalismo ha preteso che lo Stato giustificasse le sue attività, solitamente in riferimento a qualche minaccia militare. Ma ora non esiste più alcuna minaccia. In parte il problema è legato al fatto che qualsiasi ammissione in questo senso porterebbe quasi automaticamente a qualcosa di molto simile a una politica industriale… Nel capitalismo delle industrie ad alto contenuto di energie intellettuali umane le strategie tecnologiche pubbliche sono essenziali. Tali industrie si concentreranno dove qualcuno saprà organizzare le energie intellettuali in modo da ‘catturarle’. Nessuno potrà sperare di avere successo senza un’infrastruttura di trasporto e comunicazione a livello mondiale… (ma) non essendo riconosciute, queste attività non ricevono dal capitalismo né aiuto né sostegno. Quando l’atrofia del settore pubblico raggiunge una certa soglia, i puntelli crollano e la cattedrale dell’economia privata crolla insieme con essi».[31]
Se questa è la situazione degli Stati Uniti, che dire allora dell’Europa? I vecchi Stati nazionali si sono ingessati nel debito pubblico, ma senza contrarre importanti indebitamenti esterni, anzi accumulando nel tempo e nella maggior parte dei casi posizioni creditorie nette verso l’estero. Il modestissimo bilancio comunitario è stato finora destinato in misura prevalente al sostegno dei prezzi agricoli. Il mantenimento di una piccola proprietà contadina diffusa era consustanziale all’ossessione anticomunista, tanto per ragioni strategiche quanto per ragioni politiche. I contadini fornivano il grosso della fanteria e, in quanto piccoli proprietari, costituivano lo zoccolo duro del voto moderato. Nessuna meraviglia che, insieme ai commercianti, essi abbiano beneficiato del welfare state molto più di quanto non vi abbiano contribuito, al contrario degli operai, considerati sempre come un potenziale pericolo e prescelti a pagare per tutti. Il risultato è stato quello di mantenere durevolmente alti i prezzi dei prodotti agricoli (anziché sostenere direttamente e temporaneamente il reddito degli agricoltori come indicato dal piano Mansholt), di innalzare artificialmente il costo della vita e, attraverso i meccanismi di indicizzazione dei salari, il costo del lavoro per unità di prodotto, di ridurre le importazioni dal resto del mondo di prodotti agricoli più competitivi, di impedire la formazione, presso i paesi in via di sviluppo, delle disponibilità valutarie loro necessarie per acquistare prodotti industriali e servizi dall’Europa. La produzione di eccedenze agricole per poi distruggerle può essere iscritta nel novero delle politiche keynesiane soltanto recando offesa grave al senso comune. Quando la Gran Bretagna si trovò nella posizione di prima potenza commerciale del mondo, posizione che è oggi occupata dall’Unione europea, adottò la politica opposta, nota come liberismo della scuola di Manchester.
Vi sono spese «correnti» che in realtà costituiscono investimenti, che in Europa si ritiene debbano restare nazionali, come l’assistenza sociale (investimento per la coesione) e la pubblica istruzione (investimento per il futuro), e che la destra americana vorrebbe trasferire dal livello federale a quello dei singoli Stati. A questa prospettiva si ribella Thurow. «Gli Stati sono proprio il livello amministrativo meno indicato per affrontare una questione del genere. Le famiglie e le imprese più ricche, che offrono buoni posti di lavoro ben retribuiti ma non hanno intenzione di pagare molte tasse, non devono far altro che trasferirsi negli Stati dove queste sono meno alte… Inoltre gli Stati sono coscienti del fatto che molti dei loro giovani finiranno per andare a lavorare altrove, perciò qualsiasi tentativo di elevare la qualità della scuola pubblica sarebbe uno spreco di soldi… Le spese per l’istruzione sono più facili da tagliare rispetto ad altre voci di spesa, perché nel breve periodo questo provvedimento non ha alcuna conseguenza. Affidare il compito di generare maggiore eguaglianza ai singoli Stati significa decidere che quel compito verrà abbandonato».[32]
In conclusione: la divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani ha abbassato durevolmente l’efficienza marginale del capitale attraverso una molteplicità di effetti. Con alti tassi d’interesse e ridotte aspettative di profitto gli investimenti tendono ad essere inferiori al risparmio. L’equilibrio ex-post tra risparmio ed investimento viene pertanto ottenuto ad un livello sub-ottimale di occupazione, di produzione e di reddito, proprio come spiegato dalla teoria della domanda effettiva.
2.3 L’UEM, la domanda effettiva e l’occupazione.
Veniamo dunque alla domanda effettiva ed all’occupazione. Occorre premettere che i sistemi di contabilità nazionale, sviluppati per dare attuazione alle politiche macroeconomiche suggerite da Keynes, si occupano, curiosamente, del solo conto economico e non del corrispondente bilancio patrimoniale. Il prodotto interno lordo, come è noto, viene misurato dal lato della sua produzione e da quello della sua destinazione. La produzione del reddito è composta da quella dei beni di consumo, dei beni d’investimento, dei beni pubblici, e dalla differenza tra le esportazioni e le importazioni. La destinazione del reddito si indirizza ai consumi, ai risparmi ed alle imposte. Poiché le due misurazioni conducono, a consuntivo, al medesimo risultato, si può anche affermare che, quando il bilancio pubblico e la bilancia estera sono in pareggio, gli investimenti ed i risparmi si equivalgono. Un eccesso dei risparmi rispetto agli investimenti può pertanto essere compensato da un deficit del bilancio pubblico (politica keynesiana), da un surplus della bilancia con l’estero (politica mercantilista), o da una combinazione dei due. Viceversa un eccesso degli investimenti sui risparmi può essere compensato da un avanzo pubblico e/o da un disavanzo con l’estero.
La questione posta da Keynes è se tale equilibrio contabile costituisca necessariamente, come ritenuto dagli economisti classici, un equilibrio di piena occupazione. Nel terzo capitolo della General Theory, introducendo il principio della domanda effettiva, egli dissacra questa convinzione.[33] Presupposti fondamentali della teoria classica sono l’uguaglianza fra il salario reale e la disutilità marginale del lavoro al volume esistente di occupazione, l’uguaglianza fra il prezzo complessivo di domanda ed il prezzo complessivo di offerta per qualsiasi livello di produzione e di occupazione, l’inesistenza di disoccupazione involontaria. Ma i salari, osserva Keynes, costituiscono ad un tempo costo per la produzione e domanda per il prodotto. La domanda complessiva e l’offerta complessiva costituiscono così due differenti funzioni dell’occupazione. Si deve affidare la realizzazione di un obiettivo primario come la piena occupazione alla loro coincidenza accidentale oppure ad una politica deliberata? L’espansione della spesa pubblica venne legittimata da Keynes per colmare un vuoto deflazionistico, con riferimento prevalente al breve periodo. I governi, dopo aver abusato di questo argomento in assenza delle condizioni nelle quali esso si applica, sono stati ricondotti (sia pur recalcitranti) al rigoroso rispetto dei dogmi dei banchieri centrali, a loro volta pressati dalle nevrosi dei mercati finanziari globalizzati. La capitolazione ha dunque costituito l’esito necessario del livello raggiunto dai pubblici indebitamenti e della conseguente perdita di sovranità degli Stati nei confronti dei mercati; non di un fallimento della teoria keynesiana. Che di un fallimento dello Stato nazionale si tratti, e non di questa o quella teoria, è testimoniato dal parallelo fallimento della politica friedmanita di fissazione degli obiettivi di offerta monetaria attuata in Germania da Otmar Issing.[34]
Le principali obiezioni che vengono mosse all’attualità della teoria keynesiana si fondano sulle differenze fra il contesto economico nel quale essa prese forma e quello odierno. Montani evidenzia quattro punti basilari: l) Essa «è stata concepita come la politica economica dello Stato nazionale chiuso. Oggi, lo Stato nazionale deve agire in un contesto internazionale aperto, altamente interdipendente». 2) Il Trattato di Maastricht ed il Patto di stabilità impongono alla politica monetaria di non generare inflazione ed a quella fiscale di non causare deficit. «Ciò significa che il mercato mondiale impone alcuni vincoli alla politica economica nazionale che non esistevano ai tempi di Keynes. Keynes poteva pensare ad una politica monetaria relativamente indipendente, in cui la Banca centrale si proponesse l’obiettivo di ridurre il tasso d’interesse sino a raggiungere un livello sufficiente a stimolare gli investimenti. E se lo stimolo della politica monetaria non fosse stato sufficiente, si poteva pensare ad una più energica manovra fiscale, per accrescere la domanda effettiva grazie ad un piano di investimenti finanziato con un deficit del bilancio pubblico». 3) Il rapporto tra i salari monetari e i prezzi risente oggi del ridimensionamento dell’importanza del livello nazionale di contrattazione, mentre «negli anni Trenta, in uno Stato nazionale chiuso, si poteva assumere… che l’area della moneta nazionale coincidesse con l’area di organizzazione del sindacato». 4) Infine Keynes «poteva ipotizzare una relazione stabile e costante, nel breve periodo, tra domanda effettiva ed occupazione», oggi messa in forse dal mutamento tecnologico.[35]
Fortunatamente i problemi di adattamento della teoria al più ampio spazio economico ed al nuovo paradigma tecnologico non sono tali da costringerci ad affrontare il problema della disoccupazione di massa senza l’ausilio di Keynes. Come rileva Ciocca, infatti, «l’istituzione deputata alla bisogna, il mercato, non garantisce la piena occupazione» neppure «in un mercato del lavoro idealizzato, con piena flessibilità dei salari e delle altre condizioni contrattuali» e le ragioni basilari di questo fallimento del mercato «restano quelle indicate da Keynes… In ogni breve periodo la domanda effettiva va spinta sino a esplorare i limiti oltre i quali si verifica una condizione di prezzi crescenti gradualmente al crescere dell’occupazione e, a fortiori, quelli oltre i quali l’occupazione complessiva è inelastica in risposta ad un aumento della domanda effettiva per il suo prodotto».[36]
Le ragioni che oggi impediscono l’adozione di misure keynesiane da parte dei singoli Stati costituirebbero ostacoli facilmente superabili per un governo europeo dell’economia. D’altronde, al limite, un governo mondiale si troverebbe a gestire un sistema economico chiuso, come quello della General Theory. L’Unione è potenzialmente in grado di recuperare la libertà di manovra tanto nel campo monetario quanto in quello fiscale, dunque di attuare politiche keynesiane. Non solo, ma essa si trova di fatto nella drammatica necessità di farlo: Delors ha valutato che bisognerebbe riportare il tasso di crescita europeo di lungo periodo dall’attuale 2,2% al 3-3,5% per dimezzare in un arco di 5-7 anni il tasso di disoccupazione, cioè per portarlo allivello degli Stati Uniti.[37]
E’ vero che prezzi e salari sono oggi più esposti alla concorrenza internazionale ed alla pressione per un livellamento all’interno dell’Unione. Differenze nei livelli salariali, nei sistemi fiscali ed in quelli contributivi perpetuano infatti la competizione fra Stati nazionali all’interno dell’Unione ed impediscono a quest’ultima di rafforzare la competitività delle imprese europee sul mercato globale. Ciò detto, però, la relazione fra salari monetari e prezzi monetari non è cambiata, come ha evidenziato il Gruppo consultivo sulla competitività europea.
«A partire dal 1993, il contenimento delle retribuzioni in Europa è andato al di là dell’obiettivo fissato nel Libro bianco su Crescita, competitività e occupazione, vale a dire che l’incremento delle retribuzioni è stato inferiore di un punto percentuale rispetto alla crescita della produttività. Il contenimento della dinamica salariale dovrebbe indurre i responsabili politici ad attenersi a politiche di sostegno della crescita, altrimenti la moderazione salariale determina soltanto un indebolimento della domanda aggregata, e non una crescita dell’occupazione e della produzione… Tuttavia, la spesa per investimenti e per consumi privati rimane relativamente bassa. Ciò è determinato dall’incertezza che riguarda i programmi pubblici di investimenti, da una politica fiscale restrittiva e dal contenimento dei salari… Dal punto di vista dell’Unione europea nel suo complesso è importante garantire che la moderazione salariale non diventi sinonimo di competizione salariale e/o possa dar luogo a deflazione; essa deve essere considerata come un elemento della strategia economica globale».[38]
E’ vero anche che Keynes considerava la funzione di produzione costante nel breve periodo, ma egli non ignorava certamente il fenomeno dell’innovazione tecnologica e la sua crescente velocità. «Siamo colpiti da una nuova malattia, di cui alcuni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: la disoccupazione tecnologica. Ciò significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera».[39]
Oggi una stimolazione deliberata della domanda effettiva non dovrebbe avere per oggetto il mercato dei beni di consumo, ormai saturo, ma quelli dei bisogni sociali non mercatabili,[40] dell’organizzazione di mercato del «terzo settore»,[41] degli investimenti (prevalentemente immateriali) necessari per l’adattamento dell’intera società al «ruolo dominante e pervasivo della tecnologia dell’informazione e della comunicazione»[42] e di quelli (prevalentemente materiali) necessari per infrastrutturare l’Unione. Il Piano Delors prevedeva fra l’altro: la rete europea destinata a mettere a frutto le nuove tecnologie dell’informatica e delle comunicazioni, la rete ferroviaria ad alta velocità ed i nuovi tronchi autostradali, che avrebbero dovuto unire l’Europa occidentale e quella orientale fino a raggiungere Mosca, la salvaguardia ambientale, la riforma del sistema educativo, l’organizzazione dei mercati per i servizi di qualità sociale, ed esperienze innovative di fiscalizzazione degli oneri sociali e di riduzione dell’orario di lavoro, che avrebbero dovuto godere di sostegni pubblici soltanto in relazione ad obiettivi d’interesse generale e avrebbero avviato un più generale spostamento del carico fiscale dalla produzione e dal lavoro all’uso ed al consumo, con speciale riguardo a quello di risorse non riproducibili. Tutti questi progetti sono rimasti sulla carta non perché Delors avesse trascurato di precisare severamente le modalità di un loro finanziamento non inflazionistico, ma perché gli Stati nazionali non si sono ancora rassegnati a cedere quella parte dei loro poteri (e solo quella) che essi non sono più in grado di esercitare. In conclusione il Piano Delors non è fallito perché keynesiano, come in effetti esso è, ma per la causa di fondo denunciata da Montani: «Le ragioni del fallimento del Piano Delors si trovano nell’ideologia del ‘coordinamento delle politiche nazionali’, alimentata da Delors stesso. Secondo questo punto di vista sarebbe bastata, senza alcuna modifica sostanziale delle istituzioni dell’Unione, l’approvazione di un piano europeo di sviluppo in cui venivano specificati i compiti che avrebbero dovuto essere svolti al livello europeo, al livello nazionale e locale per ottenere gli impegni necessari. Ma, come l’esperienza ha dimostrato, ciò non è vero. Un piano europeo di sviluppo non si può realizzare se non è sostenuto da una precisa volontà politica. Ciò significa un governo europeo».[43]
Bisogni insoddisfatti in presenza di risorse permanentemente inutilizzate costituiscono un fallimento del mercato e forniscono la riprova dell’assenza di una politica economica diretta ad impedire o a correggere tale esito. Gli Stati nazionali non possono più intervenire e l’Europa non lo vuole ancora. Il mercato unico è ridotto così ad una giungla economica pre-keynesiana proprio quando: una stimolazione della domanda appare più necessaria; le direzioni verso cui indirizzare gli investimenti pubblici sono meglio identificate; la compatibilità dell’intervento con la stabilità monetaria è favorita da circostanze interne ed esterne; e l’opportunità di ridistribuire alcune competenze di bilancio dagli Stati nazionali ai governi locali ed all’Unione è più evidente.
A differenza degli Stati Uniti, l’Unione europea registra una propensione al risparmio elevata, una bilancia esterna in pareggio ed una posizione netta verso l’estero largamente creditoria. L’inflazione è stata domata ed il costo del denaro drammaticamente ridotto. Per ridurre il rapporto debito/pil i bilanci degli Stati nazionali europei (estremo il caso italiano) hanno registrato e continuano a registrare attivi primari consistenti. A questo effetto deflazionistico se ne aggiunge uno di tipo nuovo. La diffusione dei titoli del debito pubblico come forma di risparmio ha accresciuto l’interesse delle famiglie per la solvibilità del debitore, ma ha anche reso la propensione al consumo direttamente sensibile a variazioni dei tassi, tanto che la Banca d’Italia ritiene probabile che si sia verificato «un aumento della propensione alla liquidità conseguente alla riduzione dei tassi sui titoli pubblici».[44] Se questo è vero, significa che l’economia di oggi è più keynesiana di quella che lo stesso Keynes aveva sotto gli occhi, perché essa è, assai più di allora, una «economia monetaria». La riduzione dei tassi d’interesse, oltre a non essere di per sé sufficiente a stimolare l’investimento nuovo (non si può obbligare il cavallo a bere), può suggerire una cautela ulteriore nei confronti del consumo, anche perché le famiglie possono percepire la contrazione dei redditi finanziari in misura amplificata dall’illusione monetaria.
La misura delle risorse di bilancio aggiuntive necessarie all’Unione per controbilanciare queste pressioni deflattive è limitata. Oggi gli Stati spendono più del triplo del bilancio comunitario soltanto per sussidi alla disoccupazione, che potrebbero risparmiare destinando tali risorse allo sviluppo europeo. Il bilancio dell’Unione può essere relativamente modesto per diverse ragioni.
Innanzitutto le fondamentali funzioni di welfare possono restare affidate agli Stati nazionali, a condizione, però, che la loro articolazione non produca distorsioni della concorrenza. Le imposte sul reddito e oneri sociali gravano esclusivamente sulla produzione nazionale, mentre le imposte sui consumi non hanno riguardo al paese di origine dei beni e dei servizi; è evidente perciò come sia facile, dopo aver abbattuto le tariffe doganali e dopo aver reso impossibili le svalutazioni competitive, continuare a perseguire obiettivi di competitività nazionale attraverso le politiche fiscali e contributive.
Poi ogni intervento dell’Unione produce effetti amplificati dalla credibilità che essa attribuisce, sui mercati dei capitali, ai progetti da essa approvati. La lunga e positiva esperienza della Banca europea degli investimenti, quella più recente del Fondo europeo per gli investimenti e la capacità di finanziamento sul mercato dimostrata da Agenzie specializzate, consentono di prevedere un leverage finanziario molto elevato per ogni partecipazione iniziale dell’Unione. In molti casi sarà sufficiente la semplice certificazione di interesse comunitario dei progetti per rassicurare ed attirare capitali privati. Le spese dell’Unione, peraltro, dovrebbero essere finanziate in maggior misura con entrate fiscali proprie, che dovrebbero essere rivolte (come la carbon tax proposta dalla Commissione) ad incoraggiare la produttività per unità di energia e la riduzione dell’inquinamento ambientale. Poiché la credibilità finanziaria dell’Unione è superiore a quella degli Stati membri, essa dovrebbe anche godere di un margine di elasticità per i deficit di bilancio almeno pari, in proporzione, a quello consentito agli Stati. I titoli del debito federale dovrebbero essere sottoscritti dal mercato escludendo un finanziamento monetario dell’Unione. Tuttavia la politica monetaria dovrebbe in ogni caso «accompagnare» la politica economica, se non altro perché non si può pensare che l’indipendenza «tecnica» della Banca centrale europea possa estendersi fino ad estromettere il futuro governo dell’Unione da decisioni destinate ad influire sul cambio dell’euro nei confronti del dollaro e delle altre valute.
Infine si dovrebbe smettere di parlare soltanto di debito e pil, come se le imprese guardassero soltanto al passivo del proprio bilancio senza considerazione per gli investimenti effettuati e per la loro capacità di generare reddito. Come rileva Tommaso Padoa-Schioppa, con riferimento al debito italiano, «per valutare la rischiosità del debito pubblico occorrerebbe considerare questo al netto delle attività che vi stanno a fronte, in analogia con quanto avviene per un privato; ciò non avviene, anche per le difficoltà che ostano alla elaborazione di un conto patrimoniale pubblico completo. Dal 1980, in ottemperanza della L. 468/1978, la Corte dei conti predispone annualmente un rendiconto patrimoniale dello Stato, che risulta però incompleto e non direttamente utilizzabile per fini di analisi economica. Nel 1987, una Commissione di indagine presieduta da Sabino Cassese aveva stimato (per difetto, secondo quanto affermato nella Relazione conclusiva) che il valore del solo patrimonio immobiliare del settore pubblico (con esclusione quindi delle imprese a partecipazione statale) fosse pari a circa due terzi del debito pubblico in quello stesso anno. Nel 1990, la Commissione per le privatizzazioni presieduta da Carlo Scognamiglio valutò in 70-90 mila miliardi (5-7% del pil) il valore patrimoniale delle sole cinque imprese pubbliche indicate come primi obiettivi di vendite al pubblico di azioni (Crediop, Enel, Eni, Imi, Ina)».[45]
Il concetto di patrimonio pubblico, inoltre, dovrebbe includere «cespiti» finora mai valutati eppure da considerarsi come investimenti perché produttivi di reddito sotto forma di accrescimento dell’efficienza del capitale privato. A qualsiasi livello preesistente di debito pubblico, un nuovo investimento dovrebbe essere accettato qualora prometta un ritorno capace di ridurre l’indebitamento iniziale. L’eliminazione dell’eccesso delle vere spese correnti rispetto alle entrate preserva gli equilibri finanziari futuri, consente di ridurre i tassi d’interesse, attenua la prevalenza dei consumi rispetto agli investimenti e restituisce agli Stati la piena sovranità sui bilanci. La riduzione dei veri investimenti pubblici, invece, abbassa l’efficienza marginale del capitale nel lungo periodo, deprime l’incentivo ad investire, avvita verso il basso il reddito e l’occupazione, rende necessaria l’attivazione di ammortizzatori sociali, estende l’area dell’economia illegale, eleva il costo degli apparati repressivi e provoca un innalzamento ulteriore del debito pubblico. Eppure si continua a indicare nella riduzione della spesa pubblica il sentiero virtuoso da seguire, senza far distinzione fra il consumo e l’investimento.
L’intervento pubblico, se vuole innescare un circolo virtuoso, non può essere più rivolto ad alterare la posizione relativa dei singoli Stati nazionali. Esso deve proporsi, al contrario, di accrescere l’efficienza complessiva dell’economia europea e di prevenire o correggere gli squilibri ecologici, sociali e territoriali determinati dall’operare congiunto del capitalismo sovranazionale e delle politiche nazionali che gli sono necessariamente subordinate. Proprio questa subalternità mette in luce l’esigenza che siano governi sovranazionali a mettere le briglie ad un capitalismo che non conosce confini. E’ possibile perseguire (come sempre per tentativi e successive correzioni) il raggiungimento di un tasso di sviluppo di lungo periodo dell’economia europea molto più elevato di quello attuale senza generare inflazione, senza peggiorare lo stato dell’ambiente, senza distruggere i legami di solidarietà sociale, intergenerazionale e territoriale, e preservando al massimo l’apertura nei confronti delle altre economie.
Come vide lucidamente Albertini al momento della crisi dello Sme, «il problema va dunque impostato in questo modo: non ci può essere politica europea senza affrontare il problema della moneta; non si può fare la moneta senza affrontare davvero i problemi della disoccupazione e dello sviluppo».[46]
3. Euro e dollaro.
Non è possibile che si sia creato l’euro e poi non si sappia dare soddisfazione alle attese di sviluppo e di occupazione. Non è possibile che si sia creato l’euro e poi non si ottenga l’equal partnership con gli Stati Uniti alla guida del processo verso un nuovo ordine economico e monetario mondiale. In breve, come i federalisti sapevano prima di impegnarsi in questa impresa e come i loro avversari ancora sperano, l’euro si rivelerebbe un bluff in assenza di un governo europeo.
Clinton ritiene giustamente che «un’Europa integrata sia il miglior partner naturale dell’America per il 21° secolo».[47] Gli animal spirits d’oltre oceano, però, non hanno ancora raggiunto il livello di consapevolezza del loro Presidente. Nei ricorrenti attacchi americani contro l’euro, per sostenere i quali è stato organizzato un massiccio arruolamento di economisti premi Nobel, si manifestano timori contrapposti: quello per la chiusura dell’Europa in una fortezza, corrispondente all’apprensione europea nei confronti dell’isolazionismo americano; quello per una svalutazione competitiva dell’euro, quasi che la sua creazione si possa ridurre ad un trucco per rendere competitivo il marco; e l’ossessione, non del tutto ipocondriaca, che l’euro possa diventare tanto forte da minacciare il dollaro come moneta mondiale.
3.1 Fortezza Europa.
In effetti l’euro innova radicalmente il sistema monetario internazionale, che non è più fondato su una sola moneta fiduciaria di riserva, ma su due. Volcker[48] che fu fautore della libera fluttuazione dei cambi, ora ne osserva preoccupato gli esiti. «Oggi i tassi di cambio più importanti sono certamente quelli dollaro/marco e dollaro/yen. Nei tre paesi un elevato livello di stabilità dei prezzi è stato mantenuto per un bel po’ di anni. Eppure, contrariamente alle previsioni della maggior parte degli economisti e dei libri di testo ortodossi, quei tassi di cambio hanno continuato a fluttuare ampiamente, a volte del 50% o più nell’arco di un anno o due… I mercati restano volatili in un modo che semplicemente non può essere compatibile con calcoli attendibili dei vantaggi comparati, decisioni d’investimento ottimali ed efficienza del mercato… Un mondo nel quale i tassi di cambio tra le principali monete possono fluttuare con tanta ampiezza e così capricciosamente non è un mondo che possa massimizzare l’efficienza del mercato mondiale dei capitali o il potenziale di sviluppo mondiale».
Egli indica con estrema chiarezza i due opposti pericoli che si potrebbero correre nel tentativo di arginare gli effetti perniciosi della volatilità dei cambi: da un lato, quello di restaurare estesi e permanenti controlli sui movimenti dei capitali, ostacolando così il processo di integrazione dell’economia mondiale senza peraltro poter contrastare le possibilità di evasione create dal dilagare delle nuove tecnologie dell’informatica e delle telecomunicazioni; dall’altro, quello di consentire una sovraesposizione permanente dei mercati finanziari alle crisi, con la conseguenza di rafforzare le richieste di protezione all’interno di blocchi regionali che tenderebbero a chiudersi.
«Le integrazioni regionali» — argomenta Volcker — «hanno avuto effetti globalmente positivi, nonostante il loro intrinseco carattere discriminatorio, perché inserite nel contesto generale di una riduzione globale delle barriere commerciali». Per conservare i benefici della liberalizzazione, occorre perciò che essa «sia accompagnata da un’attenzione molto maggiore verso una riforma monetaria su scala globale».
Il timore che l’Europa diventi una fortezza, protetta dai dazi doganali, da un euro debole o da entrambi, non è fondato, ma dev’essere compreso. La diffidenza di molti Americani, i quali preferiscono dimenticare la storia del loro paese quale «roccaforte del protezionismo»[49] nei confronti del liberismo europeo può trovare le sue origini nella rassomiglianza del processo di unificazione degli Stati europei con quello degli Stati tedeschi nel secolo scorso (prima lo Zollverein, poi l’unione politica) e nella sua conseguente difformità dal modello della federazione americana, fondata su una preventiva costituzione politica. List, fautore di un’alleanza franco-tedesca per far fronte alla supremazia britannica, si spinse fino a prevedere la necessità di «una coalizione europea contro la supremazia americana»[50] poiché, sosteneva, il libero scambio fra paesi a sviluppo diseguale produce il monopolio mondiale di quelli partiti avvantaggiati. Egli, tuttavia, fu protezionista con giudizio, così come Keynes fu poi il più ragionevole di tutti i keynesiani. List raccomandò, infatti, un protezionismo temporaneo, limitato ad alcuni settori strategici, condizionato all’esistenza di dimensioni dello Stato e del mercato sufficienti per intraprendere lo sviluppo industriale, ed al raggiungimento di una evoluzione culturale, tecnica e professionale tale da consentire di trarre vantaggio dalla protezione. Del resto perfino Adam Smith aveva ammesso la protezione eccezionale della infant industry e List era fermamente contrario, come la Scuola, al protezionismo agricolo. Egli, convinto che il progresso si accompagni all’unificazione dei popoli ed al superamento delle barriere naturali e sociali che dividono l’umanità, non si sarebbe mai riconosciuto nelle follie autarchiche della fase estrema del nazionalismo. Similmente Keynes stenterebbe a credere che la sua teoria sia diventata, per un certo periodo di tempo, la madre di tutte le inflazioni.
Come noi conosciamo bene la potenza delle lobbies americane, così gli Stati Uniti diffidano delle tendenze protezionistiche che serpeggiano nelle paludi europee dei settori non competitivi, dei ceti parassitari e delle arroganti corporazioni. Questi gruppi d’interesse, pur continuando a mendicare aiuti dagli Stati nazionali, non hanno trascurato di sviluppare lobbies allivello europeo, il solo rilevante per le decisioni concernenti la tariffa esterna comune, per l’emanazione di normative suscettibili di trasformarsi in protezioni non tariffarie, per la definizione della politica monetaria e di cambio dell’euro, per l’armonizzazione delle politiche fiscali nazionali e così via. E’ interesse comune che tali gruppi non prevalgano, né in Europa né in America; ed essi non prevarranno se l’UE e gli USA sapranno agire nel loro comune interesse.
La pace e la guerra, nel mondo, dipenderanno ancora, per un periodo di tempo che non possiamo definire, ma che una direzione politica consapevole dovrebbe rendere quanto più breve possibile, dalla convergenza delle ragion di Stato. Quella fra la Federazione europea (evoluzione improcrastinabile dell’Unione) e gli Stati Uniti d’America potrebbe svolgere un ruolo decisivo anche per il resto del mondo.
La fine della guerra fredda e la creazione dell’euro hanno riaperto una prospettiva manchesteriana, questa volta in chiave globale. Molti paesi già in via di sviluppo sono oggi in grado di esportare con successo non soltanto materie prime e prodotti agricoli, ma anche beni di consumo durevole, e di svolgere ruoli avanzati di ricerca e sviluppo integrandosi nelle filiere tecnologiche transnazionali. L’Unione europea, che detiene la quota di mercato più ampia nel commercio internazionale, non ha interesse alla introduzione di restrizioni negli scambi. Il miglioramento delle aspettative dei mercati finanziari e degli operatori economici deriva dalla previsione di una maggiore apertura dell’Europa, non da quella contraria. L’euro accresce i profitti attesi perché gli operatori lo associano ad una crescente liberalizzazione ed alle economie da specializzazione, che saranno rese possibili dal meccanismo neo-manchesteriano evocato da Jozzo.[51]
3.2 Euro über alles.
Le considerazioni di Jozzo «scontano» un euro forte e ci conducono così ad esaminare l’opposto, ma meno diffuso, timore d’oltre oceano. Bergsten[52] ha spalancato gli occhi di molti Americani su uno scenario per loro ancora difficile da credere: l’euro comprenderà rapidamente tutti i paesi membri dell’Unione; sarà una moneta forte fin dall’inizio; godrà di tutti i requisiti necessari per svolgere un ruolo globale; potrà provocare uno spostamento di fondi (riserve ufficiali e portafogli privati) dal dollaro all’euro fino ad un trilione di dollari (lo stesso ordine di del debito estero netto degli Stati Uniti). I requisiti necessari perché una moneta giochi un ruolo globale, ricorda Bergsten, sono cinque: la dimensione dell’economia sottostante e la quota di partecipazione al commercio mondiale; l’indipendenza da vincoli esterni; la libertà di movimento dei capitali; l’ampiezza e la liquidità del mercato dei capitali; la forza, la stabilità e la posizione esterna dell’economia. L’euro avrà le carte in regola sotto tutti questi profili. Qualsiasi paese che si trovasse nella situazione finanziaria degli Stati Uniti, invece, dovrebbe prima o poi pagare lo scotto di una crisi finanziaria e valutaria, col conseguente assoggettamento alla rigida disciplina del FMI. Ma, come ricorda severamente Thurow, «nel caso degli Stati Uniti, con i debiti contratti in dollari, a subire perdite quando il dollaro si svaluta non sono i debitori americani ma i creditori esteri, i cui crediti perdono valore una volta riconvertiti nella loro valuta nazionale: ma questi non possono votare negli Stati Uniti… Qualche politico dovrebbe spiegare come mai l’aumento delle importazioni rispetto alle esportazioni, che attualmente gratifica il consumatore americano, non vale il costo che si dovrà pagare. Prima o poi, infatti, i debiti che ne derivano andranno assolti, svendendo attività finanziarie americane (se volete, l’eredità capitalistica Stati Uniti), e perdendo così influenza e potere all’interno dell’economia mondiale, sia nel settore pubblico sia in quello privato. Ma da un punto di vista politico un argomento del genere sarebbe poco efficace, dato che gli Americani hanno finito per credere che la leadership internazionale spetti loro per diritto di nascita, come è stato finora, e comunque non sono nemmeno sicuri di volerla mantenere».[53]
Una forte svalutazione del dollaro, oltre a beffare i creditori, renderebbe impossibile il finanziamento della politica di potenza degli Stati Uniti. Forse per questa ragione essi cercano affannosamente nuove linee di conflitto nella politica globale, prevedendo addirittura uno scontro fra le diverse culture e civiltà.[54] La necessità di affidarsi ancora alla supremazia militare americana farebbe accettare agli altri paesi, in tale ipotesi estrema, l’accumulo ulteriore di crediti denominati in dollari. Lo scenario opposto, di messa in liquidazione del capitalismo americano per rimborsare il debito estero, evocato provocatoriamente da Thurow, rappresenta un limite altrettanto paradossale. Eppure questi due poli delimitano e definiscono lo spazio delle soluzioni ragionevoli. Come Volcker pensa ad una riforma del sistema monetario mondiale, così Bergsten si interroga sulla condizione politica necessaria per raggiungere un obiettivo tanto ambizioso e la identifica in una più stretta cooperazione fra gli Stati Uniti e l’Europa.
3.3 La necessità che USA ed UE assumano rotte convergenti.
Il risanamento del bilancio federale degli Stati Uniti, ottenuto grazie ad un accordo bipartisan, potrebbe consentire una correzione di rotta nei conti con l’estero della superpotenza. Vi contribuirebbero la riserva di produttività ancora da recuperare negli USA ed un accentuato sfruttamento del vantaggio del vantaggio decisivo acquisito nei settori dei servizi finanziari e delle telecomunicazioni. Tuttavia il deficit americano, nell’attuale modello mono-polare, costituisce anche la «locomotiva» dello sviluppo mondiale; perciò la sua riduzione, se in un quadro cooperativo costituirebbe il presupposto di ogni riequilibrio o nuovo ordine, in una logica per la supremazia innescherebbe una spirale di deflazioni competitive. Che si imbocchi l’una o l’altra di queste due strade potrà dipendere dagli esiti capricciosi della speculazione internazionale oppure da una di quelle decisioni consapevoli nelle quali si manifesta, purché vi siano le istituzioni in grado di deliberare, il primato della politica. Gli sforzi intrapresi degli Stati Uniti per ristabilire l’equilibrio della finanza pubblica e per ridurre lo squilibrio esterno potranno contenere la misura dello spostamento di fondi dal dollaro all’euro ed influenzare la diffusione relativa delle due valute al di fuori delle rispettive aree. Sulla linea di partenza l’Europa è avvantaggiata da una quota di mercato molto più elevata di quella americana in tutti i principali insiemi geopolitici del mondo[55] e, se così si può dire, dalla preferenza dei suoi partners per il «metodo comunitario», cooperativo, contrattuale e diretto a favorire la nascita di autonome federazioni regionali sul modello dell’Unione europea, rispetto all’approccio americano, spesso sospettato di tentazioni egemoniche se non imperialistiche. Per contro gli Stati Uniti godono della supremazia militare, di un maggior contenuto high-tech della proprie esportazioni, del dominio integrato del know-how nei settori che più contribuiscono a sostenere trasversalmente la globalizzazione (finanza, informatica e comunicazioni) e di una forte capacità di iniziativa politica unitaria. In breve: i vantaggi degli Stati Uniti residuano dall’essere stati una superpotenza; quelli dell’Europa procedono, invece, dal non esserlo stata. Con l’introduzione dell’euro è ragionevole attendersi che la posizione degli Stati Uniti nel mondo si fondi sempre mono sulla supremazia militare e si proporzioni sempre più alla loro effettiva rilevanza economica. E’ altresì ragionevole attendersi che l’Europa effettui gli investimenti necessari per colmare i propri ritardi tecnologici, se non vuole vedersi condannata ad un ruolo subordinato e ad una competizione di puro costo in settori sempre più esposti alla concorrenza internazionale, e che essa partecipi in misura più incisiva e più visibile alla costruzione ed al mantenimento del nuovo rodine internazionale. L’evidenza di queste due complementari ragionevolezze consente id ritenere possibile ed anche probabile l’affermazione di un clima di cooperazione fra gli Stati Uniti e l’Unione europea, condizione indispensabile per l’apertura di un ciclo di sviluppo economico meno sprezzante nei confronti di fondamentali esigenze umane, quali l’equità distributiva, la sostenibilità ambientale, la sicurezza e la pace. Naturalmente la cooperazione fra gli Stati Uniti e l’Unione europea, pur corrispondendo agli insegnamenti del passato e alle ragioni del futuro, non si affermerà da sola. Dovranno intervenire, sulle due sponde dell’Atlantico, istituzioni politiche capaci di sottrarre la storia alla disperante inesorabilità deterministica con la quale si finisce sempre per giustificare le prevaricazioni degli interessi «particolari» su quelli collettivi e di quelli presenti su quelli futuri.
Friedman[56] si è spinto a prevedere che l’unificazione monetaria dell’Europa renderà impossibile la sua unificazione politica. Gli Stati Uniti, egli argomenta, hanno potuto superare shocks asimmetrici (come la crisi petrolifera che impoverì gli Stati del Midwest, produttori di automobili, e arricchì il Texas, produttore di petrolio), pur costituendo una sola area monetaria, grazie all’utilizzo di strumenti diversi dal cambio, dei quali l’Europa ancora non dispone: il bilancio federale (ridistribuzione di risorse finanziarie), la forte mobilità interna (ridistribuzione dell’occupazione), l’estrema flessibilità dei mercati (aggiustamento rapido di prezzi e salari) ed una Banca centrale, la Fed, autorevole e credibile ma assai meno insensibile della Bundesbank alle richieste del potere politico.
Il fatto è, come si è detto, che noi procediamo «alla List» e non «alla Hamilton» perché, come l’unificazione tedesca e al contrario della costituzione americana, il processo europeo richiede il superamento di forti Stati nazionali preesistenti. Lo Zollverein ha comunque condotto all’unità politica tedesca, così come l’UEM condurrà a quella europea. Prolungare la fase di massimo rischio sarebbe tuttavia un comportamento stolto. Friedman, per una volta, ci ammonisce che ci vuole più Stato e noi europei, in questo caso, dobbiamo dargli ragione.
4. Per un World Federal Reserve System.
La superpotenza superstite non può governare il mondo da sola, come ancora una volta ha dimostrato la crisi asiatica. Si è visto bene come tale crisi abbia generato due ordini di reazioni. Da un lato, il nervosismo degli Stati Uniti è aumentato, come provano l’ostilità ad una soluzione asiatica della crisi attraverso la costituzione di un fondo regionale di cooperazione monetaria, l’affidamento dei debitori alle cure del Fondo monetario internazionale che spesso uccidono il paziente senza salvarne i creditori, e la ripresa in grande stile dell’offensiva anti-euro. Dall’altro, la domanda di una riforma monetaria internazionale e la ricerca di equilibri meno distanti dalla effettiva distribuzione del potere economico nel mondo hanno registrato una netta accelerazione. La sequenza degli avvenimenti asiatici ha lo stesso profilo di altre tragedie provocate anch’esse, in Europa come negli Stati Uniti, dal periodico prevalere della presunzione del capitalismo di poter fare a meno di istituzioni regolatrici (come se il mercato stesso non fosse che una di tali istituzioni).
4.1 Sovranità nazionali, istituzioni internazionali e mercato.
Nel Novecento si è verificata una rincorsa fra il capitalismo, che sfuggiva alle regole esorbitando dagli ambiti geografici nei quali esse potevano essere applicate, e gli Stati, che tentavano di riaffermare forme di controllo. Quando gli Stati hanno tentato la via reazionaria di sottrarsi al disordine internazionale rinchiudendo il capitalismo nei serragli nazionali, come è avvenuto in Europa fra le due guerre, gli esiti sono stati più catastrofici di quelli che si volevano evitare. Quando gli Stati hanno tentato la via progressiva, ma velleitaria, di affidare determinati compiti ad istituzioni internazionali senza trasferire loro la sovranità corrispondente, i risultati sono stati inconcludenti, come nel caso della Società delle Nazioni e, in minor misura, dell’ONU.
Con la «globalizzazione», il capitalismo ha lanciato una parola d’ordine che sfida l’ordine planetario. Infatti non esiste istituzione più distante dell’ONU da una legittimazione federale, mentre i «fallimenti del mercato» (ed anche, più prosaicamente, quelli delle banche occidentali) sono posti a carico di una istituzione tecnocratica, il World Monetary Fund, dominata dagli Stati Uniti, nella quale soltanto al compimento della loro unificazione economica e monetaria i paesi europei parleranno con una voce sola, così come già avviene soltanto nella World Trade Organization. Il FMI è l’istituzione attraverso la quale gli Stati Uniti hanno governato, in questo dopoguerra, non soltanto il proprio capitalismo, ma quello del «mondo libero», prima, e quello del mondo poi. Come ricorda Harrods,[57] la dipendenza delle istituzioni di Bretton Woods (Fondo e Banca) dagli Stati Uniti è congenita. Ma perché mai l’unico paese allora in grado di effettuare prestiti al resto del mondo, vincitore autentico della guerra e con l’apparato produttivo ancora intatto, avrebbe dovuto delegare ad una istituzione sovranazionale la creazione di liquidità internazionale? Gli Stati Uniti si tennero le mani libere per concedere prestiti e aiuti ai singoli paesi europei senza intermediazioni di sorta. Il FMI, per iniziativa di White, nacque come organo ispettivo e consultivo. Unica concessione alla visione di Keynes fu l’affiancamento al Fondo della World Bank. Nel dopoguerra la Banca ha contribuito alla ricostruzione delle capacità produttive distrutte; a partire dagli anni Settanta, sotto la guida di Mc Namara, ha finanziato prevalentemente i paesi sottosviluppati; dagli anni Ottanta ha condizionato sempre più i propri interventi all’adozione, da parte dei debitori, di politiche di deregolamentazione e di privatizzazione. Il suo Presidente è tradizionalmente di nazionalità statunitense, sebbene la quota di partecipazione degli Stati Uniti al capitale della Banca sia scesa dall’iniziale 37,5% a meno del 20%.
Al FMI aderiscono oltre 170 paesi, fra i quali la Cina (dopo la rottura con l’Unione Sovietica) e la Russia (dal 1991). I paesi membri che si trovano in difficoltà di bilancia dei pagamenti hanno facoltà di servirsi della consulenza tecnica e dell’assistenza finanziaria del Fondo (di fatto il suo giudizio è indispensabile per l’accesso dei paesi più deboli ai mercati finanziari). L’assistenza finanziaria è automatica nei limiti della quota di riserva del paese (reserve tranche), ma deve essere negoziata se si vuole prelevare un multiplo della quota (linea di credito stand-by). Nonostante l’introduzione, con l’accordo di Rio de Janeiro del 1967, di uno strumento fiduciario denominato diritto speciale di prelievo (special drawing right) il Fondo non ha mai esplicato la funzione di Banca centrale del sistema monetario internazionale, auspicata prima da Keynes poi da Triffin, sostanzialmente per due ragioni. In primo luogo, tale funzione non è riconosciuta dallo statuto del Fondo e sarebbe fortemente ostacolata dal peso preponderante del voto, legato al valore delle quote di partecipazione, dei principali paesi industrializzati. In secondo luogo, gli Stati Uniti indeboliscono la leadership del Fondo favorendo la diffusione di rapporti politici bilaterali, soprattutto da quando il numero dei membri aventi il diritto di designare un direttore esecutivo si è allargato per includere, in aggiunta ai «cinque grandi» (Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania federale, Francia e Giappone), l’Arabia Saudita (1979) e la Cina (1980). In sostanza gli Stati Uniti, oltre a godere del privilegio di saldare in dollari i propri disavanzi, usufruiscono, attraverso il Fondo, della possibilità, altrettanto ingiustificata, di influenzare la direzione e le condizioni dei prestiti effettuati con capitali altrui. L’introduzione dell’euro porrà un certo numero di questioni, sostanziali ed operative, nei confronti del Fondo. Dovranno essere considerati come squilibri di bilancia dei pagamenti correnti soltanto quelli dell’Unione nei confronti del resto del mondo. Inoltre, poiché le transazioni di un gran numero di paesi saranno regolate in euro, l’utilizzo del dollaro da parte dell’area dell’euro si ridurrà ad una misura insignificante (è prevedibile che anche la massima parte della «bolletta petrolifera» possa essere pagata in euro, rendendo così possibile la diversificazione di portafoglio desiderata dai paesi produttori).
Nell’ipotesi che gli Stati Uniti possano conseguire sostanziali successi nel raddrizzamento dei propri conti con l’estero, la crescita della circolazione esterna di dollari rallenterebbe fino ad arrestarsi. Forse si potrebbe imboccare un sentiero virtuoso di riduzione dell’indebitamento netto americano con l’estero, il che necessariamente implicherebbe un trasferimento di risorse reali dagli Stati Uniti ai paesi creditori. L’Europa potrebbe contribuire al conseguimento di tale risultato applicando una delle massime di Keynes: «le riserve sono fatte per essere spese». Nel caso in esame, riserve denominate in dollari, divenute esuberanti per l’eliminazione degli squilibri valutari fra gli Stati membri, potrebbero essere spese per l’acquisto negli Stati Uniti delle tecnologie nelle quali essi sono più progrediti (le modalità sono svariate: acquisto di prodotti o di know-how, partecipazione al capitale di imprese americane, joint ventures, ecc.); la cooperazione in questi settori permetterebbe, fra l’altro, di eliminare la necessità, per l’Unione, di proteggere le infant industries. L’utilizzo del dollaro e di qualsiasi altra valuta «nazlonale», euro incluso, come moneta mondiale verrebbe ulteriormente limitato qualora si sviluppassero altre aree regionali, soprattutto in Asia ed in America latina, capaci di risolvere al proprio interno gran parte dei problemi oggi devoluti all’intervento USA/FMI. Si realizzerebbe così quel «decentramento permanente delle operazioni del FMI» che Triffin considerava come un obiettivo fondamentale della regionalizzazione.[58]
4.2 Importanza decisiva della convergenza USA/UE per l’affermazione di un nuovo ordine mondiale regionalizzato.
L’Unione europea e gli Stati Uniti dovrebbero promuovere e sostenere la formazione di aree regionali di libero scambio che portino nel DNA la vocazione a svilupparsi in unioni economiche, monetarie e politiche. E’ legittimo attendersi che la «costituzione strisciante» di nuove federazioni regionali segua, come in Europa, la strada di List e non quella di Hamilton, a causa dei forti retaggi nazionali da cui si parte. Ciò non dovrebbe impedire agli Stati Uniti di adottare, come fa l’Europa, un atteggiamento favorevole verso i raggruppamenti regionali. Durante la guerra fredda gli Stati Uniti hanno incoraggiato la formazione di un blocco regionale europeo in funzione antisovietica. Dopo il crollo dell’Urss ha ripreso vigore, nell’ambito della politica americana, la tendenza ispirata al divide et impera. E’ responsabilità dell’Europa, per la novità rivoluzionaria che la sua unificazione introduce nella politica mondiale, proporre e concordare con la leadership americana più illuminata percorsi idonei a conseguire la riduzione del disordine in un mondo che certamente rifiuta, con ragione, ogni irrealistica logica monopolare.
Il declino della supremazia americana lascia dietro di sé una inondazione di dollari rispetto alla quale impallidisce il ricordo del lungo e penoso strascico di sterling balances seguito alla fine dell’impero inglese. Eppure, se i principali raggruppamenti regionali saranno in grado di risolvere al proprio interno la maggior parte dei problemi monetari e se gli squilibri fondamentali di bilancia dei pagamenti fra i raggruppamenti tenderanno ad assumere dimensioni gestibili, l’attuazione del progetto di riforma del sistema monetario internazionale tratteggiato da Keynes e sviluppato da Triffin diventerà tecnicamente più semplice e politicamente più realistica. USA e UE potrebbero esercitare, nel processo di pacificazione della specie umana, un ruolo paragonabile a quello che il «direttorio» franco-tedesco ha svolto per l’unificazione europea.
Proprio nel 1982, allorché gli Stati Uniti assommarono per la prima volta un deficit di parte corrente a quello dovuto ai movimenti di capitale, accelerando così la crescita esponenziale del proprio indebitamento verso l’estero, Triffin evidenziò il «triplice scandalo»: la selvaggia creazione inflazionistica di riserve ufficiali, la ridistribuzione del potere d’acquisto internazionale a favore dei paesi ricchi attraverso la rivalutazione dell’oro e il disconoscimento di qualsiasi responsabilità verso quelli poveri. Nei confronti del triplice scandalo l’unificazione monetaria europea presenta potenzialità contrapposte. Gli Europei potrebbero proporsi di contendere il diritto di signoraggio che finora è stato privilegio esclusivo degli USA per poi condividerlo, prolungando così lo scandalo; oppure di contribuire alla (ri)fondazione di istituti capaci di governare l’economia globalizzata. La seconda strada è obbligata, ma non per questo possiamo essere certi che essa venga imboccata prima che altre catastrofi inducano gli Stati a ragionare. Questo è uno di quegli spazi di libertà che si aprono all’azione consapevole dell’uomo nella storia, cioè alla politica.
L’obiettivo monetario coerente col valore della pace è quello di creare uno strumento fiduciario, una moneta di riserva mondiale, in sostituzione dell’oro e delle valute nazionali di riserva, consentendo al FMI di «aggiustare la creazione delle riserve al potenziale non inflazionistico ottimale del commercio e della produzione mondiali».[59] L’esperienza europea indica quanto siano importanti una convergenza iniziale delle ragion di Stato, la scelta del primo passo da compiere e l’indicazione di traguardi intermedi, per far imboccare al corso della storia un «piano inclinato» verso l’obiettivo che ci si prefigge.
L’ipotesi che la convergenza delle ragion di Stato americana ed europea sia fra tutte la più matura sembra disturbare meno di altre il senso comune. Gli Stati Uniti e l’Unione europea contano per l’11,2% appena della popolazione mondiale (rispettivamente il 4,7% ed il 6,5%), ma per il 52,5% del prodotto lordo mondiale (25,7 e 26,8) e per il 40,5% del commercio mondiale (19,6 e 20,9). I cittadini europei e quelli americani occupano, insieme ai Giapponesi, agli Australiani ed ai Neo-Zelandesi, i primi posti nella classifica mondiale per indice di sviluppo umano, l’indicatore dell’ONU che combina il pil pro-capite, l’alfabetizzazione degli adulti e la speranza di vita. Essi danno anche il più elevato contributo pro-capite all’inquinamento ambientale. In questo caso, tuttavia, l’apporto americano è molto superiore a quello europeo (un altro riflesso dello scarso peso accordato ai valori di solidarietà fra quelli che ispirano quel grande paese). Per contro il contributo americano ad un bene collettivo quale la sicurezza appare più efficiente di quello europeo, sebbene la sua efficacia sia stata talora azzerata da politiche improvvide. I Quindici, complessivamente, impegnano nelle tre Armi due milioni di uomini, gli Stati Uniti un milione e mezzo. Si tratta, in entrambi i casi, dello 0,5% della popolazione; tuttavia soltanto gli Stati Uniti sono in grado di decidere ed attuare una iniziativa militare internazionale. Gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno l’interesse comune di operare congiuntamente su molti fronti decisivi: per favorire la stabilizzazione dell’area dell’ex-Unione Sovietica e dei Balcani; per sostenere lo sviluppo dei paesi più poveri; per accelerare con sacrifici bilanciati gli investimenti necessari al rimpiazzo delle tecnologie e delle fonti di fortemente inquinanti con quelle compatibili; per ripartire, tra di loro e con gli altri grandi Stati o raggruppamenti regionali, la responsabilità delle decisioni che riguardano la sicurezza e l’onere della loro attuazione. Possiamo ipotizzare, all’antica, che ci sia una «convergenza delle ragion di Stato»?
4.3 Cosa mettere in agenda.
Nell’identificare il primo passo da compiere si deve tener conto dell’attuale ossessione per la competitività. Gli Stati incontrano difficoltà e resistenze sempre maggiori nell’adottare buone politiche che comportino aggravi per i costi delle imprese: produrre con tecnologie meno inquinanti costa di più, dunque si può fare soltanto se i concorrenti vengono assoggettati alla stessa disciplina; la sicurezza comporta un pesante aggravio fiscale, meglio stare sotto l’ombrello di qualcun altro; la ricerca è l’investimento con il ritorno più lontano, perciò conviene attendere l’esito di quella altrui per poi copiare. In questo modo tutti gli aspetti collettivi e di lungo periodo del progresso umano vengono svalutati. Ecco perché il primo passo dovrebbe consistere nella realizzazione di un’area di libero scambio euro-americana, all’interno della quale si possano equiparare gradualmente i principali fattori che influenzano la concorrenza fra le imprese. L’organizzazione del mercato costituisce la principale istituzione capitalistica. Se questa istituzione fosse comune agli Stati Uniti, all’Unione europea ed ai paesi loro associati da accordi di libero scambio, già operativi o previsti, si renderebbe inevitabile la fissazione di traguardi intermedi in direzione della moneta fiduciaria mondiale. Al momento dell’entrata in vigore dell’area di libero scambio si dovrebbe fissare un termine entro il quale rendere fisso il cambio tra il dollaro e l’euro, almeno nella misura in cui i cambi furono fissi durante il breve periodo caratterizzato dal prevalere della cooperazione internazionale e dal conseguente buon funzionamento del sistema di Bretton Woods; si dovrebbero concordare i percorsi di convergenza delle economie; si dovrebbe dare inizio ad una concertazione organizzata fra BCE e Fed per mantenere, nel periodo intermedio, le fluttuazioni del cambio in linea con le necessità dell’economia reale, sterilizzando i movimenti speculativi in conti di compensazione. La fluttuazione dei cambi, quando fu imposta agli Stati europei dal prevalere del punto di vista americano, si dimostrò incompatibile con l’unità del mercato, minacciò la perdita dello stesso acquis communautaire ed allungò comunque di almeno una ventina d’anni il cammino dell’integrazione europea. L’esperienza dello SME, con la quale si tentò di arginare gli effetti negativi della fluttuazione, si scontrò col «quartetto inconciliabile» di Padoa-Schioppa.
«La seconda fase dello SME è segnata dall’emergere di una sfida fondamentale per il Sistema: la rimozione, in seguito all’attuazione del programma fissato dall’Atto unico europeo, dei controlli sui capitali e delle residue barriere non tariffarie al commercio di beni e servizi. A meno che nuovi impegni non si aggiungano all’agenda dell’integrazione, la Comunità dovrà tentare l’impossibile impresa di conciliare: I) piena libertà degli scambi; II) completa mobilità dei capitali; III) tassi di cambio fissi (o comunque governati); IV) autonomia nazionale nella conduzione della politica monetaria. Questi quattro elementi formano quel che definisco un ‘quartetto inconciliabile’: la teoria economica e l’esperienza storica hanno ripetutamente dimostrato che essi non possono coesistere, e che almeno uno deve essere abbandonato».[60]
Gli Stati europei decisero, finalmente, che l’elemento da abbandonare era il quarto, cioè l’autonomia nazionale nella conduzione della politica monetaria. Gli Stati Uniti dovrebbero cominciare a riflettere su questa idea, dalla quale nessun progetto di riforma del sistema monetario internazionale può prescindere.
Un’area di libero scambio, prevedendo una tariffa esterna comune nei confronti degli altri paesi, impone poi la ricerca di coerenze tra le politiche commerciale, finanziaria ed estera dei paesi associati, coerenze che risulteranno ottenibili, alla fine, soltanto con una politica estera e di sicurezza comune. E’ innanzitutto in ambito atlantico che il primato della norma dev’essere affermato su quello della violenza. Se si vuole utilizzare la NATO come strumento di polizia internazionale, la partecipazione effettiva di un’Europa federata ai processi decisionali dell’Alleanza non può essere ulteriormente rinviata. E’ giunto il tempo, anche per gli Stati Uniti, di seppellire il dopoguerra e di partecipare alla responsabilità delle decisioni che riguardano il mondo intero in misura non eccedente il proprio peso.
Mercato comune euro-americano, cambio fisso fra euro e dollaro e sistema di sicurezza comune costituirebbero i pilastri del nuovo ordine occidentale. Quando l’Occidente è in ordine tutto il mondo ha maggiori probabilità di esserlo, perché l’Occidente, proprio in ragione del maggiore sviluppo economico e per l’azione dei principi della termodinamica, è il massimo esportatore di disordine.
Se fra gli Stati Uniti e l’Unione europea (con le zone monetarie) prevalessero rapporti fortemente competitivi, difficilmente ci si potrebbe attendere da essi un forte impulso alla trasformazione del FMI in una Banca centrale mondiale, capace di emettere una moneta di riserva mondiale fiduciaria in sostituzione dell’oro, del dollaro e dell’euro, e ad una corrispondente riforma democratica dell’ONU. Eppure questi obiettivi sono irrinunciabili per governare la globalizzazione. Una comune volontà politica USA-UE troverebbe invece pronte risposte non soltanto nei paesi già ad essi più prossimi, del Nafta, dell’America latina, dell’Europa dell’Est, dell’Oceania, ma anche da parte delle altre regioni del globo: la Federazione russa e le altre Repubbliche bisognose di finanziamenti non soltanto bilaterali per una transizione ordinata all’economia di mercato; il Medio Oriente, dal quale proviene una forte domanda di Europa; la Cina, economicamente ancora arretrata, ma in rapidissimo sviluppo e già oggi potenza militare in grado di decidere dell’ordine o del disordine in Asia; il Giappone, primo creditore Stati Uniti e loro tributario per la sicurezza; l’India e i paesi del Sud-Est asiatico, i protagonisti più dinamici della globalizzazione; l’Africa, disperata e disperante, che dopo essere stata teatro, come l’Asia, di tante guerre calde combattute in nome della guerra fredda, attende ora un piano keynesiano mondiale che consenta la sua pacificazione ed il raggiungimento di uno sviluppo umano almeno di sussistenza.
L’obiettivo di una moneta fiduciaria mondiale è reso attuale dalla rivoluzione tecnologica e dal modo di produzione mondiale. Sul piano tecnico/organizzativo si potrebbe proporre la fusione del Fondo monetario internazionale, della Banca dei regolamenti internazionali e della Banca mondiale in una World Federal Reserve Bank alla quale facciano capo, oltre alle funzioni che direttamente le competerebbero sulla traccia dei piani Keynes e Triffin, Agenzie specializzate per il finanziamento, anche attraverso la raccolta di capitali privati, di progetti che possono risultare efficaci soltanto se impegnano il mondo intero: innanzitutto un’Agenzia per l’Ambiente, una per la Sicurezza ed una per lo Sviluppo umano. La formula delle Agenzie, con sotto-agenzie talora coinvolgenti soltanto gli Stati interessati a determinati progetti, consentirebbe il massimo leverage finanziario rispetto ad un intervento pubblico iniziale. Parteciperebbero alla WFRB, oltre alla Fed ed alla BCE, altre Banche centrali regionali oppure le singole Banche centrali nazionali. L’attivo della WFRB sarebbe costituito dai prestiti concessi ai paesi in deficit, dalle partecipazioni nelle Agenzie e dai finanziamenti ad esse accordati; il passivo dai depositi dei paesi in surplus e dalla moneta fiduciaria emessa; il capitale proprio dalle quote versate dai partecipanti, in mezzi finanziari oppure in diritti di utilizzo di risorse strategiche (es. materie prime, fonti di energia) e in diritti di conservazione di risorse ambientali (es. foreste), così da consentire una partecipazione adeguata anche ai paesi che dispongono di tali risorse ma non di mezzi finanziari. Il ricorso alle risorse naturali non può comunque eliminare la necessità di una consistente distribuzione gratuita di quote a beneficio dei paesi più poveri.
Gli Stati (federali) di dimensione regionale rappresentano, allo stesso tempo, una fase nel corso della storia, quella che consente di liberarsi delle vecchie ideologie nazionali senza cadere nell’anomia; un livello organizzativo intermedio tra gli Stati nazionali e la Federazione mondiale, necessario anche in applicazione del principio di sussidiarietà; ed un motore del processo che porta all’unità della specie umana nel rispetto delle diversità, poiché non si vede come la Federazione mondiale possa nascere dall’iniziativa di innumerevoli Stati litigiosi piuttosto che da quella di pochi aggregati regionali pacificati. Le federazioni regionali non consentono ancora di affermare una coerenza piena fra lo spazio politico (sovranità), quello giuridico (proprietà), e quello economico (potere di utilizzazione e di disposizione).[61] Esse risolvono però al loro interno la maggior parte dei problemi e pongono all’ordine del giorno della storia la Federazione mondiale. Il completamento, con la costruzione del nuovo Stato federale europeo, del grande esperimento storico di superamento degli Stati nazionali costituisce la responsabilità specifica dell’Europa, verso sé stessa e verso il mondo intero, nel processo che condurrà un numero crescente di Stati, a cominciare dagli Stati Uniti e dalla Federazione russa, a comprendere che «la loro sicurezza è garantita più dalla cooperazione che dalla politica di potenza».[62]
[1] Paul Hirst e Grahame Thompson, La globalizzazione dell’economia, Roma, 1997 (1a ed. Globalization in Question, 1996).
[2] Lucio Levi, Alexander Hamilton e il federalismo americano, Torino 1965, p. 21. Il «sacro principio» fu enunciato da Patrick Henry, un giovane membro dell’assemblea legislativa della Virginia, il 30 maggio 1765.
[3] John Kenneth Galbraith, Il nuovo Stato industriale, Torino 1968 (1a ed. Industrial State, Boston 1967).
[4] John Maynard Keynes, A Tract on Monetary Reform, Londra 1923. Trad. it. La riforma monetaria, Milano 1975.
[5] John Maynard Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money, Londra 1936. Trad. it. cons.: Occupazione, interesse e moneta, Torino 1963.
[6] Robert Skidelsky, John Maynard Keynes. II. L’economista come salvatore 1920-1937, Torino 1996, pp. 756-61 (1a ed. John Maynard Keynes. II. The Economist as Saviour 1920-1937, Londra-Basingstoke 1992).
[7] Lionel Robbins, Il federalismo e l’ordine economico internazionale, Bologna 1985 (testi originari del 1937-40).
[8] Jacques Rueff, «Un danger pour l’Occident: le gold-exchange» in Le Monde, 27, 28 e 29 giugno 1961.
[9] Jacques Rueff, Le péché monétaire de l’Occident, Parigi 1971.
[10] Mario Albertini, «Le problème monétaire et le problème politique européen» in Le Fédéraliste, XIV (1972), pp. 77 segg.
[11] Guido Carli, «Prospettive di sviluppo nelle relazioni internazionali», in Euromoney, Londra, marzo 1970.
[12] Matt Marshall, The Bank, Londra 1999, Cap. 3 «The Guardian of German Orthodoxy».
[13] Altiero Spinelli, Pci, che fare?, Torino 1978.
[14] R. Skidelsky, op. cit., p. 531.
[15] Sulla costanza della «diversità» italiana si veda: Donald Sassoon, Cento anni di socialismo, Roma 1997 (1a ed. One Hundred Years of Socialism, 1996).
[16] Ricordo, fra tutti, Michael Bruno, Inflazione, crescita e controllo monetario: lezioni non lineari dalla crisi e dalla ripresa, Banca d’Italia, Lezioni Paolo Baffi di Moneta e Finanza, Roma 1994.
[17] Le tante opere teoriche e ricerche sul campo sono riassunte con felice tratto divulgativo nella sua autobiografia intellettuale: Franco Modigliani, Avventure di un economista, Bari 1999.
[18]Guido Carli, «L’eurodollaro: una piramide di carta?», Roma 1971, riprodotto negli Scritti di economia internazionale, Roma 1993.
[19] John Hicks, Saggi critici di teoria monetaria, Milano 1971, pp. 51-21 (1a ed. Essays in Monetary Theory, Oxford 1967).
[20] Jean-Paul Fitoussi, Il dibattito proibito. Moneta, Europa, povertà, pp. 88-108, (1a ed. Le Débat interdit. Monnaie, Europe, Pauvreté, Parigi 1995).
[21]J. Hicks, op. cit., pp. 48-9.
[22]Paolo Sylos Labini, Oligopolio e progresso tecnico, Torino 1964.
[23] Ernesto Rossi, Padroni del vapore e fascismo, Bari 1966.
[24] Eugenio Scalfari - Giuseppe Turani, Razza padrona. Storia della borghesia di stato, Milano 1974.
[25] Galbraith, 1993.
[26]Banca d’Italia, «Proprietà, modelli di controllo e riallocazione nelle imprese industriali italiane», Rapporto n. l al Convegno su «Assetti proprietari e mercato delle imprese», Roma, 24-25 marzo 1994; saggi di: F. Barca, M. Bianco, L. Cannari, C. Gola, G. Manitta, G. Salvo, L.F. Signorini.
[27] Mario Sarcinelli, Capitalismo, mercati, banche, Milano 1997, pp. 57-8. Il giudizio è formulato in risposta alla domanda: in che senso ritiene che Mediobanca abbia svolto un ruolo conservatore?
[28]Lester C. Thurow, Il futuro del capitalismo, Milano 1997, p. 79 (1a ed. The Future of Capitalism, 1996).
[29]Per una esposizione molto sintetica dei risultati della ricerca econometrica si veda: Dieter Biehl, «L’infrastrutturazione come determinante dello sviluppo regionale», in Sintonia, N. 3, Milano, marzo 1992.
[30] Ibidem.
[31]L.C. Thurow, op. cit., pp. 330-33.
[32]L.C. Thurow, op. cit., pp. 277-78.
[33] J.M. Keynes, Occupazione, interesse e moneta, cit., p. 29.
[34] Matt Marshall, op. cit., Cap 5, «The Monetary Jesuit».
[35] Guido Montani, «Il governo europeo dell’economia», in Il Federalista, XXXIX (1997), pp. 124-77.
[36] Pierluigi Ciocca (a cura di), Disoccupazione di fine secolo, Torino 1997, p. XVI.
[37] Jacques Delors - Giorgio Ruffolo, Sinistra di fine secolo, Milano 1997.
[38] Carlo Azeglio Ciampi (a cura di), Sfida alla disoccupazione, Bari 1996, pp. 98 e 105-106.
[39] Keynes, 1930.
[40] Giorgio Lunghini, «Politiche eretiche per la piena occupazione», in P. Ciocca (a cura di), op. cit., p. 270.
[41] Jacques Delors, «Per un nuovo modello di sviluppo», relazione presentata al congresso del Partito socialista europeo svoltosi a Malmoe dal 5 all’8 giugno 1997, pubblicata in Delors - Ruffolo, op. cit.
[42] Sergio Mariotti, «Il paradigma tecnologico emergente», in P. Ciocca (a cura di), op. cit., p. 116.
[43] G. Montani, op. cit., p. 156.
[44] Bollettino economico della Banca d’Italia, dicembre 1997.
[45] Tommaso Padoa-Schioppa, Il governo dell’economia, Bologna 1997, pp. 79-80. Si veda anche: Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa, High public debt: the Italian experience, Cambridge 1988.
[46] M. Albertini, «La crisi dello Sme», in Il Federalista, XXXV (1993), p. 125.
[47] L’affermazione del Presidente americano è citata da G. Jonathan Greenwald, già delegato presso l’Unione europea, in «Getting to know you. The US should adopt a more positive attitude towards the European Union», Financial Times del 22 ottobre 1997. Nello stesso servizio del F.T. Larry Summers, Sottosegretario al Tesoro degli Stati Uniti, sostiene: «Se l’unificazione monetaria è utile all’Europa lo sarà anche per noi», in «American eyes on Emu»
[48] Paul Volcker, Remarks at International ConferenceofBanca Nazionale del Lavoro, Roma, 19 novembre 1997, pp. 3-4 e 20.
[49] Paul Bairoch, Economia e storia mondiale, Milano 1996 (1a ed. Economicsand World History, Harvester Wheatsheaf, 1993).
[50] Friedrich List, Il sistema nazionale di economia politica, Milano 1972, p. 393 (1a ed. Das nationale System der politischen Oekonomie, 1841).
[51] Alfonso Jozzo, «La sfida per l'Europa della riduzione dell'orario di lavoro», in Il Federalista, XXXVI (1994), pp. 139-48.
[52] C. Fred Bergsten, «The dollar and the euro» in Foreign Affairs, Volume 76, n. 4, luglio/agosto 1997, pp. 83-95. Si veda anche: Wolfgang Munchau, «Dollar's domination could be ended by the euro», in Financial Times, 9 settembre 1997.
[53] L.C. Thurow, op. cit., pp. 162-64.
[54] Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, 1997 (1a ed. The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, 1996).
[55] L'Unione europea è di gran lunga al primo posto fra i fornitori delle Repubbliche della ex-Unione Sovietica, dei paesi mediorientali, della Cina, dell'India, dei paesi africani. Nel resto dell'Asia la penetrazione americana supera quella europea soltanto nei paesi che già durante la guerra fredda erano schierati con gli Stati Uniti o erano stati da essi piegati militarmente: Giappone, Filippine, Malesia, Singapore, Taiwan, Corea del Sud. In America latina gli Americani prevalgono soltanto in Venezuela e nei paesi andini, mentre l’Unione europea ha una quota di mercato più elevata in Brasile ed Argentina e pertanto una posizione più forte in tutto il Mercosur (che include anche Paraguay, Uruguay, Cile e Bolivia). In Oceania la penetrazione europea supera quella americana di pochi punti.
[56] Citato da Federico Rampini in «Gli euro-timori dei signori del dollaro» «Affari e Finanza di Repubblica» del 24 novembre 1997.
[57] Roy Forbes Harrod, La vita di J.M. Keynes, Torino 1965 (1a ed. The Life of John Maynard Keynes, Londra 1951).
[58] R. Triffin, «The World Monetary Scandal: Sources… and Cures?» raccolto in: Robert Triffin, Dollaro, euro e moneta mondiale, Bologna 1997, cap. 10, pp. 254-55.
[60] T. Padoa-Schioppa, L'Europa verso l'unione monetaria, Torino 1992, pp. 116-17.
[61] François Perroux, L'économie du XXème siècle, Parigi 1964. Tr. it. L'economia del XX secolo, Milano 1967.
[62] Lucio Levi, «Le quattro globalizzazioni», in Federalismo nel mondo, Torino, aprile 1998.