IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLIII, 2001, Numero 2, Pagina 101

 

 

La riforma della politica agricola comune
e la Costituzione europea
 
ALFONSO SABATINO
 
 
L’agricoltura europea all’appuntamento del nuovo millennio.
 
Lo stato dell’agricoltura europea all’inizio del nuovo millennio non appare certamente brillante. Dopo i nuovi casi di «mucca pazza» e l’epidemia di afta epizootica, due fenomeni che ormai interessano gli allevamenti animali in numerosi paesi membri dell’Unione europea (UE), si è diffuso presso i consumatori e gli agricoltori più coscienti un orientamento forte e comune a favore dei prodotti garantiti e della tutela dell’ambiente rurale. All’allarme sanitario e ambientale si aggiungono le pressioni internazionali per l’apertura ulteriore dei mercati europei alle importazioni di derrate provenienti dai grandi paesi produttori e dal mondo in sviluppo, nonché le difficoltà dell’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica. Le scadenze per affrontare questi problemi sono ormai vicine: a novembre 2001 dovrebbero riprendere in Qatar i negoziati agricoli in ambito WTO[1] sospesi a Seattle nel 1999; nel 2002 è previsto un riaggiustamento di metà percorso dell’Agenda 2000 per i regimi dei cereali, delle oleaginose e delle spese agricole, al quale nell’anno successivo dovrebbe seguire una revisione delle quote latte, mentre non è ancora fissata una data precisa per la revisione del regime delle carni. Infine, il Consiglio europeo di Nizza del 7-10 dicembre 2000 ha ribadito che a partire dal 2003 avranno luogo le prime adesioni dei paesi candidati.
Si può affermare, pertanto, che l’agricoltura europea si trova all’inizio del nuovo millennio di fronte a tre sfide settoriali interdipendenti che ne mettono in discussione l’identità e il destino. Le tre sfide sono: l’allargamento dell’Unione europea ai paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica, e successivamente alla Turchia; l’affermazione del carattere multifunzionale dell’economia rurale, a seguito della rivoluzione tecnologica e delle istanze crescenti per la tutela dell’ambiente e della salute; e l’apertura del ciclo negoziale del Millennium Round dal quale dipende il futuro del WTO.
Le tre sfide mettono in discussione obiettivi, principi, meccanismi e risorse della principale politica comune realizzata dalla Commissione europea: la politica agricola comune (PAC). Il dibattito sulla politica agricola europea è conseguentemente molto acceso in questi mesi ed è alimentato anche da interessi protetti, da tentazioni protezionistiche e da piani governativi per la rinazionalizzazione della politica agricola. Manca tuttavia a livello europeo un dibattito adeguato e democratico sulle finalità, gli obiettivi, gli strumenti e i mezzi della politica agricola per definire una strategia globale in cui gli obiettivi interni della produzione, in termini quantitativi e qualitativi, le garanzie per la salute animale ed umana, la tutela del territorio, siano resi compatibili con gli obiettivi esterni, ossia con il ruolo che l’Europa deve recitare nel mondo ai fini della sicurezza e dello sviluppo.
Occorre quindi individuare la natura della sfida per comprendere ciò che è ancora valido per la PAC e definire, eventualmente, una nuova politica. Il punto principale da sottolineare è che da tempo la PAC, nonostante i suoi meriti, è sotto accusa per le deviazioni, i privilegi e gli sprechi che la caratterizzano, ma finora nessuna riforma è venuta a capo del problema. L’agricoltura europea attende da anni una riforma incisiva, che definisca la sua nuova identità multifunzionale nell’ambito dell’economia rurale, un nuovo «patto sociale», e non la trova a causa degli interessi protetti e del metodo intergovernativo che finora ha caratterizzato il governo dell’Unione europea. Ogni decisione finisce con l’essere il frutto di laboriosi compromessi tra i ministri dell’agricoltura dei paesi membri, spesso condizionati sul piano elettorale da lobby agricole nazionali. Ciò contrasta con l’interesse generale europeo per un’agricoltura moderna, competitiva sul piano internazionale e capace di apporti positivi all’ambiente e alla salute dei cittadini, degli animali e delle piante.
 
L’impostazione strategica iniziale della politica agricola comune.
 
Le preoccupazioni per un’agricoltura di qualità, non nociva alla salute delle persone, degli animali e delle piante, le rivendicazioni di una crescita sostenibile ed eco-compatibile, che oggi dominano il dibattito sul futuro della Terra e sul modello europeo, sono certamente molto diverse da quelle che ispirarono l’impostazione della politica comune negli anni ‘50.
La PAC fu concepita dai sei paesi fondatori della Comunità economica europea (CEE) nel contesto difficile del dopoguerra e della nuova situazione di potere bipolare. Solo la Francia si presentava allora con una produzione cerealicola eccedente, mentre la nuova Repubblica federale di Germania risultava monca delle regioni agricole tedesche centro-orientali e presentava un forte deficit per i prodotti alimentari. Gli altri paesi potevano apportare le loro complementarità al progetto comune: il gruppo del Benelux si distingueva nel campo delle produzioni animali e, a sua volta, l’Italia disponeva, ma solo per ragioni ambientali, di un vantaggio comparativo nelle produzioni mediterranee.
Gli Europei avevano poi alle spalle la crisi agraria degli anni 1929-32, le privazioni alimentari sopportate nella prima e nella seconda guerra mondiale e l’imperativo strategico di sviluppare la loro produzione agricola per conseguire la sicurezza negli approvvigionamenti alimentari, messa a dura prova dal blocco di Berlino e dalla guerra di Corea, e dovevano eliminare il pesante saldo negativo della bilancia dei pagamenti. L’agricoltura europea, inoltre, si presentava nel suo insieme tecnicamente arretrata, ancora segnata da condizionamenti feudali su larga parte del territorio, poco redditiva, esposta ai condizionamenti climatici e alle oscillazioni dei prezzi internazionali delle derrate.
Il confronto con l’agricoltura nord-americana, che durante le due guerre mondiali e la ricostruzione era divenuta il principale fornitore di cereali per i paesi europei, risultava schiacciante. Gli Stati Uniti avevano 400 milioni di ettari per 200 milioni di abitanti e solo 4 milioni di agricoltori. I sei paesi fondatori della CEE avevano invece a disposizione 65 milioni di ettari coltivabili, con 17,5 milioni di agricoltori, pari al 26% della popolazione attiva, e una produzione interna che copriva solo l’85% del fabbisogno alimentare della popolazione totale pari a 150 milioni di consumatori. Con l’occhio di oggi, il confronto permette di comprendere subito i differenti livelli di sviluppo tra le due agricolture negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Il migliore assetto dell’agricoltura statunitense era ovviamente dovuto al diverso percorso storico e politico, ma anche alle differenze strutturali che pesano tuttora sull’agricoltura europea a causa della configurazione del territorio nel vecchio continente, dei condizionamenti ambientali, dell’organizzazione della proprietà fondiaria, dell’articolazione socio-culturale delle campagne.
In ogni modo, dato il contesto iniziale descritto, la politica agricola comune ebbe come basi iniziali di riferimento sia le esperienze anticicliche condotte in Europa negli anni ‘30, sia il Farm Bill adottato negli Stati Uniti nello stesso periodo. I membri del Comitato Spaak che formularono il Rapporto del 1956, alla base del Trattato CEE firmato a Roma l’anno dopo, erano perfettamente informati sui successi delle politiche agricole di oltre Atlantico e dei benefici arrecati da un mercato continentale regolato. Ciò permise ai negoziatori di definire con precisione gli obiettivi di una politica comune all’art. 39 del Trattato: accrescere la produttività agricola, assicurare un livello di vita equo agli agricoltori, stabilizzare i mercati, garantire la sicurezza degli approvvigionamenti e assicurare prezzi ragionevoli ai consumatori. Il Trattato lasciò poi alle istituzioni il compito di definire ulteriormente i contenuti della PAC e le sole indicazioni fomite sugli strumenti riguardarono la creazione di un’organizzazione comune dei mercati agricoli e uno o più fondi finanziari.[2]
A distanza di anni, si può affermare che l’impianto della politica agricola comune venne realizzato in tempi sufficientemente rapidi e nel giro di un decennio portò all’organizzazione del mercato comune agricolo integrato e al conseguimento dell’obiettivo strategico dell’autosufficienza alimentare per cereali e carni. Infatti, a sei mesi dall’avvio della CEE, nel luglio del 1958, si tenne la Conferenza di Stresa, con la partecipazione dei ministri dell’agricoltura e dei rappresentanti delle organizzazioni professionali dei sei paesi, che permise di definire i principi base della politica comune, validi ancora oggi: unicità del mercato e dei prezzi interni della CEE, preferenza comunitaria, solidarietà finanziaria.
Sulla base dei risultati di Stresa, il 30 giugno 1960 la Commissione presentò al Consiglio le proposte per la successiva introduzione di sei organizzazioni comuni di mercato (OCM) per cereali, suini, uova, volatili, frutta e legumi, vino, di un Fondo europeo di orientamento e di garanzia agricola (FEOGA) e delle regole di finanziamento da parte del bilancio comunitario. I meccanismi introdotti sono ancora in funzione, sebbene siano stati riformati e integrati da ulteriori strumenti.
Le OCM costituiscono un insieme strutturato di meccanismi, articolati settorialmente, che nell’ambito di un regime di libera circolazione garantiscono prezzi comuni europei, misure di intervento per sostenere i prezzi sul mercato comunitario e un dispositivo che sorregge gli scambi con i paesi terzi.[3] Il FEOGA rappresenta il meccanismo finanziario e realizza gli interventi strutturali in cooperazione con gli Stati e gli interventi a difesa dei prezzi interni con il gettito di una parte consistente delle entrate autonome comunitarie, denominate «risorse proprie», espresse dai dazi doganali industriali, dai prelievi sulle importazioni agricole, dalla quota IVA, integrate in tempi più recenti dal crescente contributo a carico degli Stati membri dell’UE.[4]
 
Il contributo della politica agricola all’integrazione europea.
 
La ricerca di nuove soluzioni per la principale politica comune europea impone un esame oggettivo dei suoi successi e delle sue deviazioni.
Per quanto riguarda i primi, essi sono numerosi e significativi. Innanzitutto, va ribadito il contributo decisivo dato dalla PAC al conseguimento in pochi anni dell’obiettivo strategico dell’autosufficienza alimentare per la Comunità e la coerenza iniziale tra premesse, finalità, principi e strumenti adottati. I risultati non sono mancati anche su altri terreni e vale la pena di riportare alcune cifre da mettere a confronto con i dati di partenza della Comunità a sei. Alla fine degli anni ‘90, l’agricoltura dei 15 paesi membri si sviluppava su 134 milioni di ettari, esprimeva 7,4 milioni di aziende, 7,8 milioni di addetti, il 5% del totale degli occupati (nel 1970 erano ancora il 13,4%) e realizzava un valore pari a circa l’1,6% del Pil UE (nel 1970 ne esprimeva il 5,4%). La superficie media delle aziende è aumentata in quarant’anni da 13,3 a 17,4 ettari, mentre la superficie agricola totale è diminuita del 5,3%. Inoltre, va segnalata anche una sensibile evoluzione della presenza dell’Europa nel commercio mondiale dei prodotti agricoli. Sempre alla fine dello scorso decennio, l’Unione europea si poneva in questo settore al secondo posto sul versante delle esportazioni agricole con il 22,8% del totale mondiale, dopo l’America latina che raggiungeva il 24,7%, e al primo posto per le importazioni per una quota mondiale del 27%.[5]
In secondo luogo, la PAC è stata la prima e grande politica comune delle Comunità che ha combinato piano europeo e mercato attraverso l’orientamento strutturale e l’intervento a garanzia dei prezzi agricoli assicurati dal FEOGA, ha favorito l’accumulazione e incentivato il progresso tecnico e l’innovazione tecnologica, ha rallentato l’esodo della popolazione agricola a fronte del grande sviluppo dell’occupazione industriale. E’ stata la prima politica europea finanziata dalle «risorse proprie» del bilancio della CEE. Va aggiunto che la modernizzazione dell’agricoltura europea decollò immediatamente con l’avvio della PAC. In dieci anni, dal 1961 al 1971, l’indice di produttività del lavoro nella Comunità a sei (prodotto interno lordo per persona occupata), passò da 100 a 188 nell’agricoltura e da 100 a 166 nell’industria con una chiara riduzione dello scarto tra i livelli dei salari orari nei due settori.[6]
In terzo luogo, la PAC ha assicurato la libera circolazione dei prodotti agricoli tra i paesi fondatori della CEE e ha introdotto la prima unità monetaria europea: l’Unità di Conto europea (UCE), già negli anni ‘60, anticipando in tal modo il mercato unico dei prodotti industriali e dei servizi (1992) e l’introduzione dell’euro (1999). L’UCE era l’unità di conto per la gestione del bilancio CEE, ma anche l’unità nella quale venivano espressi i prezzi unici europei garantiti agli agricoltori. L’UCE aveva una parità 1 a 1 con il dollaro degli Stati Uniti e il rapporto di cambio delle singole valute degli Stati membri con il dollaro permetteva di definire i valori dell’UCE in valuta nazionale (le «monete verdi») per i prezzi di intervento sui singoli mercati nazionali. Si può aggiungere che il funzionamento del mercato comune agricolo è stato distorto, a un certo punto, dall’intervento di fattori esterni, quali il disordine monetario europeo degli anni ‘70 e ‘80 e la conseguente introduzione dei montanti compensativi monetari (vedi paragrafo successivo).
In quarto luogo, la PAC è stata decisiva per il funzionamento dell’unione doganale industriale. Non si poteva realizzare la libera circolazione dei prodotti industriali senza la libera circolazione dei prodotti agricoli. Ciò era coerente con gli interessi che hanno sempre accompagnato sul piano economico l’asse politico franco-tedesco: se la libera circolazione dei prodotti industriali ha favorito la Germania, la politica agricola ha trovato nella Francia il maggiore beneficiario. Inoltre, va sottolineato che la persistenza delle politiche agricole nazionali avrebbe condizionato negativamente la competitività industriale dei paesi partecipanti, determinando spinte inflazionistiche differenziate secondo i livelli dei prezzi interni o di importazione delle derrate alimentari, come poi di fatto è avvenuto durante gli anni del disordine monetario europeo.
In quinto luogo, la PAC ha difeso il mercato interno dalle perturbazioni dovute alle oscillazioni nei prezzi internazionali, con benefici sia per i produttori che per i consumatori europei.[7] Questo è un punto decisivo anche per porre su un terreno corretto il dibattito su libero scambio e intervento politico in economia. La scelta fatta con la PAC rimane ancora valida nei confronti di coloro che sostengono che sia conveniente specializzare l’economia europea nella produzione di beni industriali e dei servizi e ricorrere al mercato mondiale per l’approvvigionamento delle derrate alimentari e dei prodotti agricoli di uso industriale. La difesa del mercato interno ha infatti evitato ai consumatori europei il ricatto dei produttori che monopolizzano il commercio mondiale di alcune derrate alimentari. Senza la PAC, l’Europa avrebbe dovuto pagare la bolletta dell’«oro verde» accanto a quella onerosa dell’«oro nero».
In sesto luogo, la PAC ha avuto un costo contenuto. L’onere globale annuo addossato alle finanze comunitarie è stato in media intorno allo 0,6% del Pil UE, al quale va aggiunto un altro 0,6% a carico degli Stati membri. Si può dedurre che con risorse annuali pari a poco più dell’1% del Pil è stata condotta nella CEE, nel bene e nel male, una politica strategica e vincente di sviluppo dell’agricoltura, di autonomia alimentare e, va detto, di pace sociale nelle campagne. Quando si discute dei costi elevati della PAC si dimentica di sottolineare che gli stessi grandi paesi sostenitori del liberoscambismo in agricoltura spendono complessivamente per singolo agricoltore più di quanto faccia l’UE, mantengono monopoli di Stato per il commercio estero delle derrate e agevolano ampiamente in forme diverse le esportazioni delle loro eccedenze. Gli Stati Uniti destinano alla politica agricola federale il 2% delle loro risorse.[8]
 
Le alterazioni della politica agricola comune.
 
Le considerazioni sui successi e sul costo relativo della PAC non tolgono che tale politica abbia prodotto nel tempo eccedenze e distorsioni nelle produzioni agricole che avrebbero potuto essere evitate con una tempestiva riforma non appena gli obiettivi iniziali di autonomia alimentare furono conseguiti. Allo stesso modo, non sono state rispondenti alla natura del problema la gestione della crisi valutaria degli anni ‘70 e ‘80 e l’impostazione della politica commerciale esterna.
In realtà, la politica agricola è rimasta vittima dell’approccio funzionalista dell’integrazione europea, realizzata nell’ambito dei Trattati, e dell’assenza di un governo europeo sovranazionale e dei relativi meccanismi politici democratici di assunzione delle decisioni politiche. Il confronto con la realtà politica degli Stati Uniti permette di chiarire il problema. In America, la Presidenza e il Congresso, pur essendo fortemente condizionati entrambi dalle lobby agricole locali e da interessi articolati contrapposti, gestiscono la politica agricola come bene pubblico di interesse federale. L’agricoltura entra nell’equazione complessa del potere di Washington in modo che approvvigionamento alimentare e industriale, livello dei prezzi, redditi agricoli, ricerca e applicazioni scientifiche (vedi il caso delle biotecnologie), tutela dell’ambiente (poca) e della salute (vedi l’attenta Drug and Food Administration) e volumi di spesa pubblica dedicata si combinano anche con l’uso del «potere alimentare» nella politica estera, come accade quando si delinea un cattivo raccolto in Cina, in Russia o nel mondo in sviluppo. Gli Europei, d’altra parte, ebbero modo di beneficiare di questo approccio ai tempi della guerra e dell’immediato dopoguerra.
La politica agricola europea si è trovata invece isolata da tutti i principali strumenti complementari di intervento (lo strumento monetario per garantire l’unicità dei prezzi, lo strumento finanziario per definire le risorse da destinare alla politica strutturale nelle campagne, lo strumento della politica estera per inserire le politiche interne nel quadro delle compatibilità e delle opportunità offerte dalle relazioni con il resto del mondo). Diversamente dagli Stati Uniti, la Commissione può solo avanzare proposte, mentre il Parlamento europeo può solo esprimere pareri su tutte le questioni decisive che interessano la politica agricola, dalle spese per la garanzia dei prezzi, alla fiscalità, dal bilancio alla stessa modifica dei Trattati e, pertanto, è privo di qualsiasi influenza decisiva sulla riforma della PAC. L’unico organo comunitario che dispone del potere decisionale è il Consiglio dei Ministri dove sono ovviamente rappresentati gli interessi nazionali e il compromesso vincente è quello che riflette gli interessi di parte prevalenti. Il deficit istituzionale è emerso non appena è stato conseguito l’obiettivo sostanzialmente definito e comune dell’autosufficienza alimentare e si sono delineate le scelte politiche per il futuro. In assenza di meccanismi politici europei sovranazionali di decisione e di realizzazione, la definizione delle nuove finalità, degli obiettivi, degli strumenti, del ruolo dell’agricoltura nella società europea e nel mondo è rimasta impigliata nelle mani dei governi nazionali e degli interessi protetti.
Tutto ciò permette di dare una spiegazione a tre grandi alterazioni della politica comune: la deviazione della politica di piano e il governo del mercato, l’introduzione dei montanti compensativi monetari, la politica commerciale verso il resto del mondo.
Per quanto riguarda la politica di piano e il governo del mercato, ciò che è accaduto è riconducibile, sul piano politico e tecnico, alle seguenti ragioni:
1) l’unico elemento di programmazione che ha potuto funzionare, in un quadro di potere imperfetto, di natura intergovernativa, è stato l’intervento sui prezzi, i cui livelli sono stati sempre patteggiati tra i livelli minimi e massimi richiesti dai ministri nazionali dell’agricoltura e dalle loro lobby;
2) il sistema dei prezzi agricoli e del ritiro delle eccedenze prodotte a un prezzo garantito ha favorito un aumento progressivo della produzione a un ritmo superiore alle capacità di assorbimento del mercato annuo (+2% contro lo 0,5% nei consumi);
3) il sistema per lungo tempo non ha posto limiti quantitativi alla produzione e al ritiro delle eccedenze; sono stati creati di conseguenza costosi stoccaggi e tensioni nelle relazioni con alcuni partners commerciali mondiali che risentivano dell’impatto delle esportazioni europee sovvenzionate;
4) la produzione intensiva, stimolata dalla garanzia del prezzo di intervento, ha avuto ripercussioni negative sull’ambiente, ha favorito la diffusione della monocultura e la scomparsa di migliaia di varietà vegetali tradizionali, spazzate via da alcune varietà più redditizie, nonché l’affermazione di sistemi di allevamento e di concimazione che hanno prodotto una rottura dell’equilibrio tra l’uomo, la natura e gli animali (mucca pazza, diossina, nitrati);
5) il regime dei prezzi ha favorito le imprese più grandi e competitive poiché non teneva adeguatamente conto dei redditi agricoli della stragrande maggioranza delle aziende piccole e medie a costo marginale;
6) di fronte alla difficoltà di rimuovere le cause strutturali del sottosviluppo nelle aree mediterranee, gli interventi a favore delle produzioni ortofrutticole e del vino hanno assunto carattere assistenzialistico, alimentando anche in questi settori sovrapproduzioni e sprechi;
7) il sistema di garanzia ha creato una situazione particolarmente difficile tra paesi UE pagatori netti e paesi UE beneficiari netti a causa del continuo aumento delle spese che hanno finanziato per anni lo spreco piuttosto che la crescita sostenibile.
Si può aggiungere ancora che la garanzia dell’intervento (in pratica, il ritiro delle eccedenze a un prezzo garantito per non fare crollare i prezzi), oltre ad allontanare l’impresa agricola dal mercato e a creare interessi protetti (molte imprese hanno prodotto per l’intervento e non per il mercato), ha finito con l’alimentare un effetto rendita che ha mantenuto elevato il valore della terra e quindi reso più difficile la compravendita fondiaria e la nascita di imprese agricole efficienti.
La seconda grande alterazione della politica agricola europea è riconducibile al tentativo di creare un mercato comune senza avere una moneta unica. Una moneta comune,[9] però, esisteva già in Europa negli anni ‘50 e ‘60: era il dollaro, il quale, nell’ambito del sistema monetario internazionale a cambi fissi creato a Bretton Woods nel 1944, costituiva la valuta di riferimento per tutte le monete nazionali europee. I montanti compensativi monetari che alterarono il regime dei prezzi unici europei furono infatti introdotti con la crisi dei cambi fissi. La crisi emerse alla fine degli anni ‘60 con la svalutazione della sterlina (1967), ma ebbe impatto sulla politica agricola solo nel 1969, quando in agosto il franco francese fu svalutato dell’11,1 % e in ottobre il marco tedesco fu rivalutato del 9,25%. Fu allora introdotto un meccanismo che doveva essere transitorio e invece fu consolidato dalla crisi definitiva del sistema monetario internazionale con l’abbandono della convertibilità aurea del dollaro statunitense da parte del Presidente Nixon il 15 agosto 1971 e la successiva generalizzazione delle fluttuazioni valutarie.
Il meccanismo adottato rispecchiava chiaramente la pressione delle organizzazioni agricole sui rispettivi governi. La crisi del franco e del marco, e poi delle altre monete europee, alterò il sistema dei prezzi espressi in UCE che aveva la funzione di mantenere l’unicità istituzionale dei prezzi agricoli negli scambi tra paesi membri. Per garantire la libera circolazione dei prodotti agricoli all’interno del mercato comune i prezzi unici europei furono mantenuti. Tuttavia, contrariamente a quanto avveniva nel mercato comune per i prodotti industriali, al fine di evitare il trasferimento degli effetti inflazionistici nei paesi a moneta svalutata e la compressione dei redditi agricoli nei paesi a moneta rivalutata, i prezzi agricoli nazionali furono lasciati ai loro livelli per essere tradotti in prezzi europei unici sulla base di «tassi verdi» di conversione. Inoltre, per evitare movimenti commerciali speculativi, con aumento della domanda dei prodotti dei paesi a moneta debole e compressione della domanda dei prodotti dei paesi a moneta forte, fu introdotta una tassa sulle esportazioni dei primi (montanti compensativi monetari negativi) e una sovvenzione all’esportazione per i secondi (montanti compensativi monetari positivi). Il meccanismo si rivelò molto costoso e fu anche sottoposto a revisioni. Oggi si può affermare che i montanti hanno certamente garantito la libera circolazione dei prodotti, senza discriminazioni, all’interno del mercato comune e verso i paesi terzi, ma hanno favorito, allo stesso tempo, una rinazionalizzazione della politica agricola, soprattutto a beneficio dei paesi a moneta forte, la cui competitività è stata protetta dai montanti monetari. Solo con l’introduzione della moneta unica nel 1999 è stato possibile avviare la transizione per la rimozione dei montanti compensativi.
La terza alterazione riguarda l’assenza di una strategia coerente nella gestione della politica commerciale agricola. La politica commerciale estera avrebbe richiesto, come la moneta unica,[10] la creazione dello Stato federale europeo. La mancanza di un governo sovranazionale capace di elaborare una strategia coerente e responsabile delle relazioni esterne ha esposto ripetutamente la CEE ai diktat espressi dalle amministrazioni statunitensi al tavolo dei negoziati GATT sulla liberalizzazione degli scambi. In altri casi, ha indotto la Commissione e i ministri nazionali a fare concessioni commerciali ai paesi terzi, in ossequio a un mal compreso liberismo o a interessi protetti, che non si conciliano con la difesa dell’economia e dell’ambiente rurale in aree regionali specifiche.
E’ emblematico ricordare che, a seguito dell’apertura alle importazioni a tasso zero della manioca, della soia e del glutine di mais, chiesta dagli Stati Uniti negli anni ‘70, in Europa divenne ancor più conveniente l’allevamento animale, che prima doveva contare per il mangime sui cereali europei più costosi, sul pascolo e la produzione di erba medica, con due conseguenze negative: l’aumento delle produzioni di carni e di latticini, e l’aumento delle eccedenze di cereali a causa della compressione della domanda interna per la stessa concorrenza dei detti mangimi animali importati. Si può aggiungere per inciso che l’UE, ancora non può agevolare la propria produzione di soia, né sovvenzionare la triturazione delle proteaginose che entrano nei mangimi animali a seguito delle intese raggiunte in sede GATT.
A fronte degli eccessivi stoccaggi, la Comunità colse l’opportunità della crisi agricola in Unione Sovietica negli anni ‘80 per esportare a prezzi sovvenzionati le proprie eccedenze di cereali, carni e prodotti del latte, sottraendo quote di mercato agli Stati Uniti e agli altri grandi produttori e diventando provvisoriamente il primo esportatore di prodotti agricoli mondiali. Ciò aprì con Washington e altre capitali un aspro contenzioso, chiuso solo nel 1995 con l’Accordo sull’agricoltura di Marrakech che introdusse la riduzione in tre anni degli aiuti interni all’agricoltura del 20%, l’abbattimento in sei anni del 36% delle sovvenzioni all’esportazione e infine la liberalizzazione dell’accesso ai mercati attraverso la sostituzione di tutte le misure di protezione alle frontiere con l’introduzione di «equivalenti tariffari», in pratica con dazi all’importazione da ridurre del 36% in sei anni.
Allo stesso modo, suona come una misura di politica commerciale non sufficientemente meditata l’apertura alle importazioni di riso, di carni e di fiori dai paesi terzi che finisce col mettere in crisi l’economia rurale di vaste aree colturali, con ricadute negative sulla tutela dell’ambiente e del territorio europeo, senza potere dare in cambio un contributo decisivo ai problemi dello sviluppo nei paesi esportatori, come avremo modo di vedere successivamente.
 
I tentativi di riforma tra vincoli interni e internazionali.
 
Gli effetti perversi della politica comune sulla politica dei prezzi non sono un fatto recente: essi si manifestarono abbastanza presto, non appena si profilò il conseguimento dell’autosufficienza alimentare. Un primo tentativo di correzione degli strumenti fu avanzato con il piano di modernizzazione europea dell’ex-Commissario Sicco Mansholt. Il suo Memorandum (1968), nonostante il suo scarso seguito per le reazioni delle organizzazioni professionali, mantiene ancora oggi una sua validità per avere posto le basi per gli orientamenti successivi. Nelle intenzioni di Mansholt, l’intervento strutturale doveva essere prioritario e strategico, mentre la politica dei prezzi interni doveva solo essere uno strumento temporaneo e di breve periodo, una rete di sicurezza per porre gli agricoltori al riparo dalle fluttuazioni congiunturali e accompagnarli nella transizione strutturale.
Come sviluppo successivo si può ricordare che nel 1972 il Consiglio dei Ministri emanò tre direttive socio-strutturali, sugli investimenti, sull’abbandono della professione agricola e sulla formazione, che successivamente aprirono la strada alle misure di pre-pensionamento degli agricoltori e di riconversione, agli aiuti agli investimenti selettivi con i piani di sviluppo, alle misure a favore della commercializzazione e della trasformazione dei prodotti agricoli, ai programmi di sviluppo settoriale o regionali, agli aiuti ai raggruppamenti di produttori e alle misure di sostegno regionale per le zone di montagna e le regioni sfavorite.
E’ significativo ancora sottolineare che la PAC, nonostante i vincoli intergovernativi della CEE e degli interessi protetti, sia riuscita a recepire gradualmente un’attenzione crescente per un nuovo ruolo dell’agricoltura, che l’allontana dagli obiettivi iniziali di crescita quantitativa. Nel corso degli anni ‘80 si è affermata poi un’attenzione sempre più diffusa per le politiche strutturali e lo sviluppo rurale, a cominciare dai Programmi integrati mediterranei del 1985 rivolti a modernizzare l’agricoltura delle regioni meridionali dell’Europa dopo l’allargamento a Grecia, Spagna e Portogallo. Un primo vero progetto nacque però solo con la riforma dei fondi strutturali del 1988 realizzata da Jacques Delors. Fu introdotto il meccanismo plurifondo, combinando le potenzialità di intervento del Fondo europeo regionale di sviluppo (FERS), del Fondo sociale europeo (FSE) e del FEOGA. Il settore rurale è divenuto da allora oggetto di una politica specifica, con obiettivi, principi, strumenti e mezzi finanziari, che è stata perfezionata gradualmente attraverso la riforma realizzata dal Commissario europeo Mac Sharry nel 1992, il Trattato di Maastricht, entrato in vigore il 10 novembre 1993 (v. Art. 130), il Documento sulla strategia agricola del dicembre 1995, la dichiarazione finale della Conferenza di Cork del 7-9 novembre 1996 che ha riconosciuto il carattere multifunzionale dell’agricoltura e il suo ruolo chiave nel settore rurale, la semplificazione della gestione complessa dei Fondi agricolo, regionale e sociale attraverso la creazione del Forum della coesione economica e sociale (primavera 1997).
Accanto a questi sviluppi interessanti va segnalato che, alla fine degli anni ‘80, l’urgenza di una riforma diventò sempre più evidente per ragioni interne (la crescita degli stock e delle spese comunitarie) e per vincoli internazionali (il negoziato GATT). L’esito del dibattito portò alla citata riforma Mac Sharry del 1992, alla quale va attribuito il merito di avere riconosciuto gli effetti negativi dell’eccessiva intensificazione dell’agricoltura sul territorio rurale, di avere ricordato la necessità di porre sotto controllo l’uso delle risorse idriche, di avere sottolineato l’opportunità di limitare la maggiore specializzazione e l’incremento della dimensione delle imprese, mettendo in evidenza i vantaggi ambientali e i ritorni economici ed occupazionali offerti dall’agricoltura biologica, dall’agricoltura mista e dalla rotazione tradizionale delle colture.
La riforma Mac Sharry ha cercato, per la prima volta, nell’ambito dei rapporti di potere intergovernativi, di avviare un’inversione di tendenza nel sostegno delle attività agricole: sono stati mantenuti i principi, ma sono cambiati i meccanismi, passati dal sostegno dei prezzi al sostegno dei redditi. Essa fu impostata per i cereali perché questo settore, come abbiamo visto, non poteva profittare di aumenti nella domanda per l’alimentazione animale a causa dei prezzi interni troppo elevati e di una concorrenza sempre più viva dei sostituti dei cereali, quali soia, manioca e glutine di mais, che la Comunità europea aveva ammesso all’importazione senza dazi a causa delle pressioni internazionali. In pratica, al fine di limitare la produzione interna e avvicinare i prezzi a quelli praticati dal mercato mondiale, la riforma del 1992 ha determinato una riduzione dei prezzi nel settore dei seminativi (-29%) e delle carni bovine (-15%), l’istituzione dei pagamenti compensativi a sostegno dei redditi degli agricoltori, l’introduzione di premi per la messa a riposo delle terre ai fini del controllo della produzione, il varo delle misure di accompagnamento agro-ambientali, di rimboschimento e di prepensionamento (il 50% degli agricoltori ha più di 55 anni di età). La riforma ha interessato anche il regime delle piante oleaginose, il rapporto tra carni bovine e carni bianche, la riduzione delle quote latte del 2%, ma non ha modificato i regimi del tabacco e della carne ovina.
La riforma Mac Sharry ha avuto il merito immediato di abbattere in pochi anni le scorte di cereali da 30 milioni di tonnellate nel 1993 a 3 milioni nel 1995, di ridurre i seminativi e l’uso di fertilizzanti e fitofarmaci, di aumentare l’utilizzazione dei cereali nell’industria comunitaria. E’ stato quindi realizzato, a parere di molti, un atterraggio morbido nella riduzione dei prezzi istituzionali e della protezione attraverso l’armonizzazione degli interventi al commercio mondiale, la riduzione delle eccedenze agricole e il contenimento dei prezzi alla produzione. Allo stesso tempo, la riforma del 1992 non è riuscita a venire a capo di altri difetti strutturali, determinando invece un aumento delle spese comuni a carico del bilancio comunitario per via degli oneri spostati dal consumatore al contribuente, ha mantenuto il sostegno alla rendita, le quote produttive e ha aumentato lo squilibrio tra produttori continentali e produttori mediterranei.
In ogni modo l’esito della riforma Mac Sharry fu propedeutico per affrontare il negoziato agricolo GATT del 1995 a Marrakech in condizioni di minore debolezza contrattuale.
 
L’Agenda 2000 e le nuove sfide per l’agricoltura europea.
 
Fino ad oggi, la cooperazione tra i governi degli Stati membri dell’UE ha impostato in modo assolutamente limitato i processi di riforma sulla base di una duplice spinta di vincoli interni ed esterni. I vincoli interni sono dovuti alla crescita della spesa per la politica agricola e alle frizioni che questa ha creato nei rapporti tra i paesi membri, rispettivamente finanziatori netti degli oneri e beneficiari netti delle risorse. I vincoli esterni sono riconducibili alle pressioni internazionali per l’apertura delle frontiere comunitarie, spesso dovute a ritorsioni per le esportazioni comunitarie sotto costo. Anche il compromesso realizzato dal Consiglio europeo di Berlino nel marzo del 1999 sull’Agenda 2000, in merito alla politica agricola comune e all’allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica, riflette principalmente l’equilibrio tra la difesa degli interessi agricoli nazionali e i vincoli di bilancio.
Il paradosso che emerge, soprattutto dal compromesso raggiunto sulle risorse di bilancio, è che l’Agenda 2000 contribuisce a frenare l’integrazione europea invece di rafforzarla ed estenderla. La preoccupazione principale adottata è stata quella di mantenere ferma in termini percentuali la dimensione del bilancio comunitario entro il tetto dell’1,27% del Pil totale dell’UE per il periodo 2000-2006, subordinando gli obiettivi di interesse generale e strutturali dell’allargamento alle risorse disponibili. Ciò è la conseguenza del progressivo inaridimento delle «risorse proprie» che finanziano il bilancio della Comunità europea (dazi doganali, prelievi agricoli, e quota IVA), soprattutto per effetto delle politiche di liberalizzazione del commercio internazionale e di riduzione tariffaria. Nel 1999 è stato valutato che l’insieme delle «risorse proprie» fosse inferiore al 50% del bilancio comunitario (con la somma del gettito dei dazi e dei prelievi al di sotto del 15%), mentre la parte rimanente era finanziata dal contributo Pnl posto a carico dei bilanci nazionali. Di qui una serie di confronti ragionieristici di ispirazione «thatcheriana»: la Germania versa il 28% del bilancio comunitario e riceve il 14,1% del totale e una quota dello stesso livello per l’agricoltura, la Francia versa il 17,5%, riceve il 17,1, ma per la spesa agricola la quota sale al 22,5%. L’Italia eroga l’11,5% del totale, riceve l’11,8% e per l’agricoltura il 12,5%, e così via di seguito. In questo contesto le conclusioni politiche sono obbligate: ciascun paese UE cerca di minimizzare i propri contributi e di massimizzare i ritorni del bilancio comunitario, ma il minimo comune denominatore generale diventa la limitazione delle risorse disponibili per le politiche comunitarie.
Questo risultato rappresenta una vera contraddizione per le ambizioni dell’UE e le nuove sfide che si affacciano a partire da quella cruciale dell’allargamento. La grave contraddizione è resa evidente dal confronto con gli Stati Uniti: in Europa i governi dei paesi membri bloccano le risorse del bilancio comunitario all’1,27% del Pil totale per il periodo 2000-2006 e presentano tale risultato come un grande successo, mentre il governo degli USA può contare su una massa di risorse pari al 20% del Pil.
Con l’allargamento all’Europa centro-orientale, l’Unione europea conferma e rafforza il suo primato di potenza commerciale mondiale e, allo stesso tempo, accusa due ricadute strategiche nei rapporti internazionali. La prima riguarda il fatto che essa rappresenta un modello innovativo, produttivo e sociale, di integrazione sovranazionale tra sistemi produttivi differenziati nell’ambito del quale può realizzarsi un’efficace combinazione di piano (obiettivi, principi, strumenti e interventi) e mercato continentale (libera circolazione delle persone, dei prodotti, dei capitali e dei servizi) per la realizzazione di un’agricoltura polifunzionale e tecnologicamente avanzata (ambiente, economia rurale, ricerca e occupazione). La seconda ricaduta è il rafforzamento del suo interesse, come prima potenza commerciale del mondo, per lo sviluppo di un commercio internazionale ordinato tra aree regionali mondiali con livelli differenziati di sviluppo.
Le tre sfide, l’allargamento, l’agricoltura polifunzionale e il commercio internazionale ordinato, debbono essere esaminate più approfonditamente anche per le opportunità che offrono all’Unione europea. Va però subito chiarito che queste tre sfide richiedono un aumento limitato delle risorse per il bilancio della Comunità europea in quanto il problema in gioco reale è la capacità di governo democratica dell’Unione europea che oggi entra in crisi anche quando si devono aumentare dello 0,25% le risorse disponibili per le politiche comuni. La riforma agricola europea dipende pertanto da una profonda revisione dei meccanismi politici di decisione che vanno democratizzati e sottratti al dominio esclusivo dei rapporti intergovernativi.
 
L’allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica (PECO).
 
L’Europa centro-orientale e balcanica ha gravi problemi ambientali, presenta dipendenza alimentare e deve riorganizzare profondamente il sistema produttivo e distributivo. Dopo la caduta dei regimi comunisti, le privatizzazioni hanno innescato in questi paesi una vasta, ma ancora insufficiente, ristrutturazione del sistema agro-alimentare e della trasformazione dei prodotti primari in particolare. Secondo il documento Agenda 2000: «L’agricoltura è un settore relativamente più importante nei paesi candidati all’adesione che negli Stati membri dell’UE in termini di superficie, contributo al Pil, e soprattutto per la quota di occupati rispetto al totale della popolazione attiva. In media, in questi paesi l’agricoltura assorbe più del 22% della forza lavoro, cioè un totale di 9,5 milioni di persone e rappresenta ancora il 9% del Pil, mentre nell’UE gli occupati in agricoltura sono il 5%, ovvero 8,2 milioni, e contribuiscono per il 2,4% al Pil». Inoltre, la produttività del lavoro PECO è appena al 6% di quella UE, mentre la produttività della terra è pari al 16%. Esiste quindi un’ampia possibilità di crescita della produzione agricola grazie all’accelerazione dei processi di modernizzazione che potrebbero permettere di attivare il potenziale produttivo locale in tempi brevi. Allo stesso tempo, con l’allargamento «cresce di 60 milioni di ettari (del 40%) la dotazione di terra agricola. Due terzi dei 60 milioni di ettari supplementari sarebbero costituiti da seminativi, che farebbero aumentare del 55% la superficie attuale a seminativi dell’UE pari a 77 milioni di ettari, anche se si tratta di terreni di diversa qualità ed esposti a condizioni climatiche differenti». Aumenti di offerta si avrebbero anche per barbabietole, latte e carne.[11]
Dal punto di vista prospettico, per i Quindici si pone il problema di allargare ai nuovi paesi membri le organizzazioni di mercato e i fondi strutturali e di procurare le risorse supplementari per il loro finanziamento. Sul piano pratico, però, le attuali politiche di mercato e strutturali non possono essere estese immediatamente a questi paesi: i consumatori centro-orientali verrebbero esposti a un aumento rapido ed eccessivo dei prezzi dei prodotti base. Applicare ai paesi candidati le regole della PAC significherebbe, inoltre, immettere in quelle economie un volume sconvolgente di risorse, aumentare le eccedenze e i livelli dei loro prezzi interni. Siccome si ha coscienza che il processo di adesione comporterà comunque un’espansione della domanda locale, con aumento dei prezzi stessi all’interno dei nuovi paesi aderenti, gli aiuti compensativi della PAC non trovano pertanto giustificazione nei confronti degli agricoltori PECO. Inoltre, i prezzi che essa garantisce agli agricoltori occidentali sono superiori di circa un terzo a quelli in vigore nei paesi candidati all’adesione e sui mercati internazionali e sono pertanto destinati a diminuire.
L’allargamento richiede, quindi, uno sforzo epocale di ricongiungimento a causa del potere di acquisto arretrato dei cittadini dei paesi candidati (pari a un terzo del potere di acquisto degli attuali cittadini UE), della bassa competitività delle loro produzioni, del basso costo del lavoro, della minore managerialità degli agricoltori per i ridotti contenuti tecnologici e qualitativi della produzione. Dato il ritardo, nei confronti dei paesi centro-orientali diventa decisivo l’intervento strutturale mirato, piuttosto che l’intervento sui prezzi, e tale intervento deve essere accompagnato da un grande sforzo normativo per definire il quadro giuridico del settore e gli organismi di gestione, il controllo dei mercati, l’ammodernamento delle strutture produttive e, soprattutto, uno standard più elevato dei controlli veterinari e fito-sanitari.
 
Il nuovo modello rurale multifunzionale.
 
Accanto alle dovute precauzioni per i problemi posti dall’allargamento, occorre considerare anche alcune importanti opportunità. Con le adesioni dei paesi candidati dell’Europa centro-orientale, si verrà a costituire un sistema produttivo con una dimensione continentale più ampia, al servizio di una popolazione di oltre mezzo miliardo di persone, con standard medi di reddito pro-capite crescenti (i paesi candidati si porteranno probabilmente verso i livelli medi comunitari in tempi relativamente rapidi come è avvenuto per i paesi membri mediterranei) e con estensione dei livelli di consumo alimentare sul piano quantitativo e soprattutto sul piano qualitativo. Ciò significa, da un lato, una possibile maggiore autonomia mondiale dell’UE per le commodities (cereali, zucchero, carni e latte) e, dall’altro lato, anche una sempre maggiore attenzione all’agricoltura mediterranea, alle produzioni tipiche e di qualità per carni, prodotti lattiero-caseari, ortofrutticoli e bevande alcoliche. Siccome non sono da trascurare le preferenze dei consumatori per le produzioni biologicamente garantite e la salubrità degli alimenti, ci sono fondate prospettive, anche per l’evoluzione in corso nella politica europea destinata alle aree rurali, per la creazione di un mercato continentale organizzato, capace di esprimere un modello mondiale sul piano delle normative poste a salvaguardia dell’ambiente, della salute degli uomini e degli animali e della difesa dei valori storici e culturali dell’ambiente rurale. Grazie alla presenza di un sistema produttivo industriale e dei servizi molto avanzato, il sistema della produzione agricola, della trasformazione e della distribuzione delle derrate, nonché della produzione di materie prime rinnovabili, ha l’opportunità di fare un salto qualitativo sul piano dell’imprenditorialità e della competitività.
Se sono valide tali premesse, l’agricoltura europea deve fare allora una scelta di campo. Finora ha compiuto una ritirata storica di fronte all’avanzare dell’industrializzazione e della nascita della nuova società dell’informazione e delle telecomunicazioni. Oggi il carattere multifunzionale dell’agricoltura è ampiamente riconosciuto e possono facilmente cadere, proprio grazie ai progressi nella telematica e nei trasporti, le ultime barriere produttive, culturali e ambientali tra sistema industriale e sistema rurale, tra città e campagna, tra centralizzazione direzionale nelle città e rapporti gerarchici con le funzioni distribuite nel territorio, tra sistema centralizzato delle decisioni e produzione in rete. In pratica, l’agricoltura come parte di un sistema rurale multifunzionale, deve stabilire un nuovo «patto sociale» per affermare un modello europeo, produttivamente e socialmente articolato, capace di combinare piano e mercato continentale integrato, da proporre al mondo per il commercio ordinato tra grandi aree in alternativa al sistema del liberoscambismo non organizzato.
L’agricoltura europea può quindi diventare un campo di sperimentazione molto avanzato capace di coinvolgere scelte etiche, scientifiche, produttive, ambientali, sociali e culturali e risposte decisive per temi scottanti, quali quelli della clonazione animale, degli organismi geneticamente modificati e dell’agricoltura biologica, che sono al centro del grande dibattito sul rapporto dell’uomo con la sua salute e con lo stato di salute del territorio, degli animali e delle piante. E’ tempo quindi che l’agricoltura finisca di essere la cenerentola tra i settori produttivi, esca dall’assistenzialismo e dagli interessi protetti per recuperare capacità imprenditoriali a fianco degli altri settori produttivi. Un punto resta da chiarire. Un sistema produttivo che punta a elevati livelli qualitativi e di tutela dell’ambiente e della salute non può essere esposto alla concorrenza di sistemi che non hanno l’obbligo del rispetto degli stessi vincoli.
 
Il Millennium Round dopo la Conferenza di Seattle.
 
La terza sfida immediata per l’UE è il ciclo negoziale del Millennium Round che ormai, dopo il fallimento della Conferenza WTO svoltasi a Seattle dal 30 novembre al 3 dicembre 1999, ha assunto nuovi contenuti in linea con le crescenti istanze espresse dalla società civile a favore di un’agricoltura multifunzionale e della tutela dell’economia rurale.
Questi contenuti sono stati precisati nei tre documenti presentati a Ginevra alla fine di giugno 2000 dalla Commissione europea al Segretario generale del WTO per una sessione speciale del Comitato agricolo in risposta alla richiesta degli Stati Uniti e dei paesi del Terzo mondo di collocare le proprie eccedenze agricole sul mercato europeo. Si può aggiungere che essi esprimono una svolta rispetto agli obiettivi puramente commerciali di accesso ai mercati che erano dominanti nelle precedenti trattative WTO o GATT. Nella sua posizione Bruxelles ha affermato, innanzitutto, «un principio essenziale: la liberalizzazione degli scambi non deve compromettere il diritto che possiede ciascun paese di prendere in debito conto, nella produzione agricola, le esigenze dell’ambiente, della sicurezza e della qualità dei prodotti, del benessere degli animali». In pratica, «le considerazioni non commerciali» prevalgono, negli scambi agricoli, sugli interessi del commercio. In secondo luogo, la Commissione ha voluto anche sottolineare le conclusioni derivanti da tali premesse: «i paesi che rispettano le esigenze citate hanno il diritto di proteggere la loro agricoltura e di permettere ai loro agricoltori di affrontare le istanze avanzate dalla società civile».[12]
Questa posizione è molto evolutiva rispetto all’accordo WTO di Marrakech sull’agricoltura del 15 aprile 1994, che prevedeva impegni per la riduzione dei sostegni interni da parte dei paesi sviluppati, l’apertura dei mercati nazionali con l’introduzione di tariffe riducibili in luogo delle barriere non tariffarie e, infine, la riduzione delle esportazioni sussidiate.
In pratica l’UE, dopo avere ottenuto a Seattle il riconoscimento del carattere multifunzionale dell’agricoltura, ha fatto capire che non può impegnarsi in un negoziato che avrebbe come unico obiettivo l’apertura del suo mercato agricolo e come risultato la ritirata dell’agricoltura europea che è invece indispensabile per la tutela del territorio e della società rurale. In realtà, l’UE non può diventare con il suo 6% della popolazione mondiale, tendenzialmente sempre più anziana e certamente sovralimentata, il mercato di sbocco delle eccedenze agricole di tutte le altre aree del mondo, come sostanzialmente minacciava l’accordo di Marrakech. Non va poi dimenticato che l’UE costituisce già l’area più aperta agli scambi internazionali agricoli, essendo in questo settore il primo importatore mondiale e il secondo esportatore mondiale.
C’è però un secondo aspetto che va sottolineato nella posizione dell’UE a Ginevra, e, in un certo senso, esso è ancora più rilevante poiché apre per l’agricoltura mondiale una prospettiva più solida e orientata verso il futuro rispetto alla liberalizzazione indiscriminata dell’accesso ai mercati adottata a Marrakech. Secondo il documento della Commissione, l’unica strategia perseguibile per lo sviluppo equilibrato e sostenibile nel mondo consiste nel salvaguardare la produzione agricola ovunque abbia tradizioni o prospettive possibili, e questa posizione è decisiva per incoraggiare tutti i paesi del mondo a produrre prioritariamente per i fabbisogni delle proprie popolazioni nelle forme rispettose dell’ambiente, delle culture e dei consumi tradizionali.
Le esportazioni verso l’Europa, va detto chiaramente, non risolvono i problemi dell’Africa, dell’America latina e dell’Asia, fanno diffondere nel Terzo mondo le monoculture intensive destinate ai paesi ricchi di cui approfittano le grandi multinazionali, le aziende commerciali, a volte i politici corrotti, ma sacrificano l’ambiente e la produzione destinata alla popolazione locale che viene di conseguenza esposta alla dipendenza dal grande commercio mondiale. Siccome non tutti i paesi possono conseguire l’autosufficienza produttiva, l’obiettivo è però perseguibile promuovendo la formazione di aree macroregionali continentali all’interno delle quali è possibile realizzare la libera circolazione dei prodotti, la divisione efficace del lavoro e l’efficienza produttiva grazie al supporto di politiche agricole orientate.
Ciò in sostanza è quanto avviene all’interno del mercato unico europeo, di quello statunitense o di quello cinese o indiano e corrisponde alla raccomandazione fatta dal Presidente di turno dell’UE Seixas de Costa nella primavera 2000,[13] quando ha lamentato che i paesi della sponda sud del Mediterraneo chiedono il libero accesso all’Unione europea dei loro prodotti agrari, se non delle persone, ma non praticano la cooperazione interregionale che invece sarebbe un meccanismo di sviluppo perché creerebbe un mercato regionale capace di attrarre investimenti stranieri e realizzare un’efficace divisione del lavoro.
 
Una strategia di portata mondiale per l’agricoltura europea.
 
L’Unione europea si trova quindi di fronte a tre sfide immediate che mettono in discussione gli assetti tradizionali della politica agricola. Per affrontare l’allargamento, l’affermazione di un’economia rurale multifunzionale e il negoziato commerciale, occorre un disegno politico complessivo. Tale disegno deve essere capace di combinare allargamento e riforma della PAC per un’agricoltura multifunzionale aperta al mercato mondiale, da un lato, con alleanze internazionali e organizzazione di mercati agricoli macroregionali in altri continenti, dall’altro lato, in modo da consolidare il ruolo del WTO nella costruzione di un nuovo ordine economico internazionale.
Il punto da mettere in evidenza è che il negoziato agricolo del Millennium Round rappresenta un nodo centrale da sciogliere per il consolidamento del WTO. Ne consegue che se si vuole consolidare il WTO, nell’ambito del nuovo negoziato che dovrebbe aprirsi a Qatar nel prossimo novembre, e affermare una nuova missione internazionale per l’agricoltura europea rinnovata e allargata, occorre che l’UE diventi protagonista del negoziato mondiale con un disegno politico ampio, come fecero gli Stati Uniti quando avviarono la liberalizzazione internazionale degli scambi dopo la seconda guerra mondiale nell’ambito del sistema bipolare.
Sul piano interno questo disegno deve puntare all’integrazione dell’agricoltura dei nuovi paesi aderenti in un quadro di sviluppo dell’economia rurale orientata al mercato e con elevati standard di protezione dell’ambiente, della salute umana, animale e delle piante. Ciò significa mobilitare ricerca e sviluppo, capacità imprenditoriali, controllo del mercato e risorse finanziarie per le politiche strutturali dell’ambiente e della tutela sociale e sanitaria. Naturalmente obiettivi, principi, strumenti e risorse di tale politica non possono essere definiti con il metodo intergovernativo, debbono essere definiti con procedure democratiche nell’ambito di istituzioni europee riformate.
Sul piano esterno, le basi di questa strategia emergono da quanto è accaduto a Seattle nel 1999. Certamente la Conferenza è fallita, sul piano diplomatico, per la mancanza di convergenza tra le posizioni negoziali dei principali partners, gli Stati Uniti e l’UE, ma è fallita, sul piano politico, per la protesta espressa in piazza dai manifestanti che hanno rivendicato il diritto di ingerenza nel governo della globalizzazione. A Seattle è emerso con chiarezza che la globalizzazione da sola non è in grado di costruire il grande mercato mondiale come «bene comune» a vantaggio di tutte le parti in causa. Dopo Seattle non è più possibile discutere di commercio senza prendere in considerazione che sul mercato mondiale hanno fatto irruzione i problemi legati all’egemonismo tecnologico, ai modelli di sviluppo orientati all’esportazione selvaggia, alla competitività falsata dal dumping fiscale, sociale e ambientale, alle posizioni di forza derivanti dall’uso dell’arma alimentare oppure dell’arma energetica.
A Seattle si è preso coscienza che la globalizzazione deve essere governata e che le grandi organizzazioni come il WTO, fondate ancora su rapporti egemonici tra Stati, non possono garantire soluzioni adeguate per i problemi dell’umanità. E’ ovvio che il modello di riferimento finale per il governo della globalizzazione deve mettere in conto la formazione in atto di una società civile integrata su scala mondiale e, di conseguenza, l’affermazione di forme di governo democratico rappresentativo nelle organizzazioni internazionali preposte al governo del mondo.[14]
 
Una Costituzione federale per l’Unione europea.
 
Il nodo emerso a Seattle è quindi politico (superamento dei rapporti egemonici mondiali) e istituzionale (affermazione del controllo democratico della società civile mondiale in formazione sul processo della globalizzazione in corso) e per scioglierlo occorre individuare il soggetto responsabile del nuovo «governo democratico» della globalizzazione e il percorso strategico graduale per introdurlo.
Oggi solo l’Unione europea, a condizione che si dia una struttura di governo efficace, sarebbe potenzialmente in grado di esprimere la volontà di mantenere aperto ed evolutivo il sistema mondiale degli Stati attraverso il rafforzamento degli organismi internazionali. Essa stessa costituisce il modello più avanzato, sul piano economico e politico, di unificazione sovranazionale e ha un interesse oggettivo allo sviluppo delle relazioni multilaterali e non egemoniche. Gli Stati Uniti, invece, mostrano una crescente disaffezione verso gli organismi posti a tutela del sistema multilaterale degli scambi che essi stessi avevano promosso con successo dopo la seconda guerra mondiale tra i paesi ad economia di mercato.
Questo è un punto strategico fondamentale dal quale l’UE deve muoversi per acquisire la leadership del processo, combinando la riforma interna della politica agricola con il Millennium Round.
L’interesse europeo per nuovi equilibri di potere mondiale di natura multipolare è reale e riposa su basi strutturali. L’Europa nel suo insieme ha un interesse oggettivo per l’affermazione di rapporti di pace e di cooperazione con il resto del mondo, non possiede strumenti egemonici né sul piano militare, né sul piano energetico, tecnologico e finanziario, anche se può esprimere una forte posizione contrattuale su tutti questi terreni di confronto e di collaborazione.
L’UE è la prima potenza in termini di partecipazione al commercio mondiale per volume di esportazioni e di importazioni, per i prodotti agricoli è la seconda potenza per il volume delle esportazioni e la prima per le importazioni. Al suo peso negli scambi internazionali si affianca un altro dato che sottolinea l’interesse oggettivo europeo al funzionamento ordinato del mercato mondiale. L’UE ha un livello di apertura al commercio estero più elevato delle altre aree industriali e conseguentemente una maggiore sensibilità dell’economia interna agli input di origine esterna, sia per l’export di manufatti industriali che per l’import di materie prime (vedi la sensibilità del ciclo economico europeo al prezzo del petrolio). Ciò significa che il suo interesse a mantenere aperta la struttura del commercio internazionale è vincolato dalla necessità che tale struttura sia normalizzata sul piano valutario (vedi rapporti tra euro e dollaro) e sul piano delle regole poste a guardia della fair competition e della tutela ambientale, sanitaria e sociale.
Tale situazione impone alla stessa UE di assumere con responsabilità l’onere della leadership politica. Ma ciò significa anche affermare la capacità di assumere il ruolo e la responsabilità conseguente di grande potenza mondiale, capace di offrire al mondo un proprio modello produttivo e sociale sul quale possano convergere gli interessi delle forze ragionevoli degli altri paesi. Ruolo che l’UE dovrà assumere rapidamente, per evitare la destabilizzazione dell’ordine internazionale post-bipolare, dotandosi della necessaria capacità di decisione democratica e di azione che oggi non è in grado di realizzare con gli strumenti della cooperazione intergovernativa.
Ciò che occorre, come primo passo strategico, è un nuovo quadro istituzionale europeo capace di realizzare il governo democratico sovranazionale, e questo quadro può essere offerto solo da una Costituzione federale. La prospettiva aperta l’anno scorso dagli interventi del Ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer e di altre autorevoli personalità europee permette di ritenere che dopo il Vertice europeo di Nizza possa aprirsi un ciclo politico costituente in Europa, capace di definire le nuove istituzioni federali, anche tra un gruppo di avanguardia di paesi membri, e le nuove politiche sovranazionali di cui gli Europei hanno urgente bisogno.


[1] WTO (World Trade Organisation): l’organismo internazionale voluto dall’UE nel 1993, come principale risultato dell’Uruguay Round, al fine di sovrintendere allo svolgimento ordinato del commercio mondiale e regolare la liberalizzazione degli scambi internazionali. Il WTO ha sostituito il Segretariato del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), l’organismo provvisorio creato per governare il processo di liberalizzazione degli scambi a livello mondiale dopo il fallimento della Conferenza dell’Avana del 1947.
[2] Per un rapido inquadramento storico dell’avvio della politica agricola comune cfr. Jacques Loyat e Yves Petit, La politique agricole commune (PAC), Parigi, La Documentation française, 1999, e AA.VV., Agenda 2000 e la riforma della pac, Roma, Confederazione Italiana Agricoltori, 1999.
[3] Le organizzazioni comuni di mercato (OCM) intervengono per la garanzia dei prezzi per oltre il 60% della produzione agricola. Per cereali, riso, zucchero, latte e prodotti lattiero-caseari, carni bovine, tali organizzazioni garantiscono l’acquisto della produzione eccedentaria e la protezione dalle importazioni a prezzi pre-definiti. Secondo i settori produttivi possono poi assicurare: sostegno dei prezzi e aiuti diretti agli agricoltori (cereali, frumento duro e olio d’oliva), aiuti diretti (semi oleosi, lino, canapa, cotone), protezione tariffaria e sussidi all’esportazione (pollami e uova), regimi di protezione tariffaria (per alcuni ortofrutticoli). La politica dei prezzi interni garantiti (prezzi obiettivo, prezzi di soglia per le importazioni dai paesi terzi, prezzi di intervento per il ritiro e lo stoccaggio pubblico delle produzioni eccedenti), non può essere dimenticato, ha svolto certamente un ruolo decisivo per l’incremento delle produzioni strategiche, soprattutto delle derrate alimentari dell’agricoltura continentale (cereali, carni e latte).
[4] Il Fondo europeo di orientamento e garanzia agricola (FEOGA) si divide in due sezioni. La sezione garanzia (assorbe il 90% del Fondo) è oggi destinata per circa la metà ai pagamenti diretti agli agricoltori e per il resto alla politica di sostegno dei prezzi. Le spese della politica dei prezzi e del mercato sono «spese obbligatorie» che vengono definite dai governi dei paesi membri dell’UE e non possono essere messe in discussione dal Parlamento europeo in sede di discussione del bilancio comunitario. La sezione orientamento ha carattere strutturale e finanzia gli aiuti per l’ammodernamento delle aziende, l’insediamento dei giovani agricoltori, la trasformazione, la commercializzazione, la diversificazione e le azioni di sviluppo rurale. Questi interventi vengono realizzati in modo decentrato con gli Stati e cofinanziati da essi. Negli anni ‘80 gli obiettivi della sezione orientamento confluirono assieme al Fondo sociale e al Fondo regionale in una nuova formulazione della politica strutturale. Inoltre il FEOGA assorbe globalmente quasi il 50% del bilancio della Comunità europea e, siccome con l’accordo interistituzionale del 29 ottobre 1993 fu deciso di limitare le spese agricole, il progetto di bilancio riporta annualmente il fabbisogno previsto.
[5] Cfr. AA.VV., Agenda 2000 e la riforma della pac, cit.
[6] Cfr. anche per altre considerazioni: Dario Velo, «Il mercato comune agricolo e il processo di integrazione europea», in AA.VV., Il mercato comune agricolo, Firenze, La Nuova Italia, 1979.
[7] Per comprendere il problema delle ripercussioni delle oscillazioni dei prezzi mondiali sui redditi degli agricoltori e sulle convenienze dei consumatori si può ricordare che i prezzi internazionali del grano, dal gennaio 1995 all’estate 1998, sono crollati da 400 cents di US$ per bushel a 200 cents, a causa della crisi finanziaria del Sud-Est asiatico, mentre avevano raggiunto i 600 cents nella primavera del 1996. Cfr. Michael Smith e Nikki Tait, «Down on the farm», in Financial Times, 7 gennaio 1999.
[8] Cfr. AA.VV., Agenda 2000 e la riforma della pac, cit., p. 19.
[9] E’ opportuno sottolineare la differenza tra una moneta unica, come l’euro, il dollaro, la sterlina o anche le ex-monete nazionali, quali il marco tedesco, il franco francese, la lira italiana, che circolano in modo esclusivo e sovrano, e una valuta comune, come furono l’eurodollaro, l’ECU, l’UCE, i Diritti speciali di prelievo, che possono essere unità di riferimento per determinare il valore delle monete collegate.
[10] L’euro, infatti, come moneta unica è sorretto dalla Banca centrale europea che costituisce il secondo grande mattone nella costruzione dello Stato federale europeo. Il primo mattone è rappresentato dall’elezione diretta del Parlamento europeo. Entrambe le realizzazioni rimangono però instabili e attendono ormai per consolidarsi il passo decisivo dell’introduzione di una costituzione federale, come è stato riconosciuto negli autorevoli interventi del Ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer, dei Presidenti della Repubblica italiana e tedesca Carlo Azeglio Ciampi e Johannes Rau, e da altri.
[11] Cfr. «Agenda 2000. Per un’Unione più forte e più ampia», in Bollettino dell’Unione europea, Supplemento 5/97, Lussemburgo, Commissione europea, p. 116.
[12] Cfr. Ferdinando Riccardi, «Al di là della notizia», in Bollettino Quotidiano Europa, 10-11 luglio 2000, pp. 3-4.
[13] Cfr. Ferdinando Riccardi, «Al di là della notizia», in Bollettino Quotidiano Europa, 3-4 aprile 2000, pp. 3-4. Nell’editoriale Riccardi riporta anche una opinione del Commissario europeo per l’agricoltura Franz Fischler il quale, con riferimento all’incidenza «della mondializzazione sull’ambiente, la salute, le norme sociali e la diversità culturale», aggiungeva: «Il modello agricolo europeo offre una risposta a queste preoccupazioni e offre all’agricoltura una prospettiva più orientata verso il futuro che non le esortazioni meccaniche a una liberalizzazione totale del commercio dei prodotti agrari».
[14] Cfr. Alberto Majocchi, «Il dopo Seattle e i limiti della globalizzazione», in Piemonteuropa, dicembre 1999; Guido Montani, «Globalizzazione, spontaneismo e democrazia», in L’Unità europea, dicembre 1999.

 

 

 

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