IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLIV, 2002, Numero 3, Pagina 165

 

 

Mario Albertini
e la storia del pensiero federalistico
 
JOHN PINDER
 
 
E’ per me un grande onore essere stato invitato a fare una relazione a questo Convegno per ricordare Mario Albertini, un uomo che ha fatto tanto per noi federalisti, per l’Europa e per l’umanità intera. Questo onore è particolarmente significativo per me perché egli, come Altiero Spinelli, ha fatto del pensiero della scuola inglese degli anni ‘30 e dei primi anni ‘40, insieme a quello dei Padri fondatori americani, la base del suo pensiero federalistico. Albertini spiegò che mentre il pensiero fondato sulla fonte inglese ha dato una risposta alla domanda: perché creare la Federazione europea?, quello fondato sulla fonte americana ha dato una risposta alla domanda: come crearla?[1] Quanto alla domanda: quale forma di federazione?, la risposta, per Albertini come per gli inglesi, era contenuta nella Costituzione degli Stati Uniti d’America.
Il problema che oggi voglio affrontare riguarda il modo in cui il pensiero di Albertini ha sviluppato queste due tradizioni federalistiche. In generale si può dire che egli è stato il massimo esponente del pensiero hamiltoniano della seconda metà del Novecento, oltre che il creatore della scuola federalista italiana. Egli è stato non solo un esponente, ma anche un innovatore, che spesso illuminava il pensiero di altre scuole, talvolta differenziandosi con contributi interessanti.
 
Quale forma di federazione.
 
Per Albertini, come per Spinelli e per la scuola inglese, la questione centrale era la trasformazione di Stati a sovranità assoluta in Stati federati in uno Stato federale. Per loro il federalismo di Althusius o di Proudhon — considerato da Albertini come «una tecnica… per il decentramento del potere politico»[2] — non era di grande rilievo. Albertini sostenne che Proudhon «era rimasto, quanto alla concezione dello Stato, un anarchico», benché egli lo abbia definito anche un «grande presbite» che «ha previsto quale sarebbe stato il limite tragico della democrazia nazionale qualora non avesse trovato i suoi correttivi nella democrazia locale e nella democrazia europea». Albertini affermò inoltre che il federalismo richiede «la creazione di orbite di governo democratico locale ad ogni livello di manifestazione concreta delle relazioni umane».[3] Ma egli concentrò il suo pensiero sulla creazione di una federazione tra Stati sovrani, essenziale per garantire la pace fra loro.
Se gli scrittori della scuola inglese avevano elaborato un’esposizione classica della forma di una tale federazione, Albertini ne fece la migliore rielaborazione della seconda metà del Novecento.[4] C’era comunque accordo sul fatto che, pur accettando gli elementi principali della Costituzione americana, era preferibile il sistema europeo basato su un esecutivo parlamentare piuttosto che quello presidenziale americano. Albertini ritenne cioè più valido un «governo responsabile di fronte al Parlamento europeo… come istanza di controllo democratico dell’attività dell’Unione».[5]
Egli arricchì il pensiero federalista anche con la sua analisi della relazione tra nazione e Stato.[6] Secondo lui, lo Stato nazionale, con il suo dispotismo, guasta la vita dei cittadini, ponendo restrizioni allo sviluppo economico e provocando la guerra.[7] I suoi limiti si manifestano anche nella «contraddizione tra l’affermazione della democrazia nel quadro nazionale e la sua negazione nel quadro internazionale», che pregiudica anche l’affermazione del liberalismo e del socialismo a livello nazionale.[8] Lo Stato nazionale dovrebbe essere sostituito con uno Stato federale plurinazionale; la Federazione europea sarebbe «un popolo di nazioni, un popolo federale», e non «un popolo nazionale»; il federalismo prevede una struttura di Stati democratici plurinazionali fino al livello mondiale.[9] Il pensiero della scuola inglese su questo tema non era diverso, ma l’analisi di Albertini era più raffinata.
Negli anni ‘30, la scuola inglese indicò il federalismo come rimedio generale contro la guerra e la Federazione mondiale come soluzione logica, ma realizzabile solo a lunga scadenza. Parecchi sostenevano la proposta di Clarence Streit per una federazione di quindici democrazie, Stati Uniti inclusi, per impedire una guerra provocata dall’Asse. Ma l’America isolazionista non era disponibile e nel 1939 i leader della scuola inglese si indirizzarono verso l’ipotesi di una federazione delle democrazie europee, in attesa dell’adesione degli Stati allora fascisti dopo il loro ritorno alla democrazia.
Questo fu naturalmente il punto di partenza per Albertini che, dopo il rifiuto del Regno Unito di partecipare alla Comunità europea, prefigurò, per cominciare, «una Federazione europea comprendente almeno i sei paesi che hanno preso la testa del processo di unificazione», e poi la sua «estensione graduale a tutta l’Europa».[10] Quando il Regno Unito entrò nella Comunità, egli aggiunse che «bisogna attendere che l’adesione alla Comunità dia i suoi frutti».[11] Attendiamo ancora questi frutti — e speriamo bene!
Kenneth Wheare indicò «una somiglianza di istituzioni politiche» fra gli Stati membri come una condizione della formazione di una federazione.[12] Albertini fu più preciso, affermando che era necessaria, sia nella federazione che negli Stati membri, «l’attribuzione della sovranità al popolo nel quadro del regime rappresentativo, con la possibilità di sdoppiare la rappresentanza mediante la doppia cittadinanza di ogni elettore».[13] Questa condizione è divenuta particolarmente rilevante per quanto riguarda le nuove democrazie candidate all’adesione all’Unione, e rimane un problema cruciale per la creazione di una Federazione mondiale.
 
Perché la federazione.
 
Nel 1937 Lionel Robbins pubblicò il libro Economic Planning and International Order, analizzando le ragioni per le quali il quadro di una federazione internazionale era essenziale per il buon governo di un’economia internazionale. Nel ‘39, in The Economic Causes of War, egli spiegò perché la causa della guerra non fosse il capitalismo, bensì la sovranità nazionale, e concluse con un appello appassionato per una Federazione europea.[14] Albertini ha ricordato che questi libri furono le più importanti fonti federalistiche per Spinelli, quando era al confino sull’isola di Ventotene.[15]
Per la scuola inglese del dopoguerra, come per Robbins nel ‘39, la pace era lo scopo del federalismo. La pace era il «valore centrale» e «l’obiettivo supremo» del federalismo anche per Albertini,[16] la complessità del cui pensiero era talvolta nascosta dalla semplicità delle sue formulazioni. Egli ha ricalcato il pensiero di Lord Lothian definendo la pace non come «il semplice fatto che la guerra non è in atto», ma come «l’organizzazione di potere che trasforma i rapporti di forza fra gli Stati in rapporti giuridici veri e propri».[17] A partire dal 1981, Albertini riconobbe che «con la lotta per l’unificazione europea si sono ottenute le prime forme di politica europea e la fine della rivalità militare fra i vecchi Stati nazionali dell’Europa occidentale».[18] Cioè, per quanto riguarda i rapporti fra questi Stati quell’obiettivo era già stato raggiunto, mentre per alcuni Stati dell’Europa orientale, e soprattutto per il mondo intero, esso sarebbe rimasto l’obiettivo supremo.
Per i cittadini dell’attuale Unione, dunque, altri obiettivi sono diventati più importanti. Albertini ha citato dal Manifesto di Ventotene l’affermazione che la questione di chi controlla la pianificazione economica è la «questione centrale»[19] (lo stesso quesito che Robbins aveva proposto nel 1937), ma ha anche individuato altri valori essenziali del federalismo contemporaneo: la sicurezza ecologica,[20] il rifiuto dell’egemonia (vedi le preoccupazioni di Carlo Cattaneo e dei Padri fondatori americani)[21] e la democrazia negli Stati nazionali, che la loro interdipendenza sta indebolendo sempre più.[22] Mi pare che questi costituiscano gli elementi per spiegare i valori federalisti ai cittadini dell’Unione europea di oggi. Per quanto riguarda alcuni Stati dell’Europa centrale e orientale, invece, e soprattutto per il federalismo mondiale, la pace rimane l’obiettivo di maggiore rilievo.
 
La Federazione mondiale.
 
Nel suo libro The Price of Peace, pubblicato nel 1945, William Beveridge spiegò che la sovranità nazionale è la causa della guerra, e la rinuncia ad essa in una Federazione mondiale il metodo per abolirla.[23] Benché egli riconoscesse che questo obiettivo era lontano e che nel frattempo solo una confederazione sarebbe stata realizzabile, questo libro mi fece avvicinare al federalismo come risposta alla terribile esperienza della guerra. Dopo Hiroshima e Nagasaki, la Federazione mondiale sembrava una necessità urgente a milioni di persone, di cui circa mezzo milione comprò Anatomy of Peace di Emery Reves.[24]
Nacquero Movimenti per la Federazione mondiale, soprattutto nei paesi anglosassoni e in Giappone, leader politici come l’ex primo ministro Clement Attlee ne diventarono sostenitori, e si sviluppò una letteratura mondialista. Ma il clima della Guerra fredda scoraggiò la maggior parte di coloro che caldeggiavano quell’obiettivo e il pensiero federalistico quasi lo abbandonò.
Albertini fu un’eccezione. Egli era più coerente, più tenace, più risoluto di altri nel confrontarsi con i fatti del potere e con le sue conseguenze. Per lui, «il rischio della distruzione del genere umano» legato alla bomba atomica era «assolutamente inaccettabile».[25] Ma egli riconobbe, come Beveridge, che le condizioni per creare la Federazione mondiale non erano presenti e che la lotta per un’Assemblea costituente, fondamentale per la sua dottrina per quanto riguarda la Federazione europea, non era ancora praticabile. La sua strategia per il federalismo mondiale era dunque simile a quella dei federalisti anglosassoni: «il rafforzamento dell’ONU», insieme ad altri «obiettivi intermedi» nel «processo di superamento degli Stati nazionali esclusivi», processo che aveva «già raggiunto uno stadio molto avanzato» nella Comunità europea.[26] Tipica del suo pensiero federalistico era l’enfasi sui militanti federalisti, sulla necessità «di costruire… un’avanguardia politica mondiale» per la creazione di una Federazione mondiale.[27]
 
Come creare la Federazione.
 
Albertini e la scuola inglese erano generalmente d’accordo sulla forma e sul perché della Federazione. Ma le loro idee erano diverse sul come crearla.
Gli inglesi cercavano di influenzare il loro governo, negli anni ‘30 e ‘40, perché adottasse una politica federalista per dare l’avvio ad una Federazione, e in seguito per costruire elementi prefederali nelle istituzioni e nelle competenze della Comunità. I principi fondamentali di Albertini erano invece l’Assemblea costituente e il distacco dei federalisti dalla lotta per il potere nazionale.
Spinelli ha scritto che nel periodo che va dal 1947 al ‘54, egli aveva «lavorato sull’ipotesi che i principali ministri moderati si sarebbero accinti alla costruzione federale»:[28] un metodo assai simile a quello dei federalisti inglesi. Poi, dopo il fallimento, nel 1954, del progetto per una Comunità politica europea, egli avviò il Congresso del Popolo Europeo e lanciò la campagna per dar vita a un’Assemblea costituente attraverso «una protesta popolare crescente… diretta contro la legittimità stessa degli Stati nazionali».[29] Quando diventò evidente a Spinelli che la campagna non aveva il successo da lui sperato, concepì la proposta che i federalisti acquisissero il potere in un numero crescente di municipi importanti, come base per una successiva campagna. Albertini non poteva accettare questa idea, contraddittoria ai suoi principi federalistici fondamentali, e il Movimento federalista europeo fu d’accordo con lui. Spinelli, infastidito, scrisse nel suo diario che per Albertini, «tentare di preparare l’evento (della lotta finale) era sporco opportunismo, occorreva preparare sé stessi all’evento».[30] Spinelli era un politico geniale, capace di concepire e condurre campagne d’azione, l’ultima delle quali, relativa al progetto di Trattato del Parlamento europeo per l’Unione europea, ha avuto un successo straordinario. Egli non era costretto da regole fisse, e la sua tendenza ad iniziare successivi «nuovi corsi» e a impostare nuove strategie presentava troppe difficoltà per un Movimento come il MFE. Albertini era assolutamente convinto che bisogna rispettare certi principi fondamentali, che egli seguiva con una coerenza e una tenacia eccezionali. Queste caratteristiche furono cruciali per la sua posizione nella storia del pensiero federalistico, mettendolo in grado non solo di sviluppare la propria opera intellettuale, ma anche di fondare la scuola italiana del federalismo hamiltoniano.
Una differenza fra Albertini e gli inglesi era legata alla sua concezione del pensiero storico, basata sul metodo weberiano secondo il quale, nelle sue parole, «non ci sono conoscenze storiche senza quadri teorici di riferimento specifico per ordinare i fatti e completarne il significato (‘tipi ideali’)», anche se «l’elaborazione teorica deve esser condotta solo sino al punto nel quale essa rende possibile la conoscenza storica e non oltre, perché al di là di questo punto essa si convertirebbe nella pretesa di sostituire la conoscenza storica… con la conoscenza teorica».[31] Alla tradizione empirica inglese non manca la capacità di sviluppare teorie. L’evoluzione darwiniana e il liberalismo sono testimonianze di questo. Ma mi pare che nella tradizione weberiana lo sviluppo della teoria precede il suo adattamento ai fatti, e forse questo approccio fu una causa delle differenze fra Albertini e gli inglesi.
 
Lo sviluppo della Comunità europea e del pensiero di Albertini.
 
Benché gli inglesi abbiano sviluppato la loro democrazia attraverso un processo riformista, senza un’Assemblea costituente, l’idea di una tale Assemblea era ritenuta accettabile da molti. Nel 1948, Mackay, un importante federalista membro del Parlamento inglese, ottenne il sostegno di un terzo dei membri del Parlamento per una risoluzione che chiedeva un’Assemblea costituente europea.[32] Ma mentre per gli inglesi un processo riformista, a iniziare dalla CECA, sarebbe stato utile, il punto di partenza per Albertini, nel 1961, è rimasto soltanto «il conferimento del potere costituente al popolo europeo… o tutto o niente»; bisognava rifiutare «pseudostazioni intermedie… sino a che non lo [il potere] si possa ottenere tutto (Costituente)»; la soluzione della Comunità «ispirata dal cosiddetto ‘funzionalismo’ (la geniale idea di fare l’Europa a pezzettini…) era cattiva» e le Comunità economiche erano «parole vuote».[33] Ma da buon weberiano egli era disposto ad adattare la teoria ai fatti, e nel ‘65 scrisse che la CECA aveva stabilito una «unità di fatto… così solida da poter sorreggere l’inizio di un processo vero e proprio di integrazione economica», la quale «fu un fatto capitale per la vita dell’Europa».[34] E un anno dopo scrisse che «l’integrazione europea è il processo di superamento della contraddizione tra la dimensione dei problemi e quella degli Stati nazionali», cioè «i fatti dell’integrazione europea» minano i poteri nazionali esclusivi, «creando nel contempo, con l’unità di fatto, un potere europeo di fatto», che i federalisti possono sfruttare politicamente.[35] Nello stesso saggio egli individuò il trasferimento del controllo dell’esercito, della moneta e di parte delle entrate dai governi nazionali a un governo europeo come elementi cruciali del trasferimento della sovranità;[36] e nel ‘71, considerando la prospettiva delle elezioni dirette del Parlamento europeo, egli scrisse che una tale situazione «può essere considerata precostituzionale perché dove si manifesta l’intervento diretto dei partiti e dei cittadini si manifesta anche la tendenza alla formazione di un assetto costituzionale».[37] E’ interessante, perfino commovente, osservare come, mentre gli inglesi, nella loro situazione diversa, trascuravano l’idea della Costituente, Albertini stava modificando la sua teoria alla luce dei fatti, cioè del successo crescente della Comunità europea. Questo lo ha condotto verso un contributo molto importante al pensiero federalistico: una sintesi dell’approccio di Spinelli e di quello di Monnet.
 
Verso una sintesi di spinellismo e monnetismo.
 
Le sue idee sulla moneta forniscono un altro esempio dello sviluppo del suo pensiero. Nel 1968 egli scrisse che «non c’è mercato comune senza moneta comune, e moneta comune senza governo comune, dunque il punto di partenza è il governo comune».[38] Ma quattro anni più tardi egli affermò che l’Unione monetaria avrebbe potuto «spingere le forze politiche su un piano inclinato» perché, impegnando qualcuno per qualcosa che implica il potere politico, può accadere che finisca «per trovarsi, suo malgrado, nella necessità di crearlo». Sul terreno monetario, sarebbero stati possibili «dei passi avanti di natura istituzionale, tangibile, europea, ad esempio nella direzione indicata da Triffin», cioè un sistema europeo di riserve, che sarebbe stato scambiato dalla classe politica «per una tappa sulla via della creazione di una moneta europea»; e si poteva prevedere, dunque, «un punto scivoloso verso una situazione che si potrebbe chiamare di ‘Costituente strisciante’».[39]
Albertini stava «preparando l’evento», anche se non nel modo approvato da Spinelli, il cui progetto era allora diverso e che scrisse nel suo diario che Albertini aveva ridotto il MFE in «sciocchi di Werner»,[40] nel cui Rapporto erano indicate le tappe verso l’Unione economico-monetaria. Ma la riconciliazione fra i due non era lontana, grazie alle imminenti elezioni dirette del Parlamento europeo e al grande progetto di Trattato per l’Unione europea elaborato da Spinelli.
Già nel 1973 Albertini, nella sua analisi dell’Unione monetaria, individuò le elezioni dirette come punto decisivo «perché riguarda la fonte stessa della formazione della volontà pubblica democratica».[41] Le elezioni del Parlamento europeo sarebbero state una delle chiavi, dunque, insieme con la moneta e l’esercito, per il trasferimento della sovranità. Nel ‘76, il Consiglio europeo decise le elezioni e Spinelli si imbarcò nel suo quinto e ultimo nuovo corso.[42] Albertini osservò che era « iniziata la fase politica — per definizione costituente — del processo di integrazione europea», e concluse che la Comunità sarebbe stata la base della Federazione europea, attraverso «singoli atti costituenti che rafforzano il grado costituente del processo rendendo possibili ulteriori atti costituenti e così via», e che «solo con una prima forma di Stato europeo (da istituire con un atto costituente ad hoc) si può avviare il processo di formazione dello Stato europeo per così dire definitivo»: cioè bisogna accettare «il paradosso di ‘fare uno Stato per fare lo Stato’ ». Egli rese esplicito il ruolo della Comunità in questo processo, nella «costruzione graduale, e via via pari al grado di unione raggiunto, di un apparato politico e amministrativo europeo»: un processo che «si può in teoria considerare finito solo quando lo Stato iniziale europeo (con sovranità monetaria, ma non in materia di difesa), si sia trasformato nello Stato europeo definitivo, con tutte le competenze necessarie per l’azione di un governo federale normale».[43]
Il cammino weberiano di Albertini conduceva, dunque, verso una sintesi feconda fra lo spinellismo e il monnetismo attraverso «l’idea di sfruttare le possibilità del funzionalismo per giungere al costituzionalismo», perché «l’unificazione europea è un processo di integrazione… strettamente collegato con un processo di costruzione degli elementi istituzionali a volta a volta indispensabili…».[44] Egli era pronto per spiegare in termini teorici l’ultima opera di Spinelli, cioè il progetto di Trattato sull’Unione europea del Parlamento europeo.
 
Dal progetto di Trattato alla Convenzione di Laeken.
 
Albertini riteneva che il progetto fosse realistico, perché proponeva «il minimo istituzionale indispensabile per fondare le decisioni europee sul consenso dei cittadini». Il «pregio maggiore del progetto» stava nel fatto che «affidava al Parlamento a) il potere legislativo», detto oggi codecisione, in modo che «l’attuale Consiglio dei Ministri… per questo rispetto, funzionerebbe come un Senato federale», e «b) il potere che risulta dal controllo parlamentare della Commissione, che comincerebbe ad assumere la forma di un governo europeo». Il progetto era «ragionevole», perché «solo quando l’Unione avrà dimostrato di saper funzionare bene, sarà possibile disporre della grande maggioranza necessaria per attribuire all’Unione la sovranità anche in materia di politica estera e di difesa».[45] Esso conteneva, dunque, l’idea accennata prima di «fare uno Stato per fare lo Stato».
Il genio politico di Spinelli, manifestato nel progetto di Trattato, non solo ha favorito la riconciliazione fra lui e Albertini, ma ha anche portato a un esito concreto un elemento molto importante del pensiero federalistico di Albertini, cioè la relazione fra l’azione politica e la filosofia di Monnet e di Spinelli. E’ tragico che Spinelli sia morto credendo che il progetto fosse fallito perché l’Atto unico era un «topolino morto». Albertini è invece sopravvissuto finché si sono manifestate conseguenze veramente significative. In un documento pubblicato nell’Unità europea del dicembre 1990, egli ha potuto affermare che, «salvo catastrofi», il potere di fare la politica monetaria sarebbe stato trasferito al livello europeo, e che dunque bisognava adeguare il meccanismo decisionale, «facendo funzionare la Comunità come una federazione nella sfera dove un potere europeo, in prospettiva, c’è già (quello economico-monetario con le sue implicazioni internazionali); e come una confederazione nella sfera nella quale un potere di questo genere non c’è e non ci sarà per un tempo indefinito (difesa)». Il «Trattato-costituzione» del Parlamento — prosegue il documento — porterà ad una «evoluzione naturale delle istituzioni (il Consiglio europeo come presidente collegiale della Comunità o Unione, il Consiglio dei Ministri come Camera degli Stati, la Commissione come governo responsabile di fronte al Parlamento europeo, il Parlamento europeo come istanza di controllo democratico dell’attività dell’Unione e come detentore, insieme al Consiglio, del potere legislativo)».[46]
Si può registrare un progresso significativo di questa «evoluzione naturale» negli anni ‘90. Il voto a maggioranza qualificata è già applicabile nel Consiglio all’80% degli atti legislativi; il Parlamento ha un diritto di codecisione per più della metà degli atti legislativi e per il bilancio; la responsabilità della Commissione di fronte al Parlamento è stata clamorosamente dimostrata. La Comunità non funziona ancora «come una federazione nella sfera dove un potere europeo c’è già», cioè in quella economica e monetaria; ma la Convenzione di Laeken apre la porta al compimento del processo.
La questione non è più se ci sarà un documento chiamato costituzione. Questo ora appare accettabile, oltre che per gli altri governi, anche per quello britannico. La questione cruciale è se le istituzioni saranno veramente federali, completando l’evoluzione prevista da Albertini, compresa la codecisione e il voto a maggioranza per tutte le decisioni legislative, insieme alla piena responsabilità della Commissione come governo di fronte al Parlamento.
La lotta federalista non è divenuta meno ardua, perché i sostenitori della dottrina intergovernativa includono, a quanto pare, non solo i governi britannico, danese e svedese, ma anche quello francese, e persino quello italiano. Bisogna persuadere i cittadini, le classi politiche, e infine i governi, che una costituzione basata sul principio della cooperazione intergovernativa sarebbe sia inefficace che antidemocratica. Grazie all’opera di Spinelli e di Albertini, e ai contributi di tanti altri, il MFE è senz’altro pronto a far fronte a questa sfida, in particolare per quanto riguarda i cittadini, la classe politica e soprattutto il governo italiano.
 
Albertini e la sua collocazione nella storia del pensiero federalistico.
 
Spero di avere dato qualche indicazione del ricco, ampio, profondo e colto contributo di Mario Albertini al pensiero federalistico della sua epoca.
Forse è stata la scelta soggettiva di un federalista britannico l’aver sottolineato l’importanza particolare, per la storia di questo pensiero, della sintesi fatta da Albertini degli approcci dei due geniali federalisti della seconda metà del Novecento: Jean Monnet e Altiero Spinelli.
Oltre che con le sue opere, egli ha dato un contributo al pensiero federalistico come fondatore della scuola moderna italiana. Al tempo stesso, dopo che Spinelli ebbe fondato, ispirato e guidato il MFE con un carisma eccezionale, Albertini creò e sostenne il Movimento che è stato capace di organizzare la grande manifestazione di Milano, con la partecipazione di circa mezzo milione di persone, nel giugno del 1984, per chiedere al Consiglio europeo di sostenere il progetto di Trattato di Spinelli; e, cinque anni dopo, di ottenere il consenso dell’88% dei votanti nel referendum italiano su un mandato costituente per il Parlamento europeo. Come e perché un solo uomo ha fatto tutte queste cose diverse? Forse l’impressione di un osservatore esterno potrebbe interessarvi.
Albertini nei suoi scritti mise in evidenza sia la ragione che la volontà.[47] Egli era orientato da entrambe e operava sulla base di entrambe, con enfasi sulla ragione per la sua opera intellettuale, e sulla volontà come Presidente del Movimento; e metteva entrambe al servizio della sua fede profonda nel federalismo come priorità essenziale per il benessere e per la sopravvivenza stessa del genere umano. Egli espresse questo atteggiamento in un modo non molto conosciuto fuori del MFE, sottolineando che servono «delle persone che fanno della contraddizione tra i fatti e i valori una questione personale», in un contesto nel quale «il distacco tra ciò che è, e ciò che deve essere, è enorme».[48]
Albertini dedicò la sua vita all’impegno per risolvere questa contraddizione e aveva la capacità di persuadere altri a fare lo stesso. Egli era un’oratore ispirato e, benché i suoi scritti fossero talvolta complicati, era anche capace di formulare concetti in modo semplice e appassionato, come quando ha scritto che «la federazione… ha realizzato istituzioni molto sagge, capaci di trasmettere a molte generazioni una forte esperienza di diversità nell’unità, di libertà, di pace»; che «soltanto la politica e solo nel massimo della sua espressione, può risolvere i problemi delle relazioni internazionali»; e inoltre che serve l’avanguardia mondiale «per il grande compito mondiale della costruzione della pace».[49]
La sua capacità di ispirare gli altri era basata sulla sua fede nel valore di ciascuno, nella fiducia che ogni persona avesse sia la capacità che la responsabilità di dare il proprio contributo.[50] Le sue idee sugli apporti di diverse persone e organizzazioni sono state una parte del suo contributo al pensiero federalistico. C’era posto per quelli che accettavano passivamente il federalismo e per i leader occasionali. Ma la sua predilezione era per il nucleo duro dei militanti, la cui opera in particolare era basata sulla percezione della contraddizione tra fatti e valori. Egli trasmise un messaggio speciale agli intellettuali, ai quali ricordò la necessità dell’«uscita nel campo aperto degli uomini di cultura per completare la politica come arte del possibile — la politica in senso stretto — con la politica in senso largo, cioè l’arte di far diventare possibile ciò che non lo è ancora».[51] Per questi — per voi — l’enfasi era sulla volontà come sulla ragione.
Nel maggio del 1956 Spinelli scrisse nel suo diario: «Ho lanciato ad Albertini l’idea di costituire un ‘ordine federalista europeo’. Che sia questa una buona idea?».[52] Spinelli era un grande innovatore, con notevole capacità di intuizione. Albertini aveva le caratteristiche per realizzare quell’idea: sincerità, integrità, coraggio, coerenza, devozione. Mi pare che egli abbia davvero creato una specie di ordine federalista.
La sua opera era un processo continuo di costruzione; e ora voi, i suoi colleghi e amici, avete la responsabilità di proseguirla senza di lui, considerandolo non come un monumento di erudizione e di impegno eccezionale ma come una tradizione vivente che voi dovete continuare a sviluppare.
Quanto a me, benché non sia d’accordo con tutte le sue idee, ho un tale apprezzamento per la sua opera e una tale convinzione della sua importanza che sto lavorando, con l’aiuto dell’Istituto Altiero Spinelli, su un’antologia in lingua inglese dei suoi saggi, perché queste idee siano meglio conosciute dal pubblico dei lettori che leggono, non l’italiano, ma la lingua che Albertini designò, nel primo numero del Federalista pubblicato anche in inglese, come la lingua universale necessaria nella sfera politica.[53] Spero che questa antologia non solo sarà utile per i federalisti non italiani, ma favorirà anche un giusto riconoscimento del contributo di Albertini nella storia del pensiero federalistico.[54]
E’ con grande piacere, in conclusione, che esprimo la mia ammirazione e gratitudine per la vita di Mario Albertini, e per la sua devozione esemplare alla nostra causa suprema del federalismo. Nelle parole incomparabili di Shakespeare: «He was a man, take him for all in all, (we) shall not look upon his like again».


[1] Cfr. Mario Albertini, «L’unificazione europea e il potere costituente» (1986), in Nazionalismo e Federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 302, 304. (Molti degli scritti di Albertini sono stati ripubblicati, con l’indicazione delle rispettive fonti, in due antologie: Nazionalismo e Federalismo e Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa, da cui sono state tratte le citazioni. Si è posta tra parentesi, dopo il titolo, la data del saggio originale per aiutare i lettori a valutare il contesto e tracciare cronologicamente lo sviluppo del suo pensiero).
[2] Mario Albertini, «Il Risorgimento e l’unità europea» (1961), in Lo Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 184.
[3] Mario Albertini, «La Federazione» (1963) e «Le radici storiche e culturali del federalismo europeo» (1973), in Nazionalismo e Federalismo, cit., pp. 99, 114, 128.
[4] «La Federazione», ibidem.
[5] «Moneta europea e unione politica» (1990), in Una rivoluzione pacifica. Dalle Nazioni all’Europa, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 323.
[6] Mario Albertini, Lo Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1997, ristampa delle edizioni precedenti del 1960 e del 1980.
[7] «La nazione, il feticcio ideologico del nostro tempo» (1960), in Nazionalismo e Federalismo, cit., p. 22.
[8] «Le radici storiche» (1973), cit., pp. 126-7; «L’integrazione europea, elementi per un inquadramento storico» (1965), in Nazionalismo e Federalismo, cit., p. 235; Qu’est-ce que le fédéralisme? Receuil des textes choisis et annotés, Parigi, Société Européenne d’Etudes et d’lnformations, 1963, p. 32.
[9] «Per un uso controllato della terminologia nazionale e supernazionale» (1961), in Nazionalismo e Federalismo, cit., p. 30.
[10] «La strategia della lotta per l’Europa» (1966), in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 59.
[11] «Il problema monetario e il problema politico europeo» (1973), in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 185.
[12] Kenneth C. Wheare, Federal Government, Londra, Oxford University Press, 1951 (prima edizione 1946), p. 37; in italiano in Kenneth C. Wheare, Del governo federale, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 92.
[13] «L’unificazione europea e il potere costituente» (1986), in Nazionalismo e Federalismo, cit., p. 296.
[14] Lionel Robbins, Economic Planning and International Order, Londra, Macmillan, 1937, e The Economic Causes of War, Londra, Jonathan Cape, 1939; alcuni capitoli di ambedue in italiano in Lionel Robbins, Il federalismo e l’ordine economico internazionale, Bologna, Il Mulino, 1985.
[15] Cfr. Mario Albertini, «L’unificazione europea» (1986), cit., p. 302. Cfr. anche John Pinder (a cura di), Altiero Spinelli and the British Federalists: Writings by Beveridge, Robbins and Spinelli 1937-1943, Londra, Federal Trust, 1998, p. 46.
[16] Mario Albertini, Quest-ce que le fédéralisme? (1963), cit., p. 32; «Cultura della pace e cultura della guerra» (1984), in Nazionalismo e Federalismo, cit., p. 151.
[17] «Le radici storiche» (1984), cit., p. 114; Lord Lothian, Pacifism is not Enough (1935), ristampato in John Pinder e Andrea Bosco (a cura di), Pacifism is not Enough: Collected Lectures and Speeches of Lord Lothian (Philip Kerr), Londra, Lothian Foundation Press, 1990, p. 221. In italiano: Lord Lothian, Il pacifismo non basta, Bologna, Il Mulino, 1986.
[18] «La pace come obiettivo supremo della lotta politica» (1981), in Nazionalismo e Federalismo, cit., p. 185.
[19] «L’unificazione europea» (1986), cit., p. 304.
[20] «Cultura della pace e cultura della guerra» (1984), cit., p. 161.
[21] «Le radici storiche» (1973), cit., p. 140.
[22] «La strategia» (1966), cit., pp. 63-4.
[23] William Beveridge, The Price of Peace, Londra, Pilot Press, 1945.
[24] Emery Reves, The Anatomy of Peace, New York, Harper, 1945; in italiano: Anatomia della pace, Bologna, Il Mulino, 1990.
[25] «La pace come obiettivo supremo» (1981), cit., p. 184.
[26] «Verso un governo mondiale» (1984), in Nazionalismo e Federalismo, cit., pp. 203-4.
[27] «Verso un governo mondiale», cit., p. 207.
[28] Altiero Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio. La goccia e la roccia, a cura di Edmondo Paolini, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 18.
[29] Loc. cit.
[30] Altiero Spinelli, Diario europeo, I, 1948-1969, a cura di Edmondo Paolini, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 417.
[31] «L’unificazione europea e il potere costituente» (1986), cit., pp. 293-4.
[32] Cfr. John Pinder, «‘Manifesta la verità ai potenti’: i federalisti britannici e l’establishment», in AA.VV., I movimenti per l’unità europea 1945-1954, a cura di Sergio Pistone, Milano, Jaca Book, 1992, p. 125.
[33] «Quattro banalità e una conclusione sul Vertice europeo» (1961), in Nazionalismo e federalismo, cit., pp. 226, 228, 229, 232 n. 7.
[34] «L’integrazione europea» (1965), cit., pp. 249-50.
[35] «La strategia» (1966), cit., pp. 69, 71.
[36] Ibidem, pp. 66-7.
[37] «Il Parlamento europeo. Profilo storico, giuridico e politico» (1971), in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 216.
[38] «L’aspetto di potere della programmazione europea» (1968), in Nazionalismo e Federalismo, cit., p. 262.
[39] «Il problema monetario» (1973), cit., pp. 184, 187, 191.
[40] Diario europeo, III, 1976-1986, p. 186.
[41] «Il problema monetario» (1973), cit., p. 192.
[42] La goccia e la roccia, cit., p. 18.
[43] «Elezione europea, governo europeo e Stato europeo» (1976), in Una rivoluzione pacifica, cit., pp. 223, 225, 226.
[44] «L’Europa sulla soglia dell’unione» (1985), in Nazionalismo e Federalismo, cit., pp. 274, 276.
[45] Ibidem, pp. 283-5.
[46] «Moneta europea e unione politica. Un documento del Presidente Albertini in vista del Consiglio europeo di dicembre», in L’Unità europea, n. 202, dicembre 1990, p. 20.
[47] Per esempio in «Verso un governo mondiale» (1984), cit., p. 205.
[48] «La strategia» (1966), cit., p. 72; «Le radici storiche» (1973), cit., p. 136.
[49] «La federazione» (1963), cit., p. 100; «L’integrazione europea» (1965), cit., p. 252; «Verso un governo mondiale» (1984), cit., p. 207.
[50] «La strategia» (1966), cit., p. 59.
[51] «Il Parlamento europeo» (1971), cit., p. 204.
[52] Diario europeo, I, 1948-1969, cit., p. 297.
[53] «Verso un governo mondiale» (1984), cit., p. 202.
[54] Non ho menzionato finora nessuno fra i federalisti italiani viventi, perché non sarebbe giusto individuare alcuni fra i tanti che hanno fatto cose importanti per il federalismo contemporaneo. Ma in questo contesto sarebbe del tutto ingiusto non menzionare il mio debito nei confronti di un federalista della nuova generazione che ha avanzato la proposta dell’antologia, per cui ha fatto una selezione di saggi (materiale eccellente anche per la preparazione di questo mio articolo), cioè Roberto Castaldi, che ha preso questa iniziativa quando studiava per la sua tesi di master sull’opera di Albertini all’Università di Reading.

 

 

 

il federalista logo trasparente

The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia