Anno XLIV, 2002, Numero 2, Pagina 97
Autodeterminazione o autogoverno?
ALFONSO SABATINO
Introduzione
Le speranze di pace e di costruzione di un nuovo ordine mondiale evolutivo sorte con il crollo del muro di Berlino sono andate per il momento deluse. L’avvio del secolo XXI si trascina dietro alcuni nodi insoluti del secolo precedente: l’organizzazione politica dell’umanità in Stati indipendenti e sovrani, l’uso tendenziale della forza nei tra gli Stati e l’ineguale distribuzione del potere di appropriarsi delle risorse del pianeta. Tali nodi sono in contraddizione crescente con la grande rivoluzione scientifica e tecnologica in corso che determina un’interdipendenza sempre più stretta tra gli uomini a livello mondiale e pone all’ordine del giorno della storia l’interesse generale alla pace, all’uguaglianza, alla solidarietà.
Non a caso assistiamo a due fenomeni che sono facce della stessa medaglia. Da un lato, componenti sempre più consistenti della società civile, sia dei paesi avanzati che del mondo in sviluppo, rivendicano il diritto di riappropriarsi del proprio destino e contrappongono alla globalizzazione dell’economia la globalizzazione dei diritti e della politica. La globalizzazione, pertanto, pone il problema della democratizzazione degli organismi internazionali che presidiano i rapporti tra gli Stati e quello del superamento della divisione politica del genere umano in Stati nazionali indipendenti e sovrani. Dall’altro lato, cittadini ed enti locali e regionali subiscono l’impatto sulla vita quotidiana di fenomeni senza controllo. I governi nazionali non sono in grado di contrastare le ricadute negative della globalizzazione senza governo mondiale: terrorismo e delinquenza internazionale, distribuzione ineguale della ricchezza e movimenti speculativi di capitale, instabilità occupazionale e flussi migratori clandestini. Di qui l’affermazione di una domanda politica di chiusura etnico-regionale, e la rivolta contro le istituzioni centrali dello Stato che si spinge fino alla rivendicazione della secessione.
Ciò è molto pericoloso. In Europa i demoni già storicamente conosciuti del nazismo e dei conflitti religiosi e razziali non sono stati sconfitti. Ai progressi realizzati con la creazione dell’Unione europea (1993) e l’avvio della moneta unica (1999) si contrappongono la disgregazione dell’URSS e quella della Repubblica federativa socialista (RFS) di Jugoslavia avviate nel 1991. La minaccia della balcanizzazione avanza anche in Europa occidentale dove si diffondono formazioni politiche ispirate al nazionalismo etnico e all’intolleranza per le diversità culturali. Queste forze, oggi attestate su posizioni ambigue di autonomismo, potrebbero abbracciare apertamente la secessione se non fosse rapidamente portato a termine il processo di unificazione politica dell’Europa. In altre parti del mondo (Ruanda, Kurdistan, Kashmir, Sri Lanka), i conflitti etnici, nazionali, religiosi e razziali sono certamente espressione di diffusi deficit democratici e socio-economici, di mancanza di ordine politico a livello internazionale e locale, ma costituiscono a loro volta motivo di destabilizzazione della situazione di potere mondiale. Questo è anche il caso del conflitto tra israeliani e palestinesi che si trascina da oltre mezzo secolo in assenza di soluzioni politiche capaci di assicurare la convivenza civile tra tutte le popolazioni del Medio Oriente. Il mondo si trova, quindi, di fronte all’alternativa drammatica tra la rinascita del nazionalismo e l’avvio del processo di unificazione politica dell’umanità.
Le ragioni della crisi vanno discusse e approfondite, come vanno discusse le soluzioni, ma ciò che non può essere accettato è il ricorso al principio di autodeterminazione per sostenere la creazione di piccoli Stati etnici dotati di una propria moneta e di un proprio esercito (questo è il limite della soluzione sostenuta dall’ONU, a partire dalla Risoluzione n. 181 del 29 novembre 1947, di dividere la Palestina già sotto mandato britannico in due Stati indipendenti per superare il conflitto israelo-palestinese). La nascita di nuovi Stati attraverso la secessione, invece di garantire la diffusione della democrazia e l’affermazione dei diritti degli individui e delle minoranze, contribuisce ad alimentare il disordine internazionale, a diffondere i conflitti armati, ad aprire nuove discriminazioni al loro interno nei confronti dei gruppi minoritari che inevitabilmente ne farebbero parte.
Data la mescolanza nel mondo dei popoli, delle razze, delle etnie, delle religioni, delle lingue, qualsiasi Stato costruito sulle basi dell’identità nazionale o etnica o razziale o religiosa è portato, in ultima istanza, all’assimilazione forzata o alla persecuzione delle minoranze appartenenti ad altre identità nazionali, etniche o religiose che si trovano sul suo territorio. Ciò determina facilmente reazioni da parte dei gruppi interessati e degli Stati confinanti che si ergono a difesa di tali minoranze, con possibilità di conflitti per dispute di frontiera e «ingerenze umanitarie» e una facile involuzione autoritaria e militarista dei governi coinvolti. Tutto questo non favorisce la diffusione della democrazia nel mondo, non consente lo sviluppo mondiale delle forze della produzione, non permette l’affermazione delle istituzioni internazionali che promuovono la pace.
Di fronte alla rinascita del nazionalismo e all’instabilità internazionale, la posta in gioco per i federalisti rimane l’affermazione della pace in termini kantiani, attraverso la graduale costruzione dello Stato federale mondiale, possibilmente come unione finale di federazioni a carattere continentale o sub-continentale. In tal senso, a fronte del riconoscimento del diritto di autodeterminazione da parte dell’ONU, si pone per i federalisti la necessità di affrontare anche questo tema nel dibattito sulla riforma delle sue istituzioni. Si tratta di un punto decisivo: l’ONU, come la Società delle Nazioni, fin quando sosterrà il principio della sovranità nazionale assoluta e quello di autodeterminazione, non potrà disporre dei mezzi per limitare lo scontro tendenzialmente violento tra gli Stati e per realizzare la loro coesistenza pacifica.
In ogni modo, per quanto riguarda i conflitti nazionali, interetnici e religiosi, i federalisti non possono essere indulgenti nei confronti di concetti e iniziative politiche che determinano ineguaglianze tra le persone, violazioni dei diritti del cittadino e delle minoranze, discriminazioni culturali, economiche e sociali, diffusione degli armamenti, dispute sull’assetto dei confini, conflitti armati e crescita del disordine internazionale.
Le istituzioni per la pace e il governo democratico del mondo
Lo Stato federale per la pace e il governo democratico sovranazionale.
Il pensiero politico dominante non ha ancora compiuto una riflessione adeguata sul rapporto tra l’interdipendenza crescente del genere umano e la necessità dell’evoluzione delle strutture di governo democratico sul piano internazionale. A parte i federalisti — vedi soprattutto Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, Per un’Europa libera e unita. Progetto di un manifesto (Manifesto di Ventotene), 1941 e Mario Albertini, Lo Stato nazionale, 1960 —, nessuno mette in discussione il modello di Stato indipendente e sovrano, definibile anche Stato nazionale, che si è affermato dopo la rivoluzione francese. Questo tipo di Stato è entrato in crisi all’inizio del secolo XX, ha provocato due guerre mondiali, è stato ripristinato e sorretto dalle potenze egemoniche nel quadro dell’equilibrio bipolare. Oggi non è capace di difendere la sua indipendenza e la sua sovranità esclusiva di fronte alle sfide della globalizzazione.
La linea di pensiero che da Immanuel Kant (Per la pace perpetua, 1795) giunge fino a Lord Lothian (Pacifism is not enough, 1935) contiene un punto fermo: l’obiettivo della pace deve e può essere conseguito con la costruzione dello Stato mondiale. Kant non conosceva con sufficiente precisione il modello istituzionale nato con la rivoluzione americana, ma il pensiero politico del Novecento ha sottolineato che tale Stato deve avere strutture federali. Ciò permette di conciliare il governo efficace dei rapporti tra Stati a livello mondiale con il necessario decentramento a più livelli del governo della società, assicurando istituzioni adeguate ai problemi e vicine al cittadino. Secondo la scuola federalista solo in questo modo è possibile sostituire all’imperio della forza la forza del diritto nei rapporti politici tra Stati. Si deve aggiungere che lo Stato federale mette in discussione lo Stato indipendente e sovrano, cioè il modello che si è affermato in Europa, o in altre aree del mondo influenzate dalla cultura politica occidentale.
Lo Stato nazionale, pur esprimendo un modello di organizzazione politica molto avanzata, non ha garantito la pace nei rapporti internazionali perché vincolato dai principi dell’indipendenza e della sovranità esclusiva. Nessuno Stato indipendente e sovrano può estendere pacificamente la sua capacità di governo democratico sul territorio e sui cittadini di un altro Stato. Anche tra paesi sorretti da istituzioni di governo democratico le relazioni politiche sono fondate sull’imperio della forza. Può essere ricordato che, ad esclusione dell’Impero russo, tutte le grandi potenze che accesero il primo conflitto mondiale erano sorrette da regimi democratici rappresentativi e il conflitto stesso determinò la fine della Seconda Internazionale socialista e la crisi di legittimità dello Stato nazionale.
La formula che permette di organizzare il governo sulle aree continentali e a livello mondiale e di superare i limiti dello Stato nazionale nelle relazioni internazionali, valorizzando allo stesso tempo importanti obiettivi interni, quali la convivenza civile e strutture di governo vicine al cittadino, è quella del patto federale tra Stato e cittadini, in sostanza l’adozione della struttura federale nelle unioni tra Stati.
Questa struttura è già presente nel mondo. Sono unioni federali gli Stati Uniti d’America, la Repubblica federale di Germania, la Confederazione svizzera, l’India, il Brasile, ecc. In Europa occidentale si è sviluppato nella seconda metà del secolo XX un reale processo, non ancora portato a compimento, di unificazione federale tra Stati nazionali. Questo processo possiede caratteri originali e innovativi: per la prima volta nella storia il tentativo federale coinvolge Stati consolidati di dimensione consistente, in passato antagonisti e oggi riconciliati, portatori di interessi economici e sociali complessi che coinvolgono circa un quinto del Pil mondiale e oltre mezzo miliardo di persone a seguito del prossimo allargamento dell’Unione europea. Come afferma la Dichiarazione Schuman del 1950, atto fondante del processo di unificazione, l’obiettivo comune è la costruzione della pace tra Stati e popoli precedentemente in conflitto. L’Unione europea presenta già caratteri pre-federali con l’elezione diretta del Parlamento europeo (a partire dal giugno 1979) la realizzazione della moneta unica (1 gennaio 1999) e l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam sull’Unione europea (1 maggio 1999) che estende i poteri del Parlamento europeo nella codecisione e nel voto di fiducia alla Commissione. Sono però caratteri precari, che attendono di essere consolidati con la conclusione del patto federale, ovvero con un Trattato-Costituzione istitutivo di una federazione di Stati e di cittadini. Il problema è all’ordine del giorno dei lavori della Convenzione europea in corso.
Le unioni federali riuniscono in un governo comune più Stati e i loro cittadini che assumono una doppia cittadinanza, quella dello Stato di appartenenza e quella della federazione. Sul piano istituzionale doppia fonte di legittimazione politica dello Stato federale trova riscontro diretto nell’articolazione del parlamento, costituito da una Camera bassa che rappresenta il popolo dell’Unione e da una Camera alta che riunisce le rappresentanze degli Stati membri. L’esecutivo o governo federale, ha competenze esclusive solo sulla politica estera e di difesa, sulle dogane e sulle relazioni commerciali con l’estero, sulla moneta e sulla libertà di commercio interno, sulla tenuta della coesione. Altri campi di attività politica possono essere condivisi con gli Stati membri oppure essere di esclusiva competenza di questi ultimi. La Corte costituzionale arbitra i conflitti di competenza tra le varie funzioni federali e tra le istituzioni federali e quelle degli Stati membri. In pratica, lo Stato federale realizza la pace attraverso il disarmo degli Stati membri (centralizzazione della politica estera e di difesa e del comando sulle forze armate), l’introduzione della moneta unica (eguale distribuzione del potere di appropriarsi delle risorse) e la tutela giurisdizionale del diritto nei confronti degli Stati membri e dei cittadini (Corte di giustizia federale con carattere di Corte costituzionale e di tribunale di ultima istanza). La struttura federale permette quindi il governo coordinato di autorità politiche indipendenti tra loro (Kenneth C. Wheare, Federal Government, 1963), soprattutto su grandi spazi continentali o subcontinentali. Essa può anche essere articolata in livelli territoriali che vanno dalla comunità locale fino alla federazione mondiale, attraverso la regione federale, lo Stato nazionale federale, la federazione di grandi regioni del mondo. In tal modo, il federalismo concilia e garantisce unità e pluralismo statale.
La creazione dello Stato federale mondiale implica un processo di diffusione degli Stati democratici e la loro partecipazione alla formazione di federazioni regionali a carattere continentale o sub-continentale. La diversa origine storica, il differente livello di sviluppo socio-economico e le esperienze culturali e religiose maturate dai singoli popoli non permetterebbero in alcun modo la costruzione e la tenuta di uno Stato mondiale accentrato, oppure lo sviluppo di processi di unificazione di tipo imperiale o egemonico.
Lo Stato federale mondiale e la garanzia del governo locale.
Il sistema federale perfeziona il regime liberal-democratico nella separazione e nell’equilibrio dei poteri, nella tutela delle specificità culturali, nell’efficienza amministrativa e fiscale. In risposta ai timori di quanti temono l’impatto negativo della costruzione di Stati sovranazionali sulla democrazia, va sottolineato che lo Stato federale rende le istituzioni più democratiche e visibili per il cittadino perché si fonda sul principio di sussidiarietà. L’articolazione federale realizza, pertanto, il massimo livello di decentramento possibile e completa, allo stesso tempo, il regime della giustizia sociale attraverso il federalismo fiscale. La funzione distributiva del bilancio federale (Revenue sharing o Finanzausgleich) afferma la solidarietà tra comunità territoriali a differenti livelli di sviluppo accanto alla solidarietà tra classi sociali e tra classi di età già assicurata dal Welfare state.
A livello mondiale, il progetto di trasformare l’Organizzazione delle Nazioni Unite in uno Stato mondiale di natura federale potrà realizzarsi con l’attribuzione al governo federale delle attuali competenze del Consiglio di Sicurezza e di quelle oggi attribuite ad altri organismi, come il Fondo monetario internazionale (FMI) e l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). Il Segretariato dovrebbe diventare un vero esecutivo politico, mentre il Consiglio dovrebbe riformarsi nella Camera alta delle grandi federazioni continentali o sub-continentali e l’Assemblea dovrebbe essere eletta direttamente dai cittadini del mondo. In pratica si tratterebbe di riunire in un’istituzione democratica mondiale solo le competenze esclusive relative alla tenuta dell’ordine internazionale (anche con il ricorso eventuale alla forza costituzionalmente legittima), al governo della moneta unica e alla tutela della libertà di commercio a livello mondiale. Tutte le altre competenze dello Stato democratico moderno (ad esempio: sicurezza interna e affari giudiziari, ambiente e salute, telecomunicazioni e trasporti, politiche per la crescita e politiche fiscali) possono avere carattere concorrente ed essere flessibilmente coordinate tra i vari livelli di potere politico, da quello locale a quello mondiale, assicurando il massimo grado di decentramento in aderenza al principio di sussidiarietà.
Quanto sopra sostenuto trova riscontro nell’esperienza corrente. Il processo di unificazione europea in corso e le grandi federazioni subcontinentali esistenti, come gli Stati Uniti e l’India, mettono in evidenza, nello stesso tempo, un’ampia diffusione del governo locale e una concentrazione flessibile del potere a livello federale.
Si può aggiungere che, nel quadro di una situazione di mondiale transitoria — caratterizzata da rapporti di equilibrio tra grandi potenze piuttosto che da tensioni egemoniche —, in cui le condizioni della pace potranno prevalere su quelle del conflitto tra Stati, come nel caso della fondazione di grandi federazioni regionali mondiali, tali federazioni saranno caratterizzate da un forte decentramento e, probabilmente, limiteranno le loro competenze alle relazioni esterne e alla partecipazione a un’ONU riformata, alla libertà di commercio e alla funzione fiscale e redistributiva interna.
Il nazionalismo è contro la pace
Il superamento del principio di sovranità nazionale.
Da queste considerazioni emerge con chiarezza che lo Stato di dimensione mondiale o anche di dimensione regionale continentale o sub-continentale, non può sorreggersi sul principio di sovranità nazionale e deve necessariamente essere fondato sul riconoscimento dell’articolazione pluralistica della popolazione, come già avviene nelle attuali federazioni. Il pluralismo dovrà esprimersi sul piano culturale, linguistico, etnico, religioso, socio-economico, sul piano associativo e sul piano delle istituzioni. D’altra parte, il pluralismo delle strutture sociali e di governo nelle quali si manifesta la vita dei cittadini negli Stati federali permette di affermare il senso di appartenenza a più gruppi, sia dal punto di vista dei rapporti politici e giuridici in essere, vedi la cittadinanza municipale, regionale, statale, federale, sia dal punto di vista delle convinzioni religiose, degli orientamenti culturali e delle appartenenze etniche o linguistiche.
Nello Stato federale mondiale e nelle federazioni a carattere continentale, il rapporto di cittadinanza articolato a più livelli federali dovrà essere legittimato — secondo la fortunata formula, il patriottismo costituzionale, coniata da Jürgen Habermas — dall’adesione ai valori democratici e di eguaglianza tra gli uomini garantiti dalle leggi costituzionali e dagli statuti locali, dall’adesione al perseguimento degli obiettivi di pace e di giustizia, compresa la giustizia sociale. Un tale Stato dovrà necessariamente abbandonare ogni legittimazione proveniente dall’appartenenza esclusiva della sua popolazione a un gruppo etnico, linguistico, culturale, religioso, nazionale e dovrà garantire i diritti di tutti i cittadini e dei gruppi organizzati nel rispetto delle libertà costituzionalmente riconosciute. Un’anticipazione del carattere pluralistico dello Stato mondiale si può riscontrare nella Carta dell’ONU (vedi anche l’articolo 7 del Trattato di Amsterdam sull’Unione europea che recepisce la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000).
Pertanto va superato il principio invocato per legittimare l’esistenza di uno Stato, ossia l’appartenenza esclusiva della popolazione a una nazione, a un’etnia, a un gruppo linguistico o a una confessione religiosa. Esso ha fondamentalmente un carattere totalitario, come ha dimostrato l’estremismo razzistico del nazionalismo in Europa tra le due guerre mondiali, con l’eliminazione fisica degli ebrei, degli zingari, dei minorati fisici e mentali realizzata dai nazisti, e successivamente l’estremismo del nazionalismo etnico nato sulle rovine dell’ex-URSS e dell’ex-RFS di Jugoslavia. Oggi il principio dello Stato nazionale a sovranità esclusiva, che il sionismo ha ereditato dall’Europa, impedisce a Israele e a tutti coloro che sono alla ricerca della pace l’apertura di un dialogo costruttivo con i vicini Stati arabi che pure hanno manifestato una loro iniziale disponibilità con il Piano di pace saudita approvato dal Consiglio della Lega Araba il 28 marzo 2002 a Beirut.
La funzione prima progressista e successivamente conservatrice del nazionalismo.
L’uso politico del principio della sovranità nazionale si è affermato nel corso della rivoluzione francese. La repubblica sorta dalla deposizione del monarca di diritto divino dovette presto lottare contro la coalizione restauratrice delle restanti monarchie europee. Alla fine del XVIII secolo, la sola legittimazione democratica non era sufficiente per chiamare i cittadini a uno sforzo enorme di mobilitazione civile e militare contro un nemico esterno e necessariamente si dovette ricorrere al riferimento ideologico della nazione in armi. La caratteristica specifica della legittimazione nazionale in Francia è sottolineata dal fatto che, in condizioni storiche e di sicurezza esterna completamente diverse, l’affermazione della democrazia in Gran Bretagna non ha avuto bisogno di fare perno sul principio nazionale e tutt’oggi il Regno Unito riunisce inglesi, scozzesi, gallesi e nord-irlandesi in nome della fedeltà alla corona. Anche la democrazia americana non ha avuto bisogno di ricorrere al nazionalismo per legittimarsi e trova il suo perno nella Dichiarazione di indipendenza e nella Costituzione di Filadelfia, entrambe ispirate a principi ugualitari.
Sul piano storico non si può negare la funzione progressista svolta inizialmente dallo Stato nazionale in quanto chiamato a sostenere gli ideali di libertà, eguaglianza e fraternità espressi dalla rivoluzione francese contro il vecchio ordine monarchico e feudale. Allo stesso modo, non si può negare il ruolo progressista svolto dai movimenti di unificazione nazionale tedesco e italiano per sostenere l’avvio della rivoluzione industriale e dello Stato democratico moderno oltre il Reno e a sud delle Alpi e superare un contesto di frammentazione politica di livello regionale. Soprattutto in Italia, le forze liberal-democratiche del tempo si accorsero rapidamente che le libertà economico-commerciali necessarie per avviare l’industrializzazione e la crescita di ceti sociali di supporto per lo Stato democratico moderno avrebbero potuto affermarsi solo attraverso l’unificazione politica della penisola e l’indipendenza dal potere egemonico dell’Austria. Si può sostenere, pertanto, che il principio nazionale trovò una sua necessaria affermazione storica in Italia e in altri paesi europei per superare il conservatorismo dell’impero asburgico.
Il principio nazionale è tuttavia entrato in crisi, come fattore progressista, alla fine del secolo scorso, quando le forze spontanee della rivoluzione industriale iniziarono a varcare i confini dello Stato nazionale europeo per assumere dimensioni continentali ed mondiali (globalizzazione). Su questa analisi convergono due autori molto distanti per formazione e pensiero politico, come il bolscevico Lev Trotskij (Il bolscevismo di fronte alla guerra e alla pace nel mondo, 1914) e il federalista ed economista liberale Luigi Einaudi, divenuto il primo presidente della Repubblica italiana nel 1948 (La Società delle Nazioni è un ideale possibile?, 1918 e Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni, 1918). Sul piano della verifica storica, non a caso la fine del XIX secolo fu caratterizzata dall’affermazione degli Stati Uniti d’America come grande potenza democratica e industriale di dimensione continentale e dalla nascente crisi del sistema europeo di Stati alla ricerca del loro «spazio vitale». La crisi del sistema europeo degli Stati sfociò nella prima guerra mondiale e terminò definitivamente con la seconda guerra mondiale dopo gli orrori del nazifascismo che aveva contaminato tutta l’Europa continentale. La febbre del nazionalismo, che colpì i popoli europei nella prima metà del secolo XX, fu speculare allo stato di guerra presente sul continente, che impose a ciascun paese una forte concentrazione di potere e alti livelli di mobilitazione ideologica e militare. Si può aggiungere che il centralismo nazionalistico, nella sua forma estrema del nazifascismo, ha sorretto l’agonia della sovranità negli Stati nazionali europei nella fase cruciale della crisi del sistema europeo di potenze.
Dal momento in cui, all’inizio del secolo XX, si è aperta la fase storica dell’integrazione economica sovranazionale, il principio di nazionalità non ha più svolto un ruolo progressista e oggi non può legittimare l’affermazione di Stati democratici moderni su spazi continentali o subcontinentali. Non a caso il processo di unificazione europea nasce dopo il 1945 proprio come superamento della divisione dell’Europa in Stati nazionali e poggia sulla generale riconciliazione post-bellica, in primo luogo su quella franco-tedesca.
Le responsabilità della rinascita del nazionalismo nell’Europa orientale e balcanica.
Ciò non significa peraltro che il principio nazionale abbia fatto definitivamente il suo tempo. Basti pensare alle conseguenze della caduta dei regimi comunisti avvenuta con la fine dell’equilibrio bipolare. Si tratta di una caduta che ha privato i paesi dell’Europa centro-orientale, dell’ex-Unione Sovietica e della ex-Jugoslavia della loro legittimazione ideologica. Il collasso del comunismo non ha trovato prontamente disponibili nell’area del Patto di Varsavia una classe politica alternativa e strutture di legittimazione del potere di natura democratica. Da un punto di vista mondialista, la fine della guerra fredda ha significato anche la fine del confronto tra due visioni universali della futura organizzazione del mondo — quella della partnership tra potenze democratiche, espressa dall’Alleanza atlantica, e quella dell’Internazionale comunista guidata da Mosca —, ma il pensiero politico occidentale non è stato in grado di proporre alcun salto qualitativo per la costruzione di un nuovo ordine internazionale, come invece accadde dopo le due guerre mondiali con le soluzioni, certamente imperfette ma innovative, della Società delle Nazioni e dell’ONU. Va tuttavia ricordato che un tentativo in tale direzione fu compiuto da Gorbaciov con la proposta della «casa comune», ma la sua rapida fine politica pose termine al progetto.
Le difficoltà del passaggio alla democrazia negli Stati ex-comunisti è comprensibile. In tali paesi, in verità, non si è mai affermato lo Stato democratico, a parte la breve esperienza della minata però dal predominio della nazionalità slava sulla minoranza tedesca in Boemia e sulla minoranza ungherese in Slovacchia.
Nei paesi ex-comunisti, poi, non si è sviluppata l’integrazione sovranazionale che invece è entrata nel patrimonio civico delle popolazioni europee occidentali negli ultimi cinquant’anni. Per di più, tutte le relazioni determinate dal Patto di Varsavia e dal Comecon erano sotto la guida imperiale dell’URSS. L’Unione Sovietica e la RFS di Jugoslavia, infine, erano federazioni apparenti, centralizzate di fatto dalla dittatura del partito unico di governo. Nell’Unione Sovietica l’apparato del PCUS era dominato dai russi e dagli ucraini, in Jugoslavia la Lega dei comunisti era sotto lo stretto controllo dei serbi. Con tali premesse era fatale che il collasso dei regimi comunisti ponesse il problema di una nuova legittimazione del potere. La legittimazione etnico-nazionale attraverso la secessione ha ripreso le fila di un discorso lasciato aperto nel 1918 dal crollo degli imperi austro-ungarico, tedesco e zarista.
Tuttavia, se tale legittimazione ha ignorato lo sviluppo del processo di unificazione dell’Europa, essa è stata anche favorita dai comportamenti attivi della Germania, dell’Austria e del Vaticano a favore della secessione di Slovenia e Croazia, dal sostegno iniziale dato alla Serbia dalla Francia e dal Regno Unito e dall’assenza di reazioni dell’Italia. Il comportamento scoordinato degli Stati europei occidentali ha messo in evidenza il carattere incompiuto del processo di unificazione e il limite del metodo intergovernativo nelle decisioni di politica estera e sicurezza comune (Pesc) dell’Unione europea. In sintesi, il prevalere degli interessi nazionali all’interno dell’UE ha dato un contributo determinante alla disgregazione jugoslava.
Accanto alle responsabilità occidentali, occorre sottolineare le responsabilità delle classi politiche dominanti della Slovenia, della Croazia, della Lituania e delle altre repubbliche baltiche nell’attivare processi di secessione. In particolare, il governo sloveno ha avviato il processo di disgregazione in Jugoslavia per avere una via di accesso all’economia di mercato dell’Europa occidentale, invece di affrontare il problema della democrazia nell’intera federazione e del dovere di solidarietà con le regioni più povere dell’intero paese attraverso lo strumento del federalismo fiscale. Un discorso analogo riguarda il contributo del secessionismo lituano alla dissoluzione dell’URSS, piuttosto che alla sua conversione in un’effettiva e moderna democrazia federale.
A parte i federalisti europei, nessun movimento politico o di opinione ha saputo indicare ai popoli dell’ex-Unione Sovietica o dell’ex-RFS di Jugoslavia che le vie della democrazia e della partecipazione al mercato mondiale non sono quelle dell’autodeterminazione ispirata dal nazionalismo etnico. Il sistema politico degli Stati occidentali non è stato in grado di indicare all’URSS la via del federalismo democratico interno e alla Jugoslavia la possibilità di accedere all’Unione europea salvando l’unità del paese. E’ sintomatico infatti che alla fine del 1991, mentre il Consiglio europeo di Maastricht varava l’Unione europea, l’Unione Sovietica si sia sciolta quasi contemporaneamente nella labile Confederazione degli Stati Indipendenti e la secessione della Slovenia abbia avviato la ex-Jugoslavia verso il suo tragico destino.
Le conseguenze nefaste del nazionalismo etnico nei Balcani.
Il bilancio che si deve trarre dalla riscoperta del nazionalismo è assolutamente negativo e gli ultimi anelli della catena sono stati la pulizia etnica di Slobodan Milosevic in Kosovo che ha scatenato l’intervento NATO del 1999 e gli epigoni secessionistici della minoranza albanese in Macedonia del 2001. La Serbia non è la sola da porre sul banco degli accusati. I nuovi Stati a base etnica per prima cosa hanno cercato di opprimere le minoranze etniche comprese nei loro confini. Nella ex-URSS, i paesi baltici hanno inizialmente negato i diritti politici ai residenti russi e polacchi, e georgiani e azeri hanno perseguitato rispettivamente osseti e armeni. Nella ex-RFS di Jugoslavia, la soppressione dell’autonomia delle province del Kosovo e della Voivodina nel 1989 da parte della Serbia ha favorito la richiesta di secessione della Slovenia. Il separatismo etnico sloveno ha aperto la strada al separatismo etnico croato e macedone, alla pulizia etnica croata contro i serbi a Zara e nelle Krajine, all’oppressione dei musulmani bosniaci da parte dei croati e dei serbi e via di seguito, in una scia di massacri che si è trascinata in Kosovo e Macedonia.
La destabilizzazione balcanica ha chiuso i serbi in un nazionalismo cieco e intollerante a sostegno di un gruppo di potere corrotto di ex-comunisti che si è riunito intorno a Milosevic. Altrove i risultati sono stati non molto diversi. I partiti di governo delle nuove repubbliche si sono ispirati inizialmente all’ex-movimento fascista ustascia o all’islamismo (Bosnia), quando non sono stati espressione della delinquenza locale legata al contrabbando e al traffico di droga (vedi l’UCK). La destabilizzazione della regione ha favorito la centralizzazione politica e l’autoritarismo all’interno delle nuove incerte formazioni statuali e, infine, ha aperto un conflitto internazionale sul problema del Kosovo.
Va sottolineato in modo deciso che nell’Europa centro-orientale, al di fuori della ex-RFS di Jugoslavia, solo la prospettiva della futura adesione all’Unione europea ha condizionato i nuovi regimi bloccando sul nascere le loro operazioni interne di pulizia etnica o i conflitti con i confinanti per discutibili rivendicazioni territoriali: si pensi alle minoranze ungheresi in Slovacchia, Romania e in Voivodina, alle minoranze polacche e russe in Lituania, Lettonia ed Estonia. La separazione tra Praga (Repubblica ceca) e Bratislava (Repubblica slovacca) è avvenuta in modo consensuale e senza spargimento di sangue, tra l’altro, questo era l’unico modo per mantenere aperta la prospettiva dell’adesione all’Unione europea per entrambi i paesi.
Un chiarimento sui termini autodeterminazione e autogoverno
Il carattere reazionario dell’autodeterminazione.
Il termine autodeterminazione, nel suo significato ordinario, esprime l’azione politica diretta a conseguire la creazione di un nuovo Stato sovrano indipendente, dotato di proprio esercito e di propria moneta, in genere legittimato dal principio etnico, nazionale, o religioso, attraverso la secessione da un’altra entità statuale. La sua origine può essere attribuita alle proposte avanzate dal Presidente americano Thomas Woodrow Wilson dopo la prima guerra mondiale per ricostruire l’ordine politico europeo sulla base del principio nazionale a seguito del crollo degli imperi centrali.
Il disegno di Wilson per l’autodeterminazione si completava con la creazione della Società delle Nazioni, concepita come organismo di coordinamento internazionale che avrebbe dovuto ricomporre la crisi di potere in Europa, e non come organizzazione di tipo federale. l’applicazione del principio di autodeterminazione, in assenza di governo sovranazionale, non contribuì a risolvere i problemi della pace e dello sviluppo in Europa, come ha dimostrato drammaticamente la storia del secolo XX, ma aumentò la frantumazione politica ed economica dell’Europa, accentuando le dispute di confine, l’oppressione delle minoranze, il centralismo e il militarismo, il protezionismo e complessivamente l’anarchia internazionale.
Il richiamo all’autodeterminazione ebbe in seguito successo come sostegno alle rivendicazioni indipendentiste connesse alla decolonizzazione, o a quelle sostenute da minoranze etniche o nazionali in presenza di scarso o nullo riconoscimento dei loro diritti. A questo proposito, possono essere citate le rivendicazioni separatiste ancora attive nei Paesi Baschi, nel Québec (un recente referendum ha rigettato l’ipotesi della secessione) e in altre parti del mondo, come nello Jammu e Kashmir, in Tibet, nel Kurdistan. Queste tendenze alla frammentazione politica del mondo, riscontrabili anche all’interno di Stati democratici, come la Spagna, l’Italia, il Canada, oppure l’India, vanno contrastate e sconfitte perché non offrono la risposta corretta alla difesa dei diritti degli individui e delle minoranze oppresse, non promuovono l’affermazione della pace nei rapporti internazionali e nei rapporti tra individui e gruppi sociali, e favoriscono lo sgretolamento dell’ordine internazionale.
Con riferimento specifico all’applicazione del principio di autodeterminazione nella ex-RFS di Jugoslavia e nell’ex-URSS, l’avvio dei processi di secessione ha solo sconvolto la vita civile delle popolazioni interessate, ha generato guerre, lutti, odi e rovine, ha compromesso l’affermazione della democrazia e della pace in due aree internazionalmente sensibili. Va inoltre sottolineato che il riconoscimento da parte della comunità internazionale degli Stati monoetnici nati sulle ceneri della RFS di Jugoslavia e dell’Unione Sovietica favorisce le tendenze alla frammentazione. L’autodeterminazione è in definitiva un principio politico antidemocratico e reazionario, minaccia l’ordine mondiale e la convivenza tra i popoli, impedisce l’affermazione del mercato mondiale e lo sviluppo delle forze produttive ed è contraria allo sviluppo del federalismo.
Il principio democratico dell’autogoverno.
Il concetto di autogoverno, contrariamente all’autodeterminazione, si colloca nel quadro della democrazia e riguarda la protezione di interessi e culture autoctone espressi da regioni e comunità locali senza che sia messa in discussione l’unità dello Stato e l’articolazione pluralistica della società. L’autogoverno poggia sul principio di sussidiarietà, sulla sovranità democratica degli elettori, sulla libertà di associazione tra cittadini e sulla libertà di unione tra istituzioni territoriali, sul dominio della costituzionale. Permette di individuare dinamicamente le strutture politico-istituzionali più rispondenti alla natura dei problemi che la società deve affrontare. L’autogoverno può essere esercitato nell’ambito degli Stati decentrati o federali in applicazione del principio di sussidiarietà. Di norma la flessibilità delle leggi costituzionali di tali Stati consente l’estensione o la riduzione orizzontale delle competenze di un centro di decisione politica (quando i cittadini danno o tolgono materie di intervento a comune, regione, Stato), oppure il trasferimento verticale delle competenze tra autorità politiche di vario livello (quando si ritiene che sia meglio affidare una certa competenza alla gestione comune di un’autorità politica di livello superiore o viceversa). Un caso concreto e recente di accesso all’autogoverno è dato dalla nascita della del Nanavut nel Canada settentrionale, abitata dagli esquimesi Inuit, che il 1° aprile 1999 ha conquistato l’autonomia amministrativa dal governo federale di Ottawa per quanto riguarda educazione, sanità, servizi sociali e politiche abitative e della cultura. Un altro caso ancora più rilevante è la Devolution realizzata nel Regno Unito con l’autonomia concessa al Galles e alla Scozia che il 6 maggio 1999 hanno eletto rispettivamente l’assemblea e il parlamento che la sanciscono.
Va anche ricordato che proprio il processo di integrazione europea ha permesso di rafforzare gli istituti del governo democratico decentrato all’interno degli Stati nazionali europei, unitamente al superamento dei problemi delle minoranze nazionali nelle aree di confine, come è avvenuto nel Sud-Tirolo — già provincia austriaca a prevalente popolazione di lingua tedesca acquisita dall’Italia dopo la prima guerra mondiale. Ciò è stato favorito dalla banalizzazione delle frontiere tra Stati appartenenti all’Unione europea e dalla nascita della comune cittadinanza europea con il Trattato di Maastricht.
Dunque, l’autogoverno è un concetto politico che si regge sui principi di sussidiarietà, solidarietà, cooperazione e coordinamento che sono tipici del federalismo, il quale consente la costruzione dell’unificazione politica dell’umanità, dalla comunità locale alla dimensione mondiale, nella pace e nell’osservanza della legge, attraverso l’esercizio del sovrano democratico del cittadino ai diversi livelli del potere organizzato.
Conclusione.
La storia dell’umanità è la storia dell’evoluzione dei rapporti di forza tra popoli e gruppi sociali e solo da pochi secoli è stato avviato il processo di diffusione del metodo democratico per regolare tali rapporti attraverso il ricorso al voto attribuito a ciascun cittadino. Oggi sono ancora diffusi numerosi rapporti egemonici o imperiali sul piano politico, culturale, religioso o socio-economico. Occorre però chiedersi se la via corretta per superare tali rapporti di forza sia quella della secessione sanzionata dall’autodeterminazione, oppure quella dell’impegno prioritario per la diffusione della democrazia e dello Stato di diritto, e quindi per l’avvio del processo di unificazione sovranazionale, ove esso non è ancora presente. Per essere espliciti, occorre favorire l’indipendenza del Tibet e della Cecenia, oppure operare per l’affermazione piena della democrazia e dei diritti dell’uomo in tutta la Cina e in Russia; sostenere l’autodeterminazione del Kashmir, oppure la riconciliazione tra India e Pakistan — come è avvenuto in Europa tra Francia e Germania — e la fondazione di uno Stato federale nell’Asia meridionale esteso al Bangladesh, al Nepal e via di seguito? Israele deve rimanere uno Stato assediato, impegnato continuamente a reprimere la rivolta arabo-palestinese conseguente alla sua ricerca di «spazi vitali» nella Cisgiordania e nella striscia di Gaza, oppure può diventare una componente preziosa per un processo di pace e di emancipazione civile, sociale ed economica nel quadro della realizzazione, sostenuta esternamente da Unione europea e Stati Uniti d’America, di un’unione federale tra Stati del Medio Oriente? Che senso ha promuovere l’autodeterminazione in Tibet, in Cecenia, nel Kurdistan o in Kosovo quando, a parte ogni considerazione sulla possibilità di una gestione pacifica di tali processi, lo sbocco sarebbe la formazione di ulteriori unità statali incapaci di garantire la democrazia e lo sviluppo economico per le loro popolazioni? L’autodeterminazione realizzata nella ex-URSS o nella ex-RFS di Jugoslavia ha fatto avanzare il mondo verso la pace o verso la guerra e la frammentazione politica?
Per rispondere a queste domande una strategia coerente e gradualista dovrebbe quindi puntare sull’avvio dei processi di decollo economico-sociale e sulla diffusione della democrazia nel mondo, a partire dalle regioni abitate da minoranze alle quali non sono riconosciuti il diritto alla libera espressione culturale e l’autogoverno. Se si vuole operare in tale direzione è necessario puntare sul completamento del processo di costruzione federale in Europa perché tale processo avrebbe un impatto decisivo sull’avvio di altre integrazioni regionali e sull’evoluzione democratica interna di regioni come la Cina o il mondo islamico oggi pervaso dall’integralismo.
Certo si deve riconoscere che in passato, a causa della presenza di rapporti imperiali, la battaglia per l’autodeterminazione ha in certe circostanze un ruolo evolutivo. Gli Stati Uniti d’America non sarebbero nati senza la rivendicazione democratica (no taxation without representation) contro il potere fiscale della corona inglese e la Dichiarazione di indipendenza (1776) delle tredici ex-colonie, seguita dalla guerra relativa. L’indipendenza successivamente fu all’origine della Convenzione di Filadelfia e dell’affermazione di un modello di Stato democratico certamente più avanzato di quello che la corona inglese avrebbe potuto assicurare nella migliore delle ipotesi ai coloni nordamericani e di quello garantito successivamente agli stessi sudditi inglesi. D’altra parte, la battaglia per la democrazia e la rappresentanza politica dei coloni nordamericani nel parlamento di Westminster incontrava ostacoli geografici oggettivi. A quei tempi (Obstat natura, secondo Edmond Burke), l’oceano Atlantico rappresentava una barriera difficile da superare.
Il caso americano è però un caso limite e la prova a contrario si è avuta proprio con la rivolta degli Stati schiavisti del sud che portò alla guerra di secessione. In quell’occasione il presidente Lincoln difese l’Unione federale, ma era legittimato a farlo perché l’Unione non si reggeva su un rapporto imperiale, bensì sull’eguaglianza razziale, sul governo democratico e sul mantenimento della pace. Oggi la frase pronunciata da Lincoln: «L’idea centrale della secessione è l’anarchia», ha piena legittimità politica poiché in Europa e in altre parti del mondo, a fronte dei tentativi di integrazione sovranazionale, che nel caso europeo assumono anche un esplicito obiettivo di unificazione politica, sono attive le forze della disgregazione. Inoltre, di fronte al rischio della diffusione delle armi di distruzione di massa che incombe sull’umanità, certamente accresciuto dal disordine internazionale emerso dopo la fine dell’equilibrio bipolare, occorre favorire i processi di unificazione politica sovranazionale per assicurare la pace e il governo responsabile di vaste aree del mondo ed evitare la frammentazione politica del genere umano, che contrasta con le spinte spontanee alla crescita dell’interdipendenza umana generate dai processi di globalizzazione in atto.