Anno XLIV, 2002, Numero 2, Pagina 82
L’Europa nel 2002
UGO DRAETTA
1. La Convenzione ed il suo mandato.
Il 2002 sarà un anno di fondamentale importanza per l’Europa. Il 1° marzo 2002, infatti, ha iniziato i suoi lavori la Convenzione cui il Consiglio europeo di Laeken, nel dicembre 2001, ha affidato il mandato di preparare i lavori della prossima Conferenza intergovernativa di revisione dei Trattati, prevista per il 2004 (o fine 2003 — se l’Italia riesce a farla coincidere con il suo semestre di presidenza dell’Unione europea).
Due considerazioni preliminari si impongono al riguardo. 1) Dopo il Trattato di Maastricht siamo entrati in un processo di revisione generale permanente del Trattato di Roma. La prima revisione generale fu effettuata con l’Atto Unico europeo nel 1986, a quasi trent’anni dal Trattato di Roma. La seconda ebbe luogo dopo sei anni, nel 1992, con il Trattato di Maastricht. Dopo Maastricht sono stati conclusi, in un breve lasso di tempo e in rapida accelerazione, il Trattato di Amsterdam, quello di Nizza (che potrebbe non entrare nemmeno in vigore se venisse superato dagli eventi) ed ora si lavora già ad una nuova revisione. Ciò dimostra che a) lo status quo per quanto riguarda i trattati comunitari non appare essere un’opzione, b) riforme radicali sono indispensabili e c) tali riforme non sono state realizzate in misura soddisfacente né a Maastricht, né ad Amsterdam, né a Nizza. 2) E’ stato molto pubblicizzato il nuovo metodo con cui si arriverà alla prossima revisione dei Trattati, sottolineando l’importanza che della Convenzione facciano parte rappresentanti dei parlamenti (nazionali ed europeo). Al di là della retorica ufficiale, va però ricordato che il processo di revisione dei Trattati è ancora saldamente nelle mani dei governi nazionali. La Convenzione, infatti, ha una funzione importante, senz’altro, ma solo propositiva. Essa non deciderà nulla; le decisioni finali spetteranno sempre ai governi riuniti nella Conferenza intergovernativa che si terrà nel 2004 (o 2003).
Gli stessi governi nazionali, in occasione del Consiglio europeo di Laeken, hanno definito il mandato da affidare alla Convenzione. Tale mandato è centrato su due esigenze fondamentali, da lungo tempo dibattute ed ormai improrogabili: a) assicurare una maggiore democraticità al processo di integrazione europea, nonché b) garantire ai cittadini europei diritti costituzionali su base europea. Il Consiglio europeo di Laeken ha evitato, però, nella formulazione del suo mandato alla Convenzione, di accennare a possibili risposte a tali esigenze e, anzi, la definizione del mandato stesso è caratterizzata da una notevole ambiguità e contraddittorietà nell’affrontare i problemi attuali del processo di integrazione europea, come cercheremo di spiegare in prosieguo.
2. Il problema del deficit democratico.
Cominciamo con il chiarire cosa si intende generalmente per deficit democratico dell’Unione europea, problema individuato da tempo come elemento suscettibile di inquinare alla radice la legittimità delle istituzioni comunitarie.
In linea teorica, per deficit democratico si intende a) il mancato o insufficiente coinvolgimento dei cittadini nella elezione degli organi che detengono il potere legislativo (in uno Stato democratico il potere legislativo è del parlamento eletto democraticamente), nonché b) l’insufficiente livello di responsabilità politica di organi che prendono decisioni esecutive che riguardano direttamente i cittadini.
Esiste un deficit democratico nell’Unione europea? La risposta non può essere che affermativa, nella misura in cui: 1) il Consiglio dell’Unione europea emette regolamenti (che sono atti legislativi) applicabili direttamente ai cittadini, ma questi non eleggono il Consiglio, che è, invece, espressione degli esecutivi degli Stati membri. Il Parlamento europeo, che è eletto dai cittadini, ha al massimo un diritto di veto. Quindi, nell’Unione europea è l’esecutivo che gode del potere legislativo, una situazione simile a quella prevalente in Europa prima della rivoluzione francese. 2) La Commissione — che dispone di alcuni poteri decisori importanti, per esempio in materia antitrust o di fondi strutturali — non è sottoposta ad un effettivo controllo politico, come avviene, per analoghi organi degli Stati membri all’interno degli Stati membri stessi. La mozione di sfiducia che può votare il Parlamento europeo nei confronti della Commissione non è assolutamente paragonabile all’analogo istituto con cui l’organo legislativo controlla il governo negli ordinamenti interni. Basti pensare che né il Parlamento europeo è organo legislativo, né la Commissione è comparabile ad un governo, tra l’altro, composta di individui politicamente indipendenti. Si aggiunga che, specie nel campo del controllo delle concentrazioni, anche il controllo giudiziario da parte della Corte di Giustizia e del Tribunale di Primo Grado sull’operato della Commissione è largamente carente. Si pensi al limitato effetto pratico della recente sentenza del Tribunale di Primo Grado, nel caso Airtours,[1] che ha annullato una decisione della Commissione del 1999, con la quale veniva vietata tale operazione: la concentrazione fu illegittimamente vietata ma non si può certo realizzarla ora a distanza di tanto tempo. Uguale discorso può farsi per la Banca centrale europea, che non ha una responsabilità politica analoga a quella cui sono sottoposte le Banche centrali nazionali nei loro rispettivi paesi.
Una certa retorica comunitaria contesta l’esistenza di un deficit democratico riferendosi al fatto che, da una parte, i cittadini eleggono il Parlamento europeo e, dall’altra, i rappresentanti dei governi nel Consiglio dell’Unione europea sono espressione delle maggioranze parlamentari nei rispettivi Stati di appartenenza.
Sotto il primo profilo, l’elezione diretta del Parlamento europeo non vale a sanare il deficit democratico, in quanto il Parlamento europeo non è dotato di poteri legislativi, ma solo, al massimo, di un diritto di veto. Può paralizzare l’attività comunitaria, non determinarla. Inoltre, e proprio in virtù di tale carenza, è un dato sotto gli occhi di tutti che le elezioni del Parlamento europeo, che avvengono nei singoli Stati membri e non a livello europeo, di fatto non comportano un dibattito che verta su temi europei, ma costituiscono una verifica della tenuta delle rispettive coalizioni nazionali, una sorta di mid-term elections all’americana. D’altra parte, una elezione ha senso nel quadro di una vera competizione per il potere tra opposte forze politiche. Non c’è potere effettivo allivello del Parlamento europeo e non ci può essere, quindi, una vera competizione politica.
Quanto al controllo cui sono sottoposti i membri del Consiglio dell’Unione europea da parte dei rispettivi parlamenti nazionali, questo è troppo remoto per potersi affermare che il Consiglio rappresenti il popolo europeo, come dovrebbe rappresentarlo un organo legislativo. Una tale affermazione offenderebbe il senso comune. In verità i governi nazionali sono sottoposti collegialmente al controllo dei rispettivi parlamenti per quanto riguarda la politica nazionale, non quella europea dei singoli rappresentanti che siedono nel Consiglio dell’Unione europea: quest’ultimo, collegialmente, è sottratto a qualsiasi controllo politico da parte del popolo europeo.
Chiediamoci ora se il deficit democratico dell’Unione europea sia tollerabile o vada eliminato. Occorre, al riguardo, premettere alcune considerazioni.
1) Non vi è deficit democratico allorquando la delega di funzioni da parte degli Stati membri nei confronti di una organizzazione internazionale da essi creata comporta l’emanazione da parte di quest’ultima soltanto di provvedimenti diretti agli Stati membri stessi, da essere immessi da questi ultimi nei rispettivi ordinamenti interni con provvedimenti nazionali (come si verifica, ad esempio, per le Nazioni Unite). Vi è, invece, necessariamente un deficit democratico quando l’organizzazione è delegata ad emettere provvedimenti direttamente applicabili ai cittadini, all’interno degli Stati membri. In questi casi, l’organizzazione si sostituisce, infatti, agli Stati membri, nell’esercizio di funzioni interne. Gli esempi di tali provvedimenti direttamente applicabili ai singoli sono, per la verità, pochi in organizzazioni internazionali diverse dalle Comunità europee — sostanzialmente il fenomeno si verifica solo nella Organizzazione per la aviazione civile internazionale (ICAO) e nella Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ed è limitato ad aspetti tecnici —, ma assumono una dimensione notevole in campo comunitario, date le vaste competenze delegate alle Comunità europee da parte degli Stati membri.
2) Finché la Comunità europea era una comunità economica (sostanzialmente fino al Trattato di Maastricht del 1992), il deficit democratico era tollerabile. Si trattava di instaurare un mercato comune e, poi, con l’Atto Unico europeo, un mercato interno ed il sacrificio di democraticità appariva compensato dai vantaggi derivanti ai cittadini dall’integrazione economica. Quando, invece, la delega di funzioni da parte degli Stati membri alla Comunità europea (dal Trattato di Maastricht in poi) ha cominciato a toccare funzioni legislative in altri campi, per esempio quello sociale, della tutela dell’ambiente, di quella dei consumatori, della privacy o della giustizia civile, l’ampiezza della delega stessa ha portato all’acuirsi del problema del deficit democratico.
3) A seguito della mole imponente di provvedimenti adottati dal Consiglio, su proposta della Commissione, in questi campi così ampi, il problema del deficit democratico ha finito con il diventare intollerabile perché i cittadini hanno avvertito tutti questi provvedimenti come estranei, adottati senza un dibattito democratico, da organi che non avevano ricevuto un mandato dai cittadini stessi. Di qui la crescente disaffezione da parte di questi ultimi all’idea di Europa, disaffezione che è sotto gli occhi di tutti e che è stata riconosciuta anche dal Consiglio europeo di Laeken, il quale, nelle sue conclusioni e nel mandato dato alla Convenzione, dichiara necessario porvi rimedio.
4) Parallelamente, certe decisioni della Commissione, specie in materia di controllo delle concentrazioni, largamente contestate e, recentemente, dichiarate anche tardivamente illegittime da parte della Corte di Giustizia, hanno messo sotto gli occhi di tutti la situazione di sostanziale irresponsabilità della Commissione stessa.
Si è quindi ora giunti al punto che, se si vuole fare avanzare il processo di integrazione europea, la soluzione del problema del deficit democratico non appare più dilazionabile. Due esempi valgano per tutti: 1) l’attuale Politica estera e di sicurezza comune (PESC) dell’Unione europea è ancora largamente improntata a soluzioni intergovernative, cioè a contatti diplomatici di tipo tradizionale basati sulla regola dell’unanimità. Da molti si sostiene, invece, che una efficace politica estera e di difesa comune non possa che essere decisa a livello europeo e che questo passaggio costituisca una tappa cruciale del progresso dell’integrazione europea. 2) Si sostiene ugualmente che la moneta unica non possa continuare ad essere sostenuta da politiche economiche nazionali coordinate solo attraverso un patto di stabilità operante a livello intergovernativo, ma necessiti di una vera politica economica comune decisa a livello europeo, cioè una politica di bilancio europea che includa il livello di spesa pubblica e le entrate tributarie. Per inciso, molti economisti sostengono che, senza una politica di bilancio comune, la moneta unica costituisce una conquista precaria. Non dimentichiamo che per Delors la moneta unica fu come una scommessa in attesa dell’Europa politica da realizzarsi nella fase transitoria, un ponte gettato sul futuro in attesa che l’Europa politica gli mettesse sotto i pilastri.
La Commissione appare condividere queste esigenze, del resto largamente riconosciute, ma la risposta che vi dà è quella di rivendicare per sé stessa la gestione di una politica estera e di difesa comune, nonché di una politica economica e di bilancio comune. E’ questo, infatti, il senso della Comunicazione della Commissione del 22 maggio 2002, intitolata Un Progetto per l’Unione europea.[2] Ma non v’è chi non veda come questa soluzione aggraverebbe in misura insostenibile il deficit democratico. Una politica estera e di difesa comune può implicare scelte di carattere militare e le decisioni sulla guerra o sulla pace, in ogni Stato democratico, sono prese dall’organo parlamentare eletto democraticamente dai cittadini e non possono essere delegate ad un organo come la Commissione, politicamente irresponsabile. Parimenti, una politica di bilancio implica scelte sul piano fiscale e l’imposizione tributaria non può che essere prerogativa di organi eletti dai cittadini. Quindi un’effettiva politica estera e di sicurezza comune, nonché una politica economica comune, tappe fondamentali per il progresso dell’integrazione europea, non possono realizzarsi senza che venga prima risolto il problema democratico.
3. Il problema dei diritti costituzionali dei cittadini a livello europeo e il principio del mutuo riconoscimento.
Veniamo ora al secondo dei temi oggetto del mandato dato alla Convenzione dal Consiglio europeo di Laeken, cioè quello di garantire ai cittadini europei diritti costituzionali su base europea.
Il discorso sui diritti fondamentali dei cittadini europei si intreccia con quello del deficit democratico e, da posizioni di partenza diverse, porta alle stesse conclusioni. Per chiarirne i termini, vale la pena ricordare che il processo di integrazione europea, condotto finora con la preoccupazione di salvaguardare la sovranità degli Stati membri, è stato realizzato attraverso due meccanismi: la delega di funzioni dagli Stati membri ad organismi comunitari e il principio del mutuo riconoscimento.
Della delega di funzioni e dei suoi riflessi sul deficit democratico abbiamo già parlato. Si può aggiungere, per sottolineare come la delega di funzioni, oltre a creare problemi di legittimità democratica, imponga il contemporaneo riconoscimento ai cittadini di effettivi diritti costituzionali sul piano europeo, che quando, ad esempio, la Commissione in materia antitrust funge da pubblico ministero e da giudice allo stesso tempo, senza un effettivo controllo da parte di un organo giurisdizionale, vengono violati i diritti costituzionali al contraddittorio, alla difesa, al doppio grado di giudizio, ecc., come è stato riconosciuto da una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.[3] La proposta della Commissione di estendere i suoi poteri in materia antitrust fino all’effettuazione di perquisizioni domiciliari, proposta che pare la Commissione abbia di recente abbandonato, non farebbe che rendere più urgente l’esigenza di dare ai cittadini europei adeguate garanzie costituzionali nel campo della difesa del diritto all’inviolabilità del domicilio.
Passando al mutuo riconoscimento, esso ha svolto un ruolo importante nel passaggio dal mercato comune al mercato interno, consentendo una armonizzazione delle regole relative alla libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali sulla base dei requisiti del paese di origine e non di quello di provenienza. In altri termini, invece che delegare funzioni alle autorità comunitarie, gli Stati membri hanno a volte preferito conservare le proprie competenze, impegnandosi reciprocamente a riconoscere valide come se fossero effettuate dai propri organi alcune certificazioni, autorizzazioni o controlli effettuati dai corrispondenti organi di ciascuno degli altri Stati membri. La soluzione è stata molto efficace in quanto ha provocato un livello di armonizzazione al massimo comune denominatore di liberalizzazione. Infatti, gli Stati che avessero lasciato in vigore per i propri cittadini misure meno liberali di altri Stati avrebbero finito per effettuare una discriminazione alla rovescia nei confronti dei cittadini stessi.
Finché si trattava di riconoscere attività bancarie, assicurative, diplomi e titoli di studio, prodotti alimentari, ecc., applicando le regole del paese di origine, il principio del mutuo riconoscimento ha ben funzionato nel processo di integrazione europea. Anche l’estensione di tale principio alla circolazione delle sentenze in materia civile, nel quadro della creazione di uno spazio giudiziario unico per la giustizia civile, non ha presentato inconvenienti che non fossero compensati dai vantaggi che ne risultavano.
L’esigenza di fornire adeguate garanzie costituzionali ai cittadini europei sorge, invece, allorché si pensa di estendere il principio del mutuo riconoscimento al di là del funzionamento del mercato interno, per cui era stato concepito, fino a comprendere altri campi, quali quello della giustizia penale. Le proposte relative al cosiddetto mandato di cattura europeo vanno appunto in questa direzione. Il problema è che con tali proposte il principio del mutuo riconoscimento verrebbe ad incidere su diritti inviolabili della persona umana, quale quello alla libertà, cosa che può avvenire solo in un contesto di garanzie costituzionali proprie di una vera costituzione e di un vero Stato, garanzie assenti sul piano europeo. In altre parole, i diritti costituzionali non possono essere garantiti ai cittadini indirettamente, cioè da accordi internazionali stipulati dai rispettivi Stati nel quadro della cooperazione intergovernativa tra di essi instaurata, ma devono essere direttamente parte integrante del tessuto costituzionale in cui i cittadini stessi vivono ed operano.
In conclusione, quasi tutti coloro cui stanno a cuore le sorti dell’Europa riconoscono che il progresso dell’integrazione europea passa attraverso la realizzazione di una effettiva politica estera e di sicurezza comune, nonché di una politica economica comune, entrambe sottratte al metodo della cooperazione intergovernativa. La prima darebbe un senso alle politiche frammentarie isolatamente condotte finora dagli Stati membri, come riconoscono le stesse conclusioni del Consiglio europeo di Laeken. La seconda garantirebbe la stabilità della moneta unica. Infine, solo uno spazio giudiziario penale europeo unico sarebbe la giusta risposta alle vecchie e nuove sfide della criminalità organizzata, incluse quelle di matrice terroristica. Ma per raggiungere questi obiettivi occorre prima risolvere il problema del deficit democratico e delle garanzie costituzionali a livello europeo dei cittadini.
4. L’Europa ad un bivio: la soluzione dei problemi del deficit democratico e dei diritti costituzionali dei cittadini europei.
La verità è che l’Europa è ad un bivio. Da una parte c’è l’alternativa di procedere sulla strada dell’integrazione estendendola ai campi appena indicati, ma essa implica la soluzione dei problemi di cui sopra. L’altra alternativa è che il processo regredisca a livelli di integrazione meno accentuati, nel cui ambito il deficit democratico appaia tollerabile e non si pongano problemi di diritti costituzionali dei cittadini a livello europeo. Lo status quo non pare essere una opzione.
La seconda alternativa, non nascondiamocelo, è quella preferita da alcuni degli Stati membri attuali, ed è presumibile, per i motivi che diremo subito, che sarà quella preferita dai nuovi Stati membri che si affacciano alle porte dell’Unione europea.
Ma, assumendo che si voglia progredire e non regredire sulla strada dell’integrazione europea, come si risolve il deficit democratico e come si assicurano ai cittadini europei diritti costituzionali adeguati per una fase più avanzata di integrazione? Le strade per raggiungere questi obiettivi sono, per la verità, chiare e semplici, pur se, invece, non vengono evidenziate nel mandato dato alla Convenzione dal Consiglio europeo di Laeken, né nelle proposte della Commissione. Inoltre, tali strade sono anche le uniche praticabili.
Per risolvere il problema del deficit democratico occorre, ovviamente, che l’organo fornito di potere legislativo sia eletto dai cittadini. Quindi o si affidano poteri legislativi al Parlamento europeo, che è eletto democraticamente, ma che non ha poteri legislativi, o si fa eleggere democraticamente il Consiglio, che, invece, tali poteri legislativi possiede, trasformandolo, quindi, in una sorta di Camera degli Stati o Senato di un sistema bicamerale di cui il Parlamento europeo sarebbe l’altra Camera.
Per quanto riguarda i diritti costituzionali dei cittadini europei occorre, altrettanto ovviamente, una Costituzione europea, ma questa presuppone uno Stato federale, in quanto si conoscono Stati senza ma non costituzioni senza Stato. Tale Costituzione non deve soltanto elencare i diritti costituzionali dei cittadini, aspetto sul quale ci si è finora esclusivamente concentrati, ma anche stabilire gli organi ed i processi decisionali a livello europeo nel quadro di quel principio della separazione dei poteri che rappresenta per noi europei una conquista irrinunciabile.
Qui cominciano i problemi tra i quali langue il dibattito sul futuro dell’Europa. Infatti, la semplice soluzione appena esposta comporta una inevitabile conseguenza, la quale costituisce un grosso problema per gli Stati che attualmente gestiscono il processo di integrazione europea: qualora dovessero accettarla, essa implicherebbe la perdita della loro sovranità. Infatti, dare il potere legislativo nell’Unione europea ad un organo eletto dai cittadini significa esautorare gli Stati nazionali e creare uno Stato federale sovrano, dotato di una propria Costituzione che prevarrebbe su qualsiasi altra norma nazionale. Per evitare di affrontare questa conseguenza nei suoi termini chiari e semplici, il dibattito sull’Europa si carica di equivoci, fumosità e disinformazione, di cui sono responsabili in molti, a partire dai governi degli Stati membri, dagli organi comunitari e dai media.
Non si può, però, essere troppo severi nel giudizio su queste carenze del dibattito sull’integrazione europea. Occorre, infatti, considerare che gli Stati sono accomunati agli individui dall’istinto di conservazione, e che, fintanto che saranno essi a gestire il processo di integrazione europea non rinunceranno facilmente alla loro sovranità, con la conseguenza che, senza un drastico cambiamento di rotta, il deficit democratico non verrà risolto, i cittadini europei non avranno diritti costituzionali garantiti a livello europeo, l’Unione europea non avrà una vera politica estera e di sicurezza comune, né una politica economica comune, né, infine, uno spazio giudiziario penale unico. Né possono essere favorevoli alle soluzioni indicate istituzioni comunitarie quali la Commissione, che verrebbero superate in un processo di integrazione federale.
5. I pericoli della disinformazione.
Assistiamo, quindi, ad un livello di disinformazione indegno di paesi civili, che ha avuto per risultato quello di impedire lo sviluppo di un efficace dibattito sui veri problemi dell’Europa del 2000. A riprova delle carenze di tale dibattito, valga l’osservazione che, mentre ci siamo tutti interessati della nomina di questo o quel rappresentante italiano alla Convenzione, tale interesse è apparso disgiunto dall’accertamento della posizione dei vari candidati sui temi in discussione.
Tutte le fonti ufficiali non possono negare e di fatto non negano che occorre risolvere il problema del deficit democratico, ma quasi sempre si affrettano a ricordare che «realisticamente» occorre una certa «gradualità». Cinquanta anni di integrazione europea, evidentemente, non sono stati sufficienti ai fini di tale gradualità ed è difficile comprendere perché i cittadini europei non meritino subito quel livello di democrazia e di diritti costituzionali cui hanno diritto. In il grosso ostacolo è la gelosa, quanto comprensibile, difesa da parte dei governi delle proprie prerogative sovrane.
Il dibattito, quindi, viene pilotato, anche da fonti qualificate come la Commissione, nel senso di creare ostilità verso il cosiddetto «Superstato», termine che, francamente, non appare di immediata comprensione. Se per «Superstato» si intende uno Stato europeo centralizzato, cioè non federale, nessuno lo ha mai proposto, non è un’alternativa presa mai in considerazione e non si vede perché continui ad inquinare il dibattito distogliendolo dai veri termini del problema.
Per evitare di parlare chiaramente di Stato federale, si è coniato, poi, il termine «Federazione di Stati sovrani», in cui è insita una evidente contraddizione, dato che in una federazione gli Stati federati non restano sovrani. Ciò avviene in una confederazione, ma la struttura confederale non si adatta all’attuale realtà europea. Oppure si parla di «Federazione di Stati nazionali»: se si vuole intendere con questa formula una federazione in cui gli Stati non perdono la propria identità culturale nazionale, questo è un risultato tipico di qualsiasi federazione ed è esattamente quello cui gli europei devono tendere.
La verità è che tra la situazione attuale di quindici Stati che restano sovrani (situazione in cui non c’è posto per ulteriori significative conquiste sulla strada dell’integrazione europea, e in cui, anzi, alcune di tali conquiste sono suscettibili di essere rimesse in discussione) ed una federazione tra gli Stati europei che la vogliano (e che implica la perdita di sovranità di tali Stati) tertium non datur, non v’è soluzione intermedia. Cullarsi nell’illusione, come spesso si fa, di avere inventato una formula sui generis, capace di conciliare sovranità europea e sovranità nazionali, serve solo a perpetuare gli equivoci. Tale formula sui generis non esiste, né chi ne parla sa in effetti di cosa si tratti, tanto vero che i problemi, da Maastricht, ad Amsterdam, a Nizza, sono rimasti irrisolti ed una soluzione non appare a portata di mano. La sovranità è un concetto di fatto e non di diritto. Non porre il problema nei giusti termini significa equivocare.
L’equivoco si perpetua, poi, quando si parla di Costituzione europea. Una costituzione delinea l’assetto supremo di uno Stato (centrale o federale) ed i diritti fondamentali dei suoi cittadini. Essa è spesso disegnata da parte dei migliori tra tali cittadini, i padri costituenti, a tale compito legittimati dalla volontà popolare. Una costituzione rappresenta il supremo assetto di una determinata comunità e non può qualificarsi a priori con aggettivi quali solidale, competitiva, progressista (aggettivi, invece, spesso usati quando si parla di Costituzione europea): essa è il risultato delle forze politiche prevalenti in tale comunità.
Ora, la nota Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea adottata a Nizza non è né può essere una costituzione, al di là della retorica che la ha accompagnata. E ciò per il grosso difetto di legittimazione di coloro che l’hanno redatta, nonché per l’assenza di un contesto statale in cui inserirla. Si può certo parlare di principi fondamentali dell’Unione europea, quali la libera circolazione delle persone, ma si tratta di cosa diversa da una costituzione, che delinea gli organi di uno Stato e la separazione tra i loro poteri. Una costituzione deve infatti garantire, lo ripetiamo, un sistema di checks and balances tra i vari poteri dello Stato. Deve tutelare i diritti fondamentali dei cittadini. E ciò può solo avvenire in un contesto statale.
6. Lo Stato federale europeo come risposta ai problemi dell’Europa.
La risposta ai problemi dell’Europa del 2002 è l’Europa della politica, che sola giustificherà l’Europa della moneta, è uno Stato federale europeo. Non è vero che le alternative a disposizione per proseguire il percorso dell’integrazione europea si esauriscano nel metodo intergovernativo e nel metodo comunitario. Entrambi sono inadeguati ai tempi attuali. Il metodo intergovernativo non può più essere efficace, condizionato com’è dalla regola dell’unanimità. Il metodo comunitario, al di là di un certo limite ormai già superato, non assicura un adeguato livello di democrazia e di diritti costituzionali ai cittadini europei. Una Federazione europea è l’unica strada percorribile. Tale Federazione sarebbe necessariamente «leggera», sarebbe competente, cioè, solo per quelle materie che — per riconoscimento generale — vanno meglio gestite a livello europeo: politica estera, di difesa, economica o di bilancio.
Il principio di sussidiarietà implicherà che altre materie resteranno di competenza nazionale o di competenza di enti locali a carattere regionale. La logica del principio di sussidiarietà è, infatti, che le decisioni vadano prese ad un livello il più possibile vicino ai cittadini. Mentre, chiaramente, certe decisioni vanno prese a livello europeo, perché i problemi relativi sono a tale livello, si verrà forse a scoprire che la dimensione nazionale, dove pure attualmente, e paradossalmente, si concentrano tutti i poteri, non è quella giusta per molti altri problemi, che, invece, andranno meglio gestiti a livello regionale. Si soddisferanno, in tal modo, istanze regionali legittime le quali, in assenza di tale riconoscimento, potrebbero incanalarsi in forme di lotta separatista.
Di conseguenza, non è fondato il timore che lo Stato federale implichi la perdita delle identità nazionali, anzi queste, insieme a quelle regionali, ne risulteranno salvaguardate. Lo Stato federale europeo non sarà uno Stato a noi estraneo, ma sarà il nostro Stato, che consentirà a tutti di coniugare la nostra identità locale, con quella nazionale e con quella europea.
A questo punto, forse, appaiono più evidenti le ambiguità e le contraddizioni insite nel mandato dato dal Consiglio europeo di Laeken alla Convenzione, nonché le carenze che caratterizzano il dibattito attuale sul futuro dell’Europa. Valgano alcune brevi considerazioni in proposito: 1) tutti concordano sulla necessità di dare soluzione al problema del deficit democratico, ma appare quasi politically incorrect parlare dell’unico modo per risolverlo, cioè dar vita ad uno Stato federale europeo. Anzi la parola «federazione», spesso usata dai Padri dell’Europa (De Gasperi, Adenauer, Spaak, Schuman) per identificare la tappa ultima dell’integrazione comunitaria, è scomparsa dal vocabolario comunitario. 2) Tutti concordano sulla necessità di procedere sulla strada dell’integrazione europea, ma si evita di spiegare come ciò possa avvenire senza risolvere il problema del deficit democratico e senza creare uno Stato federale europeo. 3) Tutti concordano sulla necessità di garantire ai cittadini diritti costituzionali a livello europeo, adeguati all’attuale fase di integrazione europea, ma si continua a pensare che ciò possa realizzarsi mantenendo le sovranità a livello nazionale. 4) Ma il culmine dell’ipocrisia, ci si perdoni la crudezza del termine, lo si raggiunge allorché si pretende che sia possibile raggiungere tutti questi obiettivi e, allo stesso tempo, allargare l’Unione europea fino a 21 e, forse, a 28 membri.
7. L’Europa a due velocità come unica strada percorribile.
Per spiegarci meglio, non occorre fare riferimento solo al dato ovvio: la paralisi del processo decisionale comunitario che si verificherà con l’ingresso dei nuovi Stati, specie dato che per le decisioni più importanti, per esempio nel campo fiscale e sociale, vige ancora la regola dell’unanimità. Questo dato è fin troppo evidente perché sia necessario sottolinearlo ulteriormente.
E’ necessario soprattutto riflettere sul fatto che una maggiore integrazione europea, necessaria per evitare un processo di regresso, richiede sacrifici estremi della sovranità nazionale, come appena detto. Non si può seriamente ritenere, a questo proposito, che gli Stati dell’Europa centrale e orientale, che, appena usciti dal giogo sovietico, stanno da poco assaporando la riacquistata sovranità siano disposti a rimetterla in gioco in nome dell’Europa. E’ un calcolo economico e non politico che spinge questi nuovi Stati all’adesione, come confermato dalla circostanza che le componenti nazionaliste sono molto forti in tutti questi Stati. La conseguenza dell’adesione sarà una diluizione, non una intensificazione del livello di integrazione.
Questo dato è confermato dal fatto che, non a caso, a spingere per l’allargamento siano proprio quegli Stati, tra i quindici attuali, che ritengono che ci sia già troppa «Europa» e che preferirebbero, in fondo, vedere l’integrazione comunitaria regredire al rango di una cooperazione economica, dimenticando obiettivi più ambiziosi. Questo auspicio, spesso inconfessato, si tramuterà certo in realtà una volta effettuato il progettato allargamento dell’Unione europea. Sarà un errore storico di cui questa generazione dovrà rispondere alle successive.
La verità è che la soluzione federale prima prospettata non è proponibile nemmeno all’interno dell’attuale Europa a quindici Stati. Alcuni di tali Stati sono dichiaratamente ostili a tale soluzione, così che l’unica strada percorribile appare quella dell’Europa a due velocità, la cui versione comunitaria è chiamata cooperazione rafforzata. Adottiamo tale ultimo termine, convenzionalmente, come sinonimo di Europa a due velocità, anche se esso, con il riferimento alla «cooperazione», non si adatta bene a formule federali, le quali superano il concetto di cooperazione tra Stati, in quanto portano alla creazione di un nuovo Stato. Solo la strada dell’Europa a due velocità consentirà che la velocità di marcia dell’Europa non sia quella dei più lenti e più restii, e che chi voglia procedere più speditamente possa farlo in compagnia di chi condivide gli stessi ideali.
E’ singolare, al riguardo, che nella dichiarazione successiva al Consiglio europeo di Laeken non vi sia alcuna menzione della cooperazione rafforzata e che, anzi, la Commissione, nella sopra menzionata Comunicazione del 22 maggio 2002,[4] si mostri ostile a tale soluzione. Altrettanto singolare è che le regole discusse a Nizza in merito alla cooperazione rafforzata siano molto restrittive: per esempio non può aversi cooperazione rafforzata nel campo della politica estera e di sicurezza comune. Quindi, non solo alcuni Stati non vogliono procedere verso soluzioni federali, cosa comprensibile, ma questi pretendono anche di impedire agli altri che lo facciano, cosa meno comprensibile. Questa ostilità si spiega sulla base del fatto, dimostrato dai pochi esempi di cooperazione rafforzata avutisi finora (Schengen, moneta unica), che tale cooperazione ha una notevole forza di attrazione così che l’area da essa coperta tende ad espandersi. E’ proprio questo effetto calamita che gli Stati ostili ad una visione federale dell’Europa vogliono scongiurare. Ma questa ostinata protezione delle prerogative sovrane di alcuni Stati è nell’interesse dei cittadini degli altri Stati?
8. Una occasione storica per una iniziativa del governo italiano.
Il processo di integrazione europea, se dovesse continuare ad essere gestito dai governi nazionali con la preoccupazione di conservare le proprie sovranità, resterà paralizzato dall’evidente conflitto tra gli interessi dell’integrazione europea e quelli al mantenimento di tali sovranità. Occorre una salto di qualità e non vi è molto tempo per tale salto, dato che la mancata risposta alla richiesta di «Europa» che avanza la società civile, porta a rigurgiti di nazionalismo estremo, xenofobia, razzismo, come è sotto gli occhi di tutti.
D’altra parte, la gelosa tutela della sovranità statale a livello degli Stati europei appare sempre più anacronistica, dato che, per fattori legati alla globalizzazione, tale sovranità si sta già erodendo in misura notevole. In altri termini, il sacrificio che si richiede per realizzare una Federazione europea sarebbe relativo.
Mai come in questo momento, con la Convenzione al lavoro per cercare nuove soluzioni, una iniziativa coraggiosa, che si ponga sul solco del disegno di una Federazione europea, auspicata da grandi uomini, da Proudhon, a Einaudi, ad Altiero Spinelli e molti altri, farebbe la differenza ed avrebbe una rilevanza veramente storica. Una Federazione europea capace di fare sentire la propria voce di civiltà sulla scena mondiale, attualmente dominata da una sola superpotenza nelle mani della quale non abbiamo altra scelta che affidarci per crisi anche a noi vicine, come quella dei Balcani o del Golfo.
Il governo italiano potrebbe farsi promotore di tale iniziativa, richiamandosi al precedente creato da De Gasperi, con Altiero Spinelli, nel 1953, in occasione della Comunità europea di difesa, poi naufragata sugli scogli dell’Assemblea Nazionale francese. I tempi, ora, sono infinitamente più maturi di quelli in cui De Gasperi operò e le chances di successo maggiori, nell’ambito, certo, di una nozione di cooperazione rafforzata estesa a formule federali. Ovviamente, dovrebbero cercarsi alleati e questi, presumibilmente, non potrebbero, al momento attuale, che essere individuati tra i sei Stati fondatori delle Comunità europee. Tale iniziativa finirebbe senza dubbio con l’avere un effetto trainante come quello avuto finora da tutte le altre forme di cooperazione rafforzata. Nel frattempo, l’Europa comunitaria, con al suo interno un nucleo federale, potrebbe allargarsi senza complessi anche ad altri Stati oltre quelli attualmente previsti, in particolare la Russia.
In un momento di carenza di idee e di visioni, in cui il processo di integrazione europea sembra stagnare, la semplice proposizione di una iniziativa del genere da parte del governo italiano, chiara e decisa nel senso di un nucleo federale tra gli Stati che lo accettano, come unica soluzione del problema del deficit democratico e delle garanzie costituzionali dei cittadini europei, avrebbe un grosso ritorno di immagine in ogni caso e sarebbe compatibile con la contemporanea proposta di un’Europa comunitaria allargata fino alla Russia. Essa spazzerebbe ogni dubbio sulla fedeltà dell’Italia agli ideali europei, costringerebbe chi è veramente contrario alla crescita del processo di integrazione europea ad uscire allo scoperto e sarebbe per noi vantaggiosa anche in caso di mancato accoglimento nell’immediato. Si tratterebbe pur sempre, infatti, dell’unica proposta di portata veramente storica in un panorama abbastanza sconsolante, un seme gettato che potrebbe germogliare in un secondo momento. E sarebbe merito dell’Italia avere gettato tale seme. Legando il proprio nome a tale iniziativa, l’Italia, oltre a mettersi nel solco di nobili ideali condivisi dai Padri fondatori dell’Europa, compirebbe anche una scelta politica opportuna e vantaggiosa in questo momento, scelta sostanzialmente priva di riflessi negativi. Un’occasione che ci auguriamo vivamente non venga persa.
[1] Sentenza del Tribunale di Primo Grado del 6 giugno 2002, Airtours c. Commissione, caso T-342/99.
[2] COM(2002)247 def.
[3] Sentenza del 16 aprile 2002 nel caso Colas.
[4] COM(2002)247 def., p. 19.