IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLV, 2003, Numero 3, Pagina 144

 

 

La battaglia per l’Europa
L’esempio e il pensiero di Mario Albertini
 
GIOVANNI VIGO
 
 
Molti uomini, nel corso della loro vita, si scontrano con fatti, problemi, situazioni che li spingono a denunciare gli scandali della guerra, dell’oppressione, dell’ingiustizia. Ma pochi diventano militanti politici, si spingono cioè al di là della rivolta morale o della semplice testimonianza solidale per porsi l’obiettivo di estirpare le radici di quegli scandali. Porsi questo obiettivo implica l’esercizio di una fredda razionalità, ossia la lucida consapevolezza che il fine proclamato rimane un flatus vocis senza l’identificazione dei mezzi per raggiungerlo. Ma diventare militante federalista implica anche una sorta di «conversione», di ripudio di un’ottica, l’ottica della politica e della cultura nazionali, che, se mantenuta, non permette di fare diagnosi corrette e, di conseguenza, di perseguire con successo la progressiva affermazione del federalismo. Questo è esattamente il percorso compiuto da Mario Albertini, che, attraverso un costante impegno pratico e una profonda ricerca intellettuale, è diventato un punto di riferimento essenziale per il federalismo.
Egli iniziò la sua militanza federalista, nel senso pieno del termine, nel 1953, nel bel mezzo della battaglia per la CED. Non si trattò di una folgorazione sulla via di Damasco bensì dello sbocco naturale di un travaglio iniziato da lungo tempo. Come molti giovani della sua generazione aveva vissuto anni difficili, prima sotto la dittatura fascista, poi nella vana ricerca di una via nazionale per la rigenerazione dell’Italia. Durante la guerra aveva maturato la consapevolezza che una vittoria dell’Italia avrebbe significato il trionfo del fascismo, ed essendo antifascista, ha ricordato più tardi, «desideravo la sconfitta dell’Italia, e questo era un sentimento grave per un giovane».[1] In questa scelta coraggiosa, che era insieme politica e morale, aveva trovato il conforto di eminenti personalità: «Alcuni intellettuali, lo stesso Croce — ha affermato in una intervista — hanno auspicato la sconfitta dell’Italia. Tuttavia, proprio Croce… ha poi proposto di rifiutare la ratifica del trattato di pace perché esso avrebbe sminuito l’immagine dell’Italia. Questo è soltanto un esempio, ma in generale è accaduto che nessuno o pochi hanno rotto veramente il patto, che si stabilisce tacitamente nascendo, con l’Italia. Questo odio per l’Italia ha significato per me la liberazione da tutti i vincoli che una persona ha col proprio paese solo per il fatto che vi nasce».[2]
Il fatto di essersi spogliato precocemente dei condizionamenti nazionali gli consentì di giudicare con maggiore libertà le sue esperienze politiche del primo dopoguerra. Il suo orientamento sovranazionale gli consentiva di percepire con nettezza i limiti dell’Italia ma non ancora di considerare l’Europa un’alternativa politica. E’ significativa, a questo riguardo, la sua rispettosa polemica con Croce: «L’ideale dell’Italia, e della sua dignità nazionale — scriveva nel 1947  — è morto; lo pensiamo rispettabile in un vecchio che l’ha vissuto quand’era vivo; ma è inoperante, perché morto, perché senza prospettive storiche, quando sia ora richiamato, per l’azione di oggi».[3] Tuttavia, in modo in certo senso contraddittorio, il suo impegno era ancora rivolto alla rigenerazione della vita democratica dell’Italia attraverso il rinnovamento dei partiti nazionali.[4]
Per superare questa fase gli era necessario un ulteriore periodo di riflessione e, soprattutto, doveva sperimentare le deludenti esperienze nella politica nazionale. Ricordando a distanza di tempo il travaglio di quegli anni, e in particolare il fatto che la situazione italiana non presentava alcuna evoluzione, Albertini ha scritto: «Questa prospettiva non avanzava. Cominciai così ad accorgermi che c’era in questo disegno… un vizio strutturale. Non si poteva, per democratizzare compiutamente l’Italia, puntare su un fatto organizzativo (la trasformazione e l’unificazione dei partiti di sinistra), ma bisognava puntare su un grande fatto politico, cioè tale da provocare un profondo mutamento di idee e di posizioni, e che fosse inoltre tale da provocare, come conseguenza, proprio quella del rinnovamento dei partiti. Mi resi conto allora che il grande fatto di cui aveva bisogno l’Italia era l’unificazione dell’Europa. L’Europa come punto di partenza, e non, secondo il modo comune di vedere, come punto di arrivo del rinnovamento».[5]
Albertini si era iscritto al Movimento federalista europeo fin dal 1945 ma, come ricordò in seguito, lo considerava più un’organizzazione culturale che politica.[6] Nel 1953 il MFE gli apparve per la prima volta «come la sola organizzazione politica con valore strategico». Giunto a questa conclusione, non perse altro tempo. Scrisse a Spinelli, andò da lui e cominciò la sua militanza federalista.[7] In quell’anno il Movimento era impegnato allo spasimo nella battaglia per la Comunità europea di difesa. Centinaia di sezioni e oltre 50 mila iscritti erano le forze che poteva mettere in campo a sostegno della CED e del suo inevitabile corollario, la Comunità politica. Il traguardo sembrava a portata di mano ma nei primi mesi del 1954 incominciarono a sorgere le prime difficoltà, e il 30 agosto l’Assemblea nazionale francese votò contro la ratifica del Trattato facendo tramontare definitivamente la speranza di dar vita nel giro di pochi anni alla Federazione europea. La caduta della CED non aveva significato soltanto la sconfitta temporanea del disegno europeo; aveva anche determinato un profondo mutamento del clima che aveva consentito ai federalisti di giungere vicini al successo.
Gli Stati nazionali usciti stremati dalla guerra avevano ormai rimesso in piedi le loro economie, avevano restituito una parvenza di solidità alle loro istituzioni e, con la CECA, avevano gettato il primo seme di una collaborazione duratura. Nient’altro sembrava necessario per la prosperità dei loro cittadini, e men che meno una Federazione europea. Un ciclo storico si era ormai concluso e, se volevano continuare la loro battaglia, i federalisti dovevano adattarla al nuovo clima politico. Nell’ottobre del 1954 Spinelli illustrava su Europa federata le conclusioni alle quali era giunto dopo la caduta della CED: «Non sappiamo se l’unità federale europea si farà, sappiamo però che si farà solo se si comprenderà la rovinosità di qualsiasi politica ad orizzonte nazionale. Circostanze favorevoli potranno presentarsi fra sei mesi, fra un anno, fra dieci anni; non saremo noi a determinarle; ma affinché siano sfruttate per rompere infine il cerchio magico delle sovranità nazionali, occorre che ci sia chi abbia instancabilmente denunziato il male, abbia mostrato quel che vi è di ingannevole nella pretesa di tutti, senza eccezione, i partiti che accettano il quadro nazionale come quadro normale della loro attività, e che promettono in questo quadro cose che non possono mantenere».[8] Questo ruolo poteva essere svolto soltanto da un movimento rivoluzionario, che non avrebbe ceduto a sconfitte momentanee ma che sarebbe rimasto sul campo, pronto a riprendere la battaglia là dove era stata interrotta. Iniziò così quello che nella tradizione federalista viene chiamato il «nuovo corso».
Il punto sul quale far leva, spiegava ancora Spinelli, non erano più i governi nazionali che nei fatti, se non con le parole, avevano rinunciato al disegno federale, bensì il popolo europeo che, con la sua mobilitazione, li avrebbe costretti a cedere la loro sovranità nei settori in cui non erano più in grado di esercitarla efficacemente. Queste considerazioni non mettevano in discussione le ragioni politiche e ideali della scelta compiuta da Spinelli nel 1943, ma costringevano il Movimento a ripensare il suo ruolo e ad interrogarsi sulle sue relazioni con il potere. Al tempo della CED aveva potuto agire di volta in volta come consigliere del principe e come gruppo di pressione. Dopo la caduta della CED il MFE doveva imboccare una strada diversa, di cui nessuno sapeva misurare la lunghezza.
Era venuto il momento della pazienza e della riflessione: della pazienza perché non c’erano più le condizioni per ingaggiare la battaglia decisiva con il nemico come al tempo della CED e quindi si trattava di preparare il terreno alla mobilitazione popolare per quando si sarebbe presentata l’occasione propizia per spostare l’ago della bilancia dalle nazioni all’Europa; della riflessione perché si trattava di allargare l’orizzonte politico-culturale del Movimento mettendolo in grado di contrastare le forze della reazione che si annidavano ovunque, nella società, nei partiti, nelle organizzazioni di categoria, nella stampa, fra gli intellettuali e, soprattutto, nei governi che, superato il trauma della CED, avevano subito dimenticato il pallido disegno federalista coltivato per qualche tempo. Mario Albertini era la persona giusta per affrontare questi compiti.
 
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Il «nuovo corso» richiedeva da parte di tutti i militanti un impegno logorante. Occorreva mantenere in piedi, nei limiti del possibile, le sezioni sopravvissute alla caduta della CED; occorreva preparare e organizzare il Congresso del popolo europeo (un’azione che avrebbe coinvolto direttamente i cittadini chiamati a votare, attraverso una sorta di elezione primaria, per i candidati al Congresso); bisognava mettere in cantiere nuove iniziative per il reclutamento e la formazione dei militanti che non potevano più essere uomini di partito o esponenti della politica nazionale, bensì «un gruppo di uomini liberi che, sfidando la naturale tendenza ad accettare l’esistente e ad adeguarvisi per ottenere il successo e promuovere la propria carriera, sapesse battersi per l’unificazione federale dell’Europa».[9] Occorreva pertanto precisare la figura del nuovo militante e le condizioni che potevano promuovere la nascita di questo gruppo.
Spinelli affrontò apertamente la questione in uno scritto del 1956. I «federalisti, osservava, non hanno sviluppato nel loro seno un nucleo di militanti. Non mi servo di questo termine nel senso corrente del piccolo propagandista che esegue i minuti lavori dell’organizzazione. I militanti di cui ogni organizzazione che vuole divenire una forza politica ha bisogno, sono uomini animati dalla passione politica, dall’ambizione di contare qualcosa fra i loro contemporanei, e che hanno deciso di far coincidere questa passione e quest’ambizione con la realizzazione degli scopi dell’organizzazione cui appartengono. Non tutti gli appartenenti ad un movimento sono militanti, e se in un’organizzazione politica non vi fossero che militanti essa diverrebbe rapidamente una setta. Ma i militanti, quelli che si sono impegnati a fondo ed hanno puntato il loro avvenire politico sulla riuscita della loro azione, sono il nerbo di qualsiasi organizzazione».[10]
Spinelli era consapevole della lunga marcia nel deserto che attendeva i federalisti, e pensava che il nuovo militante dovesse essere un politico a tempo pieno, che viveva certo per la politica ma anche di politica (nel senso che da essa traeva i mezzi per vivere), e che realizzava compiutamente la sua missione dedicando tutte le sue energie alla causa dell’unità europea. Solo in questo modo ci sarebbe stata una motivazione sufficiente per restare sul campo fino alla vittoria. Albertini aveva invece una concezione diversa della figura e dell’impegno del militante. Ricordando il duro confronto con Spinelli ha scritto: «lo volevo… degli uomini che facessero della contraddizione fra valori e fatti che si manifesta nel nostro tempo una questione personale: dei militanti che, pur essendo politici di professione, lo fossero a mezzo tempo, senza salario, e con una possibilità di sopravvivere indipendentemente dal potere».[11]
Una volta definito il profilo del militante federalista, occorreva mettere in luce e far leva sulle motivazioni che inducevano alcune persone a spingere lo sguardo al di là del quadro nazionale. Secondo Albertini ci si avvicinava all’Europa seguendo diversi percorsi: la rivolta morale suscitata dalla negazione dei valori della democrazia e dell’uguaglianza da parte dello Stato nazionale che «impone di considerare gli uomini degli altri Stati come stranieri, alla occorrenza da uccidere»; la protesta intellettuale derivante dalla consapevolezza che gli Stati nazionali non erano più in grado di risolvere i grandi problemi della nostra società; la volontà politica che non prendeva in considerazione soltanto i problemi da affrontare ma anche la strategia per risolverli.[12] Nella mente di Albertini il militante di cui la causa europea aveva bisogno doveva riunire in sé le tre caratteristiche: la rivolta morale, la protesta intellettuale e la volontà politica.
Ma la società non indirizza spontaneamente gli uomini verso il federalismo. «Nessuno diventa federalista da solo, spontaneamente, perché il federalismo, come ogni cosa nuova al suo primo apparire, non esiste ancora nel mondo della cultura ufficiale. I canali normali di trasmissione della cultura (scuola, stampa, ecc.) adottano sempre il punto di vista nazionale, e considerano il mondo come un mondo fatto di liberali, democratici, socialisti, comunisti, cristiano-sociali, fascisti ecc. … In questo contesto, uno diventa federalista solo se le circostanze della vita lo inducono ad una specie di conversione».[13]
Nella sua opera di proselitismo, il militante federalista doveva assolvere due compiti: il primo era il reclutamento, il secondo la formazione. Il reclutamento era, in un certo senso, l’attività più difficile perché si trattava di ribaltare la prospettiva dalla quale gli uomini osservano non solo la politica ma anche la storia del proprio paese, cioè il fattore costitutivo della loro identità. «La situazione dei nostri Stati, e la loro storia recente — scriveva Albertini nel 1959 — spingono molti uomini alla considerazione del problema dell’unità europea. Ma costoro restano praticamente militanti o simpatizzanti degli Stati nazionali perché il punto di vista nazionale è stato loro impresso sin dall’infanzia sotto forma di sentimenti e di immagini, ed è costantemente alimentato dalla maggior parte degli stimoli e degli incentivi attuali. Per questo motivo la coscienza nazionale, anche quando subisca la spinta contraria dell’aspirazione all’unità europea, resta prevalente sinché una lunga esperienza in un ambiente adatto non riesca a sradicarla dall’inconscio. La nostra politica di reclutamento dei militanti deve perciò riuscire ad attirare sempre nuove persone, e far fare a loro un’esperienza profonda».[14]
Il secondo compito, quello della formazione, richiedeva un impegno non comune sia per chi militante lo era già, sia per chi si accingeva a diventarlo. Militanti non si nasce; ci si forma nella lotta politica che non può però essere disgiunta dallo studio e dalla discussione. «Può sembrare strano — scriveva ancora nel 1959 — che per compiere una impresa politica si debba mettere in piedi dentro una organizzazione di lotta, una organizzazione di studio che avrà regole e strutture più simili a quelle delle scuole di pensiero che a quelle delle associazioni politiche. Eppure in tutte le imprese rivoluzionarie qualcosa di questo genere è sempre esistito, perché il compito più difficile del rivoluzionario è proprio quello di usare bene la ragione per dirigere la lotta verso un obiettivo nuovo in un mondo dove le abitudini, i pensieri fatti, i luoghi comuni indirizzano gli uomini verso i vecchi obiettivi».[15] Solo uomini che abbiano saputo nello stesso tempo temprare il carattere e rafforzare la ragione sapranno esercitare l’arte del pilota, cioè indicare la direzione di marcia sapendo che il loro lavoro sarà, per lunghi periodi di tempo, un lavoro oscuro ma essendo anche consapevoli che, se nei momenti delle scelte sapranno parlare, potranno avere un ruolo decisivo.
Il lavoro oscuro del militante poteva essere svolto solo da persone che non dipendevano da altri per la loro sopravvivenza, e all’interno di una organizzazione la cui autonomia fosse assicurata dall’autofinanziamento dei suoi aderenti.[16] Se i militanti volevano conservare in ogni momento la loro indipendenza di giudizio e di azione, non dovevano venire a patti con nessuno. La ragione fondamentale di questa condotta l’aveva spiegata efficacemente Niccolò Machiavelli nel capitolo VI del Principe. Dopo aver sottolineato «come non è cosa più difficile a trattare, né più dubia a riuscire, né più periculosa a maneggiare che farsi capo a introdurre nuovi ordini», Machiavelli concludeva: «E’ necessario pertanto, volendo discorrere bene questa parte, esaminare se questi innovatori stanno per loro medesimi o se dependano da altri: cioè, se per condurre l’opera loro bisogna che preghino, ovvero possono forzare. Nel primo caso capitano sempre male e non conducono cosa alcuna; ma quando dependono da loro proprii e possono forzare, allora è che rare volte periclitano».[17] Un militante di questa tempra avrebbe garantito la sopravvivenza del Movimento federalista, avrebbe assicurato la sua presenza nei momenti decisivi del processo di unificazione europea, avrebbe mantenuto in vita il pensiero federalista in vista della sua affermazione completa nella Federazione mondiale.
 
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Il federalismo militante è un’esperienza rivoluzionaria che vuole incidere sulla storia del mondo. Non è facile mantenersi in ogni momento all’altezza di questa sfida. Si può cadere nella trappola di scambiare i nostri desideri per la realtà; e si può scambiare «il possibile con il reale, cioè definire una politica in funzione di possibilità che attualmente non esistono per il solo fatto che potrebbero presentarsi in un futuro liberamente immaginato».[18] Per sfuggire a queste insidie occorre fare un costante riferimento alla situazione politica, cioè alla situazione di potere che rende pensabile e attuabile una strategia politica. Si tratta di una regola alla quale Albertini si è sempre mantenuto fedele, evitando di impegnare il Movimento federalista in campagne utopistiche o velleitarie.
All’inizio degli anni Sessanta le speranze riposte nel Congresso del popolo europeo — il cui obiettivo era la convocazione della Costituente da ottenere grazie ad una irresistibile pressione popolare — erano del tutto svanite. Che fare? Spinelli riteneva che per riprendere il cammino dell’unificazione ci si dovesse impegnare nella lotta politica nazionale.[19] Albertini aveva invece un’opinione del tutto diversa. Se l’obiettivo era la convocazione di un’Assemblea costituente, occorreva stabilire in primo luogo «in quale situazione di potere è possibile la decisione di convocare la Costituente». In una concisa analisi del problema scriveva: «La Costituente europea implica non solo un mutamento di governo, non solo un mutamento di regime in uno Stato, ma addirittura la caduta di parecchi Stati e la nascita di uno Stato nuovo su un’area nuova… Noi viviamo già nella confederazione europea, nell’unità europea di fatto, basata sull’eclissi delle sovranità nazionali, sulla necessità degli Stati europei di collaborare strettamente nel campo politico ed economico. Ciò basta per dire che esiste la base reale di una lotta per un’unità istituzionale».[20] La situazione di potere rendeva dunque possibile la lotta per la Federazione europea. Ma quale azione concreta potevano svolgere i federalisti per cogliere tutte le opportunità offerte dal processo?
Non era facile rispondere a questa domanda perché non c’erano sul tappeto battaglie risolutive come quella per la CED, un situazione nella quale non si trattava di scegliere ma di battersi. D’altra parte, dopo i primi successi del Mercato comune, gli europei avevano di fronte a sé la prospettiva di un lungo periodo di prosperità: l’integrazione economica aveva innescato in molti paesi — primi fra tutti l’Italia e la Germania — un vero e proprio «miracolo economico». Le voci critiche non godevano quindi di buona stampa, e le rigide prese di posizione del MFE venivano considerate massimaliste non solo dai governi e dalle forze politiche nazionali, ma anche dallo stesso Spinelli che si muoveva ormai in un altro orizzonte.
Nel 1962 Albertini aveva assunto, di fatto, la guida del Movimento e, insieme ai federalisti che avevano scelto di seguirlo, si preparava a lanciare una nuova campagna, il Censimento volontario del popolo federale europeo. Al Congresso di Lione che si svolse nel febbraio di quell’anno, Albertini concludeva il suo rapporto proponendo «una campagna di dieci anni di raccolta di firme, sotto l’insegna ‘una maggioranza per la Costituente del popolo europeo’ , con il fine pratico di impiegare un mezzo d’azione alla portata di tutti, e per questo tale da svilupparsi dappertutto».[21] Si trattava di una campagna che poteva essere svolta da sezioni agguerrite come da militanti isolati, e che si proponeva di mobilitare l’europeismo organizzato, cioè i movimenti europeisti e federalisti, con l’europeismo organizzabile, cioè gli individui più sensibili alla crisi storica degli Stati nazionali, e con l’europeismo diffuso, cioè il riflesso dell’unità europea di fatto su tutti gli individui.[22]
Le caratteristiche che aveva assunto il processo di unificazione europea rendevano possibile un’azione in grado di orientare il consenso dei cittadini verso l’Europa e di preparare il terreno per il momento in cui si sarebbero dovute compiere le scelte decisive. Quel momento non era ancora venuto: bisognava dunque preparare l’opinione pubblica perché facesse sentire la sua influenza quando l’ora fosse scoccata. «Quando l’Europa avrà un vero governo, ciascuno potrà, col proprio voto, rafforzare questo o quel partito europeo, per sostenere la politica europea corrispondente ai propri ideali e interessi. Ma nell’Europa di oggi, che non esiste ancora come organizzazione democratica, ciò che tutti possono fare per l’Europa è solo dichiararsi per l’unità europea. Ne consegue che per ora l’unica possibilità di manifestarsi della forza europea (in politica la forza sta nei voti e negli atteggiamenti del popolo) sta solo in questo: nel fatto che i cittadini si dichiarino per l’Europa e nella somma di queste dichiarazioni».[23]
Nella mente di Albertini il Censimento era l’unica strada percorribile per raggiungere gli stessi obiettivi che il Congresso del popolo europeo non era riuscito a conseguire.[24] Nel 1966 scriveva: «Quando saremo vicini alla possibilità di effettuare il trapasso dei poteri dagli Stati nazionali alla Federazione europea, e sarà necessario disporre dell’interlocutore europeo di questa operazione costituente, il fatto di avere già stabilito un legame organico tra i federalisti da una parte, la popolazione, i partiti, i sindacati e così via dall’altra, permetterà di organizzare, sulla base del censimento… il Congresso del popolo europeo».[25]
Lo sviluppo del Censimento «a macchia d’olio», sul quale si erano puntate inizialmente molte speranze, non si verificò. Fu anch’esso vittima degli stessi limiti di cui aveva sofferto il CPE, vale a dire della mancanza di una fitta rete di organizzazioni locali. Ma ebbero entrambi, tanto all’interno quanto all’esterno del MFE, una funzione essenziale. All’interno il CPE e il Censimento costituirono una palestra di inestimabile valore per la formazione di una nuova generazione di militanti determinati a intraprendere o a continuare la lunga marcia nel deserto; all’esterno collaudarono le possibilità di mantenere un contatto diretto con i cittadini e di tener vivo il principio che l’integrazione economica, da sola, non avrebbe condotto automaticamente l’Europa all’unità politica.
Nel MFE è sempre stata viva la consapevolezza che per creare un nuovo Stato non è sufficiente la spinta dell’economia ma che è invece necessario un atto costituente. I federalisti erano e sono anche consapevoli del fatto che, per essere portata fino in fondo, l’unità economica ha bisogno di quella politica. La prima occasione per dare battaglia e avviare l’Europa verso questo sbocco fu la fine del periodo transitorio del Mercato comune: in quel momento i nodi vennero al pettine, ponendo la classe politica di fronte a scelte precise. «L’Europa — scriveva Albertini nel 1967 — non è più, come all’inizio della nostra lotta, una semplice previsione storica. E’ una realtà economica con una complessa amministrazione comunitaria, oltre che una necessità politica sempre più evidente. Ma a fianco di questa imponente realtà europea c’è un Parlamento europeo ancora privo di base elettorale. Se si chiede che venga eletto, si chiede una cosa che tutti, salvo i nemici dell’Europa, trovano giusta. Si tratta di sfruttare questo sentimento… Naturalmente non si tratta solo di chiedere l’elezione diretta del Parlamento europeo, ma di sviluppare un’azione lunga e difficile al termine della quale si possa averla… In pratica, si tratta di identificare di volta in volta degli obiettivi effettivamente perseguibili sulla via del fatto elettorale europeo, in modo da provocare delle decisioni concrete e non solo dei discorsi domenicali».[26]
Con questa scelta il MFE abbandonava la via del massimalismo (la convocazione della Costituente all’inizio del processo come avrebbe voluto la logica), e abbracciava invece la strategia del gradualismo costituzionale. Il CPE e il Censimento non erano stati in grado di costringere i governi a convocare un’Assemblea costituente non perché l’idea sottesa a questa strategia fosse sbagliata, ma per «l’estrema difficoltà di convocare una Costituente all’inizio del processo, con i partiti ancora strettamente legati ai poteri nazionali».[27] Per preparare il momento della decisione era quindi necessario innescare un processo nel quale successivi atti costituenti avrebbero imposto ai governanti la cessione di una parte della loro sovranità all’Europa.
Al «Congresso dell’Europa» convocato dal Movimento europeo nel febbraio del 1976, Willy Brandt affermò che il Parlamento europeo, che sarebbe stato eletto di lì a tre anni, avrebbe dovuto diventare l’Assemblea costituente permanente dell’Europa.[28] Si trattava di un’immagine molto suggestiva che rinviava però la conclusione del processo ad un tempo indefinito e che per ciò stesso non mobilitava alcuna volontà. L’idea di gradualismo costituzionale elaborata da Albertini si poneva invece obiettivi precisi, individuati sulla base della situazione di potere esistente in Europa, per i quali era possibile definire una chiara strategia.
La logica che ha ispirato il gradualismo costituzionale non era lontana da quella che aveva spinto Jean Monnet a redigere il Memorandum con il quale proponeva a Robert Schuman la creazione della CECA. Dopo aver constatato che su ogni settore del fronte politico non si incontravano che dei vicoli ciechi, Monnet proseguiva: «Da una situazione simile si può uscire in un solo modo: con una azione concreta e risoluta su un punto limitato ma decisivo, che provochi un cambiamento fondamentale su questo punto e modifichi progressivamente i termini stessi dell’insieme dei problemi».[29] A giudizio di Albertini il punto che avrebbe modificato l’insieme dei problemi era l’elezione diretta del Parlamento europeo perché avrebbe inserito nel processo di unificazione il primo germe di democrazia e avrebbe spostato la vita politica dai quadri nazionali al quadro europeo.
Per ottenere questo risultato occorreva superare l’ostacolo dei paesi che vi si opponevano. Nulla poteva però impedire a quelli che, almeno a parole, si dichiaravano favorevoli, di eleggere i loro parlamentari a suffragio universale. Era di qui che bisognava partire. L’11 giugno 1969 venne presentata al Senato una proposta di legge di iniziativa popolare per l’elezione diretta dei delegati italiani al Parlamento europeo. Due proposte analoghe erano state presentate l’anno prima all’Assemblea nazionale francese. Queste iniziative posero con forza sul tappeto il problema elettorale europeo, influenzando la decisione del Presidente della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing, che il 13 maggio 1974 annunciò di voler «prendere o far prendere dalla Comunità una iniziativa per sbloccare l’Europa ed arrestarne lo smembramento». Nell’ottobre dello stesso anno il Ministro degli Esteri francese avanzò la proposta dell’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo che venne adottata nel Vertice di Roma dell’1 e 2 dicembre 1975.[30] Era la prima vittoria strategica che il MFE poteva iscrivere al proprio attivo.
L’iniziativa del governo francese era arrivata in un momento particolarmente complicato per la vita europea. Il crollo del sistema monetario internazionale e la crisi petrolifera avevano causato un crescente disordine economico che rischiava di mandare in frantumi la Comunità. L’elezione diretta del Parlamento europeo avrebbe rafforzato il legame dei cittadini con l’Europa ma, da sola, non bastava. I gravi problemi sul tappeto potevano essere risolti solo con la creazione di un governo europeo. Tuttavia, anche di fronte ad eventi così traumatici, i governi nazionali non si mostrarono disposti ad andare fino in fondo.[31] Era perciò necessario continuare a tessere pazientemente la tela del gradualismo costituzionale mobilitandosi su un obiettivo che avrebbe approfondito le contraddizioni del processo e avrebbe infuso ai governi maggior coraggio. La moneta sembrava il terreno più propizio per riprendere la battaglia.
Già all’indomani della prima bufera valutaria Albertini aveva posto l’accento sul fatto che la moneta poteva rappresentare il punto più scivoloso sul piano inclinato che conduceva all’Europa. «Bisogna accettare — scriveva nel 1973 — e sostenere, contro la logica, una operazione graduale di unificazione monetaria precedente, e non seguente, la creazione di un potere politico europeo perché i protagonisti del processo per quanto riguarda l’esecuzione… non si comportano secondo criteri logici… Se si riesce a impegnare qualcuno per qualcosa (l’unione monetaria) che implica un presupposto (il potere politico), può accadere che costui finisca per trovarsi suo malgrado nella necessità di crearlo».[32]
In questa logica di sviluppo graduale il MFE ha sostenuto prima la creazione del Sistema monetario europeo per evitare che la crisi della Comunità si trasformasse in uno sfacelo che avrebbe impedito ogni ulteriore progresso; poi l’azione di Spinelli che aveva convinto il Parlamento europeo a votare un trattato-costituzione che prevedeva la creazione di un governo federale parziale, limitato alle competenze economiche; e infine, dopo la bocciatura del trattato da parte dei Capi di Stato e di governo, il mercato unico che doveva costituire il preludio della moneta europea. Il 15 febbraio 1992, a Maastricht, i Capi di Stato e di governo decidevano la creazione della moneta unica. I federalisti avevano colto un’altra vittoria strategica. L’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo e la moneta unica li avevano impegnati per decenni, ma finalmente erano state poste le basi per il salto decisivo. L’Unione europea poteva ormai contare su un Parlamento eletto, non molto più di un simbolo visto che un Parlamento senza uno Stato non ha alcun potere effettivo, e tuttavia un simbolo importante perché rafforzava i legami dei cittadini con l’Europa. E, dopo Maastricht, poteva anche contare sulla moneta unica e sulla Banca centrale europea che rappresentavano due tessere del futuro Stato federale.
La creazione della moneta unica era stata accelerata dagli sconvolgimenti provocati dal crollo del muro di Berlino, dal collasso dell’Unione Sovietica e dalla fine del bipolarismo che aveva retto il mondo nel dopoguerra. Avvenimenti di questa portata non potevano non incidere sul destino dell’Europa: si poteva sperare che i governi europei, presi nel vortice degli eventi che stavano ridisegnando gli equilibri mondiali, e riproponevano in modo più crudo rispetto al passato «la rovinosità di qualsiasi politica ad orizzonte nazionale», avrebbero avvertito un urgente bisogno di unità decidendosi, una volta per tutte, a compiere il salto federale. La loro risposta si è invece fermata a metà strada: alcuni di essi hanno rafforzato i propri legami con la creazione della moneta unica, ma nessuno ha avuto il coraggio di prendere di petto i problemi della difesa e della politica estera, cioè dello Stato europeo. «L’Unione politica — lamentava Albertini in uno scritto del 1990 — viene ancora concepita non solo come separata (per i settori effettivamente investiti) dall’Unione economica, ma anche come una impresa che sarebbe realizzabile solo in tempi lunghi, e solo con un gradualismo simile a quello che ci ha condotto sulla soglia della moneta europea. Questa concezione è completamente sbagliata. Nella sfera economica si può passare per gradi da una situazione nazionale ad una situazione sempre meno nazionale e sempre più europea, che solo alla fine del processo deve essere necessariamente consolidata con un governo e una moneta. Nella sfera della politica estera invece — tanto più se essa viene separata dalla sfera economica, e perciò viene riferita soprattutto alle forze armate e alla difesa — questa evoluzione graduale non è possibile. Qualunque sia la combinazione cui a volta a volta si ricorre, si resta comunque, e sempre, nel quadro delle alleanze (più o meno organizzate), cioè nel quadro nazionale, senza potersi mai trovare in una situazione europea che basterebbe consolidare e fissare con un potere politico europeo. Tessendo questa tela si resta sempre nel contesto nazionale, come sanno tutti coloro che riconoscono la differenza tra federazione e confederazione».[33]
A dire il vero, i Capi di Stato e di governo hanno riconosciuto che il problema dell’unità europea non si esauriva con la creazione della moneta. Nel Trattato di Maastricht non si parla solo dell’euro ma anche della cittadinanza, della politica estera, della difesa, della giustizia. «Moneta, cittadinanza, socialità, politica estera, difesa — commentava Albertini — sono elementi di un programma di creazione dello Stato europeo. Si tratta di vedere se l’esito sarà positivo oppure no, se le difficoltà economiche e politiche determineranno problemi, ma in ogni caso esiste un programma, elaborato dai governi, di creazione dell’unità europea entro il 1999».[34]
Ma l’esistenza di un programma non è di per sé la garanzia che verrà realizzato. Le Conferenze intergovernative convocate per risolvere i problemi lasciati in sospeso a Maastricht, si sono limitate a ritocchi insignificanti nelle strutture dell’Unione. E la recente Convenzione sull’avvenire dell’Europa non ha fatto di meglio. Gli ultimi a stupirsi dovrebbero essere i federalisti i quali hanno sempre saputo che i governi avrebbero cercato di rinviare il passo decisivo fino al momento in cui non vi fossero stati costretti dalla forza delle cose.
I cittadini europei, come è stato ripetutamente dimostrato, sono in larga maggioranza favorevoli all’unità dell’Europa. La crisi degli Stati nazionali è davanti agli occhi di tutti, così come davanti agli occhi di tutti è, o dovrebbe essere, la «necessità di unificare l’Europa» perché è ormai evidente che il «problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti o lo scomparire».[35] Le sfide della storia imporrebbero una risposta federale; l’azione dei governi va invece alla ricerca degli espedienti più fantasiosi che hanno lo scopo di non fare la sola cosa che risolverebbe di colpo tutti i problemi — lo Stato federale europeo.
E’ proprio in questa situazione che l’avanguardia federalista può giocare un ruolo decisivo indicando l’unica strada che può condurre alla risoluzione del problema, denunciando senza tentennamenti le false alternative, mettendo in evidenza il quadro politico nel quale la strategia costituente è davvero possibile, e, infine, chiamando in causa chi ha il potere di decidere, cioè i governi perché varchino il confine che separa la federazione dalla confederazione. Questi sono i suoi compiti, nonostante le difficoltà e le resistenze con cui si è sempre scontrata e si scontra tuttora.
All’inizio della sua militanza Albertini si rivolgeva ai federalisti osservando: «Le nostre difficoltà… sono quelle che tutte le cose nuove, tanto della politica quanto della vita, hanno sempre incontrato. Anche per noi vale la considerazione che la pazienza è una virtù rivoluzionaria».[36] La pazienza non equivale però all’attesa che qualcosa si compia. Deve piuttosto essere considerata come la devozione assoluta alla causa per la quale si è scelto di battersi. Una volta Friedrich Schiller ha scritto: «Ciò che più conta è l’assiduità: questa infatti non dà soltanto i mezzi per vivere, ma conferisce alla vita il suo unico valore».[37] Se si prescinde dall’accenno ai mezzi per vivere, le parole del poeta tedesco costituiscono un ritratto perfetto dello stile di vita e di lavoro di Mario Albertini.


[1] Mario Albertini, L’Europa secondo me (raccolta di interviste sull’Europa con esponenti politici, culturali e di associazioni europeiste a cura dei Lions Clubs lombardi), s.l. 1979.
[2] «Nazionalismo e alternativa europea. Intervista a Mario Albertini», in Il Dibattito Federalista, X (1994), p. 37.
[3] Mario Albertini, «L’amore dell’Italia nell’Europa», in Lo Stato Moderno, IV (1947), p. 411.
[4] L’impegno politico di Mario Albertini dal 1945 al 1953 è stato sinteticamente ricostruito da D. Preda, «All’avanguardia dell’Europa. I primi vent’anni del Movimento Federalista a Pavia», in Bollettino della Società Pavese di Storia Patria, LXXXV (1985), pp. 153-215 e, più recentemente, da Flavio Terranova, Il federalismo di Mario Albertini, Milano, Giuffré, 2003, pp. 2-6. Albertini ha ribadito questo punto di vista nella prefazione al suo saggio Il Risorgimento e l’unità europea, Napoli, Guida, 1979, pp. 7-10.
[5] Mario Albertini, «Un eroe della ragione e della politica», in L’Europa di Altiero Spinelli, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 18.
[6] Mario Albertini, «Un eroe della ragione», cit., p. 18.
[7] Ibidem, p. 18. Secondo Daniela Preda (op. cit., p. 160), Albertini era attivo nella sezione MFE di Pavia già nell’anno precedente. Risale infatti alla luglio 1952 una lettera indirizzata ad Aurelio Bernardi scritta sulla carta intestata del MFE.
[8] Altiero Spinelli, «Nuovo corso», in Europa federata, ottobre 1954, ristampato in Altiero Spinelli, Una strategia per gli Stati Uniti d’Europa, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 152-3.
[9] Francesco Rossolillo, «Il ruolo dei federalisti», in Il Federalista, XLIV (2002), p. 194.
[10] Altiero Spinelli, «Le ragioni ideali del Congresso del popolo europeo», in Id., L’Europa non cade dal cielo, Bologna, Il Mulino, 1960, p. 254.
[11] Mario Albertini, «Il federalismo militante. Vecchio e nuovo modo di fare politica», in Il Dibattito Federalista, I (1985), pp. 1-3, ristampato in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 442. Commentando queste divergenze Albertini ha scritto: «Si può pensare che Spinelli non abbia mai voluto comprendere il senso di questa scelta — e quindi il senso stesso dell’azione del MFE e della GFE dopo il 1960 — forse perché non si è mai compiutamente liberato dalla sua concezione illusoria di allora» (ibidem).
[12] Mario Albertini, «I tre gradi dei militanti», in Europa federata, VIII (1956), ristampato in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 367.
[13] Mario Albertini, «Il reclutamento e la formazione dei militanti per le nuove lotte del federalismo», in L’Unità Europea, novembre 1979 (supplemento), ristampato in Una rivoluzione pacifica, cit., pp. 419-20.
[14] Mario Albertini, «Esame tecnico della lotta per l’Europa», in Il Federalista, I (1959), ristampato in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 385. I brevi capitoli che compongono questo testo erano già stati pubblicati separatamente in Popolo europeo come riflessione sul lavoro dei militanti.
[15] Ibidem, p. 398.
[16] Questo principio non escludeva finanziamenti ad hoc per azioni specifiche. Le campagne pubblicitarie sui giornali imposte dal silenzio che circondava le iniziative del Movimento federalista anche quando erano in questione scelte cruciali come le elezioni a suffragio universale del Parlamento europeo o la moneta unica, sono state in parte finanziate dai militanti, in parte da contributi volontari di simpatizzanti che non erano direttamente impegnati nel MFE ma che ne condividevano le scelte. La stessa cosa vale per le grandi manifestazioni promosse dal MFE in occasione dei Vertici fra i Capi di Stato e di governo.
[17] Niccolò Machiavelli, Il Principe, in Opere, a cura di Corrado Vivanti, I, Torino, Einaudi, 1997, p. 132.
[18] Mario Albertini, «Pregare o forzare», in Europa federata, X (1957), ristampato in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 94.
[19] Il 24 settembre 1961, in una lettera al Comitato regionale lombardo del MFE, Spinelli riconosceva che il federalismo organizzato stava attraversando una crisi preoccupante. Nella stessa circostanza manifestò l’intenzione di proporre al Congresso di Lione, convocato per il febbraio successivo, un’alleanza con le forze del progresso democratico e di partecipare alle elezioni politiche nazionali in tre città opportunamente scelte (D. Preda, op. cit., p. 210).
[20] Mario Albertini, «La crisi di orientamento politico del federalismo europeo», in Il Federalista, III (1961), ristampato in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 111.
[21] Mario Albertini, «Rapporto al Congresso di Lione», in Le Fédéraliste, IV (1962), ristampato in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 129.
[22] Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica, cit., p. 128.
[23] Mario Albertini, «Il Censimento volontario del popolo federale europeo», in Giornale del Censimento, II (1966), n. 3, ristampato in Una rivoluzione pacifica, cit., pp. 147-8.
[24] Mario Albertini, «Rapporto al MFE», in Giornale del Censimento, I (1965), n. 1, ristampato in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 143.
[25] Mario Albertini, «Il Censimento volontario del popolo federale europeo», cit., p. 150.
[26] Mario Albertini, «Un piano d’azione a medio termine», in Federalismo Europeo, 1(1967), n. 7-8, ristampato in Una rivoluzione pacifica, cit., pp. 156-7.
[27] Mario Albertini, «Tesi per il XIV Congresso nazionale MFE», in Movimento federalista europeo, Atti del XIV Congresso, Roma 2-5 marzo 1989, Pavia, EDIF, s.d., ristampato in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 303.
[28] Luigi Vittorio Majocchi, Francesco Rossolillo, Il Parlamento europeo. Significato storico di un’elezione, Napoli, Guida, 1979, p. 105.
[29] «Il ‘Memorandum Monnet’ del 3 maggio 1950», in Mario Albertini, Il federalismo, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 273.
[30] Luigi Vittorio Majocchi, Francesco Rossolillo, op. cit., pp. 92-3.
[31] Il 27 agosto 1974 Valéry Giscard d’Estaing rivolse ai suoi concittadini un messaggio molto significativo: «L’Europa non deve contare su altri che su sé stessa per organizzarsi e il mondo moderno non potrà essere considerato veramente tale fino a quando la sua carta non avrà cessato di presentare al posto dell’Europa un’area lacerata. E’ questo il motivo per cui la Francia prenderà, nel corso dei prossimi mesi, iniziative per l’organizzazione politica dell’Europa. Vi è — lo so bene — ogni sorta d’alibi per non fare l’Europa politica, ma non vi sarà alcun alibi per coloro che sono stati convocati all’appuntamento con la storia, com’è il caso della nostra generazione, e che ne siano tornati a mani vuote. Nel corso delle prossime settimane la Francia proporrà un certo numero di misure riguardanti il rilancio dell’Unione economico-monetaria dell’Europa; è però mia intenzione indirizzarmi anche ai Capi di Stato e di governo dei paesi europei, nostri partner e nostri amici, per proporre loro di riflettere insieme, nel periodo in cui la Francia ha la presidenza della Comunità, sul calendario e sui metodi di realizzazione dell’unione politica dell’Europa». (cfr. Luigi Vittorio Majocchi, Francesco Rossolillo, op. cit. pp. 100-1). E’ sconcertante constatare come alla percezione della gravità degli eventi non facesse riscontro nessuna iniziativa concreta per realizzare l’unione politica.
[32] Mario Albertini, «Il problema monetario e il problema politico europeo», in Studi in onore di Carlo Emilio Ferri, Milano, Giuffré, 1973, ristampato in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 174.
[33] Mario Albertini, «Moneta europea e unione politica», in L’Unità Europea, settembre 1990, ristampato in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 322.
[34] Mario Albertini, «L’Europa dopo Maastricht: gli aspetti politici», in L’Europa dopo Maastricht. Problemi e prospettive, Milano, Giuffré, 1994, ristampato in Una rivoluzione pacifica, cit., pp. 337-8.
[35] Luigi Einaudi, «Sul tempo della ratifica della CED», in Lo scrittoio del presidente (1948-1955), Torino, Einaudi, 1956, p. 89.
[36] Mario Albertini, «La formula del Movimento», in Europa federata, VIII (1955), ristampato in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 351.
[37] Thomas Mann, «Saggio su Schiller», in Nobiltà dello spirito e altri saggi, Milano, Mondadori, 1997, p. 461.

 

 

 

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