IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLVI, 2004, Numero 2, Pagina 70

 

 

La politica economica nella Costituzione europea
 
ALBERTO MAJOCCHI
 
 
1. Una valutazione globale del progetto di Costituzione.
 
Per cercare di dare una valutazione corretta del Trattato costituzionale che è stato approvato dalla Conferenza intergovernativa il 18 giugno 2004 è necessario in primo luogo fissare il criterio su cui tale giudizio può essere fondato. Il criterio che qui viene utilizzato è quello dell’adeguatezza delle riforme previste nel testo del Trattato a risolvere i problemi di fondo di fronte ai quali si trova l’Unione a seguito dell’allargamento (adeguamento delle istituzioni, governance economica) nella situazione presente della politica mondiale. E’ sulla base di tale criterio che è possibile cogliere la ragionevolezza di taluni giudizi — pur di segno opposto — che sono stati formulati nei confronti del progetto di Trattato, nonché indicare il loro carattere parziale.
In generale, il progetto di Costituzione uscito dai lavori della Convenzione è stato salutato da un apprezzamento molto diffuso, mentre un giudizio abbastanza critico è stato espresso da Tommaso Padoa-Schioppa con un editoriale sul Corriere della Sera del 19 giugno 2003, accompagnato da un titolo suggestivo («Il cammello di Giscard») che fa esplicito riferimento al detto che il cammello è un cavallo disegnato da un comitato. La critica principale, rivolta da Padoa-Schioppa al progetto di Trattato, riguarda la mancata generalizzazione del voto a maggioranza. Questo giudizio è in larga misura condivisibile, ma deve tuttavia essere ulteriormente modulato al fine di tenere nella dovuta considerazione il fatto che il nuovo Trattato doveva cercare di rispondere a due problemi diversi: da un lato, risolvere i left-out di Nizza, ossia elaborare le riforme istituzionali necessarie per un buon funzionamento di un’Unione allargata a 25 paesi a parità di competenze e di responsabilità; dall’altra, creare un’Unione capace di affrontare le sfide con cui l’Europa oggi si deve confrontare, e che riguardano in particolare sia la governance economica a fronte della crisi prolungata dell’economia mondiale, sia la gestione della politica estera e della sicurezza dopo la crisi irachena.
In termini estremamente sintetici il giudizio sulla Costituzione può essere così formulato: la Convenzione ha affrontato in modo nel complesso positivo i problemi di gestione della Comunità allargata, ma non è stata capace di approntare le riforme istituzionali necessarie per far fronte con successo alle sfide con cui l’Unione deve confrontarsi. Per quanto riguarda il primo punto, certamente alcuni passi in avanti sono stati realizzati con il Trattato costituzionale; ma qui intendiamo invece soffermarci più analiticamente sul secondo aspetto, e il giudizio complessivo può essere ridotto all’affermazione che le innovazioni istituzionali contenute in questo Trattato appaiono del tutto inadeguate per dar vita ad un’Unione capace di gestire autonomamente la politica economica — e in particolare la politica fiscale — e una politica estera e della sicurezza unica, e che quindi non rappresenti soltanto il minimo comune denominatore di 25 politiche estere nazionali.
Per quanto riguarda la gestione della politica economica, nella Costituzione viene riaffermato il principio — già contenuto nel Trattato di Maastricht — che «gli Stati membri considerano le rispettive politiche economiche una questione di interesse comune e le coordinano nell’ambito del Consiglio dei Ministri» (articolo III-71). E nella Parte III del Trattato viene ribadito il principio che le decisioni in campo fiscale debbano essere assunte all’unanimità. Nel campo della politica estera e della sicurezza, si prevede l’istituzione di un Ministro degli Esteri che dovrà gestire la politica comune elaborata dagli Stati membri mediante la convergenza delle loro azioni: ma non si prevedono meccanismi capaci di garantire una scelta autonoma di politica estera laddove questa convergenza non esista ovvero, come è avvenuto nel caso del conflitto iracheno, vi siano due schieramenti contrapposti. In questo caso, il Ministro degli Esteri dovrà semplicemente prendere atto di queste divergenze e del fatto che l’Unione non dispone di un potere adeguato per avviare autonomamente una propria politica.
Vi è quindi un parallelismo di fondo: in questi due settori decisivi per il futuro dell’Unione prevale ancora la scelta confederale e si prevede quindi unicamente una politica «comune» che viene gestita attraverso il metodo del coordinamento e con decisioni assunte all’unanimità. In sostanza, non si ha ancora una politica europea, ma una sommatoria coordinata, nell’ipotesi migliore, di politiche nazionali. Nel tempo, è possibile certamente che vi sia un’evoluzione verso una politica estera ed economica veramente europea, ma è certo che, su questo terreno, il risultato della Convenzione assomiglia certamente di più a un cammello piuttosto che a un cavallo. E occorre anche sottolineare che i limiti del Trattato sono in realtà ancora più gravi di quelli indicati da Padoa-Schioppa in quanto la generalizzazione del voto a maggioranza rappresenta una condizione necessaria, ma non sufficiente per garantire una politica economica e una politica estera unica. In particolare: la gestione della politica economica, della politica estera e della difesa non viene assegnata all’organo sovranazionale — la Commissione, embrione del futuro governo europeo —, ma resta nelle mani del Consiglio; di conseguenza, anche nell’ipotesi che nel testo della Costituzione fosse prevista un’estensione della regola del voto a maggioranza anche a questi settori, questa innovazione avrebbe rappresentato senza dubbio un passo in avanti di grande rilievo, ma che non sarebbe comunque decisivo in quanto, finché il potere ultimo di decisione rimarrà nelle mani del Consiglio — e quindi dei governi —, nelle questioni in cui è rilevante l’interesse nazionale si imporrà comunque, di fatto, il diritto di veto.
Il fatto è che il Presidente della Commissione (e a maggior ragione il Ministro degli Esteri che ne è uno dei Vice-Presidenti), anche se eletto a maggioranza qualificata dal Parlamento, continua a essere nominato dai capi di Stato e di governo e, dato che non rappresenta l’espressione politica diretta del voto — e quindi delle scelte — dei cittadini europei, non è politicamente in grado di disporre né dell’autorità né del potere di governare settori essenziali della vita comune come la politica estera e la politica economica. In conseguenza, appare evidente che, per affrontare in modo efficace le grandi sfide con cui l’Europa oggi è chiamata a confrontarsi — giocare un ruolo nella definizione dei nuovi equilibri a livello mondiale e gestire l’Unione economica e monetaria in funzione dell’obiettivo non soltanto della stabilità, ma anche di uno sviluppo sostenibile lungo le linee individuate nel Consiglio europeo di Lisbona — è necessario un salto istituzionale, ossia la creazione di un legame diretto fra la volontà popolare e chi prende le decisioni a livello europeo. E’ necessaria, in definitiva, la creazione di un vero e proprio Stato federale in cui la Commissione rappresenti il potere esecutivo e il governo — ossia la Commissione — venga eletto con un meccanismo democratico che tenga conto dei risultati delle elezioni europee, mentre il Consiglio dei Ministri diventi esclusivamente un organo del potere legislativo, ossia una seconda Camera degli Stati, destinato a far valere gli interessi dei diversi paesi membri senza bloccare il processo decisionale e a garantire una corretta applicazione del principio di sussidiarietà.
In realtà, la Convenzione ha rispettato il mandato ricevuto a Laeken, che era sostanzialmente quello di preparare un progetto di Trattato che fosse accettabile per tutti gli Stati membri dell’Unione. Ora, in una Comunità composta da 25 paesi membri, l’unanimità di consensi è raggiungibile, sia pure tra molte difficoltà, riguardo alla gestione dell’acquis communautaire in una Comunità allargata; ma è deleteria se l’obiettivo è quello di compiere passi avanti significativi verso la trasformazione dell’Unione in una Federazione con poteri limitati, ma reali, nei settori che debbono essere attribuiti alla competenza europea sulla base del principio di sussidiarietà. Ma c’è di più: in realtà, anche la semplice indicazione di questo obiettivo come esito ineludibile del processo di unificazione europea appare a molti del tutto irrealistica nella presente congiuntura politica, sulla base del fatto che vi sono paesi che comunque si oppongono a un esito federale del processo di unificazione e che sono in grado di impedire che venga raggiunta l’unanimità su una soluzione di natura federale.
 
2. Un contributo teorico alla definizione del nucleo duro.
 
Su questo punto, un significativo contributo in termini analitici può essere apportato da alcune semplici considerazioni in termini di political economy. Il problema da affrontare è chiaro: ora che la Conferenza intergovernativa, sulla base dei risultati dei lavori della Convenzione, sembra essere riuscita — pur con tutti i dubbi legati all’esito finale del processo di ratifica — a definire un quadro costituzionale per la gestione dell’acquis communautaire in un’Unione a 25, è possibile pensare ad una Europa a cerchi concentrici, con un nucleo federale (costituito da un insieme di paesi disposti ad accettare ulteriori riduzioni di sovranità per poter efficacemente gestire a livello europeo la politica estera e della sicurezza e la politica economica) inserito nel quadro di una confederazione più vasta (a 25, 27, 28 o 30 membri) che dovrà gestire soltanto l’acquis communautaire, senza ulteriori cessioni di sovranità da parte degli Stati membri che non facciano parte del nucleo duro? Qualche indicazione utile per rispondere a tale questione sembra potersi rintracciare nella teoria economica del federalismo in quanto la creazione di un’Unione — e i conseguenti trasferimenti di sovranità dagli Stati all’Unione — è giustificata dall’esistenza di rilevanti effetti esterni e di significative economie di scala, mentre l’attribuzione di competenze specifiche all’Unione risulta più difficile in presenza di una notevole eterogeneità delle preferenze. Su questa base, si osserva ad esempio, da parte di von Hagen e Pisani-Ferry [2003], che la gestione della politica estera e della sicurezza dovrebbe essere trasferita al livello europeo per garantire l’internalizzazione degli effetti esterni e un completo sfruttamento delle economie di scala; ma si rileva altresì che questo trasferimento di competenze è reso particolarmente difficile, nelle condizioni reali dell’Europa, dalla notevole eterogeneità delle preferenze che si rileva fra gli Stati membri per quanto riguarda la gestione di queste politiche.
Da un punto di vista teorico — e facendo riferimento alla teoria dei club, laddove si pone l’accento sul fatto che si tratta di determinare simultaneamente non soltanto i compiti, ma anche le dimensioni e la composizione dei club — si può trovare una via d’uscita da questo dilemma se le preferenze non vengono considerate come date esogenamente, ma vengono endogenizzate — lungo le linee già indicate da Alesina e Grilli [1993] — ipotizzando come variabili le dimensioni dell’Unione. Il tema è stato affrontato teoricamente da Bordignon e Brusco [2003], che valutano la possibilità di utilizzare lo strumento delle cooperazioni rafforzate, mentre Alesina, Angeloni e Etro [2003] elaborano un modello di un’Unione in cui il trade-off fra i benefici dell’internalizzazione degli effetti esterni e i sacrifici legati alla perdita di autonomia nella gestione delle politiche determinano endogenamente «dimensione, composizione e finalità dell’Unione». Lungo questa strada, si può arrivare a giustificare in termini di efficienza la scelta di un’Europa a cerchi concentrici, con un primo gruppo di paesi — il nucleo duro — che può godere non soltanto dei benefici legati all’internalizzazione degli effetti esterni e alle economie di scala, ma anche di una relativa uniformità delle preferenze, che possono portare insieme all’accettazione di una soluzione federale destinata ad accrescere il livello di benessere, mentre un secondo gruppo di paesi, in cui le preferenze risultano più eterogenee rispetto al nucleo duro, può garantirsi al contempo i vantaggi legati allo sfruttamento dell’acquis communautaire e alla conservazione di un margine elevato di autonomia nella gestione delle altre politiche. In termini politici, questa soluzione è già stata prefigurata dal Presidente Mitterrand, ripresa nel progetto Schäuble-Lamers e sviluppata dal Ministro degli Esteri tedesco Fischer nel suo intervento alla Humboldt Universität di Berlino. Ma nei lavori della Convenzione questa ipotesi non è mai stata seriamente presa in considerazione. Resta quindi da vedere se da parte di alcuni paesi essa non possa essere riproposta per uscire dall’impasse che si manifesterà fra quanti, da un lato, vogliono avanzare verso la generalizzazione del voto a maggioranza e la costruzione progressiva di una politica economica e di una politica estera unica e, d’altro lato, quanti si oppongono a una soluzione federale e non sono disposti a consentire ulteriori cessioni di sovranità.
 
3. La ratifica del Trattato costituzionale.
 
La nuova Costituzione potrà entrare in vigore soltanto una volta completate le ratifiche da parte di tutti gli Stati membri, secondo le rispettive procedure nazionali di ratifica dei Trattati internazionali. La possibilità che la Costituzione non venga ratificata risulta evidentemente accresciuta in funzione del numero più ampio di paesi che devono procedere a questo atto formale. Su questo punto, molto delicato, il Trattato costituzionale, all’articolo IV-7, al punto 3, prevede soltanto che «se al termine di un periodo di due anni dalla firma del Trattato che istituisce la Costituzione, i quattro quinti degli Stati membri hanno ratificato il Trattato e uno o più Stati membri hanno incontrato difficoltà a procedere alla ratifica, il Consiglio europeo viene investito della questione».
Di fatto, questa previsione normativa implica che la scelta finale è di natura politica. Qui si apre uno spiraglio affinché gli Stati membri, che sono convinti della necessità di procedere ulteriormente lungo la strada che porterà a termine la trasformazione dell’Unione in una vera e propria Federazione, si battano per ottenere la generalizzazione del voto a maggioranza almeno per quanto riguarda la creazione di nuove risorse destinate a finanziare una politica europea per lo sviluppo, in vista della creazione di un «nucleo duro» destinato a promuovere la fondazione di un governo europeo responsabile della politica economica e, in prospettiva, di una politica estera e di sicurezza, con le conseguenze inevitabili nel settore della difesa. Questo nucleo duro potrebbe quindi approvare il Trattato — evidentemente con una rottura della continuità giuridica dell’Unione —, ben sapendo che una parte di Stati membri — che resteranno evidentemente nell’Unione con tutti i loro diritti e doveri — non sarà comunque disponibile inizialmente a confluire nel nucleo duro, ma non potrà impedirne la formazione se in seno al Consiglio prevarrà la tesi che si possa decidere sull’entrata in vigore della Costituzione (e conseguentemente sulle sue successive modifiche) non all’unanimità, e quindi con l’assenso soltanto dei paesi che vorranno farne parte (e, conseguentemente, che volessero procedere sulla strada di ulteriori cessioni di sovranità).
La partita quindi non è ancora chiusa e le scelte che si dovranno fare durante la procedura per la ratifica diventano importanti, qualora vi sia effettivamente la volontà da parte di un gruppo di Stati membri — e in particolare dei sei paesi fondatori — di avanzare lungo il terreno della progressiva creazione di una Federazione capace di promuovere lo sviluppo dell’economia europea e di far sentire il peso dell’Europa nella creazione di un nuovo ordine internazionale di natura multipolare, premessa indispensabile per garantire la pace e uno sviluppo equilibrato dell’economia mondiale.
 
4. I limiti del Patto di stabilità e l’iniziativa europea per la crescita.
 
Per quanto riguarda la gestione della politica economica, il problema che recentemente è emerso con grande rilievo è legato al rallentamento che ha caratterizzato in generale l’economia europea. Si è quindi avviata in molti paesi un’ampia discussione intorno a una possibile revisione del Patto di stabilità dato che, da un lato, gli effetti di flessibilità automatica del bilancio hanno messo in crisi l’equilibrio della finanza pubblica soprattutto nei paesi di grandi dimensioni, mentre, d’altro lato, è risultato sempre più difficile, anche in termini politici di conservazione del consenso, rispettare i vincoli del Patto di stabilità.
In effetti, il Trattato di Maastricht ha fissato un tetto al disavanzo delle amministrazioni pubbliche degli Stati membri — pari al 3% del Pil — per evitare che si manifestino effetti esterni negativi sugli altri paesi membri dell’Unione monetaria. D’altra parte, nell’Unione monetaria europea, a fronte di shock asimmetrici che colpiscano un singolo paese, non operano adeguatamente a fini di stabilizzazione i meccanismi automatici di aggiustamento previsti dalla teoria delle «ottime aree monetarie»: flessibilità dei salari, mobilità del lavoro, esistenza di un bilancio federale di dimensioni consistenti. In conseguenza, in presenza di uno shock asimmetrico, l’unico meccanismo di aggiustamento possibile è rappresentato dalla flessibilità automatica del bilancio del paese colpito dallo shock: in presenza di una flessione del Pil, le entrate si riducono, mentre le spese — basti pensare a quelle destinate alla protezione sociale — aumentano a fronte di un deterioramento della situazione economica. Il Patto di stabilità ha quindi sancito — correttamente, da questo punto di vista — che, se si vogliono far funzionare i meccanismi di stabilizzazione del reddito che operano attraverso le variazioni automatiche del saldo di bilancio e al contempo evitare che il disavanzo ecceda il tetto del 3%, inizialmente il saldo di bilancio debba necessariamente trovarsi in pareggio, o addirittura in surplus. In questo caso, un’espansione del disavanzo in misura pari o addirittura superiore al 3% consente al contempo di far fronte alla recessione con una politica fiscale espansiva e di rispettare il vincolo di Maastricht.
Ma vi sono anche notevoli limiti del Patto di stabilità in quanto esso prevede che soltanto in circostanze eccezionali (recessione particolarmente grave, ossia caratterizzata da una caduta del Pil in termini reali pari almeno al 2%) sia possibile superare il tetto del 3%; anche in questo caso, tuttavia, il superamento deve essere temporaneo, dato che il disavanzo deve rientrare al di sotto del tetto non appena superato il periodo di grave recessione. Se il superamento del tetto non è giustificato da una situazione di grave recessione, il Consiglio, una volta riconosciuta l’esistenza di un disavanzo eccessivo, formula una raccomandazione per la sua correzione, che deve essere completata entro un anno (salvo sussistano circostanze particolari). In conseguenza, dati questi vincoli imposti dal Patto, se un paese parte da una situazione caratterizzata da un bilancio in pareggio o addirittura in avanzo, lo spazio di flessibilità automatica può essere utilizzato per garantire un’adeguata politica anti-ciclica; ma se si parte da una situazione in cui il pareggio di bilancio è ancora un obiettivo lontano da raggiungere nel tempo, gli effetti di stabilizzazione automatica spingono immediatamente al di sopra del tetto del 3%, soprattutto se si tratta di una recessione non grave (e quindi che non presenta caratteri di eccezionalità), ma prolungata. In questo caso il Consiglio deve formulare una raccomandazione che indica le misure da adottare per rientrare al di sotto del tetto, promuovendo così di fatto una politica pro-ciclica.
Gli effetti negativi legati all’applicazione del Patto sono quindi di due tipi:
a) dato che anche per i governi vale il principio primum vivere, deinde philosophari, le misure di rientro — in sostanza, riduzione della spesa e aumento del prelievo — in una situazione già caratterizzata da fattori recessivi, o non vengono applicate oppure, se vengono applicate, provocano, oltre ad effetti economici negativi (pro-ciclici), una caduta del consenso che tende a ripercuotersi non solo sulla classe politica al potere, ma anche sul processo di integrazione europea;
b) per evitare che si manifestino questi effetti le raccomandazioni relative al sentiero di rientro tendono a venire disattese, gettando discredito sul Patto, la cui reputazione va invece preservata in quanto ha avuto il merito di consolidare la cultura della stabilità introdotta dal Trattato di Maastricht.
Di fronte a questi limiti del Patto di stabilità, sono state avanzate numerose proposte di riforma. In primo luogo, già le recenti decisioni di Ecofin hanno allentato i vincoli del Patto stabilendo che per definire il rispetto del tetto occorra fare riferimento al saldo di bilancio strutturale, cioè al saldo al netto degli effetti congiunturali. Ma la proposta di riforma più diffusa riguarda l’applicazione della golden rule, ossia l’esclusione degli investimenti pubblici dalla definizione del saldo. Questa proposta ha naturalmente il vantaggio di consentire agli Stati membri la possibilità di adottare misure espansive e, in particolare, di poter finanziare in disavanzo gli investimenti destinati alla creazione di infrastrutture. Essa tuttavia appare soggetta a numerosi limiti, in quanto:
a) la definizione degli investimenti pubblici si presta a numerose ambiguità e può quindi consentire che le prescrizioni del Patto vengano eluse facendo rientrare spese correnti nella categoria degli investimenti;
b) in ogni caso, attraverso una norma di questo tipo si introduce un pregiudizio favorevole agli investimenti — che possono essere finanziati in disavanzo — rispetto alle spese correnti che possono, in taluni casi, essere più produttive (ad esempio, nel settore dell’istruzione si costruiscono nuovi edifici scolastici invece di assumere nuovi insegnanti);
c) ma il limite più rilevante è legato al fatto che all’interno del mercato unico gli effetti espansivi della spesa a livello nazionale tendono a essere ridotti in quanto sono elevate le fughe dal circuito del reddito attraverso le importazioni e in conseguenza sono più limitati gli effetti moltiplicativi sul reddito attraverso le variazioni indotte sull’acquisto di beni domestici. In presenza di esternalità positive a vantaggio degli altri paesi che fanno parte dell’Unione europea, ma che non conducono politiche espansive, la produzione del bene pubblico «stabilizzazione» al livello di ciascun paese tende quindi ad essere inferiore rispetto al livello ottimale.
Per superare questi limiti e garantire al contempo sia il rilancio dell’economia europea, sia il rispetto del Patto di stabilità, la gestione di un programma consistente di investimenti pubblici adeguato a rafforzare la struttura del mercato unico e a sostenere la domanda in questa fase di stagnazione dell’economia dovrebbe essere affidata al livello europeo. Non si tratta di inventare nulla di nuovo in quanto un progetto di questo tipo è già stato elaborato dalla Commissione europea [1993] ed è generalmente conosciuto con il nome di «Piano Delors». Questo piano prevedeva in primo luogo un ampio programma di investimenti pubblici concepiti non soltanto come sostegno della domanda in una fase di rallentamento congiunturale, ma anche come strumento per rafforzare la struttura dell’economia europea. Inoltre, il Piano Delors suggeriva uno spostamento dell’asse dell’imposizione dalle forme di prelievo che gravano sul lavoro — e in particolare sul lavoro non qualificato — alla tassazione dell’energia per favorire la realizzazione di un modello di sviluppo sostenibile non soltanto sul piano sociale, ma anche dal punto di vista ambientale.
Un rilancio del Piano Delors appare oggi all’ordine del giorno, in una versione aggiornata che si proponga non soltanto di stabilizzare l’economia europea, ma soprattutto di avviare la realizzazione della strategia di Lisbona. Si tratta in sostanza di promuovere a livello europeo un piano coordinato di investimenti infrastrutturali — materiali e immateriali — capaci di colmare il gap di infrastrutture che in molti paesi dell’Unione è stato indotto dalle politiche restrittive necessarie per adeguarsi prima ai parametri di Maastricht e poi ai vincoli del Patto di stabilità, e al contempo adeguati per rafforzare la competitività e per favorire l’avvio di un modello di sviluppo sostenibile. In prima approssimazione, questo piano potrebbe prevedere:
a) investimenti per il completamento delle reti europee nel settore dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni;
b) un piano di spese di ricerca e sviluppo, per rafforzare la competitività della produzione europea;
c) il finanziamento di una serie di progetti per migliorare la qualità della vita dei cittadini dell’Unione (mobilità sostenibile, depurazione delle acque, energie rinnovabili, nuove fonti di energia pulita ecc.);
d) investimenti per garantire la conservazione e promuovere l’utilizzo dei beni culturali.
Un’iniziativa lungo queste linee è stata assunta dal governo italiano che ha posto al primo punto del programma per il semestre italiano di Presidenza di Ecofin il Piano di una European Action for Growth.
Il successo di questo Piano presuppone tre condizioni:
a) che il Piano si configuri come un vero e proprio Piano europeo, ossia come il primo strumento di una politica economica europea destinata a promuovere la crescita;
b) che sia di dimensioni significative, con un ammontare di investimenti pubblici in infrastrutture, materiali o immateriali, pari a circa lo 0,5-1% del Pil europeo;
c) che sia in grado di trasmettere un forte segnale positivo in grado di modificare il clima di fiducia delle famiglie e delle imprese.
Nonostante l’approvazione da parte di Ecofin è difficile ipotizzare quale sarà il futuro di questo Piano, che segna comunque un punto di svolta importante in quanto, dopo un decennio in cui l’accento è stato posto ossessivamente sull’idea che non ci può essere crescita senza stabilità, si riconosce finalmente che non ci può essere stabilità senza crescita.
 
5. Il mancato ruolo mondiale dell’Europa.
 
Nel mondo globalizzato di oggi l’Europa riveste una posizione sempre più marginale. Gli Stati Uniti, dopo la caduta del sistema bipolare, giocano un ruolo di superpotenza con finalità egemoniche e sono sostenuti da un’economia che cresce a un ritmo molto elevato, mentre altre zone del mondo sono ormai entrate con prepotenza nell’area dei paesi industrializzati. Al contrario l’Europa, nonostante i passi in avanti recentemente compiuti, sembra collocata sempre di più ai margini del governo del mondo. In conseguenza, «l’europessimismo è di ritorno»: ed è proprio con queste parole che Faini [2004] inizia un suo paper recente sul declino dell’Europa. Di fatto, nonostante il successo conseguito con il completamento prima dell’Unione monetaria e poi del processo di allargamento dell’Unione a dieci nuovi paesi, l’Europa si trova ad attraversare nuovamente un periodo di diffuso pessimismo.
Eppure è sufficiente un pur rapido sguardo ai fatti cruciali degli ultimi quindici anni per rendersi conto che un tale pessimismo, nonché in larga misura ingiustificato, appare sotto molti profili sorprendente. Nel 1989, dopo la caduta del muro di Berlino, nel mondo si era diffusa l’idea che il villaggio globale fosse avviato inesorabilmente verso un destino di pace e di progresso. In questo quadro, in contropartita per il via libera all’unificazione della Germania, la Francia otteneva il consenso tedesco al progetto di Unione monetaria, che concludeva il lungo processo avviato con il Piano Delors per il completamento del mercato interno. Con il Trattato di Maastricht del 1992 si definivano infatti le tappe per la realizzazione della moneta unica, che prevedevano la conclusione delle diverse fasi di avvicinamento all’obiettivo per il 1° gennaio 2002 con l’introduzione dell’euro sul mercato. Nel contempo, venivano avviate le trattative per l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Europa centrale e orientale, destinato a concludersi con l’ingresso di dieci nuovi paesi inclusi Cipro e Malta — il 1° maggio 2004.
C’erano quindi le condizioni per ritenere che il nuovo millennio si aprisse sotto le migliori prospettive. Invece, improvvisamente, l’11 settembre 2001 tutto è stato rimesso in discussione da un clamoroso attentato terroristico che ha colpito direttamente gli Stati Uniti sul loro territorio e che ha aperto una fase politica caratterizzata dall’emergere di forti tensioni, destinate a tradursi in una ripresa di conflitti in diverse aree del mondo. A ben vedere, già nel decennio precedente la guerra aveva fatto la sua tragica ricomparsa anche sul terreno europeo: dall’aprile 1992 al dicembre 1995 la penisola balcanica è stata scossa dal sanguinoso conflitto che finì per travolgere la Bosnia-Erzegovina, e dal marzo al giugno del 1999 si è realizzato l’intervento della NATO in Kossovo per liberare gli albanesi dalla morsa dell’attacco serbo. Questa crisi, in un’area così prossima all’Europa, ha mostrato con chiarezza come, da un lato, l’equilibrio sorto a seguito della fine del bipolarismo fosse fortemente instabile e, dall’altro, come l’Europa fosse del tutto incapace di far fronte autonomamente a tensioni che si sviluppavano in un territorio posto ai confini della propria area di influenza. Il nuovo millennio si è aperto poi con una serie di conflitti di intensità crescente, dall’Afghanistan all’Iraq, che hanno coinvolto l’intera comunità mondiale e hanno alimentato una situazione destinata a rafforzare ulteriormente i rischi di diffusione del terrorismo.
In questo quadro, l’assenza di un’effettiva capacità di decisione europea in materia di politica estera e di sicurezza ha inciso in misura significativa sullo sviluppo delle relazioni internazionali, lasciando il peso delle decisioni sostanzialmente nelle sole mani del Presidente degli Stati Uniti. Infatti, mentre l’Europa è stata capace di portare avanti — attraverso i collaudati meccanismi che hanno già operato in passato per i precedenti allargamenti — una sua politica estera di accessione all’Unione dei nuovi paesi dell’Europa centrale e orientale, l’assenza di meccanismi decisionali efficaci le ha impedito di giocare un ruolo attivo, ad esempio nella soluzione dei problemi medio-orientali, in particolare nella soluzione del conflitto permanente fra Israele e la Palestina, e soprattutto in occasione della guerra in Iraq, che ha visto gli Stati europei divisi su due fronti contrapposti.
Da parte di molti osservatori questo fatto viene sottolineato per mettere in evidenza l’impossibilità per l’Europa di giocare un ruolo nella politica internazionale, data l’eterogeneità delle preferenze che caratterizza i diversi paesi europei. Ma l’argomentazione non coglie il punto essenziale della questione, che è legato invece al modello istituzionale che caratterizza l’Unione. In effetti, la Costituzione approvata dal Consiglio europeo di Bruxelles del 18 giugno 2004 recita, all’Articolo III-196: «Il Consiglio europeo definisce gli orientamenti generali della politica estera e di sicurezza comune, ivi comprese le questioni che hanno implicazioni in materia di difesa»; e l’Articolo III-201 specifica che «le decisioni europee di cui al presente capo sono adottate dal Consiglio dei Ministri all’unanimità». E’ chiaro che, con questa struttura decisionale, è del tutto improbabile che emerga una politica estera unica europea; e, in effetti, a risultati analoghi si giungerebbe anche negli Stati Uniti se le decisioni di politica estera dovessero essere prese all’unanimità con una trattativa all’interno del Senato, dove sono rappresentati tutti gli Stati membri!
 
6. Il declino economico dell’Europa.
 
Mentre l’evoluzione recente delle relazioni internazionali sottolinea chiaramente la difficoltà per gli Stati Uniti, da un lato, di stabilizzare la loro egemonia su scala mondiale e, d’altro lato, di avviare un nuovo ordine multipolare in cui un ruolo decisivo dovrebbe essere giocato dall’Unione europea, all’inizio di questo nuovo millennio si manifesta un altro elemento di difficoltà per l’Europa, ossia il riemergere di un crescente divario rispetto agli Stati Uniti sul terreno economico. Il gap tecnologico a favore dell’economia americana appare di tutta evidenza, mentre il reddito pro-capite dell’area euro rimane bloccato a un livello che è pari al 70% di quello americano, con ritmi di sviluppo dell’economia statunitense largamente superiori rispetto a quelli europei. Si ricomincia a parlare diffusamente di declino dell’Europa e un’analisi approfondita di questi fenomeni viene svolta nel Rapporto Sapir [2004], che mira a definire un’agenda di scelte politiche necessarie per rilanciare il processo di crescita dell’economia europea.
Una valutazione più problematica si ritrova in due contributi di Faini e Blanchard [2004] che, pur senza voler contraddire la tesi di fondo del Rapporto — ossia la necessità di rafforzare in misura significativa le risorse destinate a promuovere la ricerca e l’innovazione su scala continentale —, fanno emergere una visione più articolata delle condizioni attuali dell’economia europea. In particolare, Faini rileva come già nel periodo 1981-90 il tasso di crescita dell’economia americana (2,9%) superi di mezzo punto quello europeo (2,4%) e nel periodo 1991-2002 la distanza si allarghi ancora fino a circa un punto, con gli USA al 2,88% e l’area euro a 1,92%. Ma il risultato cambia significativamente se si passa a considerare il tasso di sviluppo del Pil pro-capite: e, in effetti, mentre nel primo decennio il tasso di crescita nell’area euro è leggermente superiore (rispettivamente 2,1% in Europa e 1,9% negli USA), nel periodo 1991-2002 esso è soltanto di poco maggiore negli Stati Uniti (rispettivamente 1,73% negli USA e 1,6% in Europa). Gran parte della differenza nel tasso di sviluppo, così come misurato dall’andamento del Pil, è quindi imputabile alla crescita della popolazione.[1] In particolare, se si scompone l’ultimo decennio, si può rilevare come la crescita europea si sia ridotta drasticamente nel sotto-periodo dal 1991 al 1996, ma è stata sostanzialmente analoga a quella americana nella seconda parte del decennio.
Nella sua analisi Faini cerca anche di misurare i fattori che hanno influito sul differenziale nei tassi di crescita, mettendo in evidenza come l’aumento della produttività oraria abbia contribuito notevolmente a ridurre il divario di reddito fra Europa e Stati Uniti, con un tasso nel periodo 1979-2001 pari al 2,09% nell’area euro contro l’1,30% negli Stati Uniti; mentre il risultato si rovescia drasticamente quando si considera il periodo finale dal 1997 al 2001, in cui esplode la produttività americana (2,92%) mentre si riduce drasticamente quella europea (1,09%).[2] Ma, al di là di questo andamento tendenziale di lungo periodo di crescita della produttività, in realtà il fattore che sembra determinare in modo decisivo la costanza del divario in termini di reddito prodotto pro-capite è rappresentato dal numero di ore lavorate, che è rimasto sostanzialmente stabile negli Stati Uniti, mentre in Europa è sceso drasticamente da 1745 ore nel 1979 a 1521 nel 2001.
L’analisi di Faini raggiunge risultati sostanzialmente simili a quelli di Blanchard, che rileva come la crescita della produttività sia sostanzialmente maggiore in Europa negli ultimi trent’anni, con la differenza che l’Europa ha utilizzato una parte degli incrementi di produttività per aumentare il riposo, mentre negli Stati Uniti è stata destinata ad accrescere la produzione. Entrambi gli autori tuttavia concordano che queste osservazioni non debbono costituire un alibi per evitare di procedere alle riforme — in particolare, attraverso una liberalizzazione del mercato del lavoro e soprattutto dei prodotti, e un rafforzamento delle politiche destinate a promuovere la ricerca e l’innovazione tecnologica[3] — che sono necessarie per ridare slancio all’economia europea, soprattutto tenendo conto del fatto che negli ultimi anni il divario fra tasso di crescita americano ed europeo si è andato di nuovo allargando.
Il Rapporto Sapir parte da presupposti diversi e, non condividendo questa interpretazione delle cause del relativo declino dell’Europa, prescrive, per ridare slancio all’economia europea, una terapia severa fondata in primo luogo su una forte concentrazione delle spese del bilancio comunitario nel settore della ricerca e dell’innovazione tecnologica.[4] Ma un fattore che accomuna questi diversi punti di vista è probabilmente rappresentato da una critica delle politiche perseguite in Europa nell’ultimo decennio, una critica che investe in particolare i vincoli imposti dal Patto di stabilità, in una situazione in cui la maggior parte dei paesi dell’area euro si ritrovano in condizioni di stagnazione; mentre, da un punto di vista politico, la crisi del Patto è apparsa particolarmente grave dopo la decisione del Consiglio che ha evitato l’imposizione di sanzioni nei confronti della Francia e della Germania.
 
7. La politica economica europea.
 
Sui limiti del Patto di stabilità ci siamo già soffermati. Appare ora opportuno accennare alle possibilità di promuovere la ripresa dell’economia nell’area dell’euro attraverso iniziative di politica economica promosse a livello europeo. In effetti, una politica di rilancio a livello nazionale non è una via di uscita adeguata, sia perché la sua efficacia appare limitata, data l’apertura delle economie dei paesi membri nell’ambito del mercato interno che riduce notevolmente gli effetti espansivi riducendo il valore del moltiplicatore; ma, soprattutto, perché in presenza di forti effetti esterni, la produzione del bene pubblico stabilizzazione è necessariamente sub-ottimale. Se si vuole sostenere l’economia europea, occorre quindi pensare ad un’iniziativa a livello comune, come d’altra parte è suggerito anche dal Rapporto Sapir che prevede una diversa destinazione delle risorse che fanno capo al bilancio comunitario. A questo fine, le iniziative da assumere a livello europeo sono note e sono state definite con chiarezza nell’ambito della c.d. strategia di Lisbona, che mira a fare dell’Europa l’economia più dinamica e competitiva del mondo, fondata sulle conoscenze; ma la mancata realizzazione della strategia di Lisbona deve far riflettere sul fatto che i problemi e le difficoltà nascono sul terreno politico, e in particolare sul terreno istituzionale. Anche la Costituzione non introduce nessun cambiamento sostanziale per quanto riguarda la gestione della politica economica. L’Articolo III-70 sancisce infatti che «gli Stati membri attuano le rispettive politiche economiche allo scopo di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione» e l’Articolo III-71 precisa che «gli Stati membri considerano le rispettive politiche economiche una questione di interesse comune e le coordinano nell’ambito del Consiglio dei Ministri».
Questa soluzione presenta un elemento rilevante di innovazione, ma anche un limite grave. Il modello di coordinamento delle politiche fiscali adottato a Maastricht — e confermato dalla Costituzione — è importante perché tende a non avocare a livello europeo tutta la politica di stabilizzazione, ma ne lascia la responsabilità prevalente al livello nazionale, limitandosi ad affermare la necessità che a livello europeo sia garantito il coordinamento delle politiche fiscali — cercando così di evitare almeno il rischio di un’asincronia nelle politiche di stabilizzazione per cui, mentre un paese promuove una politica espansiva, al contempo in un altro paese si attua una politica recessiva — e indirizzando attraverso i meccanismi di sorveglianza multilaterale le politiche fiscali nazionali verso obiettivi convergenti.
In effetti, si tratta di un’importante deviazione rispetto al modello teorico di federalismo fiscale (Gates [1972]), che prevede l’assegnazione al livello centrale di governo della responsabilità della stabilizzazione. Nell’esperienza europea, non si è invece ritenuto necessario trasferire a livello sovranazionale la gestione diretta della politica di stabilizzazione, come normalmente viene suggerito dalla letteratura. La responsabilità della politica di stabilizzazione viene infatti lasciata agli Stati anche se, a livello sovranazionale, occorre garantirne il coordinamento. Ma mentre questa innovazione, in linea di principio, deve essere considerata positiva in quanto rafforza il carattere federalista nella gestione della politica economica, si deve tuttavia osservare che in questo modello vi è un limite gravissimo, che consiste nel fatto che il coordinamento è sostanzialmente inefficace in quanto si deve realizzare nel Consiglio, che può soltanto adottare raccomandazioni — non sostenute da adeguati meccanismi coercitivi che vincolino i destinatari della raccomandazione ad adeguarsi alle sue prescrizioni — nei confronti degli Stati membri.
Ma anche la procedura per l’adozione delle raccomandazioni è rilevante. E in effetti nel progetto di Costituzione uscito dalla Convenzione l’Articolo III-76 prevedeva che «il Consiglio dei Ministri, su proposta della Commissione e considerate le osservazioni che lo Stato membro interessato ritenga di formulare, decide, dopo una valutazione globale, se esiste un disavanzo eccessivo. In caso affermativo adotta, secondo le stesse procedure, le raccomandazioni allo Stato membro in questione al fine di far cessare tale situazione entro un determinato periodo di tempo». Ma nel testo finale della Costituzione l’inciso «secondo le stesse procedure» viene sostituito da «su raccomandazione della Commissione»: in conseguenza, mentre la formulazione iniziale richiedeva una proposta della Commissione, che può essere respinta dal Consiglio solo all’unanimità, il compromesso prevede una raccomandazione della Commissione, che per essere respinta richiede soltanto una minoranza di blocco. La differenza è quindi sostanziale e rappresenta un ulteriore indebolimento dei poteri della Commissione a favore del Consiglio. Inoltre, le raccomandazioni indirizzate agli Stati membri non saranno più rese pubbliche, facendo così venir meno anche il possibile effetto di moral suasion.
D’altra parte, a livello europeo eventuali decisioni di politica fiscale sono soggette al principio dell’unanimità, ma questa regola non è in grado di garantire né la democraticità, né l’efficacia delle decisioni. In definitiva, con una struttura confederale come quella che permane nel settore fiscale, dove vale ancora il diritto di veto, e con un coordinamento la cui efficacia non è assicurata da poteri effettivi attribuiti allivello superiore di governo, non si ha una politica economica europea, ma una sommatoria di politiche nazionali, che non sono in grado di promuovere in Europa la politica di sviluppo di cui l’Europa ha bisogno. L’Unione monetaria non si accompagna quindi con un’Unione economica capace di garantire la crescita del reddito e dell’occupazione, nonché di promuovere il raggiungimento degli altri obiettivi di politica economica e sociale previsti dall’Articolo 3 della Costituzione che sancisce: «L’Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata, un’economia sociale di mercato fortemente competitiva che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. L’Unione promuove il progresso scientifico e tecnico».
In realtà, se si riconosce l’opportunità di procedere a una politica europea di sostegno alla crescita, occorre affrontare separatamente due problemi diversi che si pongono in questo contesto e che devono accuratamente essere tenuti distinti. Il primo riguarda la possibilità di conseguire un equilibrio macroeconomico a livello dell’intera Comunità attraverso una combinazione efficiente di misure di politica fiscale e monetaria — dato che la politica monetaria è ormai gestita direttamente a livello europeo. Il secondo problema — di cui qui non ci occupiamo — riguarda invece la possibilità di garantire la stabilizzazione delle variabili macroeconomiche in ogni Stato membro dopo l’abbandono dello strumento della manovra del tasso di cambio, a seguito della creazione della moneta europea. E con riferimento a questo problema sono in questione soprattutto le regole del Patto di stabilità.
Per quanto riguarda invece lo sviluppo dell’insieme dell’economia europea, l’indirizzo di politica fiscale adottato è particolarmente rilevante, soprattutto se si tiene presente il fatto che negli Statuti della Banca centrale viene chiaramente stabilito che il compito prioritario della politica monetaria è quello di garantire la stabilità dei prezzi. In riferimento alla politica fiscale, il problema principale che si pone è quello di vedere se gli obiettivi di crescita del reddito debbano essere conseguiti attraverso interventi che passano attraverso il bilancio comunitario — come suggerito anche dal Rapporto Sapir — ovvero attraverso il coordinamento delle politiche fiscali gestite dagli Stati membri.
 
8. I limiti del coordinamento e la riforma del bilancio.
 
In tutte le federazioni esistenti il compito della stabilizzazione macroeconomica dell’intero sistema economico è attribuito al livello centrale di governo. Da un punto di vista teorico la giustificazione principale per l’assegnazione di questa funzione allivello federale deve essere fatta risalire all’esistenza di esternalità. In un’economia aperta una parte rilevante della spesa pubblica andrà a beneficiare i non-residenti attraverso una variazione delle importazioni, mentre i residenti dovranno sopportarne il costo attraverso le maggiori imposte future necessarie per finanziare l’accresciuto debito pubblico: in conseguenza, verrà prodotta una quantità sub-ottimale del bene pubblico.
Sulla tesi che la politica di stabilizzazione debba essere attribuita al livello centrale di governo, già teorizzata da Musgrave [1959] nella sua assegnazione di funzioni economiche dell’operatore pubblico, vi è una larga convergenza fra gli economisti. E, d’altra parte, su questa linea si colloca già il MacDougall Report [1977], laddove osserva che «in prima approssimazione la giustificazione per accrescere il ruolo della Comunità nella regolamentazione dell’attività economica è fondata sulla crescente interdipendenza delle economie nazionali, grazie alla crescita degli scambi, dei flussi di capitale e della trasmissione internazionale dell’inflazione. Quanto più è aperta l’economia degli Stati membri sotto tutti questi punti di vista, tanto meno efficaci diventano gli strumenti nazionali di politica economica. Gli effetti moltiplicativi sulla domanda interna di variazioni del prelievo o della spesa sono ostacolati da un’elevata propensione all’importazione. Il rimedio consiste nel perseguire questi obiettivi a un livello di governo più elevato, ossia una giurisdizione più ampia che internalizzi maggiormente gli effetti esterni o le fughe dal circuito del reddito, attraverso il coordinamento o un’azione fiscale diretta. Tuttavia, ogni proposta per un’azione fiscale diretta a questo fine al livello della Comunità incontra due ostacoli maggiori, l’interrelazione con la politica monetaria e il problema di raggiungere una dimensione adeguata di intervento».
Il primo limite per un’assunzione diretta della responsabilità di gestire la politica di stabilizzazione da parte della Comunità, rilevato dal MacDougall Report, appare ormai superato nel quadro dell’UEM, in quanto la politica monetaria è diventata una responsabilità europea. Ma il secondo ostacolo a un uso attivo per fini di stabilizzazione della politica fiscale rimane sul tappeto. E in effetti, l’elemento specifico che caratterizza la situazione della Comunità rispetto agli Stati federali esistenti è il peso preponderante, sul totale della spesa pubblica, di quella che passa attraverso i bilanci degli Stati membri rispetto a quella che viene gestita attraverso il bilancio comunitario, pari nel 2003 allo 0,98% del Pil europeo. E già il MacDougall Report aveva rilevato come «per quanto riguarda la questione della dimensione adeguata dell’intervento fiscale, le ridotte dimensioni del bilancio della Comunità nello stadio attuale o nella fase pre-federale implicano che il saldo di bilancio, per avere un impatto significativo sull’economia comunitaria, debba variare in una proporzione molto elevata — ad esempio, del 50%».
In generale si ritiene quindi che, date le dimensioni attuali del bilancio e le regole che lo governano — impossibilità di chiudere il bilancio in disavanzo (Articolo 52 della Costituzione), mancanza di flessibilità a causa della programmazione pluriennale prevista dagli accordi sulla disciplina di bilancio del 1988 e ripresa dall’Articolo 54 — il ruolo della Commissione nella gestione della politica di stabilizzazione a livello europeo possa consistere soltanto nel promuovere il coordinamento delle politiche fiscali degli Stati membri.
Un coordinamento è certamente necessario anche nel caso di azione fiscale diretta da parte del livello centrale di governo, per evitare che si manifestino effetti perversi rispetto al conseguimento degli obiettivi della politica di stabilizzazione a seguito di comportamenti pro-ciclici nella politica di bilancio dei livelli inferiori. Ma nell’Unione il coordinamento diventa l’unico strumento disponibile per affrontare shock che vengano a colpire l’economia comunitaria. In proposito, occorre rilevare in primo luogo la necessità di valutare sotto questo profilo la compatibilità delle regole fissate dal Patto di stabilità che impongono un saldo di bilancio in surplus o prossimo al pareggio. In effetti, a livello degli Stati membri, a seguito della impossibilità di utilizzare lo strumento della politica monetaria, le variazioni anticicliche del saldo di bilancio, con la formazione di un surplus durante le fasi espansive e di un deficit durante le fasi recessive, dovrebbero tendere ad aumentare se l’intera responsabilità della politica di stabilizzazione viene posta a carico degli Stati membri. In secondo luogo, occorre ricordare che, nella misura in cui gli effetti esterni diventano sempre più rilevanti con il completamento del mercato interno, minore sarà la disponibilità degli Stati membri a sviluppare politiche di stabilizzazione. Infine, e questa sembra l’osservazione decisiva, gli effetti di una politica discrezionale che si fondi sul coordinamento di misure fiscali adottate dagli Stati membri tendono a manifestarsi con un ritardo temporale tale da svuotare completamente le potenzialità di stabilizzazione di questa politica.
Il coordinamento delle politiche fiscali gestite dagli Stati membri rappresenta quindi una condizione necessaria, ma non sufficiente per garantire l’efficacia di una politica comunitaria di stabilizzazione a fronte di shock che colpiscano in misura macroeconomicamente significativa l’economia europea. E in proposito è opportuno ricordare come in un’Unione monetaria possa rivelarsi un’asimmetria negli effetti della politica fiscale, e quindi un bias deflazionistico. Se infatti si manifesta la necessità di adottare una politica fiscale restrittiva — ad esempio, per limitare il disavanzo di bilancio a seguito di uno shock esogeno con effetti recessivi sulle dimensioni del prodotto —, vi è il rischio che ogni Stato membro proceda ad aumentare le imposte o a ridurre le spese, senza tener conto degli effetti deflattivi indotti da analoghe misure adottate dagli altri paesi. Il rischio di overshooting deriva in sostanza dalla necessità di conseguire comunque l’obiettivo, qualunque sia il comportamento degli altri partner, anche per osservare i vincoli imposti dal Trattato di Maastricht ed evitare le sanzioni previste dal Patto di stabilità. Ma il perseguimento di politiche espansive risulta invece più difficile sia perché comunque i benefici della politica fiscale risultano in parte perduti a causa dell’esistenza di effetti esterni, sia per il timore di svolgere il ruolo di «locomotiva» con i conseguenti vantaggi che ne derivano anche per i partner che si comportano come free-riders.
Il coordinamento può certamente ridurre la probabilità che si manifesti questo bias deflazionistico, ma dati i ritardi temporali che richiede in ogni caso la decisione politica necessaria per metterlo in atto, possibilità di overshooting a causa sia degli effetti di stabilizzazione automatica, sia di misure discrezionali di politica fiscale rischiano in ogni caso di permanere. Occorre d’altra parte sottolineare come, nel quadro dei problemi che si pongono per raggiungere una decisione politica efficace, il peso degli Stati più forti nella definizione delle misure coordinate di politica fiscale appaia certamente più rilevante — come del resto avviene normalmente in tutte le strutture politiche di tipo confederale. Sembra dunque difficile che gli Stati membri economicamente — e politicamente — più deboli possano battere questa strada con grande entusiasmo.
In definitiva, la conclusione che si può trarre da queste osservazioni è che l’Unione, in un quadro politico che, nelle intenzioni dei padri fondatori, è comunque destinato ad evolvere in senso federale, dovrebbe disporre della capacità di promuovere un’autonoma politica di sviluppo attraverso adeguate riforme sul terreno della politica di bilancio, che prevedano: a) un ampliamento delle dimensioni del bilancio, che è d’altra parte inevitabile anche per motivi allocativi — in particolare, se si considera l’evoluzione auspicabile delle responsabilità dell’Unione in tema di politica estera e della sicurezza; b) una modifica delle regole di bilancio, che garantisca la compatibilità con l’obiettivo della stabilità monetaria nel medio periodo, ma consenta, nel breve termine, una maggiore flessibilità nell’uso delle risorse; c) l’introduzione di strumenti di finanziamento del bilancio che rappresentino vere risorse proprie le quali, garantendo una reale autonomia, responsabilizzino l’autorità di bilancio a livello comunitario, ma introducano al contempo elementi di flessibilità anche dal lato delle entrate, per favorire la stabilizzazione automatica a fronte di shock esogeni che colpiscano l’insieme dell’economia europea.
 
9. Le premesse istituzionali per una politica economica europea.
 
Nella situazione attuale, con una struttura politica della Comunità di tipo confederale, il contenimento dell’evoluzione della spesa pubblica comunitaria è garantito da regole rigide sulla disciplina di bilancio e le decisioni sulle entrate richiedono un accordo unanime da parte degli Stati membri. Questa soluzione è generalmente ritenuta gravemente inefficiente e la necessità di introdurre significativi cambiamenti appare quindi del tutto ragionevole. Ma nel quadro delle attuali condizioni politiche e tenendo presente il dibattito che si è sviluppato intorno alla Costituzione, ipotesi di riforma del bilancio quali quelle precedentemente ipotizzate appaiono largamente irrealistiche. Esse presuppongono, in effetti, un rafforzamento delle responsabilità dell’autorità di bilancio, costituita dal Parlamento europeo e da un Consiglio dei Ministri trasformato in un Senato federale e capace di decidere a maggioranza qualificata anche nel settore fiscale. Inoltre, l’autorità europea di bilancio dovrebbe rivendicare il potere di decidere anche in ordine al finanziamento della spesa pubblica comunitaria. E in effetti, nell’ambito di un’Unione politica a vocazione federale — quale è auspicabile che emerga dalla nuova Costituzione — si dovrebbe prevedere che l’intera politica di bilancio, sia dal lato delle entrate che dal lato delle spese, venga governata democraticamente attraverso una decisione congiunta dei due rami dell’autorità di bilancio, pur nel rispetto delle norme previste dal Trattato di Maastricht che impongono limiti alla politica fiscale al fine di garantire la stabilità finanziaria dell’Unione. E la gestione dell’intera politica di bilancio dovrebbe essere affidata alla Commissione, trasformata in un vero governo europeo, sostenuto dal consenso dei cittadini e responsabile nei confronti delle due Camere, il Parlamento che rappresenta i cittadini e il Consiglio che rappresenta gli Stati.[5]
Quando queste condizioni si saranno verificate, sarà finalmente possibile parlare di una politica economica dell’Unione; ma fino a quando il coordinamento rappresenterà l’unico strumento disponibile e la Commissione non disporrà dei poteri necessari per imporlo nei fatti, avremo una somma di politiche economiche nazionali, e non una politica europea. In questa prospettiva, non soltanto il piano d’azione di Lisbona, ma anche le riforme previste dal Rapporto Sapir sono inevitabilmente destinate a rimanere una pia illusione. E questo progressivo declino dell’economia europea che, in questa fase di rilancio dell’economia mondiale, non è in grado di tenere il passo non soltanto degli Stati Uniti, ma anche della Cina e del Giappone, della Russia e dell’India, favorisce altresì una crescente disaffezione nei confronti dell’Unione europea, la cui manifestazione più evidente è apparsa con la scarsa partecipazione al voto nelle recenti elezioni europee. Il cerchio quindi tende a chiudersi dato che dall’europessimismo si scivola lentamente in un rafforzamento di quei settori della classe politica che più chiaramente si oppongono a un esito federale del processo di unificazione europea; ma questo sbocco federale rappresenta invece la condizione necessaria per restituire all’Europa la capacità di decisione necessaria per giocare un ruolo sulla scena internazionale in condizioni di equal partnership con gli Stati Uniti e per colmare definitivamente il divario che la separa nei confronti dell’economia americana.
 
 
BIBLIOGRAFIA
 
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Collignon, S. [2003], The European Republic. Reflections on the Political Economy of a Future Constitution, Londra, The Federal Trust.
Daly, K. [2004], «Euroland’s Secret Success Story», Global Economics Paper N. 102, Goldman Sachs.
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MacDougall Report [1977], Report of the Study Group on the Role of Public Finance in European Integration, Bruxelles.
Musgrave, R.A. [1959], The Theory of Public Finance, New York, McGraw-Hill.
Oates, W. [1972], Fiscal Federalism, New York, Harcourt, Brace, Jovanovich.
Rapporto Sapir [2004], Europa, un’Agenda per la crescita, Bologna, Il Mulino.
Visco, I. [2004], «La crescita economica in Europa: ritardi e opportunità», L’Industria, pp. 289-315.
Von Hagen, J., Pisani-Ferry, J. [2003], «Pourquoi l’Europe ne resemble-t-elle pas à ce que voudraient les économistes?», in Revue Economique, pp. 477-487.


[1] Su questa base fattuale si osserva correttamente che «è difficile prevedere che Eurolandia riesca a conseguire un tasso medio annuale di crescita del 3% nel prossimo decennio — come suggerito, ad esempio, dall’Agenda di Lisbona del marzo 2000 — a meno che si verifichi un cambiamento consistente nell’andamento demografico. Questo cambiamento presuppone una variazione significativa del pensiero politico dominante in Europa al fine di incoraggiare un’immigrazione più ampia — attraverso, ad esempio, una riduzione delle restrizioni sull’immigrazione dai paesi dell’accessione che sono previste per i prossimi sette anni in molti paesi membri dell’Unione europea» (Daly [2004], p. 13).
[2] La tesi di Faini corrisponde sostanzialmente alle conclusioni di Gordon [2003] che rileva come nel quinquennio 1990-95 la produzione americana aumenti del 2,38% e la produttività oraria dell’1,14%, a fronte di una crescita della produzione limitata all’1,61 % in Europa in presenza di un aumento della produttività oraria assai elevata e pari al 2,46%. Ma la situazione si rovescia nel periodo 1995-2000 dove la produzione aumenta del 3,22%, negli Usa e del 2,24% in Europa, ma la crescita della produttività oraria è largamente superiore negli Stati Uniti (2,13%) rispetto all’Europa (1,27%). Conclusioni analoghe a quelle di Faini si ritrovano anche in Daly [2004], che osserva come «negli ultimi dieci anni il problema di Eurolandia è stato la scarsa utilizzazione del lavoro piuttosto che un problema di produttività. Se definito come prodotto per ora lavorata, il livello della produttività europea è stato inferiore soltanto del 4% nel 2003 rispetto agli Stati Uniti, con un leggero miglioramento rispetto a dieci anni fa. D’altro lato, invece, l’impiego del lavoro è stato inferiore del 28% nel 2003 in Eurolandia rispetto agli Stati Uniti» (p. 7).
[3] «Non si tratta di trovare risposte particolarmente originali, ma piuttosto di riuscire a scegliere, nell’azione di governo, gli incentivi adeguati per stimolare un’azione positiva lungo due direttrici fondamentali: l’accumulazione di capitale, nelle sue varie forme, e la crescita della produttività, in particolare attraverso la diffusione dell’innovazione e del progresso tecnico» (Visco, I. [2004], p. 310).
[4] In realtà, il Rapporto Sapir analizza sia i fattori strutturali che gli aspetti congiunturali che giustificano un ritardo dell’economia europea. In effetti, in una nota recente (Aghion, P. e J. Pisani-Ferry [2003]), due autori del Rapporto rilevano che «politica macroeconomica e riforme strutturali non devono essere considerate antitetiche. L’analisi comune cui siamo pervenuti dà una priorità ai fattori strutturali, ma non nega l’impatto degli errori nella gestione macroeconomica».
[5] Su questa linea Collignon [2003] conclude un’ampia indagine — che rappresenta forse il miglior contributo recente sulla Costituzione economica dell’Europa — rilevando che «il potere necessario per sviluppare una politica macroeconomica nell’Unione europea può derivare unicamente da un governo pienamente legittimato da un punto di vista democratico che rifletta le preferenze collettive nel quadro istituzionale europeo. Questo implica, naturalmente, che il governo economico non possa essere una struttura intergovernativa e che i suoi compiti debbano essere attribuiti a una Commissione europea rinnovata responsabile nei confronti dei cittadini europei» (p. 161).

 

 

 

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