IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLVII, 2005, Numero 1, Pagina 19

 

 

Dopo il Trattato costituzionale
La questione dell’Europa politica*
 
UGO DRAETTA
 
 
 
Un discorso sull’Europa politica, o su quello che implica la sua realizzazione, deve partire da una doverosa premessa, per allontanare ogni sospetto di euroscetticismo da parte di chi vi parla. Tutti devono, infatti, avere sempre presente che il grado di integrazione realizzato in Europa con l’Unione europea resta ineguagliato rispetto all’integrazione realizzata in qualsiasi altra area geografica ed è, anzi, assunto come modello da altre organizzazioni internazionali regionali. La realizzazione del mercato interno nell’ambito comunitario ha contribuito grandemente al progresso economico degli Stati membri e, al di là dell’ambito puramente economico, ha raggiunto l’obiettivo che si erano posti con lungimiranza i Padri fondatori della costruzione europea, cioè quello di creare le condizioni per una pace duratura tra gli Stati stessi. In un’Europa a venticinque Stati, che potrebbero aumentare nel prossimo futuro, tutto lascia ritenere che progresso economico e pace duratura caratterizzeranno ancora i rapporti tra gli Stati membri di questa Unione così allargata. Si tratta di una conquista importantissima della cui realizzazione gli europei hanno giusto titolo per essere orgogliosi.
Per potere progredire nel cammino dell’integrazione europea verso un’Europa politica, occorre, però, avere ben presenti anche le carenze dell’attuale processo di integrazione ed i limiti della cosiddetta «Costituzione europea», carenze e limiti spesso offuscati dalla retorica comunitaria ed anche, mi si consenta dirlo, da una certa diffusa ignoranza in merito ai testi dei Trattati in vigore o in corso di ratifica. Se non si fa chiarezza in proposito, si finisce con il perdere di vista gli obiettivi da realizzare e si rende un disservizio alla causa europea.
 
Le carenze del processo di integrazione europea.
 
Le carenze del processo di integrazione europea restano fondamentalmente due: il deficit democratico che mina alla radice la legittimità delle istituzioni comunitarie e la inefficienza del processo decisionale.
Sotto il primo profilo, quello del deficit democratico, il progressivo allargamento delle competenze comunitarie a sfere che riguardano sempre più le relazioni interindividuali (protezione dei consumatori, della privacy, dell’ambiente, ecc.) ha aggravato sempre più un problema che aveva per la verità accompagnato fin dall’inizio la Comunità europea. Alludo al fatto che atti comunitari di natura sostanzialmente legislativa (i regolamenti) e suscettibili di applicarsi direttamente ai cittadini sono emanati da organi (dal Consiglio, su proposta della Commissione), che, da un lato, non sono eletti dai cittadini stessi, e, dall’altro, sono sottratti ad un effettivo controllo politico di tipo parlamentare. La delega di tali competenze dagli Stati membri alla Comunità le ha sottratte ai processi decisionali democratici e al controllo democratico cui sarebbero state sottoposte se esercitate dalle autorità nazionali.
Infatti, il Parlamento europeo, anche se forte dell’accresciuta legittimazione democratica derivante dalla sua elezione a suffragio universale diretto, ha ottenuto, nell’ambito della funzione legislativa comunitaria, solo un diritto di veto per le decisioni più importanti, con il quale può paralizzare l’azione comunitaria, senza essere, però, in grado di indirizzarla secondo il proprio volere. Il potere legislativo in ambito comunitario resta saldamente nelle mani del Consiglio, ove siedono i rappresentanti dei poteri esecutivi degli Stati membri. E’ pur vero che, sotto l’aspetto del controllo democratico, è il Parlamento europeo a detenere, nell’ambito comunitario, i poteri di controllo di natura politica, a somiglianza degli analoghi poteri di cui godono i parlamenti nazionali negli Stati con la forma di governo propria della democrazia rappresentativa. La somiglianza, però, si ferma ad aspetti del tutto formali, in quanto i poteri di controllo politico del Parlamento europeo non hanno nessuna delle caratteristiche sostanziali del controllo parlamentare nel diritto interno. In particolare, il controllo politico si esplica nei confronti della Commissione — e non sempre in maniera condivisile, come recenti episodi relativi all’insediamento della Commissione Barroso confermano — ma non si esplica, invece, nei confronti dell’organo in ultima analisi depositario del potere legislativo, cioè il Consiglio. Quindi, anche il controllo politico nel sistema comunitario appare viziato da un fondamentale deficit democratico ed il controllo che i Parlamenti nazionali possono esercitare sui singoli membri del Consiglio è troppo remoto per sanarlo.
Ovviamente, l’unica soluzione per eliminare il deficit democratico resta quella di rispettare in ambito comunitario un principio ormai saldamente affermatosi negli Stati europei, il principio della separazione dei poteri, attribuendo quello legislativo ad un organo democraticamente eletto, a cui affidare anche il controllo politico dell’esecutivo. Ciò si potrebbe realizzare in due modi: o conferendo al Parlamento europeo il potere di dire l’ultima parola in merito all’emanazione degli atti legislativi, togliendo al tempo stesso tale potere al Consiglio che lo detiene attualmente, o facendo eleggere il Consiglio direttamente dai cittadini europei, così da trasformarlo da organo rappresentante degli Stati in una sorta di Camera Alta, o Senato, di una struttura bicamerale federale, in cui fossero rappresentate le istanze regionali. Ma queste soluzioni implicherebbero, appunto, svolte in senso federale, con conseguente perdita della sovranità da parte degli Stati membri, svolte improponibili al momento attuale a gran parte dei venticinque Stati dell’Unione. Questo spiega il fatto che, pur essendo la soluzione del problema del deficit democratico sempre stata individuata come un obiettivo per ciascuna delle recenti conferenze intergovernative per la revisione dei Trattati, la soluzione stessa è stata di volta in volta rimandata da una conferenza a quella successiva, ed il problema è rimasto, fino al momento attuale, irrisolto. Di conseguenza, paradossalmente, Stati europei che si considerano a buon diritto tra i pionieri della democrazia e tra i difensori dei valori della stessa a livello mondiale, hanno posto in essere tra di loro, con la Comunità europea, una struttura molto poco democratica. Questa situazione è, tra l’altro, una delle principali responsabili di una certa disaffezione dei cittadini all’idea dell’Europa.
D’altra parte, occorre realisticamente ammettere che nell’attuale fase storica dell’integrazione comunitaria, caratterizzata dalla persistente sovranità degli Stati membri, il potere decisionale definitivo non può prescindere dalla volontà del Consiglio, che tali Stati rappresenta, e che un controllo politico da parte del Parlamento europeo sul Consiglio sarebbe possibile solo in presenza di un salto qualitativo che proiettasse le Comunità in uno scenario completamente diverso, in cui gli Stati membri perderebbero le loro caratteristiche sovrane di soggetti di diritto internazionale e il diritto comunitario diverrebbe il diritto interno di un nuovo soggetto, di tipo federale.
Sul problema dell’inefficienza del processo decisionale e sulla mancata soluzione dello stesso, tornerò più avanti. Comunque, i due problemi suddetti, quello del deficit democratico e quello dell’inefficienza del processo decisionale, se non risolti, non consentiranno all’Unione europea di fare fronte con successo alle sfide dinanzi alle quali essa è attualmente posta.
 
Le sfide di fronte all’Europa.
 
Tali sfide sono, come generalmente riconosciuto, la realizzazione di una politica estera e di difesa comune e la realizzazione di una politica economica comune. Senza la prima, negli attuali scenari mondiali, i singoli Stati membri non avranno che la scelta di appiattire le proprie posizioni su quelle della potenza dominante di turno, ovvero di limitarsi ad una sterile, quanto irrilevante, opposizione a tale potenza. Un’Europa dotata di un’unica politica estera e di difesa, un’Europa politica quindi, potrebbe, invece, svolgere, anche in sede ONU, un effettivo ruolo equilibratore sulla scena mondiale, ispirato agli ideali di democrazia, libertà e rispetto dello Stato di diritto, che fanno parte del suo retaggio culturale e su cui si fonda l’Unione europea. Non ha senso, però, pensare ad un seggio ONU per l’Europa, che pure sarebbe indispensabile, fintanto che l’Europa non ha una politica estera unica. Quanto alla seconda sfida, quella di una politica economica unificata tra gli Stati che partecipano alla moneta unica, senza tale politica la stessa moneta unica non potrà costituire una realizzazione duratura ed irreversibile, come gli economisti più avveduti da tempo sostengono e come le vicende attuali legate all’efficacia del Patto di stabilità ampiamente dimostrano.
Per affrontare le sfide suddette non appare adeguato nessuno dei due metodi con i quali è proceduta finora l’integrazione europea: il metodo intergovernativo e il metodo comunitario. Il primo è troppo condizionato dalla regola dell’unanimità per potere portare ad apprezzabili risultati. Esso presuppone azioni concertate tra gli Stati membri, le quali, a loro volta, presuppongono una coincidenza non occasionale di interessi particolari, coincidenza difficile da realizzarsi, come ci insegna la storia anche recente. Il dissenso di uno solo dei venticinque Stati membri paralizzerebbe l’azione dell’Unione. Quanto al metodo comunitario, non è pensabile che, attraverso di esso, possa venire adottata una politica estera e di difesa comune o una politica economica comune, dato il deficit democratico che lo caratterizza, anche se, per avventura, si rafforzasse e semplificasse il processo decisionale. Infatti, decisioni in materie che possono implicare scelte tra pace e guerra, o scelte di politica fiscale (implicite nella definizione di una politica economica comune), non possono che essere demandate a organi democraticamente eletti e non possono essere affidate ad organi burocratici o esecutivi sottratti ad un effettivo controllo democratico.
Di conseguenza, occorre con realismo, e al di là della retorica comunitaria, riconoscere che l’Unione europea a venticinque Stati è veramente di fronte ad un bivio. Se nulla cambia, il processo di integrazione comunitaria vedrà il riappropriarsi da parte degli Stati membri di alcune delle competenze già cedute alla Comunità (attraverso il rafforzamento del metodo intergovernativo rispetto a quello comunitario, di cui esistono già sintomi rilevanti), lo stabilizzarsi della stessa su basi essenzialmente economiche, centrate sullo sviluppo del mercato interno, e la sua progressiva estensione ai nuovi Stati. Sarà questo un impegno complesso, che assorbirà le energie della Comunità per lungo tempo, data la situazione economica di tali nuovi Stati. Sarà anche un obiettivo da non sottovalutare e meritevole di ogni sforzo, dati i suoi indubbi vantaggi per vecchi e nuovi Stati, come detto all’inizio. Nel perseguimento di tale obiettivo essenzialmente economico, il deficit democratico apparirà tollerabile e il processo decisionale comunitario potrà trovare i giusti adattamenti. In questa alternativa, su cui pare inevitabilmente avviata la costruzione europea, l’Unione dovrà, però, abbandonare più ambiziosi progetti relativi ad una politica estera e di difesa comune, nonché ad una politica economica comune, in altre parole il progetto di un’Europa politica, con tutte le conseguenze relative. Se, invece, gli Stati membri vorranno effettivamente perseguire questi ultimi obiettivi, essi dovranno farlo con metodi diversi rispetto a quello intergovernativo o comunitario, adottando soluzioni istituzionali che risolvano il problema del deficit democratico e comportino un processo decisionale efficiente.
 
Il metodo federale.
 
L’unico metodo che può consentire di risolvere le sfide cui si trova di fronte l’Europa è il metodo federale, come comunemente inteso, cioè come trasferimento ad un ente centrale di alcune competenze, più o meno numerose, da parte di Stati prima sovrani, i quali, a seguito del processo, divengono Stati federati, privi di quella soggettività internazionale che, invece, competerà solo allo Stato federale. E’ vero che appare, a volte, addirittura politically incorrect ricorrere al termine «federale», termine sistematicamente espunto da qualsiasi revisione dei Trattati nonostante i reiterati tentativi di inserimento. Ma ciò è dovuto alle ovvie resistenze da parte degli Stati membri, dotati, come gli individui, di un accentuato istinto di conservazione.
Se il metodo federale è l’unico che possa consentire i traguardi più ambiziosi, il cui raggiungimento tutti sembrano auspicare, è anche chiaro che tale Federazione europea sarebbe una federazione «leggera», i cui compiti dovrebbero limitarsi a quelli necessari a far fronte alle sfide suddette: politiche estera, di sicurezza, ed economica comuni. Le altre competenze rimarrebbero agli Stati federati. Non si tratterebbe di un «Superstato», formula che evoca uno Stato autoritario e a cui i fautori dello Stato nazionale a volte fanno ricorso per scongiurare svolte in senso federale, ma costituirebbe, invece, lo Stato nel quale i cittadini europei sarebbero democraticamente rappresentati e si riconoscerebbero, coniugando identità europea, nazionale e regionale. Né sono conciliabili con tale Stato federale formule ambigue e contraddittorie, quali la «Federazione degli Stati nazionali» o la «Federazione degli Stati sovrani», dietro cui si trincerano a volte i fautori dello Stato nazionale.
Ma chi può realisticamente iniziare un processo verso una Federazione europea? Gli Stati membri hanno una legittima vocazione alla tutela dei loro interessi particolari, primo fra tutti quello al mantenimento della sovranità. I partiti politici si scontrano ove c’è un potere da conquistare o da mantenere; tale potere si trova a livello degli Stati nazionali, per cui è a tale livello che il dibattito politico si svolge, persino quando si tratta di eleggere i membri del Parlamento europeo. Non resta che sperare in una ripetizione della felice stagione che vide come capi di Stato o di governo i Padri fondatori della costruzione europea, a meno che il Parlamento europeo trovi il coraggio, forte della legittimità democratica che nessuno gli contesta, di erigersi ad Assemblea costituente, a vera «Convenzione». Nessuna di tali prospettive è tale da indurci all’ottimismo.
Anche, però, se non v’è motivo di ottimismo, ritengo sia doveroso individuare correttamente le alternative a disposizione di un’Europa che si trova al bivio. Tale corretta individuazione costituirebbe già un apprezzabile risultato, in quanto consentirebbe almeno di effettuare scelte coscienti. Invece, spesso retorica e disinformazione prendono il sopravvento e la confusione prevale, unita ad un fenomeno di «corruzione» delle parole. L’uso del termine «Costituzione europea» è sintomatico al riguardo.
 
Il Trattato costituzionale.
 
Il testo del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa chiamato spesso per brevità «Costituzione europea» — è lungo e di non facile lettura. Esso occupa 341 pagine e comprende più di 448 articoli che raggruppano quelli precedentemente inclusi nel Trattato sull’Unione europea, nel Trattato istitutivo della Comunità europea e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; i circa 40 protocolli allegati occupano 382 pagine e le 50 dichiarazioni pure allegate occupano altre 121 pagine. Essendo stato quello della «semplificazione» uno degli obiettivi dei redattori del Trattato, in modo da ridurlo ad un testo agile e comprensibile, questo obiettivo non è certo stato raggiunto. In conclusione, parlare del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa con cognizione di causa è impresa ardua anche per persone di buona volontà con competenze specifiche e quasi impossibile per chi non abbia i precedenti Trattati sotto mano e sia in grado di individuarne le differenze. Al riguardo, l’idea di sottoporre un testo del genere a referendum, come avverrà in una decina di Stati dell’Unione europea, si scontra con la quasi impossibilità di ridurre tutto questo complesso e farraginoso articolato ad un semplice quesito su cui rispondere con un «sì» o con un «no».
In sostanza, il nuovo Trattato non è che un’altra revisione del Trattato di Roma e di quello dell’Unione europea, dopo quelle dell’Atto Unico europeo (1987), di Maastricht (1993), di Amsterdam (1999) e di Nizza (2003). Mentre, però, le precedenti modifiche si sono caratterizzate tutte per un qualche risultato conseguito (ad esempio: l’AUE ha introdotto il mercato interno; con Maastricht si è introdotta la moneta unica; con Amsterdam la politica sociale; con Nizza si è avviata la ristrutturazione delle istituzioni comunitarie in vista dell’allargamento), molto più difficile appare l’individuazione dell’elemento caratterizzante il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. Esso, certamente, introduce modifiche molte delle quali sono necessarie o opportune, così che la sua firma sarà un bene e la sua entrata in vigore auspicabile, ma nessuna delle novità introdotte potrebbe giustificare il riferimento ad un «costituzione», sia pure in senso improprio. In particolare, né la fusione dei cosiddetti tre «pilastri» dell’Unione europea, né l’incorporazione, nella parte II del nuovo Trattato, degli articoli dell’attuale Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, assumono un rilievo che si possa definire di tipo «costituzionale».
Altre novità riguardano ritocchi ai poteri delle istituzioni comunitarie e all’ambito delle competenze comunitarie. Ognuno dei precedenti Trattati modificativi del Trattato di Roma ha introdotto modifiche del genere, ed anche di incidenza maggiore.
Resta da trattare del nodo del processo decisionale comunitario, e specialmente delle decisioni del Consiglio all’unanimità o a maggioranza qualificata, nodo che avrebbe dovuto essere sciolto per evitare la paralisi decisionale conseguente all’allargamento a venticinque dell’Unione e per avviare veramente l’Unione europea verso forme costituzionali/federaliste di integrazione. Su questo nodo, si ricorderà, sono falliti gli sforzi della Presidenza italiana, nel secondo semestre del 2003, volti a trovare una soluzione che superasse le obiezioni di Spagna e Polonia (e non solo di queste ultime), occupate a proteggere i loro interessi nazionali.
Ricordo che il sistema attualmente in vigore risulta dal Trattato di Nizza, modificato dall’Atto di Adesione entrato in vigore il 10 maggio 2004. Esso prevede ancora una cinquantina di decisioni (in tutti i settori più importanti) in cui il Consiglio può decidere solo all’unanimità, cioè con il consenso dei venticinque Stati membri. Per le decisioni che il Consiglio può prendere a maggioranza qualificata, le norme attuali richiedono che si raggiunga un certo quoziente di voti ponderati. Tale sistema dei voti ponderati era presente fin dagli inizi dell’esperienza comunitaria ed aveva una sua logica in una Comunità con un numero ristretto di membri. Con i successivi allargamenti, le ponderazioni dei voti sono state di volta in volta modificate per tenere conto dei nuovi Stati, ma il sistema è rimasto invariato. Attualmente tale sistema risulta difficilmente gestibile in un’Unione europea a venticinque Stati. Basti pensare che la cosiddetta minoranza di blocco, cioè il numero di voti necessari per bloccare una delibera che debba essere presa a maggioranza qualificata, può attualmente essere costituita da tre Stati grandi, che si alleino con qualsiasi Stato piccolo, inclusa Malta, e possono così bloccare una decisione del Consiglio sulla quale gli altri ventuno Stati siano d’accordo.
Si era, quindi, prevista da tempo la necessità di eliminare il sistema delle ponderazioni dei voti in occasione dell’allargamento dell’Unione europea a venticinque Stati e di sostituirlo con una procedura di voto più semplice ed efficace. Sarebbe stata, questa, un’innovazione di rilievo, forse l’unica, che avrebbe caratterizzato il nuovo Trattato.
Invece, il Trattato che attua la cosiddetta Costituzione europea, in primo luogo, lascia invariata la necessità dell’unanimità per almeno venticinque decisioni in campi vitali quali, ad esempio, quello fiscale, sociale, della politica estera e di difesa, della coesione (cioè degli aiuti strutturali), della giustizia e affari interni, con le prevedibili conseguenze circa le chance di progredire effettivamente in questi campi verso maggiori forme di integrazione. Per quanto riguarda la maggioranza qualificata, per i casi in cui essa è prevista, il testo precedente — e non approvato — del progetto di Trattato prevedeva che, a partire dal 1° novembre 2009 sarebbe scomparso il sistema della ponderazione dei voti e, per l’adozione di una delibera a maggioranza qualificata, sarebbe stata necessaria l’approvazione da parte della maggioranza degli Stati (cioè, come ora, tredici Stati su venticinque), i quali però rappresentassero il 60% della popolazione totale dell’Unione. La formula, anche se non migliorava di molto il processo decisionale, aveva almeno il pregio della semplicità; tuttavia, essa generò le insormontabili obiezioni di Spagna e Polonia, cui prima ho accennato.
A seguito dei successivi negoziati, e per tacitare tali obiezioni (visto che occorreva procedere all’unanimità), nel testo attuale del nuovo Trattato la formula è stata stravolta ed è diventata farraginosa e complessa, pur continuandosi ad applicare solo a partire dal 1° novembre 2009. Il nuovo Trattato prevede infatti che «per maggioranza qualificata si intende almeno il 55% dei membri del Consiglio, con un minimo di 15, rappresentanti gli Stati membri che totalizzino almeno il 65% della popolazione dell’Unione». Quindi, almeno finché l’UE sarà a venticinque Stati, sarà necessario l’accordo di 15 Stati e non di 14 come la formula del 55% comporterebbe. La soglia della popolazione dell’Unione è stata poi innalzata al 65% per compiacere Spagna e Polonia. A complicare ulteriormente il processo decisionale, in un documento allegato al nuovo Trattato gli Stati membri si sono impegnati ad adottare una decisione nella quale si stabilisce che, se un numero di membri del Consiglio che rappresenti almeno i tre quarti del numero degli Stati membri o del livello della popolazione necessari per formare una minoranza di blocco manifesti l’intenzione di opporsi alla decisione del Consiglio, il Consiglio farà tutto il possibile per raggiungere, entro un tempo ragionevole e senza pregiudicare i limiti di tempo obbligatori stabiliti dal diritto dell’Unione, una soluzione soddisfacente che tenga conto delle preoccupazioni manifestate dai membri del Consiglio di cui sopra. Un modo contorto per dire che deve ricercarsi sempre una sostanziale unanimità.
Non pare proprio che queste norme, peraltro applicabili solo dal 1° novembre 2009, possano valere a rendere più efficace il processo decisionale in un’Unione a venticinque Stati e destinata a crescere, scongiurando il rischio di paralisi. Nel frattempo continuerà ad applicarsi il sistema attuale, carente per definizione, visto che si vuole cambiarlo.
Quanto all’altro nodo, quello del difetto di democraticità a cui ho prima accennato, il nuovo Trattato non lo affronta nemmeno, dato che l’eliminazione di tale difetto di democraticità passa, come detto, attraverso l’attribuzione di poteri legislativi al Parlamento europeo (oppure attraverso l’elezione diretta del Consiglio che attualmente detiene tali poteri) e, quindi, attraverso soluzioni di tipo federale che non sembrano al momento popolari presso nessuno degli Stati membri.
In questo quadro, la scelta del termine «costituzione» da parte del nuovo Trattato appare veramente infelice. Non si tratta di una costituzione perché non ne ricorrono né i requisiti formali (procedimento di elaborazione da parte di un’Assemblea costituente democraticamente eletta), né quelli sostanziali (mancata previsione di organi legislativi, a livello costituzionale, democraticamente eletti). Tale termine servirà solo a spaventare ulteriormente ed allontanare dalla causa europea gli elettori di alcuni paesi, come la Gran Bretagna, che ricorreranno al referendum per la ratifica del Trattato. La verità è che esistono Stati senza costituzione, ma non costituzioni senza Stato. Non essendo l’Unione europea lontanamente paragonabile ad uno Stato federale, parlando di «costituzione», a proposito di un Trattato che semplicemente modifica per la quinta volta il testo originario del Trattato di Roma, si fa solo una perniciosa confusione e si generano aspettative o timori (a seconda dei punti di vista) totalmente ingiustificati.
 
L’Europa al bivio.
 
Nonostante tutte le osservazioni di cui sopra, sarà un bene che il nuovo Trattato venga ratificato da tutti gli Stati ed entri in vigore, in quanto esso introduce alcuni necessari miglioramenti di carattere per lo più tecnico rispetto alla situazione esistente, come è avvenuto per i precedenti Trattati di modifica. In Italia, la ratifica dei trattati spetta al Presidente della Repubblica, che si fa autorizzare dal Parlamento con apposita legge di autorizzazione alla ratifica, la quale contiene anche l’ordine di esecuzione, necessario per l’immissione del trattato nell’ordinamento all’interno (art. 80 Cost.). Così si è fatto per il Trattato di Roma e per le sue successive modifiche. Non sono previsti referendum di autorizzazione alla ratifica di un trattato internazionale, né sono consentiti referendum abrogativi di leggi di autorizzazione alla ratifica (art. 75 Cost.). In una sola occasione, con apposita legge costituzionale 3 aprile 1989, n. 2, è stata disposta l’indizione di un referendum di indirizzo sul conferimento di un mandato costituente al Parlamento europeo da svolgersi in occasione delle elezioni del 1989 per il rinnovo del Parlamento europeo. Se, per ipotesi, si volesse nuovamente considerare un’analoga iniziativa volta a promuovere un referendum di indirizzo, sarebbe indispensabile concentrarsi su un quesito molto semplice, ma cruciale per affrontare debitamente le sfide che ci pone in questo momento il processo di integrazione europea verso un’Europa politica. Proverei a formulare il quesito, per poi spiegarne brevemente le implicazioni: «Desiderano i cittadini italiani che lo Stato italiano rinunci alle sue prerogative sovrane in materia di politica estera, di difesa ed economica, per conferirle ad un’Unione europea che, così, diventerebbe uno Stato federale, oppure desiderano i cittadini italiani rinunciare ad una politica estera, di difesa ed economica veramente europee con la conseguenza che l’Unione europea si attesti su forme di integrazione esclusivamente economica a livello di un’unione doganale rafforzata?».
Spiego meglio il quesito. La prima alternativa è chiara: se si vuole veramente una politica estera, di difesa ed economica unitaria, e quindi un’Europa politica, occorre che in questi tre campi gli Stati che sono d’accordo (e che, verosimilmente, potranno essere solo in numero molto più ristretto rispetto ai venticinque attuali) rinuncino alla propria sovranità nazionale e la conferiscano ad una nuova entità che prenda decisioni in materia attraverso un organo democraticamente eletto. Si possono dare diversi nomi a tale entità, ma in sostanza si tratta di uno Stato federale. La seconda alternativa è che l’Unione europea coscientemente rinunci ad una politica estera, di difesa ed economica unitaria e si concentri su forme di integrazione economica che hanno finora dato buona prova e che, probabilmente, garantirebbero progresso economico e pace ad un’area europea molto allargata, che potrebbe aprirsi senza problemi ad ancora nuovi Stati (Turchia, Russia, Israele, Marocco, ecc.).
Sono questi i veri termini del problema, al di là della retorica comunitaria e dei toni lirici del Preambolo del Trattato la cui firma il nostro paese ha ospitato. Si badi, entrambe le alternative hanno una loro logica: l’importante è individuarle correttamene e non pretendere che questo nuovo Trattato ci porti una vera Costituzione, né una vera politica estera, di difesa ed economica unitaria, indispensabili per potersi parlare di Europa politica. Un referendum di indirizzo su tali quesiti non smentirebbe l’adesione del nostro paese ad un Trattato al cui negoziato ha dato un contributo così importante, ma servirebbe a verificare se esistono le condizioni perché la nostra politica europea si ponga obiettivi più ambiziosi, nella piena consapevolezza di ciò che il nuovo Trattato effettivamente ci porta, e, soprattutto, di ciò da cui ci allontana: il sogno di un’Europa federale, che era quello che ispirava i Padri fondatori della Comunità a sei, il sogno di un’Europa politica, il «sogno europeo» tout court, che non coincide necessariamente con il «sogno americano».
Torniamo dunque all’ipotesi federale. E’ evidente che una prospettiva federale non sarebbe stata ipotizzabile nemmeno nell’Unione a quindici Stati, date le grandi divergenze tra i suoi membri e la radicale opposizione britannica. Il discorso, poi, non potrebbe neppure porsi per i nuovi Stati recentemente entrati nell’Unione europea: questi ultimi stanno assaporando una libertà ed un’indipendenza di cui per troppo tempo non hanno goduto. Non sarebbero certo disposti a rimettere in gioco tali conquiste in nome di una Federazione europea, ed anzi, forti spinte nazionalistiche li caratterizzano. Quindi, una Federazione europea può solo avere qualche speranza di realizzazione in un ambito ristretto di Stati, un «nocciolo duro» che, in definitiva, si restringe ai Sei che hanno iniziato il processo di integrazione europea. Una Federazione europea, membro vitale di un’Unione europea eventualmente allargata senza timori a nuovi Stati ancora (una Federazione nella Confederazione), che sarebbe aperta alla successiva adesione di tutti gli Stati dell’Unione e fungerebbe da polo di attrazione per quelli tra tali Stati che ne condividano gli ideali, come è avvenuto all’inizio per la CEE, nella quale sono finiti per entrare progressivamente tutti gli Stati dell’EFTA, Gran Bretagna in testa. Sulla base di questa esperienza è facile prevedere che, se i paesi fondatori avessero il coraggio di prendere l’iniziativa di costruire il primo nucleo federale, man mano tutti, o quasi tutti, gli Stati dell’Unione deciderebbero di aderirvi, e l’Unione diventerebbe una realtà politica salda, fondata sulla sovranità popolare, ben governata sul piano economico, attore di primo piano nella politica mondiale.


* Relazione svolta al Convegno «Dopo il Trattato costituzionale. La questione dell’Europa politica», organizzato a Milano il 31 gennaio 2005 dal Comitato regionale dell’Associazione ex-Parlamentari della Repubblica, dall’ANCI Lombardia e dai centri regionali lombardi dell’AEDE e del MFE.

 

 

 

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