Anno XLVIII, 2006, Numero 3, Pagina 199
Nucleo federale e Unione europea
GIULIA ROSSOLILLO
1. La crisi del processo di unificazione europea.
L’Unione europea sta vivendo ormai da alcuni anni una situazione di grave crisi. Se infatti fino al Trattato di Maastricht il processo di integrazione europea era in costante evoluzione e aveva portato gli Stati membri a cedere a un’istanza sovranazionale uno degli attributi tipici della sovranità statale — la moneta —, da Maastricht in poi si è assistito all’incapacità degli stessi Stati di procedere sulla via dell’unificazione, e i Trattati di Amsterdam e di Nizza — così come il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa — si sono limitati ad apportare modifiche marginali ai meccanismi di funzionamento del diritto comunitario, senza affrontare i problemi cruciali per il futuro dell’Europa.
Tali problemi sono essenzialmente due. Il primo consiste nel fatto che l’Unione europea non ha una politica economica e fiscale unica, ma dodici politiche economiche e fiscali nazionali che sono semplicemente coordinate dal Patto di stabilità e crescita (e la situazione rimarrebbe immutata qualora entrasse in vigore il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, il quale si limita a ribadire che «Gli Stati membri coordinano le loro politiche economiche nell’ambito dell’Unione» (art. 1-15)). Ora, nella storia nessuna unione monetaria è sopravvissuta senza avere alla base un potere politico capace di imporre una politica economica e fiscale unica: la moneta europea rischia dunque di indebolirsi, e persino di scomparire, se non si affronterà tale problema. Parallelamente, l’assenza di un potere politico europeo che possa prendere decisioni in materia di politica economica e fiscale impedisce che in tali ambiti si possano compiere scelte che si adattino alle varie fasi dell’economia e obbliga gli Stati a sottomettersi a regole rigide come quelle del Patto di stabilità.
A questa debolezza sul piano economico va aggiunta — ed è questo il secondo problema che l’Europa deve affrontarle — l’inesistenza di una politica estera e di sicurezza europea. In questo ambito gli Stati si limitano infatti a coordinare le loro politiche estere e di sicurezza, che restano essenzialmente nelle loro mani, e il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa non fa altro che confermare tale orientamento. Innanzitutto, infatti, esso non prevede la creazione di un esercito europeo, bensì si limita ad affermare che «la politica di sicurezza e di difesa comune comprende la graduale definizione di una politica di difesa comune dell’Unione. Questa condurrà a una difesa comune quando il Consiglio europeo, deliberando all’unanimità, avrà così deciso. In questo caso, il Consiglio europeo raccomanda agli Stati membri di adottare una decisione in tal senso conformemente alle rispettive norme costituzionali» (art. 1-41). E, nel caso di missioni che prevedano l’utilizzo di mezzi civili e militari, stabilisce che queste siano messe a disposizione dell’Unione dagli Stati membri. Sono dunque ancora gli Stati a mantenere nelle loro mani le leve della difesa.
In secondo luogo, anche l’introduzione del Ministro degli Affari esteri dell’Unione salutata da molti come un importante passo avanti nella direzione della creazione di una reale politica estera europea — non cambia la sostanza delle cose: nominato dal Consiglio europeo, il Ministro degli Affari esteri agisce infatti come mandatario del Consiglio, che in materia di politica estera e di sicurezza delibera all’unanimità (o a maggioranza, ma sulla base di decisioni prese dal Consiglio europeo all’unanimità). In mancanza di accordo tra gli Stati membri, la sua possibilità di azione è pertanto nulla.
2. Le cause della crisi.
Una simile situazione di crisi può essere fatta risalire da un lato al cambiamento dell’equilibrio mondiale dopo la caduta del muro di Berlino, dall’altro al progressivo aumento degli Stati membri dell’Unione europea.
Per quanto riguarda il primo aspetto, non va dimenticato che la divisione del mondo in due blocchi contrapposti e la presenza, per gli Stati dell’Europa occidentale, della potenza americana, hanno costituito da un lato le condizioni ideali per lo sviluppo e il consolidarsi del processo di integrazione europea, dall’altro anche il limite di tale processo. Se l’equilibrio bipolare garantiva infatti l’esistenza in Europa di una zona di stabilità e di pace favorevole alla creazione di forme di cooperazione e di unificazione tra Stati, esso comportava anche una deresponsabilizzazione degli Stati stessi per quanto riguardava la gestione della loro politica estera e di sicurezza, demandata essenzialmente alla superpotenza americana. Il crollo di tale equilibrio ha messo in evidenza la fragilità di un’Europa disabituata ad assumersi sul piano internazionale le responsabilità che sarebbero proprie di una potenza economica delle sue dimensioni.
Quanto al profilo dell’allargamento, se gli Stati fondatori della Comunità europea del carbone e dell’acciaio e della Comunità economica europea, reduci dalle devastazioni della seconda guerra mondiale, condividevano l’obiettivo di costruire un’Europa politica che fosse in grado di garantire una zona di stabilità e pace e di impedire lo scoppio di una nuova guerra tra gli Stati europei, a partire dall’adesione alla Comunità economica europea della Gran Bretagna, nel 1973, la situazione è mutata radicalmente. E oggi, soprattutto in seguito all’allargamento ai nuovi dieci Stati membri, nel 2004, siamo in presenza nell’ambito dell’Unione europea di due visioni profondamente differenti della natura e dello scopo del processo di integrazione europea: l’una che concepisce l’Unione europea come una semplice zona di libero scambio che non deve implicare ulteriori limitazioni delle sovranità nazionali e che potenzialmente deve potersi allargare ad altri Stati; l’altra che si pone il problema dell’integrazione politica.
Questo contrasto si traduce nell’impossibilità di procedere sulla via dell’integrazione al di là del compromesso, largamente insufficiente, raggiunto con l’approvazione del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa.
Le posizioni divergenti assunte dagli Stati membri sulla guerra in Iraq, la crisi del Patto di stabilità, le discussioni sul bilancio dell’Unione e i risultati negativi del referendum francese e di quello olandese non costituiscono dunque le cause di detta crisi, bensì, al contrario, non sono che le conseguenze di una situazione di grave difficoltà che si trascina ormai da anni.
3. Le possibili soluzioni.
Si tratta quindi di chiedersi come uscire dalla crisi e quali siano le soluzioni possibili.
Una prima opzione potrebbe consistere nel lasciare la situazione immutata, rassegnandosi al fatto che in un’Europa a venticinque il compromesso massimo al quale si può giungere consiste nel testo del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa.
Una simile ipotesi implicherebbe l’abbandono di qualsiasi prospettiva di creazione di un’Europa politica e l’apertura all’allargamento dell’Unione ad ulteriori nuovi Stati. Ma si tratta di una soluzione che, traducendosi nel mantenimento dello status quo, non porterebbe alla creazione di una politica estera e di sicurezza e a una politica economica e fiscale comuni, e quindi non affronterebbe i nodi cruciali del processo di integrazione.
La seconda opzione — che si contrappone all’idea che tutti e venticinque gli Stati membri debbano procedere alla medesima velocità consiste nel consentire agli Stati che vogliono procedere sulla via dell’integrazione e che sono convinti che l’unica soluzione possibile ai problemi europei consista nel far sì che l’Europa parli con una sola voce, di costituire un’avanguardia e di staccarsi dagli Stati che concepiscono l’Unione europea come una zona di libero scambio.
Il problema dell’avanguardia non si pone oggi per la prima volta: in passato sono state avanzate numerose proposte volte alla creazione di un’Europa a più velocità, la più avanzata delle quali è riconducibile a due deputati della CDU, Lamers e Schäuble, che, nel 1994, proposero di costituire, nell’ambito dell’Unione europea, un nucleo federale. Ma oggi, a differenza che in passato, la questione dell’Europa a più velocità è diventata cruciale ed è l’unica alternativa che permetta di evitare che sia messo in forse il futuro del processo di integrazione; non a caso è questo il profilo che emerge, se pur con toni diversi, dalle dichiarazioni di vari uomini politici (basti pensare all’ex-Ministro degli Esteri tedesco Fischer, al Primo Ministro belga Verhofstat, al Ministro degli Esteri francese Douste-Blazy).
In particolare, le soluzioni sul campo sono essenzialmente classificabili in due categorie.
Alla prima appartengono le soluzioni secondo le quali l’Europa a più velocità potrebbe svilupparsi nel quadro attuale dell’Unione europea, e cioè potrebbe fondarsi sui Trattati attuali. In altre parole, si tratterebbe della decisione di procedere a velocità differenti presa con l’accordo di tutti e venticinque gli Stati.
In questa prospettiva si pongono coloro che vogliono far leva sulle disposizioni del Trattato dedicate alla cooperazione rafforzata. Si tratta di un meccanismo previsto dal Trattato di Amsterdam e parzialmente modificato dal trattato di Nizza sulla base del quale se un gruppo di Stati (con un minimo di otto) vuole mettere in atto forme di integrazione più avanzate, lo può fare, a condizione che rispetti una serie di limiti che assicurano che la cooperazione rafforzata sia compatibile con il quadro dell’Unione.
In realtà, il grave limite di tale meccanismo consiste nel fatto che esso non permette agli Stati che vogliono dar vita a una cooperazione rafforzata di farlo liberamente: la Commissione, nel quadro del primo pilastro, può opporsi a qualsiasi proposta di cooperazione rafforzata, la cooperazione rafforzata deve essere autorizzata dal Consiglio a maggioranza qualificata ed ogni membro del Consiglio può chiedere che la questione sia deferita al Consiglio europeo, e infine la cooperazione rafforzata deve rispettare il quadro istituzionale dell’Unione. Senza contare che le cooperazioni rafforzate non possono trovare applicazione in uno dei settori nei quali l’Europa a più velocità sarebbe più necessaria: quello della difesa. Si tratta dunque di una soluzione che si fonda sull’idea poco credibile che sia possibile che la decisione di permettere che alcuni Stati membri procedano più velocemente degli altri sia presa anche con l’accordo degli Stati che non vogliono procedere in questa direzione.
A questi limiti bisogna aggiungere quello, ancor più grave, consistente nel fatto che il meccanismo della cooperazione rafforzata non permette di creare una vera avanguardia, un nucleo federale. Potendo infatti ciascuno Stato scegliere a quali cooperazioni rafforzate partecipare, non si formerebbe un gruppo omogeneo di Stati che procedono più velocemente degli altri, bensì si darebbe vita a un’Europa à la carte.
Alla seconda categoria appartengono invece le soluzioni proposte da coloro che ritengono che sia necessario che gli Stati membri che lo vogliono conferiscano a un’autorità sovranazionale la gestione della politica economica e fiscale e della politica estera e di sicurezza e lascino indietro gli Stati che rifiutano forme di integrazione più avanzate. Dal momento che la politica economica e fiscale e la politica estera e di sicurezza comune costituiscono i pilastri della sovranità statale, tale decisione si tradurrebbe nella creazione di uno Stato federale tra gli Stati membri dell’Unione europea che lo vogliono, di un nucleo federale all’interno della struttura confederale dell’Unione europea.
È evidentemente una soluzione molto diversa da quella precedentemente illustrata, perché in questo caso si darebbe vita a una nuova entità dotata di sovranità, e quindi del carattere statuale. Ed è altrettanto evidente che si tratta di una soluzione che non è prevista — e non potrebbe essere prevista — dai Trattati esistenti.
La creazione di un nucleo federale comporterebbe dunque una rottura con il passato: in altre parole il processo di costituzione della nuova entità federale si svilupperebbe inevitabilmente al di fuori delle procedure previste dal Trattato istitutivo della Comunità europea e dal Trattato sull’Unione europea.
D’altronde, il fatto che il passaggio dalla forma confederale a quella federale comporti una rottura con il passato è testimoniato anche da un precedente storico che, sebbene lontano nel tempo, può fornire indicazioni utili per il presente. Il riferimento è alla trasformazione della Confederazione americana negli Stati Uniti d’America. Gli Articoli di Confederazione, che regolavano i rapporti tra le tredici colonie britanniche dopo l’acquisizione dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, in effetti potevano essere modificati solo con il consenso di tutti e tredici gli Stati membri della Confederazione. Ma i Padri fondatori della Federazione americana, per affrontare la grave crisi nella quale si trovava la Confederazione, anziché conformarsi alle regole in tema di revisione previste dagli Articoli stessi, decisero di proporre un nuovo testo che sarebbe entrato in vigore nel momento in cui fosse stato ratificato da almeno nove Stati. La Federazione americana nacque dunque da una rottura con il regime previgente.
4. Il nucleo federale.
Si tratta ora di vedere come potrebbe articolarsi il processo costituente di un nuovo ente sovrano all’interno dell’Unione europea e quali Stati dovrebbero far parte di tale avanguardia.
Per quanto riguarda il primo aspetto, è pensabile che la decisione di costituire il nucleo sia presa dagli Stati che lo vogliono attraverso la stipulazione di un trattato che stabilisca i caratteri fondamentali della nuova entità (la sua natura federale, gli organi, i poteri in materia di politica economica e fiscale e di politica estera e di difesa) e che attribuisca a un’Assemblea costituente il compito di redigere la Costituzione del nucleo federale stesso.
In effetti, è difficile pensare che la creazione di un’avanguardia federale si possa realizzare per volontà di soggetti diversi dagli Stati che ne fanno parte. Da un lato, è impensabile che un’iniziativa simile abbia origine nell’ambito delle istituzioni comunitarie. Queste ultime, infatti, rappresentano per definizione tutti gli Stati dell’Unione e sarebbe pertanto contro il loro interesse spingere perché alcuni Stati creino fra di loro una forma di integrazione più avanzata che metterebbe in ultima analisi in crisi i meccanismi di funzionamento della struttura comunitaria stessa. Quanto ai cittadini, sarà senz’altro necessaria una forma di legittimazione democratica della nuova entità federale, ma chi dovrebbe decidere di consultarli sull’opportunità di costituire un nucleo federale se non gli Stati che vogliono dar vita a tale nucleo, una volta presa la decisione di crearlo?
Quanto agli Stati che dovrebbero far parte della nuova entità federale, secondo alcuni l’avanguardia dovrebbe essere costituita dagli Stati della zona euro, secondo altri da un numero più limitato di Stati, secondo altri ancora da Stati parti della zona euro e Stati non parti di questa. Ora, a mio parere a questo proposito è necessario distinguere due piani: quello degli Stati che potrebbero prendere l’iniziativa di costituire il nucleo e quello degli Stati che poi ne faranno parte.
Mentre è difficile prevedere quali Stati decideranno di far parte del nucleo, qualche considerazione in più si può fare a proposito dell’altro aspetto, e cioè quello dell’iniziativa. La creazione, nell’ambito dell’Unione europea, di un nucleo federale comporterebbe in effetti la creazione di una nuova entità statuale e implicherebbe dunque una forte volontà politica di superare gli ostacoli e di creare una nuova entità in grado di risolvere i problemi ai quali l’Europa deve far fronte. Ora, questa volontà politica, per ragioni storiche, potrebbe verosimilmente manifestarsi nella classe politica dei sei Stati fondatori della Comunità e in primo luogo nella classe politica di Francia e Germania, che hanno costituito sempre il motore del processo di integrazione europea.
A tale iniziativa potrebbero poi evidentemente aderire tutti gli Stati membri che lo volessero e che accettassero di sottomettersi a una Costituzione federale, e quindi di spogliarsi della propria sovranità: si tratterebbe dunque di un nucleo che, fin dal momento della sua creazione, sarebbe aperto a tutti gli Stati che ne vogliano far parte.
5. I rapporti tra nucleo federale e Unione europea.
Quanto ai rapporti tra nucleo federale e Unione europea, è necessario trovare una soluzione che consenta la coesistenza di questi due soggetti. In effetti, se si accetta l’idea della creazione di un nucleo federale, bisogna chiedersi se questa nuova entità succederà ai suoi Stati membri nelle istituzioni dell’Unione europea e se l’Unione europea possa mantenere la sua struttura attuale.
A questo proposito si possono fare alcune osservazioni generali.
Dal punto di vista del diritto internazionale, si potrebbe concepire che il nuovo Stato (che sarebbe il risultato di una fusione tra Stati preesistenti) si sostituisca ai suoi membri negli organi dell’Unione (ad esempio nella Commissione sarebbe presente il rappresentante del nucleo federale al posto dei rappresentanti degli Stati membri di questo) e quindi succeda ai suoi Stati membri nei Trattati dell’Unione europea e della Comunità europea. In effetti, benché la Convenzione di Vienna sulla successione degli Stati nei trattati non sia stata ratificata dalla maggior parte degli Stati membri dell’Unione europea e nonostante i casi di fusione tra Stati che si sono verificati negli anni non siano numerosi, la prassi ammette generalmente la partecipazione automatica a un’organizzazione internazionale di uno Stato nato dalla fusione di due o più Stati membri dell’organizzazione stessa. Ma i casi che si sono verificati nella storia non sono paragonabili alla situazione che si creerebbe qualora nascesse all’interno dell’Unione un’entità federale risultante dalla fusione di alcuni Stati membri dell’Unione europea. Si tratterebbe infatti in questo caso della fusione di più Stati e della partecipazione della nuova entità a un’organizzazione internazionale — l’Unione europea — nella quale il nuovo soggetto assumerebbe un peso considerevole.
Il primo problema che si pone è relativo dunque alla natura del nuovo Stato federale: è infatti evidente che la sua creazione avrebbe come conseguenza un turbamento dell’equilibrio istituzionale dell’Unione, perché il nuovo Stato membro dell’Unione europea avrebbe un peso economico e politico considerevolmente maggiore rispetto agli altri Stati membri dell’Unione stessa.
Contemporaneamente, è difficile immaginare che il nuovo Stato, entità sovrana, accetti di sottomettersi ai vincoli derivanti dal Patto di stabilità (nel caso in cui il nucleo non coincida con la zona-euro) o alle forme di cooperazione in materia di politica estera e di sicurezza attualmente esistenti.
Il secondo problema è invece costituito dal fatto che al di fuori del nucleo federale resterebbero gli Stati contrari a forme di integrazione politica e che, già ora, non sono particolarmente favorevoli alle forme di integrazione non prettamente economica esistenti. È dunque pensabile che, una volta formatosi un nucleo federale, i legami tra gli Stati che non sono parti del nucleo si affievoliscano fino ad arrivare alla trasformazione dell’Unione europea in una zona di libero scambio.
È perciò probabile che sia necessaria qualche forma di rinegoziazione dei rapporti tra la nuova entità federale e un’Unione europea che probabilmente vedrà mutare, almeno parzialmente, la propria natura.