Anno XLVIII, 2006, Numero 3, Pagina 158
Il progetto di Europa politica
dopo il referendum francese del 2005
CHRISTOPHE CHABROT
Il referendum francese del 29 maggio 2005, che ha respinto la ratifica del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa con circa il 55% dei voti espressi, non può essere separato da una riflessione sul futuro modello europeo, a fortiori nel quadro del progetto federale di un’Europa a una o a più velocità. I problemi posti durante la campagna referendaria, i diversi argomenti portati avanti dall’una e dall’altra parte, l’intensa partecipazione dei francesi al dibattito gettano una luce speciale sui nostri lavori di oggi, che mi sembra importante sottolineare. Se è possibile essere delusi, come me, dal risultato negativo, bisogna infatti riconoscere che tutta la campagna sul Trattato ha messo in luce i punti forti ma anche gli aspetti assai fragili di questo progetto di costruzione europea.
Il risultato di questo referendum è paradossale. Quando faccio un sondaggio tra i miei studenti all’inizio dell’anno o quando discuto con amici che hanno votato no, molti mi spiegano di aver rifiutato questo testo… perché era insufficiente. La maggior parte degli oppositori di questo Trattato in Francia, soprattutto a sinistra, lo sono stati essenzialmente per due ragioni: non procedeva abbastanza nell’integrazione europea e per di più lo faceva male. Per questo mi sembra importante distinguere il referendum francese, in ultima analisi portatore di speranza, dal referendum negativo dell’Olanda, che invece è l’indubbia espressione di un rifiuto molto più netto dell’integrazione europea stessa.
Qual è dunque il paradosso di questo referendum francese che può servire al nostro seminario odierno? L’anno scorso il dibattito si è focalizzato sul rifiuto della Parte III, relativa alle politiche dell’Unione, mentre le Parti I e II, che costituivano gli apporti essenziali del Trattato, raccoglievano la quasi unanimità a loro favore, fatta eccezione per qualche litigio tra specialisti, in fin dei conti poco recepito dall’opinione pubblica. Ricordiamo che la Dichiarazione di Laeken non aveva dato mandato alla Convenzione di modificare la Parte III e che questa Parte era già stata adottata dal referendum di ratifica del Trattato di Maastricht nel 1992. Ironia della sorte: questa Parte III era stata simbolicamente aggiunta al Trattato redatto dalla Convenzione di Giscard su richiesta dei rappresentanti francesi, che volevano che il testo finale dell’Unione fosse completo e coerente, e non diviso in due, con le Istituzioni da un parte e le Politiche dall’altra.
Dunque i francesi hanno votato contro un testo di cui approvavano in generale il contenuto reale (le Parti I e II) ed hanno ottenuto l’opposto di quanto auspicavano: la conservazione della Parte III attualmente già in vigore, senza alcuno dei mezzi politici o giuridici chiamati ad inquadrare la prassi e forniti dal Trattato sottoposto all’approvazione. Come è possibile votare «no» ad un Trattato che si approva e di conseguenza consacrare con il proprio voto quanto si rifiuta? È il grande paradosso di questo voto francese che bisognerà risolvere prima di qualsiasi prosecuzione dell’integrazione europea, se non si vuol costruire un’Europa contro i popoli, il che non è certamente il caso — almeno lo spero.
Per far sì che questo voto non sia oggetto di facili critiche, bisogna anzitutto precisare che la campagna referendaria è stata esemplare. Certo, alcuni comportamenti politici non hanno fatto onore al dibattito, argomenti falsi o demagogici sono circolati in entrambi i campi, per esempio su Internet, senza possibilità di apportare correzioni o smentite, ecc. Ma ciò appartiene agli eccessi classici della democrazia e delle campagne elettorali. A dire il vero, a questo proposito si è avuta in generale una grande libertà di parola e chiunque ha potuto veramente in concreto farsi la propria idea. Così, per molti mesi, sono stati organizzati ovunque in Francia innumerevoli dibattiti pubblici, nelle scuole, nelle università, nei centri di incontro, nei municipi, nei caffè, alla televisione, in seno ai partiti politici, ecc. I libri più venduti sono stati quelli che presentavano il Trattato, o davano conto degli argomenti a favore o contrari. I giornali pubblicavano tutti i giorni articoli e lettere dei lettori su questo tema. Ho raramente visto una campagna altrettanto attiva e documentata (senza dubbio ancor più di quella per Maastricht nel 1992). In breve, il voto dei francesi è stato un voto convinto e basato su una discreta informazione. Non può quindi essere semplicemente cancellato o criticato. Non credo d’altra parte che un dibattito di tale qualità abbia avuto luogo in alcun altro Stato europeo.
Direi che nei fatti il maggior problema di questa campagna non era legato alle condizioni del dibattito. Il vero problema è stato quello del quadro entro il quale siamo stati costretti a dibattere. Più precisamente, lo scoglio principale sul quale è naufragata la barca del referendum e dell’abbozzo di integrazione politica che esso proponeva è stato quello del vocabolario.
Il francese è stato per lungo tempo la lingua dei diplomatici e ai francesi è sempre piaciuto giocare con essa. Ma nel quadro di questa campagna essi hanno in qualche modo rifiutato le parole utilizzate che si chiedeva loro di approvare. La Convenzione Giscard proponeva agli europei un Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa. Qualunque giurista freme davanti a questo modo di esprimersi, che mette sullo stesso piano trattato e costituzione e che fa passare l’uno per l’altra, nel pieno disprezzo della piramide delle norme di Kelsen. D’altra parte, molto rapidamente tutti hanno parlato di «Trattato costituzionale», che, dal punto di vista giuridico, è un’espressione ancor più infelice. Bene, i francesi hanno semplicemente rifiutato il fatto che i convenzionali e gli Stati membri che avevano sottoscritto il Trattato giocassero così con le parole e le utilizzassero senza logica. Più precisamente, i francesi li hanno presi nella loro stessa trappola.
Molti francesi hanno creduto, o voluto credere, di votare per una costituzione. Hanno quindi avuto nei confronti di questo Trattato le stesse pretese che avrebbero avuto nei confronti della legge fondamentale. Delusi, hanno votato no. Al contrario, coloro che analizzavano il Trattato come un vero Trattato non potevano accettare che fosse chiamato costituzione e che creasse un quadro politico degno, o quasi, di uno Stato. Hanno votato no. Quanto agli europeisti convinti, che volevano una maggiore integrazione ed erano pronti ad accettare la confusione tra trattato e costituzione, essi vedevano che non veniva proposto loro altro che un testo di compromesso che non giungeva a scegliere tra l’una o l’altra via, che non andava abbastanza lontano, e si sono rifiutati di perpetuare questa situazione di incertezza. Anche loro hanno votato no.
La prima lezione da trarre da questo referendum riguarda quindi i giuristi e i politici europei: non bisogna giocare con le parole e dunque con le speranze della gente, perché c’è il rischio di essere presi sul serio. È quello che hanno fatto i francesi.
Ciò detto, questa questione di linguaggio non è una semplice questione semantica o di strategia politica. I convenzionali volevano introdurre l’idea di una «costituzione» europea, cosa che di per sé non è criticabile. Ma non hanno osato trarne le conseguenze. Ora, quando si parla di costituzione o di trattato, le conseguenze dal punto di vista giuridico non sono le stesse. La prima delle sconfitte, in questo referendum, è quindi senza dubbio imputabile agli europei stessi, che non hanno saputo scegliere con chiarezza ciò che volevano. I francesi non hanno voluto dare il loro sostegno a un progetto che non rivelava chiaramente le proprie ambizioni.
Il problema fondamentale da risolvere, messo in evidenza dal «no» del referendum francese, è anzitutto quello di sapere esattamente qual è oggi l’obiettivo reale dell’integrazione europea e qual è la tappa che ci viene chiesto di superare. Tale questione si complica a causa dell’allargamento a 25, che integra nell’Unione Stati sempre più diversi dal punto di vista economico, politico e giuridico e i cui obiettivi sono talora addirittura contraddittori. Così, di fatto, le questioni che si pongono sono due: l’integrazione europea deve basarsi sull’adozione di un trattato oppure di una costituzione e, in ogni caso, questo testo deve unire tutti gli Stati o solo quelli che vogliano andare più avanti nell’integrazione politica? Dato che i lavori di questo convegno riguardano la prospettiva di un’integrazione europea a diverse velocità, è sotto questo angolo visuale che cercherò di analizzare la situazione, lasciando da parte il dibattito, peraltro fondamentale, sulla necessità stessa di una tale integrazione differenziata.
La prosecuzione dell’integrazione politica dell’Europa può in primo luogo realizzarsi nel quadro dell’Europa tradizionale, a partire dai Trattati come sono attualmente o modificati, organizzando le modalità di differenziazione tra gli Stati membri. Questa soluzione è la più pragmatica, ma comporta dei rischi che si tratta di identificare (I). Accanto a questa ipotesi, e soprattutto con l’ambizione di realizzare un’Europa federale, si colloca l’altra soluzione, quella di fondare l’Europa su di una vera costituzione. Ma la realizzazione di questa federazione impone di risolvere due problemi sottostanti, relativi alle sue dimensioni e alla procedura da adottare (II). La scelta a favore dell’una o dell’altra soluzione è anzitutto politica e senza dubbio dipendente da un contesto storico e geopolitico in evoluzione. Ma se ci si attiene all’ipotesi della costruzione di un’Europa federale in seno all’Unione europea, se quindi l’Europa a molte velocità porta a mettere in parallelo l’integrazione politica di alcuni e l’integrazione economica di tutti, si porranno gravi problemi giuridici relativi alla coesistenza dei due sistemi, che si tratterà di presentare brevemente nelle conclusioni. In effetti, dato che questi problemi al momento attuale sono troppo virtuali e troppo legati a soluzioni politiche che saranno concretamente adottate in futuro, è difficile stabilirne a priori le precise implicazioni giuridiche.
I. La differenziazione politica in seno ad un’Unione tradizionale.
Questo scenario è quello di una UE basata su di un trattato e non su di una costituzione. Esso permette di rispondere a due esigenze. Permette anzitutto una minore integrazione rispetto all’Europa federale e tutela quindi la sovranità nazionale. In questo quadro, in effetti, l’UE non ha che competenze di attribuzione limitate e, anche se il diritto europeo può sempre prevalere sui diritti nazionali, gli Stati membri non perdono totalmente la loro sovranità, sia in settori interni strategici sia a livello internazionale (per esempio la conservazione del seggio all’ONU). Inoltre, tale integrazione permette, in particolare attraverso il sistema dei protocolli, lo sviluppo di un’Europa a molte velocità con un trattamento diverso tra i vari Stati a seconda delle politiche in questione, per aggregazione di Stati che vogliono andare più avanti o per dissociazione di quelli che non vogliono seguire forme di integrazione più spinta.
Questa Europa tradizionale risponde quindi in gran parte ad una delle problematiche sollevate dal nostro seminario. Permette un’integrazione differenziata e può anche dar vita a cooperazioni di natura politica. Ma non è in grado di portare ad un’Europa di per sé stessa politica. In effetti, la differenziazione che essa comporta ha come conseguenza una instabilità all’interno dell’UE (a) o all’esterno di questa struttura (b) ed impedisce la creazione di un’organizzazione politica coerente. L’Europa a molte velocità di cui stiamo parlando non è altro che quella attualmente in vigore e che era parimenti prevista dal Trattato del 2004. Ma se dovesse essere consacrata dopo i no nei referendum francese e olandese, in assenza di un «piano B» bisognerebbe senza dubbio prevedere certi correttivi per prevenire un rischio crescente di disgregazione.
a) La costituzione di un nucleo duro attraverso il diritto europeo.
In ciascuno dei tre attuali pilastri dell’UE è prevista la creazione di «nuclei duri» che corrispondono sia alla dissociazione sia all’aggregazione di Stati a seconda delle materie considerate e che possono essere assimilati alla costruzione di un’Europa a molte velocità.
Così, nel quadro del primo pilastro, bisogna anzitutto citare la Zona euro. Nell’Unione a 25, questa zona raggruppa solo 12 Stati membri, lasciando da parte i 10 Stati che hanno aderito all’UE nel 2004 e così pure il Regno Unito e la Danimarca che hanno rifiutato la loro partecipazione e la Svezia, che non rispetta ancora i criteri di convergenza. Bisogna parimenti citare lo Spazio di Schengen, comunitarizzato dal Trattato di Amsterdam. Fanno parte di questo Spazio solo 13 Stati dei 25 dell’Unione (sono quindi esclusi i 10 ultimi entrati, ma anche l’Irlanda ed il Regno Unito), ai quali però si aggiungono la Norvegia e l’Islanda che non fanno parte dell’UE e dal 2006 la Svizzera che vi ha aderito in seguito al referendum tenutosi nel giugno 2005. Un caso simile si ritrova negli accordi di Dublino sul diritto d’asilo.
Nel quadro del secondo pilastro della politica estera e di sicurezza comune, bisogna prendere in considerazione essenzialmente le politiche di cooperazione rafforzata previste dall’articolo 27a e seguenti del Trattato sull’Unione europea modificato dal Trattato di Nizza. In questo quadro, il Consiglio autorizza la realizzazione di tali cooperazioni a certe condizioni ed il nucleo duro così costituito potrà non essere lo stesso da una cooperazione all’altra. Lo stesso vale per il terzo pilastro (articolo 40 e seguenti del Trattato sull’Unione europea), per cooperazioni scelte se del caso dalla Commissione ed accettate dal Consiglio, nel quadro della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale. L’articolo 11 del Trattato istitutivo della Comunità europea prevede parimenti queste cooperazioni nel quadro del primo pilastro, introducendo peraltro, in alcuni casi, un diritto di veto a favore del Parlamento europeo.
Più in generale, queste cooperazioni rafforzate sono previste per l’insieme delle politiche dell’Unione nel titolo VII del Trattato sull’Unione europea (articolo 43 e seguenti) e sono state riprese nel Trattato del 2004 (articoli 1-44 e 111-416). In questi casi è il diritto europeo stesso che qui inquadra la comparsa di uno o più nuclei duri nei settori di competenza dell’Unione.
Ma quali sono la natura o il valore di queste cooperazioni rafforzate? Occorre anzitutto osservare che in generale esse non sembrano utili nel quadro del primo pilastro, dove l’integrazione comunitaria è sufficientemente sviluppata o risponde a criteri essenzialmente oggettivi (per esempio criteri di convergenza) per dissuadere dall’andare ancora più lontano nell’integrazione. Nel quadro del secondo pilastro, bisogna osservare poi che sono vietate le cooperazioni rafforzate nel campo della difesa o in campi che abbiano implicazioni militari (art. 27b del Trattato sull’Unione europea). Orbene, sono proprio questi campi dotati di una connotazione politica particolarmente marcata quelli che potrebbero più facilmente portare ad un nucleo duro stabile. D’altra parte, il potere di selezione delle cooperazioni attribuito alla Commissione, e se del caso al Parlamento (nel quadro del primo pilastro e, in certa misura, del terzo), sembra esercitarsi a detrimento della volontà degli Stati, cosa che può dissuadere dal loro uso. Più in generale, l’obbligo di un numero minimo di Stati per realizzare tali cooperazioni (8 nel Trattato sull’Unione europea, un terzo dei membri nel Trattato del 2004), l’incoraggiamento a far partecipare il massimo numero possibile di Stati (art. 43b del Trattato sull’Unione europea), l’esigenza che la cooperazione rafforzata non rechi pregiudizio al mercato interno e alla coesione sociale (art. 43e), uniti agli interventi per assicurare la coerenza con le politiche dell’Unione e della Comunità garantiti dalla Commissione e dal Consiglio (art. 45) o alla possibilità di rinvio al Consiglio europeo sembrano restringere in modo abbastanza considerevole l’utilizzo effettivo di queste cooperazioni da parte degli Stati membri, in particolare nei settori politici sensibili.
Non sembra quindi che nel quadro di queste cooperazioni rafforzate possa concretizzarsi un nucleo duro politico: il nucleo duro che esse generano o è chiamato a variare a seconda dei campi di cooperazione, o aspira ad aprirsi rapidamente a tutti gli Stati, oppure la differenziazione non è solo il frutto di una decisione spontanea degli Stati, ma corrisponde a una selezione operata dalle istituzioni europee o dai Trattati.
Al fine di favorire la possibile formazione di un nucleo duro politico, sembra quindi necessario modificare, se è ancora possibile, il contenuto di alcuni limiti. Per esempio, si tratterebbe di permettere queste cooperazioni rafforzate in campo militare, di abbassare o addirittura abolire la soglia minima di Stati, di rafforzare il potere di decisione degli Stati e forse anche il loro potere di derogare al diritto comunitario. Ma se si prevede un simile progresso in campi politici, bisognerebbe accettarne anche la contropartita democratica, consistente nell’intervento dei parlamenti e dei giudici nazionali ed europei, al fine di garantire in modo più certo l’accordo e i diritti degli individui; perché è fuori discussione la possibilità di costruire un’Europa politica che non sia sottoposta alle stesse regole di funzionamento delle società politiche.
Ma la costruzione di un’Europa politica sulla base di queste cooperazioni rafforzate porta a un doppio rischio. Se troppo favorite, queste cooperazioni possono semplicemente portare al crollo dell’unificazione europea attraverso la costituzione di alleanze intracomunitarie che possono contrapporre, al momento di prendere decisioni collettive in seno all’UE o alla CE, interessi corporativi all’interesse generale. Inoltre, tali cooperazioni potrebbero assumere forme troppo derogatorie rispetto al diritto comunitario, il che farebbe andare in pezzi l’unità giuridica che si ricercava. Se troppo inquadrate, invece, queste cooperazioni rischiano di scoraggiare gli Stati e di spingerli a realizzare azioni comuni mirate al di fuori del sistema dell’UE. L’Unione non riuscirebbe così a darsi una dimensione chiaramente politica, sotto il peso della concorrenza di queste altre alleanze. Queste, d’altra parte, non sarebbero in grado di sostituire efficacemente l’Unione né di servire da base per una nuova organizzazione a vocazione politica, perché si baserebbero su cooperazioni troppo variabili, puntuali, centrate su interessi troppo precisi e legherebbero tra loro membri che cambierebbero troppo a seconda delle cooperazioni. Non ci sarebbe più un nucleo duro, ma molti nuclei duri europei, il che rimanda alla situazione molto imperfetta delle alleanze del XIX e XX secolo, che non sono state capaci di impedire le guerre. Questo rischio sta chiaramente materializzandosi attraverso le cooperazioni interstatali che si moltiplicano sul terreno europeo.
b) La costituzione di un nucleo duro politico attraverso trattati non comunitari.
C’è un’altra ipotesi in concorrenza con la costituzione di un nucleo duro intracomunitario: quella dell’adozione di trattati al di fuori del quadro dell’Unione europea.
In questo caso vanno distinti due fenomeni. Il primo è quello dei trattati firmati tra gli Stati membri dell’UE, e previsti dal Trattato istitutivo della Comunità europea o dal Trattato sull’Unione europea per sviluppare o completare il diritto nelle materie di competenza dell’UE. L’articolo 293 del primo Trattato prevede l’adozione di tali trattati in materia di protezione delle persone, di doppia imposizione, di esecuzione delle decisioni giudiziarie, di regime societario, ecc. Pensiamo anche alle convenzioni Europol, Eurociel, a quella sui brevetti, a quella sui fallimenti. In realtà, questo diritto convenzionale intracomunitario, spesso chiamato «diritto complementare», è molto importante ed assicura una produzione normativa efficace quanto quella del diritto comunitario, al punto che consente talora di fare ameno del diritto comunitario. Però aggira il processo democratico sviluppato a partire dal Trattato di Maastricht ed in particolare il potere decisionale del Parlamento europeo. Parimenti, non è sistematicamente riconosciuta la competenza della Corte di giustizia. Infine, questi trattati hanno spesso come quadro materie a debole valore politico, anche se influenzano la vita di tutti i giorni.
Dal punto di vista dell’integrazione europea, questi trattati sono quindi al tempo stesso interessanti e pericolosi. Dando maggiore flessibilità alla produzione di norme europee, essi contribuiscono contemporaneamente ad offuscare l’immagine dell’Unione e la comprensione del suo diritto, rinviando troppo spesso a norme «europee» che non sono «dell’Unione». Che complicazione per l’imputato, che mancanza di leggibilità per i cittadini o per i nostri studenti! Per di più si pone un problema giuridico reale se uno Stato membro non ratifica tali trattati e si smarca quindi un po’ dall’omogeneità europea. Sembra quindi difficile costruire una Unione europea politica su questi trattati.
Altra ipotesi: la costruzione di nuclei duri al di fuori di qualsiasi legame diretto con l’UE, sia per quanto riguarda le competenze, sia per quanto riguarda i membri coinvolti.
È, ad esempio, il caso tipico dell’Europa militare. Essa si basava in parte sull’UEO; a partire dall’Atto Unico del 1986, con i Trattati di Maastricht e di Amsterdam e la progressiva adesione degli Stati membri dell’UE a tale organizzazione, l’UEO è divenuta il «braccio armato» dell’Unione. Ma questa opzione è stata abbandonata dopo il Consiglio europeo di Colonia del giugno 1999, il Trattato di Nizza e la dichiarazione di Laeken del 2001. In effetti, si è scommesso su di una Unione europea che esprimesse essa stessa la propria politica militare comune, senza «subappaltarla» all’UEO. Ma le realizzazioni comuni a livello dell’UE continuano a non esistere. L’Unione europea di sicurezza e difesa (UESD), proposta nell’aprile 2003 da Germania, Belgio, Francia e Lussemburgo, con l’obiettivo di una maggiore autonomia nei confronti della NATO, è stata respinta da Stati membri più atlantisti, come il Regno Unito o la Polonia. Da allora, la politica militare comune è sostituita da un insieme di cooperazioni puntuali e multiformi: Eurocorpi (che raggruppano la Germania, il Belgio, la Spagna, la Francia e il Lussemburgo), Eurofor e Euromar (forza di reazione rapida creata dalla Convenzione del 5 luglio 2000, stipulata tra Spagna, Francia, Italia e Portogallo), il satellite militare Helios (finanziato dal Belgio, dalla Francia e dalla Spagna), ecc.
In un quadro diverso, bisogna citare la Convenzione di Schengen del 1985 e gli accordi di applicazione del 1990, inizialmente sottoscritti da 5 Stati certamente membri dell’UE, ma al di fuori di qualsiasi mandato comunitario, e che oggi raggruppano anche Stati non membri dell’UE.
Queste materie militari o di polizia possono prefigurare un’integrazione politica spinta, dando vita a legami che servano da modello alle istituzioni europee. Ma rischiano anche di relativizzare totalmente la forza integratrice dell’UE. In effetti, questi trattati possono essere pensati come della alternative alle politiche europee comuni e non come esempi. Soprattutto, producono alleanze mutevoli, su di un territorio che varia, aperto a Stati che possono non far parte dell’UE, cosa che può complicare seriamente il coordinamento politico e giuridico dei due sistemi, soprattutto quando strategie regionali si oppongono alle strategie collettive dell’UE. L’Eurofor potrebbe intervenire in uno Stato europeo contro il parere dell’UE? L’UE potrebbe richiedere all’Euromar di sostenere un intervento militare rifiutato dagli Stati che vi contribuiscono? Stati membri dell’UE rischiano in effetti di creare fra di loro delle associazioni capaci di opporre efficacemente i loro propri interessi all’interesse collettivo europeo (Benelux, Gruppo di Visegrad, Consiglio Nordico, progetto d’Unione franco-tedesca, ecc.). Possono anche volgersi verso alleanze che coinvolgono Stati non membri dell’UE (NATO, OSCE, Unione mediterranea) i cui interessi complicherebbero o farebbero concorrenza alle ambizioni dell’Europa. Se ciò avvenisse, all’UE non resterebbe che divenire nient’altro che un grande mercato economico e sociale completato, in campo politico, da queste altre alleanze evolutive. Se alcune di queste iniziative extracomunitarie possono in realtà essere reinserite nell’UE, sulla base dell’esempio della Convenzione di Schengen, comunitarizzata dal trattato di Amsterdam, molte cooperazioni militari o di polizia sembrano riguardare settori troppo sensibili per seguire la stessa sorte.
Queste ipotesi di alleanze offrono infine una prospettiva che interessa direttamente i nostri lavori. Sarebbe infatti possibile immaginare la firma di un nuovo trattato europeo che istituisce una confederazione europea al di fuori dell’UE. Questo trattato, sottoscritto dagli Stati che lo desiderino e si siano accordati tra loro, unirebbe le loro volontà nei settori militari e diplomatici, o anche economici e sociali, in un modo diverso dall’Unione e più consono alla loro volontà. Questa confederazione permetterebbe di rilanciare l’idea di un’integrazione europea sulla base di un nuovo progetto, e potrebbe costituire il nucleo iniziale di un futuro Stato federale europeo. Un tale scenario, tuttavia, rischierebbe di portare al dissolvimento dell’attuale Unione, dal momento che spingerebbe gli Stati dissidenti a uscirne per costituire appunto la nuova confederazione. In effetti, l’uscita di tali Stati dall’Unione semplificherebbe molto, dal punto di vista giuridico, le relazioni tra la confederazione e l’UE, che verrebbero regolate semplicemente in via diplomatica, al di fuori di qualsiasi controllo della Corte di giustizia delle Comunità europee e di qualsiasi vincolo derivante dalla partecipazione alle istituzioni dell’Unione. Ma questa ipotesi, molto plausibile, di una nuova Europa confederale non deve far dimenticare l’obiettivo primo di un’Europa veramente federale, e che passa attraverso l’elaborazione di una costituzione a vocazione chiaramente politica.
II. L’integrazione politica in seno a un’Europa federale.
Il problema dell’Europa attuale riguarda la creazione di una «comunità» che non si basa su di una «comunione» preesistente. Questo problema si è in realtà posto alla maggior parte dei governanti storici dell’Europa fin dal Medioevo, al momento della costituzione degli Stati nazionali. Ma i mezzi sono cambiati. Ormai, i Poteri non possono più semplicemente imporre con la forza il loro ordine politico. La democrazia presuppone l’accettazione del progetto da parte della popolazione.
Ciò complica molto le cose se il progetto viene sempre presentato dal Potere «dall’alto». L’esempio migliore è senza dubbio quello del Parlamento europeo. Sebbene si supponga che esso sia il luogo della rappresentanza dei popoli europei, che garantisce l’espressione della loro volontà nel sistema democratico dell’Unione, è chiarissimo che i popoli europei non vi si riconoscono sempre. Il colmo dell’ironia consiste nel fatto che più il Parlamento europeo ottiene poteri e legittimità (codecisione, investitura e censura della Commissione, possibilità di adire alla Corte di giustizia, ecc.), meno i cittadini europei partecipano alla sua designazione. Si sa, il problema del Parlamento europeo non è quello del deficit democratico, oggi in gran parte colmato, ma è quello della sua credibilità. Per quale ragione? Perché anziché essere fin dalla nascita l’emanazione dei popoli, si è cercato di imporlo dall’alto. Ebbene, i popoli sono diffidenti: non vogliono che venga loro data la libertà, la democrazia: vogliono prenderla o darsela da soli (poiché essi sono il Sovrano).
È un po’ lo stesso problema che si pone oggi nella costruzione di un’Europa federale. Il processo non può essere imposto dall’alto, ma deve provenire «dal basso», dove risiede la legittimità. Certo, l’iniziativa di dar vita a un processo federale passerà indubbiamente, a un certo punto, attraverso i poteri politici costituiti, nazionali e/o europei. Ma non dovrà negare la parola al popolo, altrimenti pagherà il prezzo di un disinteresse o di un rifiuto crescenti. È certamente una delle grandi lezioni da imparare dal referendum negativo francese.
Il problema di un’Europa federale è duplice: riguarda contemporaneamente il processo ed il contenuto della sua elaborazione. Ma questo doppio problema offre lui stesso le soluzioni che cerca, e permette allo stesso tempo di risolvere la questione delle dimensioni di questa federazione. In effetti, uno Stato federale si distingue da un’organizzazione internazionale per il fatto di possedere la «Kompetenz Kompetenz», cioè la competenza di determinare le proprie competenze, mentre un’organizzazione internazionale non può agire che nell’ambito delle competenze che le sono attribuite. Orbene, l’affermazione di una tale Kompetenz Kompetenz può derivare solo dal riconoscimento di un potere costituente, sede suprema della sovranità, e dunque dalla stesura di una costituzione, che, attraverso la sua adozione, trasferisce la sovranità dagli Stati al nuovo Stato creato.
Le condizioni relative all’adozione e al contenuto di una tale Costituzione (e non di un «Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa») sono conosciute dalle teorie classiche del diritto costituzionale, ma devono essere lette alla luce del referendum francese del 2005 (a). La procedura di adozione di questa Costituzione determinerà quasi naturalmente l’estensione spaziale della federazione creata. Ma se il territorio di questa federazione risulta poi diverso da quello dell’Unione, senza sostituirla, si porranno delicati problemi di coesistenza giuridica (b).
a) L’adozione democratica di una costituzione federale.
Il processo di elaborazione del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa è stato senza dubbio uno dei più democratici mai utilizzati dal 1951 in poi per elaborare un trattato europeo. La Convenzione Giscard era composta per due terzi da soggetti eletti dal popolo, appartenenti a tutte le famiglie politiche. I suoi lavori si sono aperti alla società civile attraverso l’audizione di esperti di tutti gli orientamenti, degli ambienti associativi, economici, politici, attraverso forum su Internet e diverse riunioni in ciascuno Stato, e ciò ha permesso di far emergere progetti molto diversi fra loro. Il testo finale è stato adottato, cosa rara, per consenso e non attraverso l’imposizione delle scelte di una maggioranza: i legittimi poteri politici di ciascuno Stato hanno potuto modificare questo testo finale, testo che è stato infine adottato dai popoli dei diversi Stati, sia direttamente attraverso referendum, sia indirettamente dai loro rappresentanti in parlamento.
E tuttavia, la campagna referendaria in Francia ha messo chiaramente in luce l’illegittimità di questa Convenzione e di questa procedura per redigere una «costituzione». Certe argomentazioni a questo proposito potevano essere in malafede. In Francia numerose costituzioni sono state redatte da piccoli gruppi di esperti, a cominciare da quella della V Repubblica, o da assemblee che non erano giuridicamente delle Costituenti (nel 1791, 1814, 1830 e 1875). Ma non è servito a niente: i francesi hanno rifiutato di vedersi imporre un testo che non avevano potuto influenzare essi stessi fin dall’origine e che si chiedeva loro di ratificare senza condizioni. Hanno votato «no» tanto contro il testo stesso quanto contro la procedura utilizzata, che li trasformava in un semplice organo di registrazione.
Le esigenze della democrazia moderna e l’obbligo di ottenere l’accordo del Sovrano, soprattutto in un campo così cruciale come quello della creazione di uno Stato federale, obbligano dunque a ripensare tutta questa procedura costituzionale. Se la costituzione è imputata ad un costituente, a un Sovrano, è necessario che esso sia ben presente durante il processo di adozione. Allora si pongono due problemi: chi è il costituente in Europa e come sollecitarlo?
Alla prima domanda, e nel quadro di Stati già costituiti, la teoria classica risponde: il Popolo (eventualmente considerato come Nazione). Nel contesto europeo, la realtà è quella di una pluralità di popoli, cosa che toglie al concetto una buona parte della sua forza costituente. Allora nel quadro del Trattato del 2004 è stata sviluppata un’altra ipotesi, espressa nel suo articolo 1 che fa riferimento alla «volontà dei cittadini e degli Stati d’Europa». Gli Stati Uniti d’Europa, o Europa unita, avrebbero quindi un doppio costituente dovuto alla loro natura federale: i cittadini e gli Stati. Ogni costituzione dovrebbe quindi riservare uno spazio a queste due facce del costituente. Questo è stato d’altra parte il caso immaginato per l’adozione del Trattato del 2004, scritto da una Convenzione relativamente democratica, corretto dagli Stati, ed adottato direttamente o indirettamente dai popoli.
Questa tesi è molto interessante. Riattualizza i fondamenti della democrazia e tiene conto della complessità del mondo moderno e del ruolo decisivo dei poteri esecutivi. Mi sembra tuttavia piuttosto pericolosa. In realtà infatti essa riconosce un potere importante alle autorità contro le quali sono state giustamente inventate le regole della sovranità contemporanea. Se l’affermazione della sovranità del popolo ha come scopo quello di limitare i poteri dei governanti, la doppia sovranità espressa nel Trattato del 2004 ristabilisce invece il potere fondamentale di queste autorità esecutive ed aumenta il rischio che il potere statale sia esercitato contro il popolo. Questa soluzione può quindi suscitare una crescente diffidenza da parte dei popoli che vedrebbero le loro scelte democratiche rimesse in causa da ragioni di Stato e da altre strategie degli apparati. Orbene, la costruzione di una federazione richiede anzitutto il ristabilimento della fiducia tra i cittadini e le autorità nazionali ed europee.
Senza pretendere di consacrare qui una teoria assoluta del potere costituente europeo, mi sembra però necessario, per ristabilire questa fiducia, ritornare alle ricette classiche del diritto costituzionale: la convocazione di un’Assemblea costituente eletta dai cittadini d’Europa. Questa Assemblea avrebbe il compito di redigere un testo da sottoporre successivamente a ratifica in ciascun paese con referendum o per approvazione da parte dei parlamenti nazionali, senza modifiche da parte degli Stati o delle istituzioni europee che turberebbero l’espressione della volontà popolare. Questa soluzione richiede però di precisare alcuni aspetti.
In primo luogo, si tratta di determinare l’origine stessa di questa iniziativa. La decisione di convocare un’Assemblea costituente e di prevedere l’elezione dei suoi membri dovrà sicuramente essere presa a livello europeo, sia attraverso un consenso generale a livello degli Stati membri stessi, sia dai soli Stati interessati. In quest’ottica, va presa in considerazione qualsiasi azione che vada in tal senso: petizione popolare lanciata attraverso i mezzi di comunicazione di massa, Internet e i decisori di tutti gli orientamenti o personalità di rilievo, e sostenuta da manifestazioni in tutt’Europa, progetto avanzato da alcuni Stati, proposta del Parlamento europeo o di qualsiasi altra istituzione europea, ecc. È anche chiaro che una sola di queste iniziative non sarebbe sufficiente e che tutto il processo dipenderà fortemente dal contesto economico, politico e sociale e dalla necessità percepita dagli attori politici di questa federazione. I pii discorsi che hanno già preso in considerazione questa ipotesi (Joschka Fischer o Jacques Chirac) non devono creare illusioni: senza la pressione della società civile o delle emergenze economiche e sociali, resta difficile affidare l’iniziativa di questo processo ai soli uomini di Stato che avrebbero proprio tutto da perdere in una federazione che li priverebbe del loro potere personale.
La convocazione di una Assemblea costituente implica anche un certo rischio, quello di veder produrre un testo molto diverso dalla volontà degli esperti europei e dei politici degli Stati. Tale Assemblea potrebbe addirittura scrivere un testo che non sarebbe il migliore per l’interesse europeo, ma che sarebbe il risultato di difficili ed insoddisfacenti compromessi tra i suoi membri. Ma il rischio è il fondamento stesso della democrazia, che si basa sul riconoscimento della capacità e della legittimità dei popoli per quanto riguarda la scelta del proprio destino, al di là di calcoli razionali.
Certo, l’elezione di un’Assemblea costituente non è giuridicamente necessaria per elaborare una costituzione, ma si impone dal punto di vista politico. Per di più presenta vantaggi teorici e pratici: la redazione di una costituzione da parte di tale Assemblea permetterebbe anzitutto di aggirare le limitazioni imposte dagli Stati stessi, Stati che dal 1951 in poi hanno prodotto trattati sempre più complessi per proteggere la propria autonomia, come dimostrato dal Trattato di Maastricht. Un testo elaborato dai rappresentanti dei cittadini europei, che non hanno da difendere gli stessi interessi degli Stati, avrebbe senza dubbio il merito di una maggior semplicità. Per di più questa Costituente potrebbe, eventualmente, andare ben più avanti nell’integrazione federale che non gli Stati, dato che i poteri statali non arrivano veramente mai ad autosacrificarsi a vantaggio di un’entità superiore.
In termini di democrazia, l’elezione di questa Costituente permetterebbe anche di contarsi, cioè di fare l’inventario a grandezza naturale di tutte le diverse correnti pro o antieuropee presenti negli Stati membri, perché non sarebbe in fin dei conti legittimo creare una federazione molto integratrice se i popoli si rivelassero piuttosto nazionalisti. Questa elezione darebbe quindi il tono della futura Europa in funzione non di progetti di corridoio, ma delle aspirazioni dei cittadini. Infine, permetterebbe soprattutto ai cittadini di appropriarsi del progetto europeo, di divenirne in un certo senso gli autori, il che corrisponde bene alla logica costituzionale.
È impossibile prevedere quale tipo di federazione sarà scelto da questo costituente sovrano. Ci sono in realtà tante federazioni quanti sono gli Stati federali, e le scelte europee dipenderanno in gran parte dai rapporti di forza che in seno all’Assemblea costituente si stabiliranno tra i diversi eletti e partiti politici. D’altra parte, non esiste una definizione materiale di costituzione. Un tale testo può contenere disposizioni di qualsiasi natura. Ma, senza dubbio, il contenuto di questa costituzione dovrà tener conto dell’esperienza del referendum francese del 2005 e delle critiche sollevate nel corso dei dibattiti, che permettono di definire il quadro generale di questo testo fondamentale.
I partigiani del «no» al Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa si sono trovati il compito molto facilitato: bastava mostrare loro il testo perché tutti gli spettatori sorridessero vedendo che si richiedeva loro di adottare con piena cognizione di causa un mattone di 800 pagine. Accanto ai 448 articoli del Trattato (!), c’erano decine di pagine per regolare casi particolari e dettagli attraverso protocolli, allegati, accordi di circostanza, ecc. Coloro che conoscevano un po’ meglio il testo, vi leggevano che la Parte I annunciava delle istituzioni, a proposito delle quali dava dettagli pratici (ruolo, funzionamento), ma poi rinviava, talora con aspetti contraddittori, a una Parte III che trattava delle politiche, ma anche degli organi e delle istituzioni. Quindi una doppia localizzazione che non semplificava la lettura.
È evidente che una Costituzione deve essere un testo abbastanza semplice che concretizza il patto politico, sociale ed eventualmente economico che un costituente dà a sé stesso. Deve prevedere delle istituzioni legittime, il loro funzionamento ed i rapporti tra di esse, così come i fondamenti che inquadrano le loro azioni (articolo 16 della Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789). In un quadro federale, la costituzione deve anche prevedere le competenze riconosciute a ciascun livello, federale e federato, nonché gli organi incaricati di farle rispettare. Essa si limita quindi a descrivere i principi essenziali del funzionamento della società politica che ha creato, e deve in seguito lasciare agli attori previsti la cura di mettere in pratica questi principi o di agire sulla base di essi. Una costituzione non può pregiudicare le politiche che saranno scelte successivamente dagli organi costituiti.
Dovrebbero quindi per esempio scomparire le politiche obbligatorie previste dal Trattato che impediscono di prendere in considerazione altri tipi d’azione in funzione dei risultati elettorali. Il caso tipico è quello della politica obbligatoriamente antiinflazionistica della BCE. Analogamente, la severità dei criteri di convergenza dell’euro o l’assoluto divieto di aiuti pubblici sembrano fuori posto in un testo costituzionale, perché si oppongono all’applicazione di altre strategie politiche per esempio di tipo keynesiano o a certe specifiche redistribuzioni della ricchezza. Se la legge fondamentale può ben contenere disposizioni fiscali o economiche, essa non deve riassumersi solo in queste, né limitarsi ad alcune di esse. Dovrebbe presentare fin dai primi articoli, e non nella Parte II, i diritti fondamentali che inquadrano la politica della federazione. Una costituzione è anzitutto un patto politico, e non una raccolta di dogmi economici che perfino gli Stati più liberisti, come gli USA, non applicano e che non fanno certo sognare i cittadini. Nei suoi contenuti, questa costituzione federale europea dovrà quindi sicuramente ispirarsi all’esperienza delle costituzioni federali classiche di diversi Stati europei, di più facile comprensione per i cittadini.
b) Una federazione concorrente o complementare all’UE?
La creazione di una Federazione europea pone diversi problemi relativi ai suoi rapporti con l’Unione europea, in particolare per quanto riguarda i membri e la ripartizione delle competenze. Se è l’Unione nel suo insieme che diventa federale, la questione non si pone. Avviene solo la trasformazione di uno stesso organismo con gli stessi membri. Le complicazioni sorgono se le due istituzioni sono distinte, pur coesistendo nello spazio europeo. Ebbene, questa distinzione è proprio quella che viene presa in considerazione nel quadro dell’integrazione di un’Europa a molte velocità.
Il primo aspetto di questa coesistenza risiede nella concorrenza territoriale che potrebbe manifestarsi tra i due organismi. Ma ciò, in fondo, non dovrebbe costituire un problema. Sembra abbastanza futile voler predeterminare la dimensione futura di quest’Europa costituzionale. I progetti di federazione tra gli Stati della zona euro, tra tali e tal altri Stati storicamente fondatori o affini per somiglianza culturale, economica o sociale sono doppiamente ingannevoli. Da una parte, programmano un’Europa razionale, pensata «dall’alto» secondo criteri tecnici e che sarebbe imposta ai cittadini, ai quali verrebbe solo richiesto di convalidare scelte fatte al di sopra delle loro teste. È questo metodo che è stato rifiutato dal referendum francese del 2005 e che non bisogna tornare ad utilizzare. D’altra parte, l’Europa proposta con questo metodo è quella della somiglianza che rifiuta la scommessa politica della differenza, raggruppando solamente gli Stati che si suppongono essere abbastanza omogenei. Orbene, una federazione è anzitutto un patto politico che raggruppa Stati che hanno la stessa volontà politica di riunirsi al di là delle loro differenze. È appunto la volontà dei cittadini di associarsi al progetto e di condividere lo stesso passo che deve prevalere al momento di questa costruzione federale, al di là dei criteri matematici e razionali dei burocrati dell’Europa.
Sarebbe immaginabile un’Italia senza la Puglia, troppo povera e troppo differente culturalmente dalla Lombardia per far parte dello stesso insieme? Sarebbe possibile ricomporre la Germania escludendo un certo Land che non corrisponde ai criteri di efficienza previsti da una federazione più competitiva? E che cosa direbbero l’Italia o la Francia se i tecnocrati di Bruxelles spiegassero loro che la loro situazione politica ed economica interna non permette di conservarle nel «nucleo duro» dell’integrazione politica? Lo si vede chiaramente: se l’unità politica deve prendere in considerazione le differenze economiche troppo importanti tra i suoi membri, essa tuttavia non può basarsi esclusivamente su calcoli di performance che impoveriscono il dibattito e portano a sacrificare popolazioni di buona volontà a vantaggio di cifre e di schemi. Questi calcoli preliminari sono esattamente il contrario di una federazione politica credibile, tanto più che tali piani che dividono preliminarmente l’Europa continuano a non risolvere le questioni di procedura, di iniziativa, di elaborazione e di ratifica del progetto, che rischierebbe anche in questo caso di fare a meno dei cittadini.
Occorre quindi tornare alla fiducia iniziale nei cittadini sulla quale deve basarsi qualunque progetto di questa portata e lasciar loro la libertà di decidere da soli. Bisogna lanciare un progetto generale di creazione di una federazione. Ciascuno Stato dell’Unione deve pronunciarsi sulla propria volontà di farne parte, attraverso un referendum o una legge parlamentare. La posta è talmente alta che una prima selezione si farà da sola. Possiamo scommettere che gli Stati che mostrano maggior volontà e sincerità nei confronti del progetto federale saranno ben diversi da quelli immaginati a priori. Negli Stati favorevoli verranno organizzate le elezioni per una Assemblea costituente. L’Assemblea produrrà un testo che sarà successivamente proposto direttamente all’approvazione dei cittadini degli Stati partecipanti, senza ritocchi da parte di istituzioni nazionali o europee. Si può anche immaginare la regola, per maggior sicurezza, che se il testo è respinto da più di due terzi degli Stati, esso dovrà essere riscritto (eventualmente da una nuova Assemblea costituente). Ma se più di due terzi voteranno a suo favore, attraverso un referendum o una legge parlamentare, la federazione sarà costituita automaticamente tra di loro, lasciando fuori gli Stati che si sono rifiutati di ratificare il progetto. Non c’è da preoccuparsi di una federazione territorialmente non continua, come dimostrano gli Stati Uniti d’America con l’Alaska, o la Grecia nell’Unione dal 1981.
Bisogna in realtà uscire dalla cultura del risultato a qualunque prezzo. La Convenzione Giscard aveva immaginato di poter imporre il suo Trattato a tutti in caso di voto favorevole da parte di una maggioranza qualificata di Stati, il che equivale a imporre un testo a delle popolazioni che l’hanno rifiutato. Ma se una federazione è un patto di fiducia, bisogna accettare i voti negativi, pur permettendo di avanzare a coloro che lo vogliono. Il supposto «nucleo duro» deve potersi costituire da solo attraverso la scelta di cittadini sovrani. Per fare un esempio, alcuni progetti propongono di costruire l’Europa federale a partire dagli Stati della zona euro. L’idea è buona, ma deve essere rovesciata: non è la zona euro che deve precondizionare la federazione, ma la federazione che deve imporre l’adozione dell’euro. Ciò apre di fatto la partecipazione agli Stati attualmente esclusi da tale zona, imponendo loro tuttavia alcuni vincoli economici necessari, che i cittadini accetteranno oppure no di subire. È la politica che deve comandare l’economia e non viceversa. «L’intendance suivra», come diceva il Presidente de Gaulle. L’Europa che ne risulterà sarà tanto più forte in quanto sarà costruita sulla volontà, sul reale desiderio di vivere insieme, e non sui calcoli di esperti che si sono spesso sbagliati.
Per questo, è molto probabile che il territorio della federazione sarà distinto da quello dell’Unione. Ciò porta a molteplici conseguenze ciascuna delle quali presenta diverse ipotesi nel quadro della coesistenza dei due organismi.
Per quanto riguarda le competenze, per esempio, sono aperte molte opzioni: o l’Unione rinuncia alle sue competenze di natura politica (come la difesa, la creazione di un sistema giurisdizionale integrato, la creazione di una polizia federale, ecc.) a favore dalla sola federazione, oppure l’Unione conserva competenze relative al secondo e terzo pilastro, e la federazione interverrà in seno all’Unione al posto dei suoi Stati membri sulla base del principio di diritto internazionale della successione degli Stati nei trattati. Nel primo caso, è parimenti possibile immaginare la fusione tra la CE e l’EFTA, che finirebbero per assomigliarsi troppo, con la CE che porta tuttavia un «supplemento d’anima» all’EFTA attraverso le sue politiche in materia di ambiente, di formazione, di salute, ecc. D’altra parte, il principio della Kompetenz Kompetenz dello Stato federale presuppone anche una ridefinizione delle competenze esercitate dall’Unione, compreso il primo pilastro, sia che lo Stato federale possa intervenire anche in questi campi, sia che accetti di delegarne la gestione all’Unione in determinati casi da definire (problemi dell’agricoltura, della ricerca scientifica, ecc.), sia infine che rispetti la totalità dell’acquis communautaire aderendo all’Unione e piegandosi come tutti gli altri Stati alle esigenze dei Trattati e della giurisprudenza in vigore.
È parimenti possibile immaginare una modifica sostanziale dell’organizzazione dell’Unione. Lasciando che la federazione si curi di una integrazione molto avanzata in campo politico e giuridico, questa Unione si baserebbe su nuovi trattati al tempo stesso più unificanti (che non implicherebbero il ritorno ad un diritto «complementare» poco leggibile), ma anche più rispettosi della sovranità degli Stati, attraverso la previsione di processi decisionali semplificati e in campi limitati. L’Unione potrebbe allora aprirsi più facilmente ad altri Stati, fino a contare forse 45 membri (i membri del Consiglio d’Europa meno la Russia) nel quadro di un grande mercato semplificato e dotato eventualmente di una moneta unica, ma che non farebbe paura agli Stati raggruppati nella federazione, che avrebbero le proprie politiche. In quest’ottica, si porrebbe anche la questione della fusione tra l’UE e il Consiglio d’Europa.
Riflettere su questi aspetti è senza dubbio un po’ prematuro, perché molti di essi dipendono dalle risposte federali che saranno date da una Assemblea costituente di là da venire. Detto questo, saranno senza dubbio le soluzioni più economiche e più semplici quelle che emergeranno dai dibattiti. La prospettiva di redigere una Costituzione federale e di riscrivere totalmente i Trattati europei può effettivamente scoraggiare dallo scegliere soluzioni più perfette o ambiziose, ma anche più complesse. Così è forse meglio concentrarsi sul metodo, sulla procedura, che non sull’obiettivo, come l’arciere zen. È la scelta di affidare la ricerca delle soluzioni ai cittadini sovrani e ai loro rappresentanti che deve prevalere su tutti i piani immaginabili, che saranno elaborati al momento opportuno. In ogni caso, è ben noto che nel diritto ogni problema trova la propria soluzione, che verrà poi messa a punto.
Vale la pena di prendere in considerazione un ultimo punto, che da un certo punto di vista semplificherebbe le difficoltà giuridiche. Si tratta della prospettiva, già intravista a proposito di una eventuale confederazione europea, della creazione di una Federazione europea al di fuori dell’UE, i cui membri uscirebbero dell’Unione europea per concentrarsi unicamente sulla propria evoluzione. Esclusi dal controllo della Corte di giustizia e della Commissione per la loro non ottemperanza agli obblighi comunitari, questi Stati ritroverebbero la pienezza delle loro competenze da ridistribuire nel quadro della nuova federazione e potrebbero riconsiderare i loro rapporti con gli altri Stati europei e con l’Unione in piena autonomia. Questi rapporti non potrebbero ignorare la storia e la geopolitica, ma, situandosi al di fuori del quadro dell’acquis communautaire e delle decisioni collettive, darebbero al confronto Federazione-Unione una nuova dimensione che è ancora difficile da immaginare. Questa profonda divisione, che influenzerebbe senza dubbio tutto l’equilibrio europeo e perfino mondiale, non è così improbabile. E le sue conseguenze a catena ci obbligano anche a pensare questo problema del federalismo e dell’integrazione differenziata con molta prudenza. Ad andare troppo avanti si finisce per tornare indietro e andare troppo velocemente porta talvolta a perdere delle opportunità.
Tutto sommato, questo studio si può chiudere con un simbolo semantico. Bisognerebbe chiamare la federazione così immaginata «Stati Uniti d’Europa», sulla scia di Victor Rugo e di Winston Churchill, ma con un parallelo troppo evidente con gli Stati Uniti d’America che nuocerebbe alla sua identità, o non sarebbe meglio piuttosto parlare di «Europa unita», mettendo l’accento sull’unità prodotta e sulla solidarietà tra i suoi membri, raggruppati in una stessa entità, che hanno scelto di rendere più visibile? Anche qui parecchie risposte giuridiche devono cedere il passo alle scelte politiche che verranno fatte.