IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLVIII, 2006, Numero 2, Pagina 124

 

 

Nuovo corso*
 
ALTIERO SPINELLI
 
 
La caduta della CED e gli accordi di Londra e di Parigi segnano una svolta assai profonda nella politica europea e nella posizione che in essa deve assumere il nostro Movimento. Per noi si apre una fase di ripensamento e di dibattito che intendo qui solo avviare.
Il tema cui bisogna rispondere concerne il da fare nelle attuali circostanze, ma per rispondervi adeguatamente occorre rendersi conto di quel che abbiamo fatto negli anni passati, delle ragioni per cui abbiamo subito nell’estate scorsa una grave sconfitta, della situazione che in seguito ad essa è venuta a crearsi.
 
L’epoca dei governi europeisti.
 
Nel periodo che va press’a poco dall’annuncio del Piano Marshall nel 1947 all’arrivo di Mendès-France al governo in Francia, si è verificata in Europa una situazione straordinaria e non facilmente ripetibile: i governi di sei paesi, benché destinati come tutti i governi nazionali alla tutela della sovranità dei rispettivi Stati, si sono trovati ad essere diretti ed influenzati da uomini che in modo più o meno chiaro miravano a limitare tali sovranità ed a creare istituzioni europee sovranazionali. Vale la pena di soffermarsi brevemente per individuare le ragioni di questo stato di cose, e come esso si sia dissolto.
I sostegni normali dello Stato nazionale sovrano sono costituiti dalle forze armate, dalla diplomazia, dalle amministrazioni centrali, da certi gruppi di interessi economici, dalla mentalità nazionalistica alimentata da certe forze politiche. Ora, alla fine della guerra e per parecchi anni questi sostegni erano a terra nei paesi continentali dell’Europa occidentale.
Gli eserciti nazionali, dopo essersi coperti non precisamente di gloria, erano distrutti e non esistevano più. I generali, lungi dal potersi presentare come i fieri depositari delle glorie militari e i garanti della sicurezza e dell’indipendenza dei loro paesi, dovevano farsi piccoli e tacere.
Le diplomazie non potevano dare a credere di essere capaci di trovare un posto sicuro alloro paese sullo scacchiere della politica internazionale. Inerti e a capo chino dovevano attendere che i grandi del mondo — America e Russia — decidessero del posto che i paesi europei avrebbero occupato e di chi avrebbero dovuto considerarsi amici o avversari.
Le burocrazie dovevano far tacere la loro boriosa convinzione di essere le sole capaci di tenere in ordine i loro paesi, poiché a stento riuscivano ad assolvere i loro compiti più elementari. Tutti i gruppi economici, capitalistici e operai, che si erano da parecchi decenni trincerati dentro lo Stato nazionale, riuscendo a convincere gli altri e sé stessi che lo Stato doveva garantir loro mercati riservati, situazioni monopolistiche, equilibri corporativistici, erano ridotti al silenzio nello sfacelo generale delle economie nazionali, le quali non erano nemmeno più capaci di soddisfare i bisogni più primordiali dei loro popoli.
Il modo di pensare nazionalista si era reso responsabile di così grandi catastrofi che non solo i partiti propriamente detti nazionalisti erano stati spazzati via, ma anche i nazionalisti distribuiti in tutti gli altri partiti cercavano di far dimenticare la loro esistenza, adoperando linguaggi ben strani sulle loro bocche. I partiti di ispirazione cattolica che si erano venuti a trovare dopo la guerra alla direzione, o quanto meno ad avere una parte importantissima nella direzione dei loro paesi, erano i meno compenetrati di spirito nazionalista, essendo ancora memori della lunga reciproca avversione che aveva regnato fra la Chiesa e Stati come l’Italia, la Francia e la Germania.
A questi dati interni europei se ne aggiungano due esterni di enorme peso. La Russia di Stalin incuteva paura a tutti i paesi europei occidentali con la minacciosa volontà di espansione e li spingeva perciò a unirsi. L’America che con i suoi aiuti prima economici, poi militari, esercitava un’assai grande influenza sull’Europa democratica, era convinta che suo dovere fosse quello di assistere l’Europa affinché essa si unisse.
Grazie a questo insieme di circostanze che rendevano estremamente poco consistente non solo la sovranità di fatto degli Stati democratici del continente europeo ma anche la volontà di affermarla, ha potuto accadere che i loro governanti abbiano impostato una politica estera fino ad allora impensabile in Europa, la politica dell’unificazione sovranazionale. Mancava loro sia la pratica che la dottrina della costruzione dello Stato federale ed i loro passi sono stati perciò esitanti e lenti, i loro progetti confusi, grandi le loro paure di fronte all’avventura verso cui si avviavano. Credevano di essere saggi e di tenere i piedi a terra perché anziché profittare delle circostanze favorevoli per procedere con rapidità e con metodo, si lasciavano suggerire dalle circostanze soluzioni abborracciate.
È questo il quadro politico che bisogna aver presente per intendere l’azione dei federalisti. Possedevamo la dottrina politica di cui i governanti europei avevano bisogno per poter realizzare le loro aspirazioni sovranazionali. Ci siamo perciò proposti in questo periodo di sostenere il ruolo, poco appariscente ma importante, di ispiratori della politica europea dei governi. Non avevamo la forza di determinare tale politica, ma avevamo la possibilità di farci ascoltare, almeno parzialmente e in alcuni momenti decisivi, dai governi e dalle forze politiche che li sostenevano, perché i nostri suggerimenti erano l’espressione logica e coerente dell’impulso stesso che muoveva questi governi. Se la CECA possiede alcuni caratteri sovranazionali, ciò è dovuto a quanto ha saputo ispirare il federalista Monnet. Se il progetto della CED conteneva gli elementi di uno sviluppo sovranazionale politico, se questi elementi hanno cominciato a prender forma, prima ancora della ratifica della CED, nel progetto costituzionale dell’Assemblea ad hoc, ciò è stato dovuto a quanto hanno saputo ispirare i federalisti.
In un punto cruciale, tuttavia, i federalisti non sono riusciti, malgrado tutti i loro sforzi, a farsi ascoltare. Fin dall’inizio si erano resi conto con assoluta chiarezza della estrema transitorietà della congiuntura favorevole; hanno detto e ripetuto che il tempo lavorava contro l’Europa, e che bisognava far presto. Ma uomini e partiti al governo non hanno sentito il pericolo; credevano di avere a disposizione i decenni mentre non avevano che pochi anni; pensavano che fosse saggio essere empirici, come dicevano, cioè lenti e approssimativi, mentre la saggezza imponeva rapidità e precisione; si permettevano errori mentre occorreva pensare e volere con chiarezza. Hanno lasciato che le forze della conservazione nazionale si ricostituissero, che le circostanze favorevoli svanissero, ed hanno infine perso la prima grande battaglia per l’Europa.
Ai federalisti è rimasta solo l’amara soddisfazione di aver fatto il proprio dovere. Di ciò devono esser fieri, se vogliono ancora riprendere la lotta. Ogni battaglia può essere vinta e persa, ma la sconfitta non è di per sé la dimostrazione di avere errato ed un Movimento che non sappia assumere con orgoglio la propria azione passata, quando è stata giusta, anche se si è conclusa con una sconfitta, non ha veramente quel tanto di virilità necessaria per continuare.
 
Il nazionalismo alla riscossa.
 
Gli uomini di governo europeisti hanno permesso con le loro incoerenze ed esitazioni che le forze del nazionalismo riprendessero il sopravvento. Questa riscossa del vecchio regime europeo si è preparata a poco a poco mentre l’azione europeista governativa continuava.
Le economie nazionali si sono riassestate, grazie agli aiuti americani dati per favorire l’unificazione europea, e tutto quel che in esse c’era di protezionista, di vincolista, di sezionalista, di monopolista, di socialista nazionale, ha cominciato a pesare di nuovo in misura crescente sullo Stato.
Gli eserciti si sono ricostituiti e gli stati maggiori si sono accinti con energia crescente a difendere se non i propri paesi, almeno i propri eserciti nazionali.
Le burocrazie hanno ristabilito il loro controllo sui rispettivi paesi ed hanno cominciato a diventare ogni giorno più intolleranti di fronte alla prospettiva di dover cedere alcune delle loro funzioni ad organi sovranazionali.
La mentalità nazionalista è uscita dalle tane in cui si era tenuta nascosta ed ha cominciato a dilagare ovunque; raggruppamenti nazionalisti di destra si sono ricostituiti; le correnti di destra e di sinistra che aspiravano ad alternarsi ai governi di tendenza democratico-cristiana, hanno sentito l’aria che tirava e sono andati accentuando il loro lealismo nazionalista, accusando i governanti di scarso patriottismo; i cattolici stessi sono andati imparando ad amare infine questi Stati che fortunatamente dapprima avevano suscitato in loro diffidenze, ma che ora erano governati da loro.
La situazione internazionale cambiava anch’essa. In seguito alla morte di Stalin, i nuovi signori del Cremlino, divenuti più deboli all’interno, attenuavano la loro politica di espansione e predicavano la distensione. L’amministrazione americana di Eisenhower, pur restando favorevole all’unificazione europea, aveva perso una parte della tensione ideale democratica che aveva avuto l’amministrazione di Truman, e possedeva comunque un’assai minore influenza sugli Stati europei. Le nostre diplomazie nazionali potevano finalmente risollevare il capo e diventavano ansiose di riprendere in mano le sorti dei loro paesi, che troppo a lungo erano rimaste nelle mani dei ministri europeisti.
I comunisti hanno compreso senza difficoltà che bisognava mirare a tenere inchiodata l’Europa democratica nel sistema delle sovranità nazionali, perché in tal modo la decomposizione delle democrazie avrebbe proceduto irresistibile e le loro probabilità di successo sarebbero cresciute; e non hanno esitato a contrarre le più strane alleanze per raggiungere questo scopo.
Questa lenta riscossa del nazionalismo degli Stati europei ha avuto luogo in forme esteriormente diverse, ma sostanzialmente identiche in ciascuno dei nostri paesi, ed è stata come un movimento profondo e irresistibile. Per il solo fatto di esistere ancora intatto, lo Stato nazionale è diventato il centro di raccolta e di rafforzamento di tutte le forze della conservazione nazionalista. E poiché le istituzioni europee non nascevano ancora, non era possibile contrapporre un centro di raccolta e di rafforzamento delle forze del progresso europeo, le quali restavano quasi tutte latenti e inerti.
La questione della ratifica della CED è diventata la prova di forza fra nazionalisti ed europeisti. La lotta è stata a lungo incerta, e proprio perché incerta i federalisti hanno sentito il dovere di impegnarsi a fondo. Infine essa è stata vinta dai nazionalisti in Francia, nello Stato nazionale più vecchio d’Europa. Le prime vittorie parziali hanno avuto luogo quando Schuman, odiato dal Quai d’Orsay, è stato sostituito da Bidault, molto più sottomesso ai voleri della diplomazia francese. Con l’ascesa al governo di Mendès-France e con il rifiuto della CED la vittoria dei nazionalisti è diventata completa. Sarebbe un grave errore credere che il governo francese attuale si distingue da quelli precedenti in ragione di una semplice combinazione parlamentare. Esso è radicalmente diverso dagli altri perché ha ormai dietro di sé, in posizione di comando, tutte le forze nazionaliste francesi dell’esercito, dell’amministrazione, della diplomazia, dell’economia, della politica, sia di destra che di sinistra. In un paese a governi labili come la Francia, il governo attuale può anche cadere con relativa facilità, su un incidente qualsiasi. Ma anche se cambiassero gli uomini resterebbe ormai predominante la costellazione politica che ragiona e vuole in termini di politica nazionale.
Se in Francia il rovesciamento dei rapporti di forza fra europeisti e nazionalisti ha avuto luogo in modo clamoroso, negli altri paesi europei lo stesso processo si è verificato silenziosamente, ma decisamente nel giro di pochi giorni dopo il rifiuto francese della CED. I nazionalisti francesi di tutte le tinte hanno combattuto e vinto non solo per sé ma per i nazionalisti di tutta Europa. I governanti degli altri cinque paesi non hanno avuto il coraggio di tener duro, costringendo la Francia ad affrontare una lunga crisi politica nella vana ricerca di una politica europea diversa da quella dell’unità, ma hanno lasciato che i punti di vista nazionali prevalessero su quelli europei, pronubo il ministro inglese Eden che si è precipitato in tutte le capitali d’Europa per indurle a ragionare ormai in termini di alleanze fra Stati sovrani. Adenauer può fra sé e sé inorridire al pensiero che la conclusione della sua politica europea è la rinascita dell’esercito nazionale tedesco, ma non può più opporvisi, perché è premuto da destra e da sinistra nel senso della riconquista della sovranità e della potenza nazionale. De Gasperi può essere morto di crepacuore alla prospettiva dell’imminente fine del tentativo di unificazione europea, e gli uomini politici italiani possono sentirsi stringere il cuore al pensiero che senza la Federazione europea la sorte della democrazia italiana è segnata, ma essi sono ormai sospinti di nuovo verso le vecchie strade della diplomazia del regno sabaudo. Spaak può essere stato il Presidente del Movimento europeo, ma è diventato il Ministro degli Esteri di un Belgio che ricomincia ad aver paura tanto delle collusioni quanto delle rivalità franco-tedesche.
L’epoca dei governi europeisti è finita il 30 agosto e gli Stati democratici d’Europa cercano di stabilire ora una convivenza normale fra loro mediante il sistema tradizionale delle alleanze fra Stati sovrani. Le parole Europa, Unione e simili non sono più che polvere negli occhi per gli sciocchi.
La conseguenza prima da trarre per i federalisti è che i metodi d’azione adoperati sinora non hanno più significato. Essere gli ispiratori, i suggeritori, aveva un senso finché c’erano governi disposti a lasciarsi ispirare e suggerire, finché c’erano ministri convinti essi stessi che bisognava andare verso le istituzioni sopranazionali. Accettare o anche proporre un compromesso, puntare su un successo parziale per averne uno completo, aveva allora un significato politico preciso e concreto. Le manovre in politica sono utili quando si hanno buone ragioni per essere convinti che si resta pur sempre padroni del movimento impresso alle cose e che lo si può pur sempre dirigere verso l’obiettivo che si vuol raggiungere. Negli anni passati i federalisti potevano ragionevolmente contare che i governi intendevano effettivamente mantenere la rotta verso l’unità sovranazionale; le manovre, le concessioni, avevano perciò un senso. Continuare ad agire oggi con la stessa tattica significa non aver compreso quel che è accaduto, cioè che oggi i governi europei sono di nuovo sotto l’influenza predominante delle forze sociali e politiche della conservazione nazionalista e che perciò sono diventati del tutto sordi a qualsiasi suggerimento o ispirazione federalista.
Questo cambiamento delle circostanze della nostra lotta, e non immaginari errori della nostra tattica passata, impongono oggi ai federalisti una modifica nelle loro forme di lotta.
Come sempre quando un Movimento rivoluzionario perde una battaglia, ed occorre riordinare le fila e predisporre i nuovi piani, anche nel nostro caso una grande confusione regna sia alla base che al centro dell’organizzazione federalista europea. Alcuni dirigenti, soprattutto francesi e tedeschi, ma non ne mancano neanche fra i federalisti italiani, non si sono resi conto della portata della vittoria della reazione nazionalista. Si lasciano ingannare dalle parole europeiste che continuano ad essere spese dai nostri governanti, e vorrebbero ancora seguire la tattica dell’ispirazione e del suggerimento. Chiedono perciò che si esortino i governi a fare almeno un pool degli armamenti, almeno un’uniforme comune, almeno un’ombra di controllo democratico su un inesistente potere politico europeo, a tentare almeno forme confederali, e via dicendo.
Il solo risultato di quest’azione non sarebbe però quello di farsi ascoltare dai governi. Nello sforzo di cercare qualcosa che possa essere ascoltato ed accolto, questi federalisti sono indotti a lasciar cadere le loro esigenze fondamentali, ed a proporre soluzioni apparenti, il cui contenuto è esattamente il contrario di quel che essi dovrebbero volere. Noi non abbiamo chiesto mai che si facesse la CED; poiché i governi erano arrivati a pensare di fare la CED, noi abbiamo chiesto, poggiando sulla logica interna di natura sovranazionale della CED, che si facesse un governo ed un parlamento europeo. Se oggi, poggiando sull’Unione europea occidentale, la cui logica interna è il mantenimento delle sovranità nazionali, chiedessimo un assurdo pool degli armamenti, cioè praticamente un cartello di produzioni militari franco-tedesco, che si sfascerebbe al primo contrasto fra i due Stati, applicheremmo stupidamente una tattica che valeva per circostanze del tutto diverse, non faremmo nessun passo verso il sovranazionale, e ne faremmo invece verso il riassorbimento degli stessi ideali federalisti da parte del modo di pensare nazionale. Disgregheremmo il Movimento federalista senza ottenere nulla di positivo.
 
No alla falsa Europa.
 
Il primo atto di chiarificazione che i federalisti devono compiere consiste nella denunzia della falsità di quanto si va assicurando da parte dei governi, dei partiti, dei giornali a proposito dei nuovi accordi che hanno sostituito la CED. È quasi sicuro che saranno ratificati rapidamente e che costituiranno la base della politica europea nei prossimi anni. Ma con ciò non è detto che non li dobbiamo denunziare come un pericolo per l’Europa democratica. Sono tutto ciò cui possono giungere gli Stati europei partendo dal presupposto del mantenimento della loro sovranità, ma per l’appunto, partendo da questo presupposto, gli Stati europei non possono più preparare che la rovina dei loro popoli.
La sedicente Europa che nasce dalle Conferenze di Londra e di Parigi non può risolvere nessuno dei tre problemi fondamentali per cui la federazione è oggi necessaria.
Non può spezzare le politiche economiche nazionali, perché non c’è nessun potere politico europeo che possa enucleare dalle società nazionali le forze necessarie per abbattere le pianificazioni economiche nazionali, e imporre una legge eguale per tutti, senza la quale non c’è mercato comune possibile, né solidarietà sociale comune possibile.
Non può impedire alle forze armate di essere al servizio degli Stati nazionali, perché non c’è nessun potere sovranazionale che possa disporre di esse indipendentemente dagli Stati nazionali.
Non può impedire politiche estere divergenti, perché ogni Stato continuerà a fare la propria attività diplomatica, ad andarsene per vie diverse e magari contrastanti rispetto a quelle dell’alleato, mentre occorre un potere europeo unico che faccia la comune politica estera dell’Europa.
Non risolvendo questi problemi la cosiddetta Unione europea occidentale mantiene le economie nazionali stagnanti o pericolosamente agitate, rende problematica ogni vera preparazione difensiva, mette gli Stati europei, ed in particolare Francia e Germania, in balia delle manovre diplomatiche sovietiche, e, di riflesso, di quelle americane; fa cioè dell’Europa occidentale i Balcani del mondo, aggravando le frizioni internazionali ed il pericolo di guerra.
E poiché questi miserabili Stati sono sì gelosissimi della loro sovranità, ma non hanno più la possibilità di mantenerla, bensì solo quella di perpetuare il caos in Europa, essi preparano l’unificazione europea non già sotto la legge federale liberamente consentita, ma sotto il tallone di un futuro dominatore.
Per i federalisti si apre un periodo difficile in cui devono avere il coraggio di mettersi e di restare all’opposizione. Noi non sappiamo se l’unità federale europea si farà, sappiamo però che si farà solo se si comprenderà la rovinosità di qualsiasi politica ad orizzonte nazionale. Circostanze favorevoli potranno presentarsi fra sei mesi, fra un anno, fra dieci anni; non saremo noi a determinarle; ma affinché siano sfruttate per rompere infine il cerchio magico delle sovranità nazionali, occorre che ci sia chi abbia instancabilmente denunziato il male, abbia mostrato quel che vi è di ingannevole nella pretesa di tutti, senza eccezione, i partiti che accettano il quadro nazionale come quadro normale della loro attività, e che promettono in questo quadro cose che non possono mantenere.
I federalisti si distinguono da tutte le altre correnti politiche, siano esse democratiche o antidemocratiche, in ciò che essi considerano come un nemico da abbattere quella stessa cosa che tutti gli altri considerano, ciascuno a modo suo, come un idolo da venerare o da servire: lo Stato nazionale.
 
Che fare?
 
La CED, se accettata, avrebbe aperto la prospettiva di una serie di battaglie politiche che avrebbero potuto portare abbastanza rapidamente alla costruzione di un governo e di un parlamento europeo. Ci eravamo abituati a ragionare in termini di obiettivi da realizzare ormai abbastanza presto. La premessa era la creazione di un esercito europeo unificato cioè il crollo del principale pilastro delle sovranità nazionali.
Con la caduta della CED le nostre prospettive cambiano e dobbiamo riconoscerlo. Il nostro compito consiste nel comprendere noi stessi e nel far comprendere una necessità che oggi scandalizza ancora non solo l’uomo della strada, ma anche molti che si considerano federalisti. Eccolo in poche parole.
Lo Stato nazionale sovrano non è un ente assoluto da rispettare in ogni caso, cui obbedire in ogni caso. È uno strumento a disposizione degli uomini, che chiede agli uomini obbedienza per render alcuni servizi. Ora, esso chiede obbedienza alla sua politica economica e non può più rendere il servizio di promuovere il progresso economico; chiede obbedienza alla sua politica estera e non può più rendere il servizio di provvedere alla sicurezza internazionale e all’attenuazione dei pericoli di guerra; chiede obbedienza fino al sacrificio della vita per difendere il paese in tempo di guerra e non può più rendere il servizio di garantire la difesa. Ciò significa che in materia di politica economica, estera e militare, lo Stato nazionale sovrano legifera e governa abusivamente; il suo potere in questi campi è divenuto illegittimo.
I federalisti devono chiedere che un’Assemblea costituente europea sia eletta direttamente dai liberi popoli europei, e che la costituzione che questa voterà sia ratificata da referendum popolari. Sanno benissimo che nel momento attuale nessun governo è disposto ad accettare questa procedura. Essi la formulano per sottolineare il loro totale rifiuto di fiducia agli Stati nazionali, per far comprendere che la costituzione europea deve avere un fondamento di legittimità democratica europea al suo inizio, che cioè l’organo che elabora la costituzione non può essere costituito da diplomatici né da delegazioni di parlamenti nazionali, ma da rappresentanti del popolo europeo, scelti per compiere un’opera europea; e deve avere una sanzione di legittimità democratica europea alla sua conclusione perché il sì o il no deve essere detto dai popoli e non dai loro parlamenti nazionali, che sono capaci solo di legiferare in materie di ordine nazionale.
Tutto quel che dobbiamo ottenere dai governi e dai parlamenti nazionali è che abdichino dalla loro illegittima sovranità nei campi in cui non sanno più esercitarla, accettando di convocare la Costituente europea.
Questa abdicazione potrà essere ottenuta il giorno in cui si verificherà la coincidenza di una nuova flagrante dimostrazione dell’impotenza dei nostri Stati — il che accadrà inevitabilmente, prima o dopo, in una o nell’altra circostanza — e di una ribelle coscienza federalista, la quale sia cento volte più forte, più diffusa e più sicura di sé di quanto è oggi.
Prepararsi a questa nuova azione, così diversa da quella svolta fino ad oggi, e tuttavia così profondamente conseguente ad essa, è il nostro compito attuale.


* In L’Europa non cade dal cielo, Bologna, Il Mulino, 1960.

 

 

 

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