Anno XLVIII, 2006, Numero 2, Pagina 90
I principi d’azione del Manifesto di Ventotene*
MARIO ALBERTINI
Secondo un giudizio ormai ampiamente condiviso il Manifesto di Ventotene — scritto nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi quando si trovavano al confino nell’isola di Ventotene — è il più importante testo europeistico della Resistenza. Ma questo giudizio non basta per stabilire quale sia il contenuto effettivo di questo testo — e degli scritti che lo completano — perché il termine «europeistico» è così vago da far stare sotto lo stesso segno le cose più diverse, e perfino opposte. È meglio dire che il Manifesto di Ventotene è un testo esemplare della letteratura politica militante del tempo della Resistenza; e affrontare, almeno nel suo fondamento, il problema di questa letteratura che, pur essendo chiaramente riconoscibile per il suo oggetto (la politica militante) e i suoi testi (da Machiavelli a Lenin), non ha ancora trovato né una sistemazione teorica efficace né adeguate chiavi di lettura.
Il dato cruciale è che non c’è ancora una distinzione ben stabilita tra ciò che si trova in questi testi (specialmente quelli della nostra epoca: il caso classico è L’imperialismo di Lenin), e ciò che si trova in qualsiasi rendiconto di storia contemporanea, come storia scritta da chi non si propone di farla. Ma così resta celato proprio il vero oggetto di questa letteratura, il cui elemento determinante sta nella volontà, e più precisamente nella volontà che fa quanto può per diventare storia. Il problema dunque è questo: che tipo di fatti cade nel campo visuale di chi esamina il suo tempo solo come un puro osservatore, che non si occupa del futuro o si limita a prevederlo standone fuori (come nei cosiddetti «scenari» oggi di moda, che riducono la storia ad una vicenda meccanica che si svolgerebbe secondo questo o quel filo noto solo agli «esperti»), e che tipo di fatti cade invece nel campo visuale di chi esamina il suo tempo con la disposizione mentale dell’uomo attivo, che si occupa del futuro, e del presente soltanto in funzione del futuro.
Solo per non lasciare nell’ombra l’ampiezza e la complessità della questione, bisogna tener presente che nel secondo caso, beninteso quando si tratta dell’attività politica, si ha a che fare con il tentativo di sottoporre il futuro ai piani della ragione. Ciò comporta, tra l’altro, che si ammetta la presenza della ragione nella storia (cioè che la storia abbia un senso); e comporta anche che si scelga di fatto il progresso — invece di chiedersi in astratto se è possibile o impossibile — evitando così l’errore catastrofico di applicare la ragione a tutto meno che a ciò che decide di tutto, il corso della storia. Ma ciò che conta, nei limiti più ristretti del nostro esame (la distinzione tra i due tipi di fatti), è che con questo modo di pensare il presente e il futuro assumono una configurazione particolare.
Il presente — la situazione storica in atto — non viene pensato a sé, come qualcosa da accettare, ma come qualcosa da integrare nei piani della volontà, e perciò da considerare insieme con i suoi prolungamenti realizzabili a patto che riesca questo o quel piano d’azione (una linea politica generale). Dunque esso assume per un verso il carattere di mezzo per i fini di una lotta, e per l’altro quello di una situazione che ha senso; e il cui senso sta proprio nel fatto che contiene la possibilità della sua evoluzione verso una situazione nuova, e tale da migliorare le sorti dell’umanità. A sua volta il futuro non si presenta nella forma di una semplice descrizione (come nelle pseudo-previsioni del falso storico contemporaneo, o sociologo, o esperto), ma nella forma specifica di nuovi principi d’azione e delle conseguenze che ne derivano. Ne segue che anche rispetto al futuro il pensiero assume la forma della realtà (l’azione è il futuro in germe); e, più precisamente, della realtà che si può costruire con la ragione perché i nuovi principi d’azione, se sono davvero tali e non automistificazioni, collegano il presente al futuro secondo un ordine stabilito dalla ragione.
Con queste osservazioni si giunge al cuore del problema, cioè alla relazione che esiste tra l’elaborazione di nuovi principi d’azione e il riconoscimento del carattere iniziale dei nuovi processi storici. Questa relazione deve essere considerata non solo come un fatto pratico, ma anche come un fatto teorico. E per stabilirla bene sul piano teorico bisogna tener presente in primo luogo che chi si occupa del futuro cerca di isolare nella realtà storico-sociale in atto quei dati di fatto che, se vengono sviluppati con un’azione adeguata, possono determinare una situazione storica nuova. Bisogna inoltre tener presente, in secondo luogo, che questi dati di fatto, siccome hanno la natura di possibilità da sfruttare, sono riconoscibili solo attraverso la messa in evidenza di queste possibilità, cioè con l’elaborazione di nuovi principi d’azione. In ogni altro caso la loro peculiarità non entra nel campo visuale. Ne segue che il metodo di conoscenza della politica militante è il solo con il quale si può tentare di acquisire la conoscenza di una precisa singolarità storica: quella dei nuovi processi storici al loro inizio.
Solo con questa distinzione tra conoscenza storica del passato (ivi compreso quello che perdura nel presente) e conoscenza di nuovi processi storici al loro inizio (al limite la conoscenza del processo storico globale, cui tuttavia non si è mai pervenuti sinora) non si corre il rischio di fraintendere il senso della letteratura politica militante. Basta, per rendersene conto, pensare a L’imperialismo, fase suprema del capitalismo di Lenin. Secondo la lettura più comune (almeno fino a qualche tempo fa) il contenuto di questo testo sarebbe la descrizione dei tratti essenziali della storia contemporanea. Ma se fosse davvero questo il suo tema, sarebbe anche vero che si tratterebbe di un libro completamente sbagliato perché il capitalismo invece di crollare ha conosciuto un nuovo ciclo di sviluppo. E non basta. La conseguenza peggiore è che questa chiave di lettura cela il vero significato dell’Imperialismo perché non consente di constatare che Lenin, pur essendosi sbagliato circa il senso della storia contemporanea, ne aveva tuttavia colto genialmente un aspetto, quello costituito dall’inizio di un processo storico nuovo in Russia e nel mondo coloniale dei paesi poveri, sottosviluppati e dipendenti.
Ma ciò risulta chiaro solo a patto di non cercare nell’Imperialismo, e negli scritti che lo completano, solo il presente come una cosa puramente descritta, ma anche, e soprattutto, il futuro nella sua vera forma, quella di nuovi principi d’azione (e senza dimenticare, naturalmente, che ciò che è davvero nuovo emerge a fatica, sommerso com’è dall’immane congerie del vecchio che ha ancora, in quel momento, l’apparenza dell’intera realtà). Bisogna dunque tener presente che dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, e la caduta di quasi tutto il socialismo occidentale nel socialsciovinismo e nella guerra fratricida che aveva messo tragicamente in luce l’impotenza del movimento operaio, lo scopo di Lenin non era quello di descrivere il mondo com’è, ma quello di far diventare di nuovo possibile una lotta che non sembrava più possibile per la scomparsa stessa del suo protagonista, la classe operaia, che aveva subito con una passività sconcertante il corso degli avvenimenti. I testi di Lenin sono trasparenti al riguardo: «La classe operaia non può assolvere la sua funzione rivoluzionaria mondiale senza condurre una lotta spietata contro questo tradimento, contro questa mancanza di carattere, contro questo servilismo davanti all’opportunismo e contro questo inaudito avvilimento teorico del marxismo» (il corsivo è mio; il saggio è Il socialismo e la guerra, scritto nel luglio-agosto 1915 e distribuito ai delegati della conferenza di Zimmerwald; il bersaglio è Kautsky e, più in generale, la Seconda Internazionale). E quando ciò sia chiaro, come lo è ad esempio, almeno parzialmente, nell’analisi di Lelio Basso alla quale rimando,[1] si constata proprio che nel pensiero di Lenin l’elaborazione di nuovi principi d’azione coincise effettivamente con le prime forme di conoscenza di un processo storico in germe, che oggi ha proporzioni tanto vaste da includere anche la Cina e il suo risveglio. Considerazioni analoghe valgono per il Manifesto di Ventotene, ed è Spinelli stesso a farle apertamente quando ne parla. Egli ammette di essersi sbagliato circa il carattere globale della situazione che si sarebbe prodotta con la sconfitta della Germania e dell’Italia nella seconda guerra mondiale. Non avendo preso in considerazione la possibilità (anzi, l’inevitabilità) del capovolgimento della politica estera degli USA e dell’URSS dall’isolazionismo all’interventismo, Spinelli e Rossi non pensarono nemmeno che gli USA e l’URSS avrebbero assunto il controllo politico diretto dell’Europa, assicurando così nella prima fase postbellica una stabilità politica altrimenti impossibile a causa del crollo politico e morale degli Stati nazionali. Sfumò così il progetto di sfruttare l’instabilità politica del primo dopoguerra e l’estrema debolezza degli Stati nazionali per fondare gli Stati Uniti d’Europa.
Ma Spinelli ha ragione quando afferma di non essersi sbagliato nel formulare due nuovi principi d’azione; e il tempo trascorso ci permette di constatare che anche in questo caso l’elaborazione di nuovi principi d’azione ha coinciso proprio con le prime forme di conoscenza di un processo storico in germe: quello dell’unificazione europea. I nuovi principi elaborati a Ventotene sono: a) la priorità di un obiettivo internazionale, l’unità europea (cioè la Federazione europea: non esistono altre forme stabili ed efficaci di associazione di Stati) rispetto ad ogni altro obiettivo politico e sociale; b) lo spostamento della linea di divisione tra progresso e reazione dal campo nazionale a quello internazionale. Spinelli e Rossi osservavano nel Manifesto: «Se [con il mancato superamento della divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani] la lotta politica restasse domani ristretta nel tradizionale campo nazionale, sarebbe difficile sfuggire alle vecchie aporie». E sulla base di questa diagnosi che si è rivelata esatta (gli Stati nazionali sono effettivamente ricaduti nella ragnatela del corporativismo, temperato solo da quel tanto di unità europea che esiste), essi affermano a giusta ragione che: «La linea di divisione fra partiti progressisti e reazionari cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere nazionale — e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo — e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale».
È vero che questi principi sono stati applicati in modo costante e coerente solo dal Movimento federalista europeo. Ciò non toglie che sia anche vero che l’unificazione dell’Europa — dalla fondazione del meccanismo comunitario ai primi passi del suo sviluppo democratico — è dipesa sinora esclusivamente da decisioni prese secondo questi principi. La spiegazione sta nel fatto (ignorato dal dibattito pubblico ma inoppugnabile) che in alcuni momenti gravi della vita dell’Europa, nei quali le decisioni puramente nazionali erano estremamente nocive o impossibili, degli statisti come Adenauer, De Gasperi, Schuman e Spaak seppero ascoltare degli innovatori come Monnet, Spinelli e i federalisti e agire di conseguenza, senza lasciarsi ingannare — come accade troppo spesso — dai falsi consigli dei falsi esperti di questioni europee che ingombrano le anticamere dei ministri. Tutte le decisioni che corrispondono alle tappe della costruzione dell’Europa, nessuna delle quali, va sottolineato, è stata progettata e voluta da alcun partito o altra forza nazionale, presentano in effetti questo carattere. Vale anche, del resto, una prova a contrario. L’unificazione dell’Europa è stata frenata, e lo è ancora, sia pure inconsapevolmente, dai partiti proprio perché essi sono rimasti legati alla antica priorità degli obiettivi nazionali, anche se ciò comporta la ricomparsa delle vecchie aporie e l’impossibilità di superare l’ordine imposto all’Europa dagli USA e dall’URSS alla fine della seconda guerra mondiale.
La reiterata esperienza della dimensione sopranazionale dei maggiori problemi non ha ancora indotto i partiti a riconsiderare i principi tradizionali della loro azione; ed è per questo che la loro concezione del futuro, pensato ancora in termini nazionali, è così incerta. Ma i fatti urgono. In questione non è solo l’Europa. Lo sviluppo di forme efficaci di Stato nei grandi spazi nordamericano, sovietico e cinese, la costruzione dell’Europa, ed il risveglio di tutti i popoli della Terra cominciano a rivelare il loro carattere di momenti evolutivi di un processo di unificazione politica del genere umano che può concludersi solo con il governo mondiale e la pace universale. Non si tratta più di una utopia, ma dell’obiettivo supremo della lotta politica, della sola risposta ragionevole al fatto che il progresso della capacità tecnologica dell’uomo sta portando gradualmente ma inesorabilmente l’intero genere umano di fronte ad un bivio estremo: o la catastrofe nucleare ed ecologica, o la liberazione completa dell’elemento razionale della natura umana con la trasformazione dei rapporti fra gli Stati in rapporti giuridici e con la fine della necessità di impiegare il lavoro umano come forza bruta o semplice meccanismo ripetitivo. È con questo metro che bisogna giudicare i principi d’azione e stabilire gli obiettivi intermedi.
Bisogna ormai voltare le spalle al vecchio mondo. Dopo la liberazione delle classi e delle nazioni il problema che si pone è quello della liberazione dell’intera umanità come tale e di ogni singolo uomo. Nessun obiettivo nazionale, se perseguito isolatamente, può farci avanzare verso questa meta. E nessuna ideologia o strategia del passato ci consentirà di scegliere a volta a volta la giusta direzione di marcia. Bisogna — come i più saggi fra i dirigenti politici cominciano a dire — «democratizzare le relazioni internazionali». Ciò implica uno sviluppo dell’ONU che dia vita ad istituzioni che consentano l’espressione della volontà generale di tutta l’umanità. Si tratta di costruire progressivamente, in Europa e ovunque, un potere democratico che sia capace di abolire nella sua sfera gli eserciti nazionali, e di eliminare i rapporti di forza tra gli Stati associati senza privarli della loro autonomia costituzionale e della loro indipendenza effettiva. E c’è un solo potere di questo genere: la federazione come «insieme di governi [il governo internazionale e quelli nazionali] coordinati e indipendenti».[2]
Valgono dunque i principi di Ventotene. L’obiettivo internazionale deve avere la priorità. Ed è evidente che non si può indirizzare la lotta politica verso questo obiettivo se si dividono le forze sul piano nazionale in vista di obiettivi nazionali invece di dividerle sul piano internazionale in vista dell’obiettivo internazionale. È dunque sempre più vero che bisogna stabilire la linea di divisione tra il progresso e la reazione sul piano internazionale, e considerare la lotta politica nazionale solo come un momento di una lotta più vasta. In questa direzione, quella della Federazione europea e della Federazione mondiale, quasi tutto è ancora ignoto. C’è una sola certezza: il senso della storia contemporanea si svela solo a coloro che si propongono davvero di mutarla. La prima cosa da prendere in esame sono dunque i principi d’azione, ed è un fatto che quelli elaborati quarant’anni fa a Ventotene consentono di intravedere le prime luci in un mondo che non sa più nemmeno se ci sarà un futuro per l’umanità.
[1] Lelio Basso, «La teoria dell’imperialismo in Lenin», in Annali dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli, a. XV, 1973.
[2] Kenneth C. Wheare, Federal Government, Oxford, 1946.