IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLIX, 2007, Numero 1, Pagina 24

 

 

 

L’approccio ecocentrico allo sviluppo sostenibile.
Ecologia, economia e politica
 
GUIDO MONTANI
 
 
« ... l’umanità sta combattendo l’ultima battaglia contro tutte le altre forme di vita. Se non si ferma, otterrà una vittoria di Pirro, in cui dapprima sarà sconfitta la biosfera e poi l’umanità»
Edward O. Wilson[1]
 
 
1. L’ecologia è anche una scienza storico-sociale?
 
L’ecologia si è sviluppata verso la fine del secolo XIX come particolare filone di ricerca di alcune scienze della natura, grazie ai primi successi dell’evoluzionismo e della biologia. L’oggetto specifico di studio dell’ecologia è l’ecosistema, che viene definito come «una struttura completa di esseri viventi in relazione tra loro e con il loro ambiente inorganico, che è completamente aperta, ma capace fino a un certo grado di autoregolarsi».[2] L’ecologia, tuttavia, ha subito coinvolto non solo gli scienziati della natura, ma anche i cultori delle scienze sociali. Infatti, è sembrato necessario considerare la specie homo sapiens come un essere vivente la cui presenza condiziona l’evoluzione degli ecosistemi. In effetti, gli ecosistemi abitati da homo sapiens rischiano di perdere l’equilibrio che consente loro di autoregolamentarsi. Pertanto, chi intende rimuovere le cause che mettono in pericolo gli ecosistemi deve concentrare l’attenzione sulla specie che, più di altre, appare responsabile della distruzione dell’ecosistema «Terra» o biosfera.
La specie homo sapiens è oggi studiata dalle cosiddette scienze sociali o della cultura, che includono la storia, la filosofia, la linguistica, la sociologia, la psicologia e così via. In effetti, la specie umana sembra differenziarsi dalle altre specie viventi per la sua particolare capacità di sviluppare, grazie al linguaggio, degli insiemi articolati di simboli, che orientano e condizionano i rapporti degli individui in società, come i miti, le religioni, le città, le tribù, l’impresa, gli Stati, ecc., in breve ciò che si definisce civiltà. Si potrebbe dunque sostenere che l’umanità si è creata una seconda natura «culturale», che condiziona le sue forme di vita in modo ancora più decisivo della prima natura «biologica», dalla quale si allontana sempre più. È probabilmente in questa direzione che si dovrebbe orientare l’indagine di chi si propone di individuare un comportamento specifico degli esseri umani nei confronti di tutte le altre specie viventi.[3]
Il compito che qui intendiamo affrontare è, tuttavia, diverso. Se si ammette che il problema ecologico nasce dal superamento del «grado di autoregolamentazione» degli ecosistemi a causa di comportamenti non ecologicamente compatibili della specie homo sapiens, possiamo concentrare la nostra attenzione sul sistema economico e su quello politico, dal funzionamento (o malfunzionamento) dei quali scaturiscono le maggiori minacce all’integrità dell’ambiente naturale. Ad esempio, l’effetto serra, responsabile del surriscaldamento del Pianeta, dipende sia dalla quantità di gas inquinanti scaricati dal sistema produttivo mondiale nell’atmosfera sia dalla mancanza di volontà politica dei governi nazionali di intervenire con efficacia. Un argomento simile si potrebbe sviluppare anche per quanto riguarda la perdita della biodiversità, poiché l’estinzione di molte specie viventi dipende sia dalla continua trasformazione di ecosistemi in attività finalizzate al soddisfacimento esclusivo dei bisogni umani (e non alla sopravvivenza delle altre specie animali o vegetali), sia dall’incuria, o dalla complicità, del sistema politico, che non si assume la responsabilità di impedire che alcune attività umane mettano a rischio la sopravvivenza delle altre specie che abitano il Pianeta.
Economia e politica occupano una posizione di rilievo nel panorama delle scienze storico-sociali grazie alla creazione, a partire dal tardo Medioevo, dello Stato moderno. L’epoca contemporanea è caratterizzata da una separazione sempre più netta tra società civile — la cui autonomia si manifesta, oltre che nella sfera culturale, anche nel mercato — e società politica, che monopolizza il potere di governo. Questa trasformazione profonda dell’organizzazione della società e delle forme di governo si è accompagnata allo sviluppo dell’economia e della politica come prime discipline teoriche che hanno tentato di spiegare, prendendo in parte come modelli di riferimento le scienze della natura, i comportamenti degli individui impegnati nel mercato e nella lotta per il potere. Max Weber sostiene giustamente che le scienze storico-sociali elaborano delle tipologie (oggi si preferisce discutere di modelli) come strumenti concettuali che si propongono di spiegare alcuni aspetti della realtà sociale, senza pretendere di fornirne una spiegazione esaustiva o di sostituirsi ad essa (tuttavia, l’errore di scambiare il modello con la realtà è frequente e forse inevitabile, perché la realtà storico-sociale esiste in quanto sistema di culture dominanti, dove continuamente si confrontano modelli di vita alternativi).
Si tratta ora di chiarire se vi è posto per l’ecologia, come disciplina storico-sociale, a fianco dell’economia e della politica, che si sono già consolidate come discipline accademiche nel corso dell’età moderna.[4] La risposta a questo interrogativo è negativa se si ritiene che il problema ecologico, poiché riguarda i rapporti tra la specie umana e le altre specie viventi, è per sua natura interdisciplinare e deve dunque essere affrontato mediante la collaborazione degli scienziati della natura e dei cultori delle scienze storico-sociali, i quali devono cercare di estendere i confini delle loro indagini al fine di includere il problema ecologico nei loro paradigmi teorici. In qualche misura, questo processo è in corso. La nascita di discipline come l’Economia ecologica va esattamente in questa direzione, anche se un analogo allargamento sistematico del campo di ricerca della teoria politica non si è ancora verificato. Tuttavia, questi sviluppi, in sé auspicabili, potrebbero incontrare barriere insormontabili a causa dei postulati teorici su cui quelle discipline si fondano. L’economia e la politica sono sorte per studiare dei comportamenti intra-specifici, tra esseri umani. L’ecologia, in ipotesi, si deve occupare di rapporti inter-specifici. Non si può escludere che homo sapiens sviluppi nel tempo un comportamento ecologico autonomo rispetto a quello economico e quello politico, ovvero dei nuovi comportamenti riguardanti i rapporti tra la specie umana e le altre specie viventi. Si potrebbe, in effetti, sostenere che oggi ci troviamo agli albori di una nuova disciplina: un comportamento ecologico si manifesterà nella misura in cui gli individui modificheranno i propri rapporti con l’ambiente naturale e le istituzioni civili recepiranno e consolideranno la nuova cultura.[5]
Qui ci proponiamo di esaminare questo problema, nella consapevolezza che una chiara distinzione tra i campi di studio delle varie discipline storico-sociali sia indispensabile per migliorare la loro capacità di analisi. La comprensione del comportamento ecologico può contribuire in modo determinante all’individuazione delle politiche e delle riforme istituzionali necessarie per risolvere il problema ecologico. Nelle pagine seguenti, dopo aver preso in considerazione le difficoltà generate dall’approccio antropocentrico allo sviluppo sostenibile (a volte definito weak sustainability), si proporrà, come alternativa, un approccio ecocentrico (definito anche strong sustainability). L’approccio ecocentrico consente di concentrare l’attenzione su un aspetto cruciale dell’ecologia: i limiti, solitamente individuati dagli scienziati della natura, allo sfruttamento umano dei beni ecologici. Si potranno così meglio individuare le riforme necessarie per consentire alle istituzioni economiche e politiche di garantire uno sviluppo sostenibile. Nelle conclusioni, si indicheranno alcuni orientamenti di ricerca dell’ecologia come scienza della sostenibilità.
 
2. Lo sviluppo sostenibile: il punto di vista antropocentrico.
 
Nella seconda metà del secolo XX, la percezione del crescente degrado dell’ambiente naturale provocato dal processo di industrializzazione ha stimolato un intenso dibattito sui rapporti tra sistema economico e ambiente, dal quale sono scaturite alcune linee direttrici della politica ambientale, come il principio «chi inquina paga». In questo contesto, una particolare attenzione deve essere riservata al concetto di sviluppo sostenibile, che ha avuto una consacrazione nel Rapporto Brundtland, del 1987, redatto dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo. In questo Rapporto viene considerato sostenibile lo sviluppo che «assicura il soddisfacimento dei bisogni della generazione attuale senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri».[6] Con questa formulazione, si getta un ponte tra la nozione di sviluppo, che gli economisti avevano concepito esclusivamente come crescita del prodotto pro-capite, e l’ambiente naturale, dal quale vengono attinte le risorse necessarie alla produzione e nel quale vengono scaricati i rifiuti delle attività industriali e di consumo. Inoltre, si stabilisce anche un nesso intergenerazionale, poiché lo sfruttamento indiscriminato delle risorse attuali può compromettere il benessere delle generazioni future. Esistono dunque dei «limiti» alla crescita economica, che il Rapporto Brundtland, tuttavia, definisce «relativi». Infatti, il concetto di sviluppo sostenibile «implica limiti, non limiti assoluti, ma limitazioni imposte dal presente stato della tecnologia e dalla organizzazione sociale sulle risorse ambientali e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attività umane».[7]
La nozione di sviluppo sostenibile ha avuto un indiscutibile impatto positivo sull’opinione pubblica. La consapevolezza della interdipendenza tra economia, politica ed ecologia è cresciuta e si sono sempre più diffuse, sebbene in modo difforme, alcune iniziative per la salvaguardia ambientale, sia da parte delle imprese sia da parte dei governi. È stata così stimolata la richiesta di migliori tecniche per la valutazione della sostenibilità degli interventi pubblici.[8]
Questi progressi non devono, tuttavia, offuscare il fatto che la nozione di sviluppo sostenibile, così come viene definita nel Rapporto Brundtland, presenta ambiguità che ne rendono poco efficace l’applicazione. Gli obiettivi sono molteplici e le priorità politiche risultano poco chiare.[9] Le maggiori ambiguità, che qui ci interessa discutere, riguardano il rapporto tra l’ecologia, il progresso tecnologico, i bisogni umani e l’attuale «organizzazione sociale», vale a dire il contesto istituzionale nel quale le politiche ambientali dovrebbero essere realizzate.
In primo luogo, consideriamo il rapporto tra il progresso tecnico oppure, per usare una formulazione più neutra, il mutamento tecnologico, e lo sviluppo sostenibile. Poiché la nozione di sviluppo sostenibile riguarda i rapporti tra diverse generazioni, dunque un lungo periodo di tempo in un’epoca nella quale si manifestano rapidi mutamenti tecnologici, è inevitabile che si debba ammettere la possibilità di cambiamenti consistenti nelle tecnologie. I secoli XIX e XX sono stati testimoni di un attacco sistematico dell’umanità e della sua economia all’ambiente, con devastazioni crescenti. Il secolo attuale, si potrebbe sostenere, può divenire l’inizio di un armonico rapporto dell’umanità con la natura, grazie a tecniche produttive ecologicamente compatibili. In proposito, l’atteggiamento degli scienziati e degli economisti è ondivago. Si passa da fasi di cupo pessimismo a fasi di deciso ottimismo. Le teorie della crescita endogena possono giustificare una visione ottimistica del futuro nella misura in cui è possibile programmare lo sfruttamento della conoscenza «orientata» per ridurre la «scarsità» delle risorse naturali non rinnovabili e per diminuire gli effetti nocivi provocati dallo scarico di rifiuti nell’ambiente.[10] In effetti, è impossibile negare che l’attuale sfida che l’umanità deve affrontare, vale a dire far sopravvivere entro il 2050 circa 9 miliardi di individui sul Pianeta senza compromettere l’abitabilità della biosfera, possa essere vinta solo con l’ausilio di tecnologie ecologicamente compatibili, a partire dalla sostituzione delle energie inquinanti con energie pulite e rinnovabili. Tuttavia, una fede illimitata nelle possibilità della scoperta e dell’introduzione delle nuove tecnologie può svolgere un ruolo nefasto, perché giustifica il rinvio sine die delle riforme necessarie e possibili sin d’ora. Ad esempio, l’ecologista Lomborg pensa che «data l’esperienza storica, è probabile che per mezzo della creatività umana e di uno sforzo collettivo» gli attuali problemi di sostenibilità possano venir facilmente risolti e che «di fatto, lasceremo in eredità ai nostri figli un mondo migliore di quello in cui siamo nati».[11] Di fronte a questa fiducia illimitata nella creatività umana sembra lecita qualche perplessità. L’attuale sistema produttivo, ancora strutturalmente fondato su tecnologie «sporche», che vengono adottate sempre più largamente dai paesi in via di sviluppo nel disperato sforzo di raggiungere gli standard di vita dei paesi più ricchi e inquinanti, può produrre guasti irreversibili in tempi brevi — più brevi delle miracolose invenzioni attese da Lomborg —, come un riscaldamento devastante del clima oppure la scomparsa di un numero elevato di specie viventi, indispensabili all’equilibrio della biosfera. Inoltre, la fiducia nella bontà ed efficacia delle istituzioni («lo sforzo collettivo») sembra mal riposta. L’ordine politico internazionale non è radicalmente cambiato rispetto a quello che ha consentito lo scoppio della prima e della seconda guerra mondiale. Le tecnologie moderne, da quelle nucleari a quelle dell’informazione (ICT), che richiedono il sostegno di sistemi satellitari per essere efficaci, hanno spesso un uso duale, civile e militare. Che cosa si sta facendo per impedire una terza guerra mondiale, che distruggerebbe certamente molte delle specie che abitano il Pianeta (compresa la specie homo sapiens)?
La seconda ambiguità del concetto di sviluppo sostenibile riguarda il rapporto tra il soddisfacimento dei bisogni umani e la salvaguardia dell’ambiente. Si tratta di una relazione tra due obiettivi che possono essere considerati rivali oppure complementari, a seconda del contesto storico-istituzionale in cui si pone il problema. La mancanza di chiarezza sulla natura di questo rapporto ha generato un dibattito spesso confuso e fuorviante. Il problema ha origine nello stesso mandato che istituisce la Commissione dell’ONU che ha proposto il concetto di sviluppo sostenibile. Infatti, per la Commissione sull’ambiente e lo sviluppo, il superamento del divario tra paesi ricchi e paesi poveri rappresenta una delle preoccupazioni dominanti. La nozione di sostenibilità è stata originariamente intesa nel duplice significato di superamento del divario tra popoli ricchi e poveri e di superamento del degrado ambientale, causato dalla pressione del sistema capitalistico mondiale sulle risorse naturali. Sfruttando questo duplice significato di sostenibilità, molti movimenti ecologisti ed alcuni teorici hanno tentato di immettere il vino nuovo dell’ecologia nelle vecchie botti di sistemi di pensiero sorti nel secolo XIX. Ad esempio, alcuni neo-marxisti[12] hanno tentato di sostenere la tesi che è il sistema capitalistico mondiale — che genera divari crescenti di ricchezza tra ricchi e poveri, il colonialismo, lo sfruttamento della manodopera a buon mercato e delle risorse naturali disponibili — la principale causa del degrado ambientale su scala mondiale. Globalizzazione capitalistica e sfruttamento della natura sono, a loro avviso, due facce di un medesimo problema. La difesa dell’ambiente coincide con il superamento del sistema capitalistico.
Questa interpretazione delle cause del degrado ambientale ha ricevuto un duro colpo con la disgregazione dell’URSS, che ha rivelato come i sistemi ad economia pianificata dal centro sfruttassero non meno di quelli ad economia di mercato le risorse naturali. Eppure, non ci si dovrebbe stupire più di tanto per questa spiacevole realtà. La civiltà industriale impiega tecnologie volte principalmente alla trasformazione, nel modo più efficiente, di alcune risorse naturali, con l’impiego del lavoro operaio, di macchinari e di energia, in merci, che hanno un costo tanto più basso, e sono dunque competitive, quanto più vengono prodotte su grande scala. Per questo, nella misura in cui i paesi in via di sviluppo, come le tigri asiatiche, la Cina, l’India, il Brasile, ecc. impiegano gli stessi metodi di produzione che hanno causato la distruzione della natura nei paesi di più antica industrializzazione, ottengono gli stessi effetti nei confronti del loro ambiente naturale. La diffusione della civiltà industriale, dalla nicchia originaria europea verso i paesi del Terzo mondo, coincide con la diffusione del degrado ambientale su scala mondiale. La globalizzazione dell’industrialismo è indispensabile per ridurre, ed eliminare del tutto, il divario[13] tra paesi ricchi e poveri, ma non risolverà certamente il problema della distruzione dell’ambiente naturale.
Prendiamo ora in considerazione la terza ambiguità, quella relativa all’attuale «organizzazione sociale». Per affrontare la questione in termini generali, occorre ricordare che l’organizzazione che rende possibile la stessa società civile è lo Stato nazionale sovrano. E nella situazione storica attuale, caratterizzata dal processo di globalizzazione, ogni Stato nazionale è costretto a tenere in considerazione i rapporti di potere esistenti con gli altri Stati nazionali. Nei secoli che caratterizzano l’età moderna, si è formato un sistema mondiale degli Stati, in cui le superpotenze contano di più, hanno cioè più poteri, delle medie e delle piccole potenze. Ogni singolo governo nazionale, compreso quello delle superpotenze, non prende dunque mai decisioni senza calcolare il loro possibile effetto sulla bilancia mondiale del potere. In questo senso, nessun governo è completamente indipendente nel contesto del sistema mondiale degli Stati. Pertanto, anche le decisioni che riguardano l’ecologia e l’ambiente non sfuggono alle leggi della politica mondiale, come testimonia il Rapporto Brundtland che, per quanto riguarda le azioni da intraprendere, «suggerisce» alcune iniziative ai governi nazionali. Sono i governi nazionali che decidono, in ultima istanza, e i governi nazionali devono obbedire, prima di tutto, alla logica degli equilibri di potere. Ciò significa che gli obiettivi ecologici sono costantemente subordinati ad altre priorità, come la sicurezza, gli armamenti, la guerra e il soddisfacimento delle lobby produttive nazionali. Dopo il Rapporto Brundtland, l’ONU ha organizzato alcune conferenze mondiali sull’ambiente, a partire da quella di Rio de Janeiro del 1992, che ha tradotto in una solenne Dichiarazione di principi gli orientamenti scaturiti dalla Commissione Brundtland. Tuttavia, i risultati conseguiti sono scarsissimi. Nessuno può seriamente sostenere che i governi nazionali stiano realizzando efficaci politiche per scongiurare un’eventuale crisi ecologica irreversibile su scala planetaria.
Ciò nonostante, alcuni ecologisti[14] sostengono che la battaglia per uno sviluppo sostenibile si debba svolgere soprattutto entro le mura dello Stato nazionale, ricorrendo senza esitazioni a misure protezionistiche per mettere un freno alla eccessiva libera circolazione internazione dei capitali, delle merci e delle persone. Idee simili trovano ospitalità anche all’interno del movimento no-global che contesta il processo di globalizzazione a causa delle discriminazioni tra paesi ricchi e poveri e per i guasti ambientali che il mercato internazionale creerebbe. Sebbene una teoria precisa in proposito non venga formulata, lo Stato nazionale viene implicitamente considerato come l’unico efficace difensore degli interessi pubblici nei confronti di quelli privati, vale a dire le imprese multinazionali, i centri finanziari, ecc. Questo panorama culturale, per fortuna, non è omogeneo. Qualche ecologista comincia ad osservare che nell’attuale sistema internazionale «è estremamente difficile, per non dire impossibile, adottare strategie che diano la priorità ad obiettivi ambientali… Credere che lo sviluppo sostenibile, così come è correntemente definito, abbia un significato e diventi operativo è illusorio… Occorre un mutamento di paradigma… poiché è probabilmente necessario un giusto e stabile ordine economico internazionale in cui agire».[15] Queste osservazioni sono condivisibili. Ma occorre individuare il nuovo paradigma politico internazionale. Come insegna la storia della scienza, sino a che non si è individuato il nuovo paradigma, il pensiero continua a vagare negli oscuri meandri del vecchio sistema concettuale, di cui resta prigioniero.
Occorre, dunque, mettere in discussione i «limiti» della sostenibilità individuati dal Rapporto Brundtland. Questi limiti sono evidentemente troppo elastici se la politica e l’economia internazionale li possono adattare alle loro tradizionali esigenze, ignorando le nuove priorità ambientali. La scienza diventa efficace quando elabora un pensiero oggettivo, che tutti devono riconoscere come vero ed accettare, adattando di conseguenza i propri comportamenti. La ricerca di confini o di limiti che non devono essere superati è dunque necessaria. Si tratta di un compito arduo. L’umanità riesce a controllare solo alcuni aspetti della realtà, a patto che la realtà sia delimitabile, come avviene con gli esperimenti che i chimici fanno in provetta. Purtroppo, nelle scienze storico-sociali è molto difficile, forse impossibile, giungere ad un isolamento soddisfacente della realtà che si intende studiare. Ma questa non è una buona ragione per rinunciare all’impresa.
 
3. Lo sviluppo sostenibile: il punto di vista ecocentrico.
 
Allo scopo di delimitare il campo d’indagine, concentriamo ora l’attenzione sui rapporti tra specie umana e ambiente naturale. Ignoriamo, provvisoriamente, i problemi interni alla specie umana. Ciò significa considerare la specie umana come una comunità di individui (una popolazione), le cui forme di vita provocano alterazioni in ecosistemi che, senza l’influenza umana, sarebbero in grado di autoregolarsi. In effetti, dalla sua nicchia originaria africana, nella quale si è differenziato dalle altre scimmie antropomorfe circa sei milioni di anni fa, homo sapiens è emigrato in ogni continente sopravanzando, per capacità riproduttiva, qualsiasi altra specie vivente. Si calcola che alla fine del neolitico, agli albori della cosiddetta rivoluzione agricola, la Terra fosse abitata da meno di 4 milioni di individui. Nello spazio di soli 12 mila anni, la popolazione mondiale ha superato i 6 miliardi. Il problema fondamentale dello sviluppo sostenibile consiste, prioritariamente, nella modificazione dei comportamenti umani per rendere possibile l’autoregolarsi degli ecosistemi. Non è biologicamente possibile che in tempi tanto limitati (i tempi dell’evoluzione biologica si misurano in migliaia o milioni di anni) siano gli ecosistemi ad adattarsi. Se lo sviluppo umano non diventa sostenibile, la vita di moltissime specie sarà minacciata e gli equilibri fondamentali che regolano la vita nella biosfera verranno alterati.
La storia dell’umanità è giunta, dunque, ad una svolta drammatica. L’umanità avrà un futuro solo a patto di assumersi la responsabilità di conservare la vita sul Pianeta. L’umanità ha conquistato il potere di distruggere la vita, ma non ha, e non avrà mai, il potere di crearla (manipolare cellule non significa creare la vita). Dobbiamo dunque accettare il compito di adattare alla nuova situazione i nostri comportamenti, modificando le abitudini ereditate dal passato. La Terra è divenuta un grande parco naturale la cui sopravvivenza è affidata alla specie homo sapiens.
Lo sviluppo umano è sostenibile se non minaccia l’estinzione della vita sul Pianeta. In questa definizione, lo sviluppo umano è subordinato ad un obiettivo prioritario: la perpetuazione della vita biologica sul Pianeta. Si può così evitare il pericolo che il concetto di sviluppo sostenibile si diluisca nell’incerto orizzonte soggettivo e storicamente condizionato dei bisogni umani. Ad esempio, quando si discute di società sostenibile o di sviluppo sociale sostenibile si intende una situazione nella quale non esistono contrasti drammatici nel modo in cui le risorse sono distribuite tra i diversi gruppi sociali e tra gli individui. Uno sviluppo sociale insostenibile è caratterizzato da fratture insanabili, che possono provocare rivolte o rivoluzioni. In questi casi, il problema dei rapporti tra specie umana e ambiente non viene preso in considerazione.
La sostenibilità ambientale riguarda la definizione di alcuni limiti e l’individuazione dei mezzi necessari per il loro rispetto, quando l’attività umana minaccia le altre specie viventi nella biosfera. Come hanno giustamente sostenuto alcuni ecologisti, «la sostenibilità è un concetto oggettivo nella misura in cui le scienze naturali sono oggettive».[16] La collaborazione degli scienziati della natura è dunque indispensabile per un’accurata definizione dei «limiti» della sostenibilità, sebbene sia impossibile negare che un aspetto «umano» resti implicito nella definizione qui proposta, perché è praticamente impossibile definire le condizioni della sopravvivenza biologica della specie umana, senza tenere in considerazione il suo stadio di evoluzione culturale, economico e politico, dal quale dipende la fattibilità delle politiche «sostenibili». Per l’umanità è impossibile tracciare un confine netto tra vita biologica e vita culturale. È, dunque, necessario ammettere che il punto di vista ecocentrico rappresenta una polarità, opposta a quella antropocentrica. Tra questi due poli, altre numerose concezioni dello sviluppo sostenibile sono possibili.[17]
Sulla base dell’approccio ecocentrico diremo che è sostenibile una certa attività umana, come la pesca, se consente la riproduzione su scala immutata delle specie pescate. Diremo che è sostenibile l’attività della raccolta di legname in un bosco se contemporaneamente si provvede al rimboschimento e non si minaccerà l’estinzione delle specie animali che vivono nella foresta. È insostenibile un’attività fondata sullo sfruttamento di risorse energetiche non rinnovabili. Le attività industriali devono pertanto fondarsi su tecnologie che sfruttano energie rinnovabili. Sarà insostenibile una certa attività industriale che genera gas ad effetto serra, sino a che non si ridurrà la loro quantità ad un livello che non aumenti la temperatura media del Pianeta. Per poter valutare con efficacia questi effetti è dunque necessario mettere in atto un vero e proprio sistema di contabilità ambientale in termini fisici (per le acque pulite, per le specie minacciate, per il taglio dei boschi, per la purezza dell’aria, ecc.). In questo senso, del resto, l’ONU sta già sollecitando i governi a sviluppare, a fianco della contabilità economica nazionale, una contabilità satellite per il cosiddetto capitale ecologico o naturale.
Il fatto che si tenti di definire in termini oggettivi (fisici) i limiti che lo sviluppo umano non dovrebbe superare rende più precisi gli obiettivi della sostenibilità, ma non risolve certamente tutti i problemi riguardanti la realizzazione delle politiche necessarie. È ovvio che ciascuno di questi limiti si scontrerà con esigenze «umane» rilevanti, che dovrebbero, in teoria, essere sacrificate per la salvaguardia degli obiettivi ecologici. Le resistenze, come del resto la politica contemporanea testimonia, potrebbero essere considerevoli. Si tratta di invertire una tendenza storica che ha modellato i comportamenti umani sin dalle lontanissime origini della nostra specie. L’umanità ha, in effetti, colonizzato il mondo intero lottando contro una natura ostile. Ha dovuto imparare a sopravvivere in regioni con temperature molto fredde, molto calde, molto umide o molto secche. Ha dovuto lottare contro predatori pericolosissimi. La diaspora dell’originario minuscolo popolo di homo sapiens sui vari continenti ha infine suddiviso la specie in tante bande, tribù, villaggi, Stati, ecc. che si sono considerati nemici l’uno nei confronti dell’altro. Perseguire uno scopo comune, salvare la vita sulla Terra, richiede un mutamento profondo dei comportamenti; alcuni direbbero della «natura umana» (che, ovviamente, sarebbe immodificabile nel corso di poche generazioni se i caratteri umani fossero solo biologicamente determinati). Per questo, è opportuno definire l’obiettivo dello sviluppo sostenibile in termini oggettivi, al fine di concentrare il pensiero e l’azione verso l’elaborazione di politiche efficaci.
Alla base di un orientamento politico, vi è un impegno etico. Nel caso dell’ecologia, la nuova etica si fonda sulla responsabilità della specie umana per la conservazione della vita sulla Terra. Si potrebbe obiettare che è fuori luogo discutere di etica. In effetti, la responsabilità dell’umanità per la conservazione della vita coincide con il proprio interesse, perché la specie umana è minacciata da un degrado ambientale irreversibile, alla pari delle altre specie viventi. Tuttavia, questa considerazione non esclude affatto un’etica ecologica fondata sulla responsabilità. Si può scorgere un residuo di utilitarismo in ogni precetto morale. La massima «non uccidere» indica un ideale di comunità in cui la vita di tutti, anche di chi predica il precetto morale, è più sicura. Tuttavia, millenni di predicazione religiosa e l’applicazione giuridica del divieto di uccidere i propri simili non impediscono che vi siano ancora assassini e delinquenti. La libertà dell’individuo si manifesta nella possibilità di scegliere diverse opzioni di vita, non necessariamente orientate alla conservazione della specie umana (se valesse l’ipotesi opposta, non varrebbe nemmeno la pena di affaticarsi per la ricerca di uno sviluppo sostenibile).
In conclusione, occorre tradurre il principio di una generica responsabilità della specie umana verso la natura in una indicazione operativa sul terreno politico. A questo scopo, l’aspetto più generale di una politica per lo sviluppo sostenibile consiste nell’affermazione del diritto alla vita sulla Terra. Se si vuole che la nozione di sviluppo sostenibile diventi un comportamento nuovo, adottato dai cittadini del mondo, occorre tradurre le politiche sostenibili in una serie di diritti e di doveri. La civiltà moderna, per quanto riguarda i rapporti tra individui e i doveri degli esseri umani verso le altre specie viventi, si deve fondare su orientamenti normativi solennemente sanciti da una Costituzione. Vediamo, ora, come si possa garantire il diritto alla vita sulla Terra mediante la riforma delle vecchie istituzioni economiche e politiche, al fine di fissare i limiti dello sfruttamento della natura.
 
4. I limiti della crescita.
 
Il problema dei limiti della crescita, sollevato nel 1972 dal Club di Roma,[18] ha suscitato un intenso dibattito che continua tuttora. Lo studio del Club di Roma è consistito nel proiettare nel futuro le tendenze allo sfruttamento delle risorse naturali, sulla base dell’ipotesi che i consumi e la produzione dovessero soddisfare una popolazione crescente. Il divario tra risorse domandate e risorse disponibili dimostrava che lo sviluppo, salvo drastici mutamenti negli stili di vita o nelle tecnologie, non sarebbe stato sostenibile.
Questa argomentazione fornisce utili elementi per attirare l’attenzione sul problema dell’insostenibilità dello sviluppo. Tuttavia, nella misura in cui proietta nel futuro delle tendenze del passato, si espone alla critica degli ottimisti. È facile argomentare che le risorse naturali scarse possono essere sostituite con altre risorse meno scarse e che il progresso tecnologico può consentire all’umanità di ottenere sempre più ricchezza materiale, grazie agli aumenti di produttività e di risparmio di risorse. Non vi sono limiti alla crescita.
In effetti, includendo nell’analisi le potenzialità del progresso tecnologico, il dibattito potrebbe continuare all’infinito. Tuttavia, la storia dell’umanità non suffraga interamente le tesi degli ottimisti. Casi di sviluppo non sostenibile si sono già verificati in passato.[19] È dunque lecito domandarsi come sia possibile, nelle condizioni attuali in cui vive l’umanità, mettere in atto una strategia che affronti efficacemente il problema. Le civiltà antiche hanno subito la catastrofe naturale come un segno del destino. Oggi, siamo coscienti del pericolo e possiamo prevenirlo.
Per discutere di questo problema, la via più diretta è quella di prendere in considerazione i fattori cruciali che hanno consentito all’umanità di acquisire il potere di distruggere la natura. La vita sulla Terra è in pericolo perché è minacciata da attività umane anti-ecologiche. Solo se l’umanità diventerà capace di porre dei limiti a questo suo potere potrà sperare di vincere la sfida dello sviluppo sostenibile.
I fattori rilevanti, in un’indagine sui limiti della sostenibilità, sembrano tre. Il primo consiste nelle caratteristiche generali dello Stato moderno che, a differenza di quello antico, ha creato una chiara distinzione tra potere politico e società civile. Lo Stato moderno è nato come un potere assoluto, fondato sul carisma di un condottiero, oppure sul diritto divino del sovrano. Tuttavia, il potere assoluto è stato sottoposto a limitazioni crescenti, grazie alla diffusione dei diritti civili e all’introduzione di procedure democratiche, che hanno costretto i governi a rispondere del loro operato ai governati. Questo tipo di Stato, formatosi all’interno della cultura europea, si sta oggi diffondendo su scala mondiale. Il secondo fattore riguarda la separazione tra potere politico e potere economico, grazie al sistema della proprietà privata e del mercato, che consente agli individui e alle imprese di dedicarsi alla produzione di beni e servizi traendone un beneficio individuale. A questo proposito, va osservato che l’esperimento comunista è consistito nella soppressione del sistema della proprietà privata, grazie alla collettivizzazione dei mezzi di produzione, ma non ha sostituito la finalità ultima del sistema di mercato: la produzione con i metodi più efficienti dei beni necessari a soddisfare i bisogni della popolazione. Il crollo dell’URSS, come esperimento collettivista, è stato anche causato dal suo deludente confronto con il più efficiente sistema delle economie di mercato. Il comunismo si proponeva di raggiungere con mezzi politici ciò che le economie di mercato raggiungono con mezzi economici. Infine, il terzo fattore riguarda il ruolo della scienza e della tecnologia nella società moderna, in particolare la sua relazione con il mercato. Senza lo sviluppo della scienza moderna anche i progressi continui di efficienza dei metodi produttivi contemporanei non sarebbero possibili. Le applicazioni scientifiche non sono ormai più un compito riservato ai laboratori universitari, ma sono in misura crescente un’attività che viene svolta all’interno delle grandi e piccole imprese, che sono diventate non solo centri di produzione, ma anche centri di innovazione tecnologica. L’economia contemporanea è sempre più un’economia della conoscenza e dell’innovazione.
I tre fattori appena ricordati hanno consentito lo straordinario tasso di crescita della popolazione nell’età moderna. Ciascuno di questi fattori ha dato vita ad una specifica attività umana, caratterizzata da un proprio comportamento che la distingue dalle altre sfere della vita sociale. Gli individui che formano la classe politica si impegnano in attività rivolte alla conquista del potere di governo, dalle piccole comunità locali sino al governo supremo della nazione. La loro azione è regolata, in linea di principio, da norme costituzionali. Una seconda classe di individui, i soggetti economici, formata da vari attori — come gli imprenditori, gli operai, i banchieri, i commercianti, i consumatori, ecc. — agiscono nel mercato dove, grazie alla concorrenza, i produttori cercano di soddisfare le richieste dei consumatori producendo le merci nel modo più conveniente (dunque, economico). Il terzo gruppo di individui, rilevante ai nostri fini, è quello degli scienziati, dei ricercatori e dei tecnici. L’attività di ricerca scientifica è tipicamente un’attività umana rivolta alla comprensione di un fenomeno naturale o sociale sulla base di una teoria che può essere considerata vera quando è corroborata da una riuscita sperimentazione.[20] La motivazione dello scienziato — da Galileo a Einstein — è la conoscenza, sebbene altri fattori, come la ricerca della fama o del guadagno, possano accompagnarsi alla motivazione prioritaria. Diverse considerazioni devono essere fatte per la scienza applicata, cioè la traduzione delle grandi scoperte scientifiche in tecnologie utilizzabili per fini pratici, in particolare per finalità produttive. In questo caso, l’avanzamento della conoscenza è, prima di tutto, motivato dalla ricerca della profittabilità. In alcuni casi (come per Thomas Edison e Bill Gates), è l’innovatore stesso a diventare imprenditore. In altri casi, innovatore ed imprenditore sono figure distinte. Nell’impresa moderna, è sempre più frequente questa distinzione, con l’istituzione di centri di ricerca interni all’impresa.
I limiti della crescita vanno, dunque, individuati nelle modalità con cui vengono organizzati i reciproci rapporti di questi tre soggetti sociali.
 
5. Beni economici, beni ecologici e sostenibilità dell’economia.
 
Al fine di chiarire la nozione di sviluppo sostenibile e rendere operativo questo concetto fissando dei limiti istituzionali all’attività economica, concentriamo ora la nostra attenzione sui rapporti tra i soggetti economici e gli scienziati, lasciando al paragrafo seguente il compito di discutere più a fondo i rapporti con la politica. Gli scienziati della natura e alcuni scienziati sociali hanno sollevato per primi, e continuano a sollevare, il problema dei limiti che le attività umane stanno valicando, mettendo in pericolo la vita sulla Terra. La loro attività di ricerca li porta a scorgere problemi che chi è impegnato in altre attività o non vede del tutto o sottovaluta.
L’attività economica è rivolta ad altri scopi. Chi agisce nel mercato non cerca la verità e non cerca il potere politico (sebbene la notorietà per una scoperta scientifica o la ricchezza economica possano facilitare la conquista del potere politico). I soggetti che agiscono nel mercato hanno come scopo prioritario un guadagno personale. Il mercato è l’istituzione che consente lo scambio di merci e servizi tra individui e imprese. Con la formazione del mercato di concorrenza e dei primi centri di produzione industriale, sono sorti anche i primi sistemi teorici dell’economia politica, come il mercantilismo, la fisiocrazia e la dottrina classica. Consideriamo brevemente come questi sistemi di pensiero abbiano concepito i rapporti tra attività economica e risorse naturali.
Il sistema economico classico ha delineato le caratteristiche fondamentali dell’economia teorica contemporanea. Le merci prodotte devono essere richieste dai consumatori. I beni economici soddisfano una domanda che si esprime nel mercato (o domanda effettiva), dove i consumatori trovano i prodotti che possono soddisfare i loro bisogni. Le merci vengono prodotte, sulla base delle tecnologie conosciute, grazie all’iniziativa di imprenditori-capitalisti che anticipano i fondi necessari al pagamento dei salari e dei mezzi di produzione. Il compenso che spetta al capitalista è il profitto, ovvero la differenza tra il ricavo della vendita del prodotto e i costi, vale a dire i salari e il capitale anticipato. La relazione tra il sistema economico e le risorse naturali si manifesta quando esse diventano scarse, cioè quando si può pretendere un prezzo (o rendita) per il loro uso. In questo caso, come avviene per i terreni diventati scarsi in relazione alla domanda finale di prodotti agricoli, i proprietari fondiari possono pretendere una rendita. Pertanto, le risorse naturali entrano nel sistema economico solo se sono scarse ed appropriabili. Se non sono appropriabili e non hanno un prezzo positivo, non hanno alcuna rilevanza economica.[21] Ad esempio, il legname ottenuto da un bosco res nullius ed utilizzato per costruire una nave avrà un valore pari a zero. Il costo della nave dipenderà solo dal valore dei salari e degli altri strumenti di produzione impiegati come capitale.
L’economia neoclassica ha ricostruito su basi teoriche nuove l’edificio economico. La teoria della domanda venne fondata sull’utilità marginale, mentre la teoria del valore e della distribuzione venne fondata sul contributo dei fattori della produzione nel processo produttivo, ciascuno dei quali riceve un compenso pari al suo prodotto marginale. Inizialmente, i fattori della produzione presi in considerazione dagli economisti neoclassici erano tre — terra, lavoro e capitale — ma nel corso del secolo XX la teoria economica si è sempre più concentrata su una «funzione di produzione» composta unicamente da lavoro e capitale. Anche per questo, la teoria economica neoclassica si è trovata impacciata di fronte ai nuovi problemi ambientali. Sulla base della nozione di funzione di produzione e di una fiducia illimitata nella sostituibilità dei fattori e nel progresso tecnologico, si può essere ottimisti anche nei confronti dello sfruttamento delle risorse naturali scarse. Ad esempio, Robert Solow, dopo aver definito la sostenibilità come la possibilità di mantenere la medesima capacità produttiva in futuro, ipotizza «che sia sempre possibile sostituire maggiori inputs di lavoro, capitale riproducibile e risorse rinnovabili a minori inputs diretti di risorse date».[22] È su questa base che la teoria marginalistica della produzione può concepire la sostenibilità. Anche se Solow precisa giustamente che ciò richiede un «minimo grado di ottimismo», vale a dire la fiducia nel fatto che le risorse naturali scarse siano sostituibili, altrimenti l’economia funziona come un orologio con una carica limitata: prima o poi si arresterà. In questo caso, osserva Solow, non ha senso parlare di sostenibilità. Tuttavia, questo è proprio il caso a cui siamo interessati, cioè il pericolo che la vita biologica sulla Terra venga distrutta, il problema ecologico fondamentale. La vita biologica non è sostituibile. Una specie estinta è estinta per sempre. Si deve, dunque, prendere atto che la nozione di funzione di produzione, che si fonda sul contributo dei fattori produttivi sostituibili, quando include risorse non rinnovabili, descrive un modello di crescita economica non sostenibile.[23]
Al fine di meglio comprendere i limiti della teoria economica, classica e neoclassica, e del mercato, consideriamo ora la nozione cruciale di scarsità. I beni economici sono scarsi quando hanno un prezzo positivo. Ciò significa che i compratori sono disposti a rinunciare a una parte del proprio reddito per acquistarli. In questo caso può divenire conveniente per le imprese produrli. Le imprese producono questi beni o merci utilizzando altre merci con prezzi positivi e risorse naturali, il cui prezzo può essere zero se sono sovrabbondanti. Pertanto, quando alcune risorse naturali (terra, acqua, alberi, animali) fanno parte della proprietà di un imprenditore-capitalista, esse verranno trattate alla stregua degli altri strumenti di produzione: saranno considerate come parte del capitale da remunerare sulla base del saggio di profitto corrente. Ma questo trattamento delle risorse naturali soddisfa la finalità economica di una produzione efficiente e profittevole, non certo quella della conservazione dell’ambiente. Per quanto riguarda le risorse naturali non appropriabili con le attuali tecnologie (come un giacimento minerale nel fondo dell’oceano) oppure non appropriabili perché protette come bene pubblico (ad esempio, un parco), si deve osservare che esse non possono evidentemente essere considerate come un fattore della produzione e, pertanto, non entrano nella funzione di produzione. Il mercato è una istituzione la cui funzione è di soddisfare i bisogni dei consumatori al costo più basso possibile, grazie alla concorrenza tra le imprese. La funzione del mercato non consiste nell’assicurare né una equa ripartizione del reddito, perché i consumatori devono avere un reddito sufficiente per esprimere una domanda effettiva prima che la produzione avvenga, né la conservazione dell’ambiente.[24]
Va ora chiarito che la nozione di scarsità economica non va confusa con quella di scarsità ecologica. Un bene rilevante ecologicamente, come l’aria che respiriamo o l’acqua che beviamo, diventa scarso, per quanto riguarda il suo utilizzo, solo quando l’inquinamento lo rende dannoso per la salute umana o per la sopravvivenza di altre specie vegetali ed animali. Il concetto di scarsità ecologica è pertanto del tutto differente da quello di scarsità economica. La scarsità ecologica si riferisce alle proprietà fisiche o biologiche del bene, necessarie per conservare la vita di esseri umani, animali o vegetali. La scarsità economica riguarda la proprietà che ha il bene di fornire utilità. La scarsità ecologica non è necessariamente percepita come tale dai soggetti economici[25] (ad esempio, un certo inquinamento dell’acqua, sebbene non percepito dagli individui, è rivelato da complessi apparecchi scientifici ed analisi di laboratorio). Naturalmente, la scarsità ecologica può produrre effetti economici. L’inquinamento di una sorgente d’acqua la renderà inutile per soddisfare certi bisogni alimentari, mentre il prezzo delle altre acque minerali o di quelle purificate aumenterà. In altri casi, la scarsità ecologica non produrrà effetti economici. L’assottigliamento dello strato di ozono non è stato inizialmente percepito come dannoso né dai consumatori, né dai produttori di clorofluorocarburi.
Per superare il limitato punto di vista della teoria economica tradizionale, alcuni economisti hanno intrapreso l’esplorazione di un diverso approccio, quello dell’Economia ecologica, nel tentativo di fondare un campo di ricerca interdisciplinare il cui obiettivo esplicito è di studiare le relazioni esistenti tra ecosistemi e attività economiche. Questi sforzi hanno avuto un parziale successo, poiché l’economia ecologica è riuscita ad individuare alcune tecniche, come quella dei permessi negoziabili, che consentono ai governi di intervenire per limitare gli effetti inquinanti delle attività produttive umane.[26] Tuttavia, all’interno dell’economia ecologica, si è sviluppato un approccio antropocentrico che sta orientando la ricerca in una direzione illusoria. Poiché l’attività economica corrente e il pensiero economico che la giustifica non sembrano tenere in alcuna considerazione il rispetto dell’ambiente naturale, si tenta di includere il costo dell’inquinamento ambientale nel calcolo della ricchezza prodotta, nella speranza che l’uso «anti-economico» dell’ambiente possa frenare lo spreco delle risorse naturali. Si constata, ad esempio, che nel caso di un disastro ambientale, come la fuoruscita di petrolio da una nave, i costi del disinquinamento fanno aumentare il valore del PIL, mentre il benessere collettivo non è certamente aumentato. Questi economisti propongono di valutare i benefici economici che la collettività umana può trarre dai «servizi della natura». Come il capitale creato dalle attività produttive umane produce alcuni servizi (le case producono un servizio per più generazioni) così anche la natura produce servizi, che devono essere considerati un contributo alla ricchezza sociale. Tuttavia, sulla base di questo orientamento metodologico, a prima vista ragionevole, ci si imbarca in una impresa disperata, perché occorre tentare di dare una valutazione economica agli oceani, alle foreste tropicali e a tutte le specie che vi vivono, ai cieli e allo strato di ozono che protegge la vita sul Pianeta e (perché no?) anche al sistema solare, considerato che il Sole è indispensabile alla sopravvivenza della biosfera.[27]
Consideriamo come esempio la valutazione economica dello strato di ozono, che non ha un prezzo di mercato, ma che è fondamentale per la conservazione della vita sul Pianeta. Le prime vicende relative alla scoperta dei danni causati allo strato di ozono dai clorofluorocarburi ed ai tentativi di rimediare all’inquinamento della stratosfera risalgono agli anni Settanta, quando alcuni scienziati si resero conto degli effetti nocivi di questi gas. In seguito si intensificarono le ricerche per mostrare le conseguenze di un aumento dei raggi ultravioletti sulla catena alimentare oceanica, sul processo di fotosintesi delle piante e sull’uomo. Finalmente l’ONU riuscì a prendere alcuni provvedimenti per invertire la tendenza, anche se gli effetti negativi dell’inquinamento stratosferico non sono del tutto scongiurati e probabilmente continueranno a manifestarsi per tutto il secolo XXI.[28] Non sono dunque stati né il mercato, né gli economisti a segnalare l’inquinamento della stratosfera, ma gli scienziati della natura. E non è nemmeno servito dare una valutazione economica dello strato di ozono per mobilitare la comunità scientifica internazionale, l’opinione pubblica, i movimenti ecologisti e i governi. Per molti altri beni si deve constatare la medesima situazione. L’aria che si respira in molte città industriali è inquinata da polveri sottili. Ma nessuno se ne preoccupa, a meno che gli organi sanitari non ne rilevino la pericolosità. Non è, dunque, attraverso il meccanismo del mercato e della valutazione economica che si manifesta la «scarsità ecologica» (sarebbe più appropriato parlare di problema ambientale o di minaccia alla sopravvivenza). Il mercato è un meccanismo istituzionale adatto per segnalare la scarsità economica, cioè di beni che sono appropriabili e che hanno un prezzo. Lo strato di ozono non è appropriabile e non può avere un prezzo di mercato. Il mercato non segnala il valore (valore d’uso o valore di esistenza) di molti altri beni che pure sono indispensabili per l’esistenza della specie umana e di altre specie viventi.[29]
Gli economisti classici, in particolare Adam Smith, hanno compreso che il mercato di concorrenza è un’istituzione che può soddisfare con efficienza la domanda di beni e servizi quando è possibile ottenere un profitto dalla loro produzione. Tuttavia, essi hanno anche compreso che è vano attendersi dal mercato la produzione di quei beni «pubblici», come la difesa nazionale, il sistema della giustizia oppure la rete delle strade e dei porti, perché in questo caso solo un’autorità pubblica, il governo, può riscuotere le imposte necessarie al loro finanziamento e fornire questi beni ai cittadini. Nessun imprenditore lo farebbe. Oggi, dobbiamo considerare la difesa della vita sul Pianeta come un bene pubblico. La vita, in tutte le sue manifestazioni, deve essere considerata un bene pubblico intangibile, nel senso preciso che deve essere sottratta all’intervento manipolatorio e distruttivo della specie umana nei casi sfortunati in cui un bene ecologico diventa appropriabile e sfruttabile a fini economici. Il problema dei limiti ecologici dell’attività economica è, pertanto e prima di tutto, un problema di riforma del diritto di proprietà, non solo per gli individui, ma anche per gli Stati nazionali. L’umanità abita il Pianeta, ma non può considerare il Pianeta come una sua proprietà di cui «usa e abusa». La Terra non è il patrimonio comune della specie umana.[30] La vita sulla Terra è un bene che l’umanità deve conservare come «intangibile»: è un bene di cui si deve prendere cura, ma di cui non può disporre a suo piacimento. Siamo ospiti e non proprietari del Pianeta Terra.
Esistono tecniche di intervento più dirette ed efficaci di quelle proposte dagli economisti che intendono valutare i servizi naturali.[31] L’esperienza ha ormai dimostrato che sono gli scienziati che professionalmente si occupano dello studio della natura e dell’ambiente i più attenti «custodi» dei sistemi ecologici. Essi sono pertanto nella condizione di indicare i limiti all’azione distruttiva ed inquinante che l’umanità, nel corso del suo tentativo di emanciparsi dalla povertà, ha messo in atto, prima nei paesi industrializzati ed ora in quelli in via di industrializzazione. Di volta in volta, si tratterà pertanto di valutare quanta anidride carbonica può essere scaricata nell’atmosfera senza provocare l’effetto serra, quanta foresta tropicale deve essere conservata per salvare alcune specie minacciate di estinzione, ecc. Questi limiti devono venir recepiti in un piano mondiale delle attività produttive nel quale si adattano — o si cerca di adattare — le esigenze di crescita dell’economia mondiale ai vincoli ambientali. Non si tratta di intraprendere un cammino del tutto nuovo, ma di aggiornare e rendere operativo il tentativo già realizzato per conto dell’ONU, nel 1977, da un gruppo di esperti, sotto la guida dell’economista Wassily Leontieff,[32] che ha elaborato un modello economico multiregionale mondiale, fondato sulla metodologia dell’input-output analysis. È nel contesto di un piano mondiale delle attività produttive che ha senso porsi il problema di eventuali limiti alla crescita economica, di una maggiore sobrietà nei consumi e negli stili di vita, del risparmio energetico, della creazione di parchi naturali protetti, come beni pubblici globali, della ricerca di fonti energetiche rinnovabili, ecc. Il piano del 1977 va aggiornato per quanto riguarda i suoi aspetti tecnici, ma soprattutto vanno create le istituzioni politiche che possano garantire la sua realizzazione.
Prima di discutere del potere politico necessario alla realizzazione del piano ecologico mondiale, è opportuno affrontare il problema del ruolo del progresso tecnico. Ovviamente, la speranza di sopravvivenza dell’umanità in un Pianeta che ospiterà tra pochi decenni oltre 9 miliardi di individui, dipende moltissimo dal progresso delle tecnologie. È impensabile che si possa risolvere il problema senza qualche significativa innovazione sul fronte delle energie rinnovabili, del risparmio energico nei trasporti, del disinquinamento delle acque dolci e marine, ecc. Tuttavia, non solo non ci si deve illudere sui miracoli che le tecnologie future potranno realizzare riguardo ai problemi attuali, ma occorre anche superare l’atteggiamento di superiorità e di dominio che ha generato l’ideologia industrialistica. È vero che l’umanità ha lottato sin dalle sue lontane origini contro una natura ostile. Dall’età della pietra sino ai viaggi interplanetari, l’umanità ha cercato di superare i vincoli naturali con l’ingegno e le tecnologie. La rivoluzione industriale, in effetti, può essere considerata come l’impresa semi-divina di Prometeo liberato.[33] Tuttavia, se al progresso scientifico e tecnologico non è ragionevole porre alcun limite, perché è nella logica stessa di questa attività superare qualsiasi limite alla conoscenza, è necessario porre dei limiti all’uso che l’umanità fa delle sue conquiste intellettuali. In polemica con Bacone e la sua concezione della scienza come potere, Karl Popper osserva: «L’idea del dominio sulla natura è forse in sé stessa neutrale. Quando si tratta di aiutare il nostro prossimo in medicina o della lotta contro la denutrizione e la miseria, allora naturalmente accetto di buon grado il potere sulla natura che dobbiamo alla conoscenza. Ma l’idea del dominio sulla natura contiene spesso, temo, un altro elemento, la volontà di potere come tale, il desiderio di dominare. E l’idea di dominio non la posso vedere di buon occhio. È blasfema, sacrilega, tracotante. Gli uomini non sono dèi e dovrebbero saperlo: non domineranno mai la natura».[34] La denuncia di Popper di una concezione della scienza come strumento di dominio dell’umanità sulla natura deve essere estesa: gli Stati utilizzano la conoscenza umana e le tecnologie non solo come mezzi di dominio dell’umanità sulla natura, ma anche per sottomettere una parte dell’umanità, quella esclusa dalla tribù nazionale. La scienza può dunque servire come strumento di emancipazione dell’umanità e strumento del potere dell’uomo sull’uomo. È in questa prospettiva che occorre affrontare il problema della politica internazionale.
 
6. I limiti del potere: un mondo senza sovrani.
 
Nessuna società umana, per piccola che sia, può fare a meno di creare rapporti di potere al suo interno. Anche i piccoli gruppi di cacciatori e raccoglitori della savana, nell’età del paleolitico, dovevano accettare qualche forma di subordinazione ai comandi di un capo nelle fasi più difficili della caccia, quando il coordinamento dell’azione era necessario per raggiungere la preda ed abbatterla. Era poi inevitabile che si seguissero regole codificate nella spartizione del cibo. Rapporti gerarchici o di potere, nel senso preciso che qualcuno esercita l’arte del comando e gli altri ubbidiscono, sono assolutamente necessari alla coesione di società più numerose e complesse, sino alla formazione dei moderni Stati nazionali.
Nelle società umane, a differenza di quelle animali, compresi i primati non umani, i rapporti di potere sono fondati su archetipi culturali, come i miti, le credenze religiose, il culto degli avi o le moderne ideologie politiche. Nella misura in cui è possibile ricostruire la storia delle società antiche, come le civiltà del bacino del Mediterraneo, gli antichi imperi asiatici o quelli dell’America, si verifica che il potere politico si è fondato quasi sempre sulla fede religiosa. L’attribuzione al sovrano di poteri sovrannaturali conferiva grande stabilità alle cariche istituzionali, consentendo alla collettività di organizzare nel modo più efficiente la lotta per la sopravvivenza. Questo rapporto tra potere politico e potere divino si è perpetuato anche nello Stato moderno, sotto nuove forme. Nell’epoca del consolidamento degli Stati nazionali, Hobbes ha potuto affermare che il sovrano è «il Dio mortale». Tuttavia, dopo che l’emancipazione della società civile dal potere tradizionale si è spinta sino al punto di mettere fine all’ancien régime feudale, il potere politico ha dovuto cercare un nuovo fondamento ideologico. Lo ha trovato nel mito della nazione, una mistica unione culturale e di sangue tra i membri di una comunità politica la cui storia si perde nella notte dei tempi (in Europa, di solito la notte dei tempi risale al Medioevo). Il mito dello Stato nazionale sovrano si è talmente radicato negli animi delle società contemporanee, che in suo nome è stato possibile, e lo è ancora, chiedere alle masse di immolarsi sui campi di battaglia oppure organizzare campi di sterminio contro «razze» o «etnie» nemiche. L’appartenenza alla nazione è percepita come uno stato di natura o un’eredità biologica. La nazione è un mito che plasma i caratteri e giustifica la convinzione che un essere umano sia del tutto differente (sino alla superiorità razziale) da altri esseri umani. Il nazionalismo è l’ideologia dello Stato nazionale sovrano, che non riconosce alcun potere al di sopra di sé.[35]
Nella politica contemporanea, il mito dello Stato nazionale sovrano giustifica l’esistenza di un ordine internazionale anarchico, dove numerose entità sovrane convivono senza riconoscere alcuna legge che limiti i loro poteri, in particolare il potere di fare la guerra. L’ordine anarchico internazionale è attenuato solo dal fatto che la sovranità assoluta di ogni Stato è limitata dal potere di qualche altro Stato ancora più forte. Pertanto, la realtà internazionale si struttura come un ordine egemonico, ma con forti tendenze all’anarchia nella misura in cui l’ordine egemonico viene contestato dalle altre piccole e medie potenze in alleanza tra di loro. La dottrina del realismo politico, il punto di vista maggiormente condiviso dagli studiosi delle relazioni internazionali, riconosce questa realtà, ma non riesce a proporre i rimedi necessari al superamento della situazione di anarchia, perché assume come una realtà eterna e indiscutibile lo Stato nazionale sovrano.[36]
Il punto di vista che qui utilizzeremo, per individuare le istituzioni politiche mondiali necessarie affinché l’umanità possa progettare e rendere esecutivo un efficace piano per lo sviluppo sostenibile, si richiama alla tradizione del realismo politico, ma rifiuta il mito dello Stato nazionale sovrano. Questo pensiero politico risale, per alcuni aspetti, agli autori del Federalist, che per primi hanno teorizzato la possibilità di superare l’anarchia tra Stati indipendenti e sovrani grazie alla creazione della prima federazione della storia, gli USA. Ma, poiché la Federazione americana si è a sua volta affermata nella politica mondiale come uno Stato sovrano, la tradizione del federalismo americano è poco compresa e studiata. Solo in Europa, nel corso della seconda guerra mondiale, il federalismo si è affermato, sebbene parzialmente, come un progetto sovranazionale, come alternativa alla situazione di guerra e di anarchia creata dalla lotta mortale tra gli Stati nazionali europei.
È nella prospettiva del superamento della sovranità assoluta degli Stati nazionali, grazie alla costruzione di un governo federale sovranazionale, che è possibile concepire un coerente progetto politico per un futuro sostenibile dell’umanità. La storia insegna che una situazione di anarchia può essere superata con l’adozione di una costituzione civile da parte di una comunità politica. Lo Stato moderno si è formato sulla base del costituzionalismo come movimento e come pensiero politico. La stessa via deve essere seguita nelle relazioni internazionali. Il superamento dell’anarchia internazionale richiede una Costituzione cosmopolitica che stabilisca quali poteri sono necessari per governare i processi mondiali e quali poteri possono rimanere al livello nazionale. La libertà e l’indipendenza dei popoli nazionali possono essere garantite dal diritto. L’integrazione sovranazionale è la sola alternativa ragionevole al disordine internazionale e alla guerra.[37]
Il governo sovranazionale deve elaborare una politica ecologica che regoli i rapporti inter-specifici tra gli esseri umani e le altre specie viventi. I rapporti tra la pace, la lotta alla povertà e la salvaguardia dell’ambiente vanno discussi congiuntamente. L’abolizione della situazione di anarchia tra Stati nazionali sovrani — una situazione che consente di ricorrere alla guerra come un mezzo legittimo (la guerra giusta) per la soluzione delle controversie internazionali — rappresenta la questione cruciale, il presupposto stesso della realizzabilità delle altre politiche. Il diritto internazionale attuale riconosce il diritto alla guerra ad ogni Stato, ma non garantisce il diritto alla pace ai popoli. Deve, dunque, essere profondamente riformato. Il diritto è incompatibile con l’uso della forza come strumento per l’autoaffermazione della volontà di potenza. È necessario un ordinamento giuridico in cui gli Stati sovrani cedano ad una autorità mondiale democratica il potere di garantire la pace tra le nazioni. Un ordinamento simile si sta già realizzando tra le nazioni europee. L’Unione europea non possiede ancora tutti i poteri tipici di una federazione, ma garantisce già la gestione pacifica di numerose politiche comuni, grazie alla creazione di una Corte di giustizia, di un Parlamento europeo e di una Commissione, quale esecutivo dell’Unione.
A livello mondiale, tuttavia, la questione della costituzionalizzazione delle relazioni internazionali è più complessa. L’elevato grado di differenziazione tra le società nazionali — con le loro millenarie tradizioni, le differenti religioni, la varietà di regimi politici e, soprattutto, l’ineguale stadio di sviluppo economico — rende molto più difficile, nella fase attuale del processo storico, l’istituzione di un governo federale mondiale, accettabile da tutti i popoli del Pianeta. Eppure, per quanto sia difficile trovare una soluzione, il problema della guerra e della pace deve essere affrontato e risolto se si vuole progettare un’efficace politica ecologica su scala mondiale. La costante minaccia di guerra costringe i governi nazionali a considerare come prioritario il problema della sicurezza nazionale, che nell’età dell’energia atomica e delle armi di distruzione di massa, comporta la concentrazione di enormi risorse, economiche e militari, nelle mani del potere politico, che le deve prontamente utilizzare. La questione ambientale non può, dunque, entrare a far parte delle priorità dei governi. Le politiche ecologiche hanno un carattere preventivo. Spesso si tratta di prevenire catastrofi che potranno avvenire nei prossimi decenni o nei prossimi secoli. Il terrorismo internazionale o la minaccia di guerra sono incombenti. Gli elettori sono chiamati a votare per un governo che dura in carica pochi anni e che sarà indotto a scaricare sui governi successivi la responsabilità di decisioni impopolari per avvenimenti che si manifesteranno in un futuro remoto. La voce di coloro che intendono difendere la natura viene dunque facilmente tacitata quando la sicurezza nazionale è in pericolo. Nessuno Stato nazionale si assumerà mai la responsabilità di considerare la sopravvivenza della specie umana e della biosfera come una priorità. Il diritto alla vita sulla Terra o verrà garantito da un’autorità di governo mondiale o resterà una vaga speranza.
Il secondo grande problema che deve risolvere una politica ambientale mondiale è quello della povertà. Il problema ecologico è talmente intrecciato a quello del superamento del divario di ricchezza tra paesi ricchi e poveri che è impossibile pensare di poterli affrontare separatamente. Si impongono e si imporranno sempre più delle scelte tragiche. Le tecnologie e le pratiche produttive utilizzate dai paesi in via di sviluppo, come la Cina, l’India, il Brasile e i paesi africani, sono un retaggio dell’industrializzazione europea e nord-americana. Inoltre, i tassi di crescita della popolazione in questi paesi hanno provocato un’urbanizzazione caotica oltre che la devastazione dell’ambiente naturale. Questi problemi ambientali locali, per la loro rilevanza, assumono una dimensione globale. Le foreste tropicali albergano la maggior parte delle specie viventi, la cui densità territoriale massima si concentra intorno all’equatore. La disparità di ricchezza mondiale rende molto difficile individuare una politica ambientale che sia, contemporaneamente, efficace ed equa. Consideriamo, ad esempio, una politica per la riduzione di anidride carbonica nell’atmosfera, per combattere l’effetto serra. Se risultasse necessario ridurre della quantità totale X le emissioni di CO2, si potrebbe dividere la grandezza X per il volume di produzione (PIL) di ogni paese. Ma, in questo caso, un paese africano con un reddito pro-capite ai limiti della sopravvivenza, e con tassi di inquinamento molto limitati, dovrebbe fare lo stesso sforzo, in termini percentuali, del paese più ricco ed inquinante del mondo, gli USA. Un secondo criterio potrebbe essere quello di dividere l’ammontare totale X per la popolazione mondiale e poi assegnare ad ogni paese l’obiettivo di una riduzione x pro-capite. In questo caso, un paese molto popoloso come l’India o un continente come l’Africa si vedrebbero assegnata una quota molto superiore al proprio tasso di inquinamento, mentre gli USA avrebbero a disposizione una quota molto inferiore al loro tasso di inquinamento. Si potrebbe ovviare a questo inconveniente se l’India e l’Africa vendessero agli Stati Uniti dei permessi negoziabili (tradable permits). In questo caso, si realizzerebbero anche importanti trasferimenti di ricchezza dai paesi ricchi verso quelli poveri. Ma i paesi ricchi, per ora, non sono disposti ad accettare questa drastica imposizione. Un’ulteriore politica ambientale potrebbe consistere nell’introdurre una tassa sulle emissioni di CO2, ma anche in questo caso la tassa colpirebbe nella stessa misura percentuale le produzioni di paesi poveri e ricchi, i quali hanno ovviamente differenti livelli di reddito pro-capite e differenti capacità di sostituire tecnologie pulite a quelle più inquinanti. Si dovrebbe, inoltre, risolvere il problema dell’utilizzazione degli introiti della tassa, che potrebbe confluire in un bilancio mondiale. La destinazione di questi fondi non è definibile a priori. Potrebbero essere usati per la ricerca di tecnologie meno inquinanti, oppure per piani di investimenti in infrastrutture pubbliche dei paesi del Terzo mondo, per accelerare la loro crescita economica.[38] È impossibile risolvere questi problemi senza un’autorità di governo mondiale che alimenti un dibattito pubblico grazie ad istituzioni democratiche che favoriscano la formazione di una volontà collettiva. In assenza di un governo democratico mondiale è inevitabile che gli orientamenti cruciali della politica ecologica internazionale vengano decisi dai paesi più forti militarmente ed economicamente. E non è detto, per le ragioni discusse in precedenza, che le decisioni finali tengano in giusta considerazione sia lo sviluppo sostenibile, sia l’equa ripartizione della ricchezza mondiale.
L’ultimo problema che occorre affrontare riguarda la istituzionalizzazione del diritto alla vita sulla Terra, mediante delle norme che rendano possibile ed efficace uno sviluppo sostenibile. In breve, si tratta di delineare le istituzioni necessarie per garantire la coabitazione della specie umana con le altre specie viventi. La storia plurisecolare del costituzionalismo ha mostrato che l’originario potere assoluto del sovrano può essere limitato applicando il principio della divisione dei poteri. Il problema costituzionale che va risolto per garantire un effettivo diritto alla vita sulla Terra è, tuttavia, differente. In questo caso, va limitato il potere assoluto della specie umana di distruggere le altre forme di vita sul Pianeta, in una situazione in cui le conoscenze scientifiche non ci consentono di prevedere con precisione quali saranno le conseguenze di lungo periodo di un crescente inquinamento.
Gli animali e le piante non possono ovviamente difendere il proprio diritto alla vita. È responsabilità degli esseri umani farsi carico della loro sopravvivenza. Il principio di responsabilità si deve dunque tradurre in una limitazione del potere di inquinare e di uccidere.[39] L’umanità deve considerarsi la custode della vita sul Pianeta. La soluzione di questo problema richiede una maggiore attenzione da parte della politica alle indicazioni degli scienziati e della società civile che si mobilita a difesa dell’ambiente. Pertanto, l’ordine internazionale deve consentire che gli orientamenti politici, sostenuti dall’opinione pubblica mondiale e recepiti nei legittimi organismi mondiali, vengano tradotti in un Piano mondiale per lo sviluppo sostenibile e in una legislazione internazionale che deve essere rispettata sia dagli individui che dagli Stati. Si deve, inoltre, prevedere la creazione di un nuovo organo costituzionale: un Consiglio mondiale[40] per lo sviluppo sostenibile, composto da scienziati della natura, scienziati sociali e organizzazioni ambientaliste. La funzione del Consiglio è quella di intervenire nella formulazione del Piano mondiale per lo sviluppo sostenibile, la cui realizzazione sarà affidata all’Esecutivo democratico mondiale (o governo mondiale). Il Consiglio per lo sviluppo sostenibile non deve possedere poteri di ultima istanza, perché la politica non può rinunciare al suo ruolo e alle sue responsabilità. I destini del mondo non possono essere affidati ad una tecnocrazia. Ma la voce degli scienziati e delle organizzazioni ambientaliste deve essere ascoltata sia nella fase preliminare di formazione del Piano per lo sviluppo sostenibile, sia nella fase di approvazione. Il Consiglio deve avere il potere di respingere (una sola volta) il Piano, motivando la propria decisione, nel caso venissero incluse misure palesemente in contrasto con la conservazione della vita sulla Terra. Il compito prioritario del Consiglio è di fissare dei «limiti» allo sfruttamento dell’ambiente. Naturalmente, l’ultima parola deve spettare alla politica. È inevitabile che la specie umana si trovi a dover scegliere tra alternative drammatiche, come l’accrescimento del proprio benessere oppure il rallentamento della crescita economica, un risparmio forzato di energia inquinante, la rinuncia ad alcune tecnologie pericolose, la drastica protezione di alcune specie minacciate di estinzione, ecc. La responsabilità scaturisce dalla possibilità di scelte libere che possono condurre in direzioni diverse e contrastanti. L’umanità ha una storia perché individui e popoli del passato sono stati capaci di compiere scelte responsabili. Queste scelte erano in gran parte motivate dall’istinto di sopravvivenza. L’umanità avrà un futuro se non subirà la tirannia della tecnologia e delle istituzioni da lei stessa prodotte.
In un mondo governato da una Costituzione cosmopolitica non vi sarà alcun sovrano, salvo il corpo legislativo legittimato a emendare la Costituzione. I governi nazionali dovranno cedere parte dei loro poteri ai livelli superiori di governo, a Federazioni continentali o all’ONU, trasformato in una Federazione di grandi Stati continentali. Ma anche il governo mondiale non potrà considerarsi un sovrano assoluto, perché dovrà ascoltare i consigli prudenziali degli scienziati e attuarli in un Piano per lo sviluppo sostenibile.
 
7. L’ecologia come scienza dello sviluppo sostenibile.
 
Le scienze storico-sociali si sono formate nell’età moderna, a partire dal Rinascimento, quando si sono comprese la diversità e la storicità dei vari raggruppamenti della famiglia umana dispersi nei vari continenti. La realtà sociale viene indagata con criteri scientifici, sulla base di tipologie, di modelli e di teorie che pretendono di avere una base empirica. Fondamentale, per le scienze sociali, che si differenziano dunque dalla filosofia, è l’individuazione di punti di vista specifici con i quali osservare l’azione degli individui in società. Sotto questo aspetto, l’economia e la politica rappresentano due punti di vista privilegiati, poiché le istituzioni economiche e politiche si sono consolidate e ben differenziate tra di loro sin dall’inizio dell’età moderna. L’azione degli individui è difficilmente definibile, se non in termini astratti, se esaminata al di fuori del contesto istituzionale nel quale l’individuo agisce. Non esiste l’Homo economico, ma individui che operano nel mercato. Non esiste l’Homo politico, ma individui che lottano per conquistare il potere all’interno dello Stato. Naturalmente, economia e politica non esauriscono l’universo delle scienze storico-sociali. Le altre discipline, come la sociologia, la psicologia, l’antropologia, l’urbanistica, la pedagogia ecc. hanno ciascuna un proprio specifico oggetto di studio. Ma quasi nessuna di queste discipline può fare a meno di definire anche i suoi rapporti con il contesto economico-politico in cui agiscono i soggetti da essa studiati.
Se ora tentiamo di dare una risposta alla questione che ci siamo posti all’inizio, cioè se l’ecologia può diventare una scienza storico-sociale, la risposta deve essere positiva, anche se l’oggetto di studio di questa disciplina «umanistica» ha un significato più ristretto dell’uso ormai comune del termine ecologia come «scienza degli ecosistemi», il cui approccio resta fondamentalmente interdisciplinare. La giustificazione di uno studio del comportamento umano come «ecologico» dipende dal fatto che si individui uno specifico punto di vista col quale analizzare l’azione umana. Le scienze storico-sociali già consolidate studiano relazioni interindividuali, cioè il modo in cui diversi individui regolano i loro rapporti in società. L’ecologia come scienza storico-sociale pretende di divenire la scienza della sostenibilità dello sviluppo umano. Essa deve dunque indagare i comportamenti degli individui nei confronti della natura: come gli individui sfruttano le risorse naturali, come provvedono alla loro riproduzione e conservazione, come la società umana si organizza per regolare al meglio i rapporti con le altre specie viventi. Alcuni ecologisti, che hanno tentato di mettere a fuoco il particolare punto di vista dell’ecologia, sostengono che l’Homo ecologico dovrebbe avere «una relazione personale emotiva e razionale verso la natura e una responsabilità morale verso le generazioni future».[41] Sulla base dell’approccio ecocentrico allo sviluppo sostenibile, possiamo affermare, più semplicemente, che è sostenibile quel comportamento umano che non mette in pericolo la sopravvivenza di altre specie animali e vegetali, incluso ovviamente l’ambiente o ecosistema indispensabile alla loro riproduzione.
Si può tentare di andare al di là di questa generale definizione del comportamento ecologico. I tentativi, da parte di alcune scienze storico-sociali, come l’antropologia e la psicologia, di definire una netta linea di demarcazione tra natura e cultura o tra innato e appreso nell’evoluzione umana, sia negli individui (ontogenesi) che nella specie (filogenesi), non sono approdati ad alcun risultato apprezzabile. Anzi, si sta diffondendo sempre più la convinzione che queste distinzioni debbano essere abbandonate. Si può affermare che gli esseri umani hanno una particolare dotazione genetica che consente loro di vivere e svilupparsi sulla base di una propria cultura. Gli umani sono esseri naturalmente culturali. Secondo alcuni antropologi, la specifica capacità cognitiva umana consiste nel «comprendere i conspecifici come agenti mentali al pari di sé», come dimostra lo sviluppo cognitivo di un bambino paragonato a quello degli altri primati non umani.[42] L’ecologia come scienza storico-sociale deve dunque cercare di focalizzare la propria attenzione sulla formazione dei processi culturali (i miti, le religioni, le prime istituzioni socio-politiche come la tribù, i riti di iniziazione alla caccia, ecc.) che consentono di comprendere come l’umanità abbia concepito i suoi rapporti con la natura, come queste primitive forme di cultura siano mutate nel corso della storia e quale cultura della natura sia necessaria, oggi, per organizzare comportamenti sostenibili. L’approccio delle scienze cognitive è sotto questo aspetto utile, ma rappresenta solo un punto d’avvio. La comprensione degli altri conspecifici come agenti mentali al pari di sé consente di spiegare l’evoluzione mentale del bambino nei confronti degli adulti, ma è ovvio che le specie animali e vegetali non possono essere considerate agenti mentali al pari di sé. Vi è qui un problema di asimmetria cognitiva, poiché le funzioni cognitive di animali e vegetali differiscono, anche se lungo una scala infinita, rispetto a quelle umane. È dall’asimmetria cognitiva che nasce il problema della responsabilità.
Vi sono due vie, tra di loro non concorrenti, ma complementari, attraverso le quali si può manifestare e consolidare un comportamento ecologico. La prima è la via dell’educazione, vale a dire la diffusione capillare della conoscenza. Le indagini degli antropologi, dei paleontologi, dei biologi e di numerosi scienziati della natura hanno consentito di ricostruire, con una accuratezza crescente, le origini della specie homo sapiens, a partire dalla separazione dei primi ominidi dagli altri primati non-umani, sino alla storia antica, che possiamo conoscere con maggiore precisione grazie ai documenti scritti conservati. La ricostruzione della progressiva emancipazione dell’umanità dall’ambiente naturale, grazie alle tecniche primitive della caccia e della pesca e, successivamente, dell’agricoltura e dell’allevamento, consente di meglio comprendere come l’attuale posizione di predominio della nostra specie si sia potuta affermare, come si siano realizzati i primi successi per quanto riguarda la lotta per la sopravvivenza, ma anche quali ne siano stati i costi in termini di distruzione dell’ambiente.[43]
La consapevolezza della necessità di conservare e rispettare l’ambiente naturale non deve, tuttavia, generare l’illusione che si possa risolvere il problema ecologico solo attraverso l’educazione. Lo sviluppo delle religioni, dell’etica e delle istituzioni civili non ha eliminato la delinquenza. La polizia e i tribunali continuano ad essere necessari per fare rispettare le leggi. Una politica ecologica efficace richiede che si assegnino poteri legislativi ed esecutivi ad un’autorità politica mondiale, perché anche gli Stati nazionali possono comportarsi come «delinquenti» (il termine di Rogue State è del resto già entrato nel linguaggio della politica internazionale). La seconda via è dunque quella delle riforme, mediante la creazione di istituzioni, a tutti i livelli, dal piccolo villaggio sperduto sui monti al governo mondiale, che definiscano i limiti di tolleranza delle attività umane sull’ambiente e la legislazione che deve essere osservata da ogni individuo e da ogni governo affinché uno sviluppo sostenibile diventi possibile. Il comportamento ecologico emergerà nel corso del tempo nella misura in cui gli individui interiorizzeranno comportamenti «sostenibili» verso l’ambiente e nuove norme giuridiche regolamenteranno, eventualmente sostenute da sanzioni contro i crimini ambientali, le attività sociali, in particolare quelle industriali e commerciali, suscettibili di produrre guasti ambientali.
L’evoluzione del comportamento individuale, indotta dall’educazione e dalla diffusione di una cultura ambientale sempre più condivisa, consentirà l’affermazione di nuovi modelli di consumo sostenibile. Questi modelli di consumo, a loro volta, condizioneranno anche l’attività delle imprese, che saranno indotte, senza eccessive costrizioni legislative, a programmare produzioni pulite o, comunque, poco inquinanti. Il mutamento dei modelli di consumo richiede un dibattito intenso e prolungato su scala mondiale. Non bisogna dimenticare che molti guasti ambientali, come la distruzione delle foreste tropicali, sono indotti dalla domanda di legnami pregiati da parte dei popoli più ricchi. Sono, inoltre, questi popoli che mettono a rischio alcune specie a causa delle loro tradizioni alimentari. Ad esempio, i popoli del Nord-Europa e i giapponesi continuano a cacciare le balene, minacciando l’estinzione di alcune specie. Se la caccia alla balena non potrà essere arrestata con appelli alla ragione ed all’autocontrollo, è necessario intervenire con una legislazione internazionale che imponga severe ammende ai trasgressori, siano essi individui, imprese oppure governi nazionali. Va poi promossa una rivoluzione della cultura urbanistica. La città medioevale era, sotto molti aspetti, sostenibile, poiché le sue attività artigianali erano integrate a quelle della campagna circostante, con la quale viveva in simbiosi. La città moderna si è disumanizzata, con quartieri dormitorio giganteschi, con distretti commerciali che alla notte si spopolano, e con attività lavorative sempre più alienanti, perché privano i cittadini delle grandi metropoli del rapporto quotidiano con la natura. Occorre ritornare alla comunità di villaggio, inserita nell’ambiente naturale. La città sostenibile è un insieme di villaggi. La nuova città richiede non solo un profondo rinnovamento dell’urbanistica, che deve diventare la scienza dell’habitat umano nella natura, ma anche una riforma dei poteri locali di governo del territorio.
Complessa e difficile sarà la creazione di parchi naturali che garantiscano la conservazione della biodiversità, specialmente nella zona tropicale, dove sopravvive il maggior numero di specie animali e vegetali. In questi casi è in discussione il diritto di proprietà su beni «nazionali». La difesa della biodiversità dipende dalla creazione di beni pubblici intangibili, che solo un’autorità di governo mondiale può garantire. L’istituzione di parchi protetti è urgente. La creazione di grandi parchi naturali, difesi e amministrati dalle popolazioni locali, è la forma più semplice e immediata per garantire la biodiversità. Ma si scontra con la volontà delle popolazioni locali di raggiungere i livelli di vita e di benessere dei popoli più ricchi e la cattiva disposizione di questi ultimi a sostenere i costi della protezione ambientale, con opportuni indennizzi alle popolazioni locali. Si calcola che il costo globale per la difesa della biodiversità ammonti a un millesimo del reddito mondiale.[44] Il governo sovranazionale mondiale si deve assumere la responsabilità della catastrofe ambientale: deve informare i cittadini del mondo dei costi e dei possibili rimedi. Si tratta di finanziare politiche meno costose della tazza di caffé che i cittadini dei paesi ricchi consumano giornalmente.
Lo sviluppo sostenibile può divenire una priorità solo nel contesto di un progetto politico mondiale che si proponga di mettere al bando la guerra e la povertà. I cittadini del mondo devono prendere coscienza del fatto che la salvaguardia della vita sulla Terra è una loro precisa responsabilità e che devono affrontare questo problema con la stessa determinazione e passione che dedicano al governo della loro città o della loro nazione. Il Pianeta Terra è la nostra patria maggiore. Se mettiamo a rischio i fragili equilibri della biosfera, anche la patria più piccola, in cui sono radicati i nostri più intimi affetti, non sopravviverà.


[1] E.O. Wilson, The Future of Life, New York, Alfred A. Knopf, 2002; trad. it. Il futuro della vita, Torino, Codice edizioni, 2004, p. 42.
[2] Questa definizione è tratta da Atlas zur Ökologie, München, Deutscher Taschenbuch Verlag, 1994; trad. it. Ecologia, Milano, Hoepli, 1996, p. 54. Come scienza degli ecosistemi, l’ecologia si colloca a fianco delle altre scienze della natura, come la biologia, la fisica, la chimica, la geologia, ecc. Ma non è la scienza della natura, nel senso che essa può fornire una spiegazione universale dei fenomeni naturali, inclusa la specie umana. Ogni scienza, per definizione, si propone di spiegare solo alcuni aspetti della realtà. Inoltre, la natura ha una propria storia, ben più estesa nel tempo di quanto non sia la storia della specie umana e che continuerà anche se la specie umana dovesse estinguersi. Non esiste, pertanto, se non nella nostra immaginazione, una natura eterna e immutabile, rappresentabile mediante un modello stazionario, che si riproduce senza significative variazioni. La natura muta in continuazione, non solo a causa delle attività umane.
[3] Ho tentato di definire un comportamento «cognitivo-critico», tipico della specie umana, nei confronti del semplice comportamento evolutivo di tutti gli altri esseri viventi, in Ecologia e federalismo. La politica, la natura e il futuro della specie umana, Ventotene, Istituto di studi federalisti «Altiero Spinelli», 2004.
[4] Molti ecologisti riconoscono che il problema ecologico non può essere affrontato al di fuori del quadro istituzionale. Per questo, una crescente attenzione è dedicata al ruolo che le istituzioni possono svolgere nel formare e condizionare i comportamenti individuali. Questi studi hanno consentito di criticare e mostrare i limiti dell’approccio economico neoclassico, fondato su un modello di interazione tra individui nel quale le istituzioni svolgono un ruolo del tutto marginale. Tuttavia, anche l’orientamento più esplicitamente istituzionale, ispirato al costruttivismo sociale, sottovaluta la funzione dello Stato come istituzione collettiva, che detiene il monopolio della forza coercitiva, verso l’interno e l’esterno. Si corre così il rischio, come in effetti avviene quando si prende genericamente in considerazione l’uomo sociale (social man), di ignorare il ruolo negativo degli Stati nazionali sovrani nelle politiche ambientali. L’ambiente non può divenire un bene pubblico globale perché gli Stati nazionali pretendono di conservare una sovranità assoluta sul proprio territorio e sulle risorse ambientali interne. Nella prospettiva sociologica del costruttivismo, la distinzione tra cooperazione internazionale e governo sovranazionale dell’ambiente non emerge nemmeno. Per una discussione interessante di questi problemi, ma purtroppo limitata dall’orizzonte nazionale, si veda A. Vatn, «Rationality, Institutions and Evironmental Policy», in Ecological Economics, n. 55, 2005, pp. 203-17.
[5] Gli ecologisti e gli antropologi riconoscono che esiste un rapporto stretto tra comportamenti individuali ed istituzioni. Ad esempio, Emilio Moran sostiene che «i valori e gli orientamenti sono molto importanti nel plasmare le scelte individuali. Sembra che un comportamento compatibile con l’ambiente si manifesti alla fine di una lunga catena causale riguardante sia fattori individuali che esterni» (E.F. Moran, People and Nature. An Introduction to Human Ecological Relations, Oxford, Blackwell, 2006, p. 35).
[6] World Commission on Environment and Development, Our Common Future, Oxford, Oxford University Press, 1987, p. 8.
[7] World Commission on Environment and Development, Ibidem.
[8] Uno studio recente (P-M. Boulanger and T. Bréchet, «Models for Policy-making in Sustainable Development: The State of the Art and Perspectives for Research», in Ecological Economics, n. 55, 2005, pp. 337-350) indica cinque criteri metodologici della sostenibilità. Il primo requisito riguarda la necessità di un approccio interdisciplinare. È, infatti, necessario che scienziati sociali e scienziati della natura lavorino fianco a fianco per stabilire come un certo territorio e certi ecosistemi vengono alterati dall’intervento umano. Un secondo requisito riguarda la valutazione dell’incertezza inerente ad alcune relazioni ed alcune variabili che, inevitabilmente, dipendono da fattori imponderabili sulla base delle conoscenze scientifiche disponibili. Il terzo requisito riguarda la previsione di lungo periodo, perché il concetto di sostenibilità implica una valutazione delle conseguenze delle politiche attuali sulle generazioni future. Il quarto criterio concerne il rapporto tra l’impatto del provvedimento al livello locale e quello su scala più ampia, al livello globale. Moltissime attività umane, si pensi ad attività generatrici di gas ad effetto serra, hanno infatti un impatto sulla biosfera che deve essere preso in considerazione anche se la regione in cui viene prodotto l’inquinamento ne resta immune. Infine, ma non meno importante, è la necessità di valutare le conseguenze dell’intervento politico sulle popolazioni (i soggetti interessati o stakeholders), coinvolgendole nella misura del possibile nel progetto, esplicitando gli obiettivi e i mezzi necessari al loro perseguimento. Sarà poi compito dell’équipe di scienziati sociali mettere a punto il modello, o i modelli, necessari a considerare l’insieme interdipendente di queste variabili per fornire le indicazioni quantitative necessarie alla decisione dei governi interessati.
[9] Si veda in proposito la rassegna di B. Hopwood, M. Mellor and G. O’Brien, «Sustainable Development: Mapping Different Approaches», in Sustainable Development, vol. 13, 2005, pp. 18-52, nella quale si discutono le varie nozioni di sviluppo sostenibile difese da differenti gruppi, organizzazioni e schieramenti politici. L’approccio antropocentrico ha generato una lunga serie di ambiguità al suo interno, a partire dalla vaga nozione di bisogni intergenerazionali. La confusione attuale rischia di screditare l’idea stessa di sviluppo sostenibile, tanto che si comincia a proporre una fase «post-sostenibilità» (cfr. M. Radclift, «Sustainable Development (1987-2005): An Oxymoron Comes of Age», in Sustainable Development, vol. 13, 2005, pp. 212-227).
[10] Si veda in proposito la rassegna di una serie di studi su questi problemi in H.R.J. Vollebergh and C. Kemfert, «The Role of Technological Change for Sustainable Development», in Ecological Economics, n. 54, 2005, pp. 133-147.
[11] B. Lomborg, The Skeptical Environmentalist, Cambridge, Cambridge University Press, 2001; trad. it. L’ambientalista scettico, Milano, Mondadori, 2003, p. 336 e p. 357.
[12] Ad esempio in B. Hopwood et al., op. cit., p. 46, si afferma che «James O’ Connor ha lanciato la rivista Capitalism, Nature, Socialism, nel 1988, per sostenere la tesi di ‘una seconda contraddizione’ del capitalismo che collega l’ambiente e le crisi sociali in una visione materialistica e di analisi di classe».
[13] Secondo la Banca mondiale (World Bank, World Development Report 2004: Making Services Work for Poor People, 2004, pp. 2-3) l’obiettivo di dimezzare la popolazione mondiale che vive al di sotto della soglia di povertà di un dollaro al giorno sta per essere raggiunto grazie alla industrializzazione della Cina e dell’India. In Africa, al contrario, un continente dove il decollo industriale non è ancora avvenuto, il numero dei poveri è quasi raddoppiato nell’ultimo ventennio.
[14] Si veda H.E. Daly, Beyond Growth. The Economics of Sustainable Development, Boston, Beacon Press, 1996, in particolare l’Introduzione.
[15] G.O. Carvalho, «Sustainable Development: Is It Achievable within the Existing International Political Economy Context?», in Sustainable Development, vol. 9, 2001, pp. 61-73, cit. a p. 62 e p. 70.
[16] R. Hueting and L. Reijnders, «Sustainability is an Objective Concept», in Ecological Economics, vol. 27, 1998, pp. 139-147, p. 140.
[17] Nella letteratura ambientalistica a volte si usa il termine di «weak sustainable development» per descrivere il punto di vista antropocentrico, e di «strong sustainable development» per descrivere il punto di vista ecocentrico (per una illustrazione di questi due punti di vista si veda C.C. Williams and A.C. Millington, «The Diverse and Contested Meaning of Sustainable Development», in The Geographical Journal, vol. 170, n. 2, 2004, pp. 99-104). Tuttavia, la distinzione tra weak e strong sustainable development non consente, a nostro avviso, una chiara comprensione delle due definizioni. In effetti, si potrebbe pensare, come molti sostengono, che sia in discussione solo un concezione più o meno radicale di sostenibilità. Il nostro scopo è invece quello di giungere alla definizione di un nuovo tipo di comportamento umano per stabilire se l’ecologia possa essere considerata o meno una nuova scienza storico-sociale. Dobbiamo dunque espungere dalla nozione di sostenibilità tutti i problemi intra-specifici, nella misura del possibile.
[18] D.H. Meadows, D.L. Meadows, D. Randers, J. Behrens, The Limits to Growth, London, Pan, 1972; trad. it. I limiti dello sviluppo, Milano, Mondadori, 1972.
[19] Il progresso umano, per quanto riguarda i rapporti della specie con la natura, così come per molti altri aspetti della vita civile e politica, non si manifesta come un sentiero rettilineo che avanza verso un futuro radioso. Vi sono state involuzioni e crisi che hanno messo in pericolo, o addirittura causato la scomparsa, di intere civiltà. La crisi che ha causato il declino delle popolazioni della Mesopotamia, che nell’età antica hanno dato vita alle prime fiorenti città ed imperi, in cui ha potuto svilupparsi la scrittura, sembra ormai documentata. A causa dello sfruttamento intensivo e malaccorto del suolo, i Sumeri hanno provocato la progressiva salinizzazione dei terreni, la desertificazione della regione e la scomparsa della loro civiltà. Un disastro simile è stato causato, in epoca più tarda, dalla popolazione dei Maya, che ha sfruttato sino alle sue estreme potenzialità la regione tropicale dell’America centro-meridionale. Un altro caso documentato è l’estinzione del popolo che ha colonizzato l’isola di Pasqua, nel Pacifico. Se casi di sviluppo insostenibile si sono manifestati in passato, non si può escludere che la storia si ripeta. Nella specie umana non si può ipotizzare alcun comportamento «spontaneo» sostenibile. Tuttavia, oggi, non è in pericolo una civiltà isolata, ma l’umanità insieme a tutte le altre specie viventi. Alcuni scienziati, in effetti, sostengono che lo sviluppo attuale si sia già spinto oltre i limiti della irreversibilità del degrado della biosfera. (La documentazione di alcuni precedenti storici di sviluppo insostenibile si trova in C. Ponting, «Historical Perspectives on Sustainable Development», in Environment, 32, 9, November 4-9, 1990, pp. 31-3; ora in P.M. Haas (ed.), Environment in the New Global Economy, vol. I, Cheltenham, Edward Elgar, 2003, pp. 3-12).
[20] Il fisico Richard P. Feynman scrive che «Il principio cardine della scienza, quasi la sua definizione, è che la verifica di tutta la conoscenza è l’esperimento. L’esperimento è il solo giudice della ‘verità’ scientifica» (in R.P. Feynman, Six Easy Pieces, California Institute of Technology, 1963; trad. it. Sei pezzi facili, Milano, Adelphi, 2000, p. 22; la sottolineatura è dell’Autore). Sulla distinzione tra attività scientifica e attività politica si sofferma, con interessanti osservazioni, James Buchanan («The Potential for Tyranny in Politics as Science», in Liberty, Market and State, Brighton, Weatsheaf Books, 1987, pp. 40-54; trad. it. in Stato, mercato e libertà, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 207-25), dove, tuttavia, risulta discutibile la sua riduzione dell’attività politica a «mercato di interessi e valori».
[21] Ho descritto sommariamente il sistema economico classico tenendo come punto di riferimento la ricostruzione moderna di P. Sraffa, Production of Commodities by Means of Commodities, Cambridge, Cambridge University Press, 1960; trad. it. Produzione di merci a mezzo di merci, Torino, Einaudi, 1960. David Ricardo, nel capitolo sulla rendita della terra, cita con approvazione la seguente osservazione di J.B. Say: «La terra… non è il solo agente naturale che abbia potere produttivo; ma è il solo o quasi il solo di cui gli uomini riescono ad appropriarsi i benefici. L’acqua dei fiumi e del mare, con la capacità che ha di mettere in movimento le nostre macchine, di trainare le nostre barche, di nutrire i pesci, ha anch’essa un potere produttivo; il vento che fa girare i nostri mulini, e lo stesso calore del sole, lavorano per noi; ma per fortuna finora nessuno è stato in grado di affermare: ‘il vento e il sole mi appartengono e il servizio che rendono mi deve essere pagato’» (D. Ricardo, On the Principles of Political Economy and Taxation, Cambridge, Cambridge University Press, 1966, p. 69).
[22] R. Solow, «An almost Practical Step toward Sustainability», in Resources Policy, vol. 19, n. 3, 1993, pp. 162-72; cit. p.l64. Ora anche in M. Munasinghe (ed.), Macroeconomics and the Environment, Cheltenham, Edward Elgar, 2002, pp. 45-55.
[23] Common e Stagl osservano che: «se le risorse non sono rinnovabili, non vi è alcun saggio costante di utilizzo che possa essere mantenuto indefinitamente, non vi è alcuna produzione sostenibile… Se non vi è alcuna possibilità di sostituire il capitale ad altre risorse, la crescita è un fenomeno transitorio, anche con progresso tecnico» (cfr. M. Common and S. Stagl, Ecological Economics. An Introduction, Cambridge, Cambridge University Press, 2005, p. 235).
[24] Il mercato è sorto e si è sviluppato sulla base di regole che non prevedono la sostenibilità ambientale. In Sumatra, nel Borneo e in Malesia, il rinoceronte, detto di Sumatra, è minacciato di estinzione a causa dell’intensa attività di bracconaggio alimentata da una domanda insaziabile del suo corno che, si dice, avrebbe proprietà terapeutiche ed afrodisiache. La domanda di corno del rinoceronte di Sumatra proviene da tutta l’area asiatica, ma specialmente dalla Cina. Salvo miracoli, il destino del rinoceronte di Sumatra, un autentico fossile vivente, la cui origine risale a 40 milioni di anni fa, è l’estinzione. Da questo esempio, tuttavia, non si deve dedurre che mercato ed ecologia siano necessariamente incompatibili. Gli economisti hanno dimostrato che il mercato dei Permessi negoziabili può orientare le imprese verso l’adozione di tecnologie sostenibili. Un altro esempio riguarda la conservazione delle foreste tropicali. Alcune associazioni ambientaliste, come il WWF, hanno tentato con successo di trasformare le riserve naturali tropicali in un bene economico, incentivando la popolazione locale ad assumere il ruolo collettivo di guardiani del parco. Queste popolazioni possono così trarre il loro reddito non dalla vendita del legname, ma dal turismo e da altre attività di conservazione. In altri casi, le associazioni ambientaliste hanno comprato i diritti di taglio del legname per impedire lo sfruttamento commerciale delle foreste da parte delle imprese multinazionali (ho tratto questi esempi da E.O. Wilson, Il futuro della vita, cit.).
[25] La proprietà di un bene di soddisfare alcune funzioni vitali, come il fabbisogno di calorie, non consente di individuare alcuna relazione precisa con il suo valore di mercato, o prezzo. La quantità di calorie contenute in una tavoletta di cioccolato acquistata al supermercato è, ad esempio, la stessa di quella contenuta in una torta in un negozio di pasticceria o in un dolce che compare nel menù di un raffinato ristorante di una grande metropoli. Eppure i prezzi di questi tre beni possono essere differenti. È compito dell’economista spiegare queste differenze. Sotto l’aspetto ecologico interessa solo la proprietà nutritiva del bene in questione (si potrebbe osservare che un problema simile è all’origine dell’intenso dibattito, durato circa un secolo, tra gli economisti marxisti e marginalisti, sui rapporti tra teoria del valore-lavoro e prezzi di produzione).
[26] Sul mercato dei permessi negoziabili, cfr. M. Common and S. Stagl, Ecological Economics. An Introduction, cit., p. 425.
[27] Ad esempio Costanza, Daly e Bartholomew sostengono che «per garantire la sostenibilità, dobbiamo incorporare i beni e i servizi dell’ecosistema nella nostra contabilità economica. Il primo passo consiste nel determinare quali sono i loro valori paragonabili a quelli dei beni e dei servizi economici. Nel determinare i valori, dobbiamo anche considerare quanto siamo disposti a sacrificare del nostro sistema ecologico che sostiene la vita… Per esempio, possiamo sostituire i servizi di filtro delle radiazioni dello strato d’ozono che stiamo distruggendo?» (R. Costanza, H.E. Daly and J.A. Bartholomew, «Goals, Agenda and Policy Recommandations for Ecological Economics», in R. Costanza (ed.), Ecological Economics: The Science and Management of Sustainability, New York, Columbia University Press, pp. 1-20; ora in P.M. Haas, Environment in the New Global Economy, cit., 2003, vol. II, pp. 280-99, cit. p. 288). R. Costanza e altri economisti, coerenti con il loro approccio antropocentrico, hanno tentato una valutazione economica della biosfera in «The Value of the World’s Ecosystem Services and Natural Capital», in Nature, 387, 1997, pp. 253-60.
[28] Su queste vicende si veda J.R. McNeill, Something New under the Sun. An Environmental History of the Twentieth-century World, New York, W.W. Norton and Co., 2000; trad. it. Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell’ambiente nel XX secolo, Torino, Einaudi, 2002, pp. 142-7.
[29] Per una critica al tentativo di dare una valutazione economica ai beni ecologici, si veda anche M. Sagoff, Price, Principle and the Environment, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, ch. 6, «On the Value of Wild Ecosystems». I tentativi di far valutare dai cittadini i beni ambientali hanno dimostrato che o i cittadini non capiscono nemmeno il problema oppure reagiscono con indignazione al tentativo di dare un valore di mercato ad un bene il cui valore è principalmente estetico ed etico, come quando è in gioco la sopravvivenza di un animale. Si tratta di una conferma indiretta della opportunità di considerare i beni ambientali come beni pubblici. Si veda in proposito A. Vatn, «Rationality, Institutions and Environmental Policy», cit. che afferma giustamente che «se la gente ha problemi a valutare le questioni ambientali in termini monetari è perché adotta una razionalità che è differente dalla logica di mercato quando prende in considerazione i problemi ambientali. Per questi individui, invocare la logica di mercato quando si discute di ambiente è un errore concettuale» (p. 215).
[30] Tuttavia, nella Charte de l’environment, approvata nel 2004 dall’Assemblea nazionale francese, si sostiene che l’ambiente è il patrimonio comune del genere umano.
[31] A volte sembra legittimo il sospetto che gli economisti elaborino sistemi di intervento fondati solo sul mercato, perché non osano mettere in discussione la sovranità assoluta degli Stati nazionali, che considerano come loro esclusivo diritto lo sfruttamento delle risorse naturali esistenti entro i confini nazionali.
[32] W. Leontieff, The Future of the World Economy, United Nations, 1977; trad. it. Il futuro dell’economia mondiale, Milano, Mondadori, 1977.
[33] Questo è il titolo di un fortunato testo di storia economica. Cfr. D.S. Landes, The Unhound Prometeus, Cambridge, Cambridge University Press, 1969; trad. it. Prometeo liberato, Torino, Einaudi, 1978.
[34] K. Popper, The Myth of the Framework. In Defence of the Science and Rationality, London, Routledge, 1994; trad. it. Il mito della cornice. Difesa della razionalità e della scienza, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 258-9.
[35] Sul mito dello Stato nazionale sovrano cfr. M. Albertini, Lo Stato nazionale, Napoli, Guida, 1980, e i saggi raccolti in Nazionalismo e federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999.
[36] La letteratura che si richiama al realismo politico è sterminata. Pertanto non si può fare riferimento che a qualche raccolta antologica come, ad esempio, R.O. Keohne (ed.), Neorealism and its Critics, New York, Columbia University Press, 1986; J. Donnelly, Realism and International Relations, Cambridge, Cambridge University Press, 2000; D.A. Baldwin, Key Concepts in lnternational Political Economy, Vol. I and II, Cheltenham, Edward Elgar, 2000, e M-C. Smouts, Les nouvelles relations internationales. Pratiques et théories, Paris, Presses de Science Po, 1998.
[37] Per una trattazione più approfondita di questi aspetti rimando al mio libro Ecologia e Federalismo, cit., dove discuto del diritto alla pace, del diritto alla solidarietà internazionale e del diritto alla vita sulla Terra, come diritti fondamentali che devono essere garantiti da una Costituzione cosmopolitica; per quanto riguarda il processo europeo di superamento della sovranità nazionale assoluta, rimando al mio saggio «L’Europa, la sovranità nazionale e la costituzionalizzazione delle relazioni internazionali», in M.C. Baruffi (a cura di), La Costituzione europea: quale Europa dopo l’allargamento?, Padova, CEDAM, 2006, pp. 29-78.
[38] Per un esame più approfondito di questi problemi si veda M. Common and S. Stagl, Ecological Economics, cit., ch. 13.
[39] «Uccidere» si deve qui intendere come volontà di sopprimere una specie, non un singolo individuo di una specie animale o vegetale.
[40] Dovrebbe essere chiaro che il Consiglio mondiale per lo sviluppo sostenibile, che qui proponiamo, non ha nulla a che vedere con la World Environment Organisation che di tanto in tanto viene proposta nel quadro dell’ONU come possibile rimedio alla mancanza di una efficace politica ambientale mondiale. La proposta di una WEO viene giustificata con il fatto che i governi nazionali non intervengono per affrontare i problemi ambientali globali e non vogliono neppure affidare poteri di governo ad una autorità mondiale nel rispetto del tabù della sovranità nazionale assoluta. È ovvio che, posto in questi termini, il problema è insolubile e il dibattito infinito se l’istituzione della WEO non coincide con la devoluzione di poteri nazionali ad una autorità mondiale. Si veda in proposito P. Newell, «A World Environment Organisation: The Wrong Solution to the Wrong Problem», in The World Economy, vol. 27, 4, 2004, pp. 609-24.
[41] B. Siebenhtiner, «Homo Sustinens – Towards a New Conception of Humans for the Science of Sustainability», in Ecological Economics, 32, 2000, pp. 15-25, cit. p. 23.
[42] Ho tratto queste indicazioni da M. Tomasello, The Cultural Origins of Human Cognition, Cambridge, Mass, Harvard University Press, 1999; trad. it. Le origini culturali della cognizione umana, Bologna, Il Mulino, 2005.
[43] Esemplare, in proposito, è l’indagine di J. Diamond, Guns, Germs, and Steel. The Future of Human Societies, New York, Norton & Co., 1997; trad. it. Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Torino, Einaudi, 1998.
[44] Cfr. E.O. Wilson, Il futuro della vita, cit., cap. 7.

 

 

 

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