IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLIX, 2007, Numero 1, Pagina 12

 

 

Gli Stati disuniti d’Europa nel mondo di oggi e di domani
 
JEAN-MARIE LE BRETON
 
 
Il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 ha modificato profondamente i dati della politica internazionale. Un duopolio di fatto aveva limitato fino allora la libertà d’azione di ciascuno dei due protagonisti. Al duopolio si è sostituita la superpotenza americana, la sola in grado di imporre la propria volontà alle grandi potenze nascenti — la Cina, la Russia, l’India, il Brasile — facendo a meno del contributo degli europei. Durante la guerra fredda, gli europei avevano la convinzione di offrire un contributo non trascurabile all’equilibrio mondiale, e gli americani facevano di tutto per farcelo credere. La superiorità degli Stati Uniti non si limita alle forze armate: è altrettanto evidente nei settori dell’economia, della moneta, della ricerca e della cultura.
Questa superiorità si è manifestata, fino a poco tempo fa, con prudenza e moderazione. Fedeli ad una lunga tradizione di non interferenza negli affari europei, all’inizio della guerra fredda gli Stati Uniti hanno dato prova di un saggio riserbo, dovuto alloro profondo rispetto per la democrazia. Con il crollo dell’Unione Sovietica è intervenuto un cambiamento evidente. Gli equilibri sui quali si fondavano i rapporti internazionali si sono liquefatti. Durante la crisi irachena gli americani hanno mostrato un atteggiamento altezzoso nei confronti delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e un totale disprezzo delle regole riguardanti la sicurezza collettiva che l’ONU ha il compito di far rispettare, con gravi conseguenze sull’equilibrio internazionale.
Un’altra vittima della crisi irachena è stata l’Alleanza atlantica che durante tutta la guerra fredda aveva garantito efficacemente la protezione dell’Europa occidentale. La sua natura è stata gravemente compromessa dalla guerra in Iraq. Da alleanza fra uguali, si è trasformata in uno strumento nelle mani degli americani con il compito di sostenere i loro soldati in conflitti che si svolgono al di fuori dei confini geografici dell’Alleanza stessa.
Infine l’Europa — o, per meglio dire, la costruzione europea — è stata la terza vittima della crisi irachena. Invece di rafforzare la solidarietà che cercano di affermare da cinquant’anni, gli Stati disuniti d’Europa non sono stati capaci di tenere l’atteggiamento fermo e vigoroso che ci si attendeva. Al contrario, se si esclude la moneta unica, l’Unione europea non ha svolto alcun ruolo significativo nell’accrescere la coesione fra i suoi membri. L’allargamento è avvenuto in tutta fretta e senza una visione politica. La crisi irachena ha rivelato una profonda spaccatura non fra pro-americani e anti-americani, ma fra coloro che hanno scelto l’unificazione europea per riappropriarsi del loro destino e coloro che vi hanno rinunciato.
Queste crisi e queste fratture hanno almeno avuto il merito di far emergere le ambiguità sulle quali si basano il funzionamento dell’Alleanza atlantica e l’organizzazione del mondo occidentale.
L’attuale situazione internazionale è caratterizzata dal passaggio dal mondo bipolare fondato sul duopolio russo-americano, al mondo unipolare basato sulla superpotenza americana. In questo contesto l’Europa non ha nulla da dire. Tutto ciò che si può fare oggi è favorire l’emergere di un mondo multipolare e di prepararsi per tempo al suo avvento. Questa evoluzione, probabilmente inevitabile, è vissuta con ostilità, rassegnazione e collera da parte degli americani.
 
1. La presa di coscienza.
 
L’Unione europea dovrà far fronte alle minacce e rispondere alle sfide che sono la conseguenza inevitabile dell’evoluzione del mondo attuale.
La prima minaccia è la disseminazione delle armi di distruzione di massa. Durante i negoziati per il Trattato di non proliferazione del 1965, gli sforzi della comunità internazionale, e in particolare degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, miravano a limitare il possesso di queste armi ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Nonostante questo patto leonino, alcuni paesi — prima l’India, poi il Pakistan — hanno avuto accesso a queste armi impegnandosi nel contempo a rispettare il Trattato e a comportarsi con lo stesso senso di responsabilità dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica la situazione è profondamente cambiata. La limitazione delle armi nucleari favorita dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica ha avuto l’effetto perverso di rafforzare le ambizioni dei paesi che si trovano nelle aree di maggior conflitto come Israele e l’Iran. E in futuro altri paesi vorranno dotarsi di armi atomiche.
Se l’ONU non ha i mezzi per sventare questa minaccia, è giocoforza che le grandi potenze regionali assumano delle responsabilità al riguardo. In un modo o in un altro la comunità internazionale diventerà consapevole della necessità di premunirsi contro i rischi mortali delle armi di distruzione di massa. Il nuovo equilibrio multipolare sarà condizionato da questo grave problema e ciò spiega l’intensità del dibattito odierno. Per rispondere a questa sfida l’Europa dovrà necessariamente offrire il suo contributo. Essa dovrà anche rispondere alle attese dei propri cittadini contribuendo alla soluzione di un duplice problema: la disseminazione delle armi più distruttive e la sicurezza dei suoi abitanti. In altre parole, controllare l’uso di queste armi da parte degli altri paesi e riservarsi la possibilità di usarle essa stessa se proprio fosse necessario. La minaccia della proliferazione pone il problema di chi può deciderne l’impiego e a questo riguardo non si vede, neppure nel lungo termine, altra soluzione se non quella federale.
Seconda preoccupazione: il rapido sviluppo degli Stati continentali — in primo luogo della Cina e dell’India — pone il problema dell’approvvigionamento di materie prime del mondo industrializzato. La prima minaccia è rappresentata dall’esaurimento prevedibile e abbastanza vicino di gas e petrolio e dall’aumento del loro prezzo. Il rincaro dell’energia renderà competitive altre fonti come il carbone, gli scisti bituminosi, l’energia eolica e quella termica. È tuttavia prevedibile che questa situazione provocherà dei conflitti. E mentre i paesi produttori cercheranno di sfruttarla a proprio beneficio, gli Stati disuniti d’Europa avranno difficoltà ad ottenere l’energia a prezzi ragionevoli. Gli europei non dovrebbero organizzarsi per evitare di essere schiacciati fra i paesi produttori e i loro concorrenti?
Uno dei problemi più urgenti e inquietanti di fronte al quale ci troviamo è senza dubbio l’evoluzione demografica del pianeta. Mentre i paesi sviluppati — o altri, come la Cina, in rapida ascesa — sono riusciti a contenere la crescita della popolazione, nei paesi più poveri il tasso di incremento demografico è ancora molto alto. Si sono quindi registrati flussi migratori così ampi da provocare reazioni di rigetto da parte dei paesi che ne sono stati investiti. Il XIX secolo era stato testimone di grandi movimenti migratori che si erano rivelati molto positivi per lo sviluppo dell’America; il XXI deve affrontare movimenti migratori non desiderati. Gli Stati europei sono tutti, a diverso titolo, interessati da questi movimenti e dovranno in un giorno non lontano adottare misure adeguate per organizzare e incanalare questi flussi. È quel che io auspico.
La mondializzazione degli scambi è una nuova forma di aspra concorrenza fra i grandi paesi industrializzati. Essa presenta vantaggi e rischi. Alcune imprese sono indotte a delocalizzare la loro produzione per beneficiare di salari meno elevati con il rischio, però, di accrescere la disoccupazione, senza contare la concorrenza delle industrie cinesi o indiane che possono disporre di una manodopera così abbondante da creare seri problemi ai produttori europei.
La globalizzazione e i movimenti migratori rischiano di provocare dei conflitti fra i paesi ricchi e quelli in via di sviluppo, in un quadro di miseria e di impoverimento dei popoli più sfortunati, e di egoismo unito al senso di colpa delle popolazioni ricche. Non è escluso che possano svilupparsi tensioni di carattere razziale o fra popoli appartenenti a diverse civiltà, mettendo in primo piano il dibattito su razzismo e antirazzismo che potrebbe dominare il XXI secolo così come quelli tra fascismo e antifascismo, tra comunismo e anticomunismo hanno dominato il secolo scorso.
L’insieme di queste minacce, che rischiano di mettere l’Europa in una situazione difficile, può essere aggravato da altre rivalità di cui non è ancora possibile farci un’idea precisa.
L’Europa disunita non potrà tener testa a lungo alla Cina; non potrà influenzare la politica del Medio Oriente. Al contrario, rischia di subire le conseguenze delle crisi che scoppieranno in quell’area. Per essere ascoltata e per agire l’Europa deve raggiungere un adeguato livello di potenza, una «massa critica» che non le verrà riconosciuta se non supera le sue frustrazioni creando istituzioni efficaci che le consentano di agire.
 
2. I mezzi.
 
L’Europa ha i mezzi per farsi ascoltare, per imporsi di fronte alle nuove grandi potenze, agli Stati Uniti ma anche alla Cina, alla Russia, all’India? Bisogna riconoscere che oggi l’Europa non ha più il ruolo mondiale che ha svolto durante i cinque secoli della sua egemonia.
Non mi dilungo sul ruolo dell’Europa nell’industrializzazione. Questa è stata — soprattutto nel XIX secolo — il vero motore della sua potenza. Nel 1945 la disfatta di Hitler ne ha decretato la fine. Questo cambiamento è stato suggellato dall’insuccesso dell’intervento franco-britannico in Egitto nel 1956. Durante la guerra fredda sono stati i sovietici e gli americani a dominare il mondo. Nel 2006 il duopolio russo-americano non esiste più. È stato sostituito dall’unilateralismo americano che, a sua volta, sta per essere scalzato da un sistema internazionale più complesso fondato su un concerto mondiale al quale parteciperanno la Russia, la Cina, il Giappone, l’India e il Brasile.
Dopo il 1945 l’Europa si è ricostruita, è diventata ricca e potrebbe, di conseguenza, essere una potenza militare ed economica. Ma non lo è. Si tratta di una mancanza di mezzi? Per nulla. Essa destina una parte non piccola del suo prodotto interno lordo ad armamenti che non sfigurano di fronte a quelli americani e russi. I mezzi esistono. Occorre utilizzarli. L’esperienza della difesa europea illustra chiaramente questa situazione.
Essendo scomparsa la minaccia sovietica, il problema della difesa europea ha mutato la sua natura ma non ha potuto sfuggire ad una contraddizione interna: la difesa dell’Europa non può essere credibile se non si basa sulle forze congiunte di Francia e Gran Bretagna, i soli paesi che dispongono di forze armate all’altezza del compito. La contraddizione riguarda il fatto che l’Inghilterra dà la priorità ai suoi legami con gli Stati Uniti e vuole inquadrare la difesa europea nella NATO, il che equivale a dire che non vuole una difesa europea autonoma. Orbene, se l’Europa intende diventare un protagonista autonomo nell’equilibrio mondiale che si sta formando, non può avere una difesa strettamente inquadrata nella NATO.
Le esperienze che sono state fatte, gli sforzi compiuti per realizzare un sistema di difesa dell’Europa occidentale non hanno dato alcun risultato perché, se esistono le forze armate nazionali, non esiste una volontà europea comune di difesa. I mezzi militari esistono; ciò che manca è la volontà di agire insieme. Durante la guerra fredda le forze armate europee erano coalizzate, e la coalizione aveva una certa credibilità in quanto le forze stazionate in Europa erano affidate quasi interamente al comando americano. Quando la minaccia sovietica è scomparsa ciascuno ha voluto riprendersi la propria libertà. Per rendere credibile la nuova organizzazione degli eserciti, si è cercato di integrarli. Questi sforzi sono lodevoli e vanno nella giusta direzione ma non consentono di compiere il passo decisivo verso un esercito europeo comune che potrà nascere solo quando le decisioni riguardanti il suo impiego non dipenderanno più dai governi nazionali ma da organismi sovranazionali.
I mezzi dell’Europa non si limitano ai problemi della difesa. Nel dopoguerra l’economia è stata ricostruita, il prodotto interno lordo è sensibilmente aumentato e gli scambi si sono sviluppati. L’Europa è di nuovo ricca grazie alla politica economica comune. Nessuno ha dubbi sul fatto che i principi che hanno retto la Comunità economica europea hanno contribuito in maniera efficace a questa evoluzione. Lo prova l’atteggiamento della Gran Bretagna che è passata dallo scetticismo all’ingresso nella CEE. Londra si è resa conto che la Comunità apriva la porta dello sviluppo.
Il successo della Comunità europea può essere riassunto in poche battute: lo smantellamento dei dazi doganali e una politica comune decisa dagli Stati membri sulla base di proposte avanzate da una autorità indipendente — la Commissione. I paesi candidati devono accettare l’insieme delle norme di cui la Commissione europea è il guardiano.
L’Europa economica è quindi dotata di mezzi sufficienti. Si può pensare che questa situazione sfocerà in una vera unificazione, non soltanto del mercato ma anche delle politiche economiche? Oggi la responsabilità ultima si trova ancora nelle mani degli Stati e manca perciò un vero governo dell’economia. Gli artefici della Comunità e poi quelli dell’Unione hanno ritenuto che il lavoro svolto sfocerà in maniera quasi automatica in un rafforzamento delle istituzioni comuni. La moneta unica è stata un grosso passo in avanti. Ma in mancanza di un governo dell’economia fondato su un’autorità indipendente che possa dialogare con la Banca centrale europea, le strutture nazionali avranno sempre la supremazia. Anche in questo caso gli strumenti esistono ma non sono stati impiegati per superare lo stadio intergovernativo.
Il progetto europeo avviato con i Trattati di Roma è stato un successo incontestabile e i risultati sono oggi ben visibili. Ma l’Europa è rimasta sostanzialmente quella di allora. I tentativi di allargare le sue competenze con il metodo intergovernativo sono falliti. È stato possibile applicare le disposizioni previste dai Trattati di Roma, mentre l’allargamento delle sue competenze con il secondo pilastro (sicurezza, difesa, PESC) si è limitato ai primi incerti passi. Il ritorno al metodo intergovernativo con il terzo pilastro ha portato a termine l’indebolimento della Comunità.
Si deve prendere atto, ma il fenomeno è ben più antico, del ritorno alle procedure intergovernative. Da ciò deriva l’affievolimento dell’entusiasmo che ha caratterizzato gli anni durante i quali sono state create le strutture comunitarie. Oggi prevalgono il languore e la rassegnazione, che si sono manifestati apertamente in occasione dei referendum francese e olandese.
Il metodo intergovernativo è ritornato a galla quando gli Stati membri hanno aperto una nuova fase nello sviluppo dell’Unione, investita da un nuovo problema di particolare importanza. C’è stato un ampliamento delle sue competenze senza aver compiuto la scelta fondamentale fra approccio intergovernativo (che implica il mantenimento del diritto di veto da parte degli Stati membri) e autentiche politiche comuni di carattere sovranazionale.
La concorrenza fra i settori comunitari e i settori intergovernativi non ha giocato a favore dei primi. Non solo. Nonostante gli sforzi della Commissione per garantire il rispetto dei Trattati, si deve constatare una deriva, un regresso a favore del metodo intergovernativo. Persino i più sinceri europeisti, che sono convinti sostenitori dell’Unione, arrivano al punto da proporre formule intergovernative per facilitare il funzionamento dell’Unione, evocando, ad esempio, l’idea di un «direttorio», appoggiandosi semplicemente alle strutture esistenti o facendo leva sui rapporti di forza. Ieri la Comunità e oggi l’Unione dispongono di mezzi, ma devono essere impiegati per la realizzazione di un progetto. Ci si comporta come se la Gran Bretagna, che al momento della sua prima domanda di adesione alla Comunità aveva proposto di farne una zona di libero scambio gestita con il metodo intergovernativo, fosse riuscita ad imporre la sua visione rispetto all’integrazione sovranazionale.
L’aumento delle competenze dell’Unione gestite con il metodo intergovernativo è avvenuto di pari passo con l’allargamento dei confini geografici in seguito all’ingresso di nuovi paesi. Concepito per sei paesi legati dalla storia, dalla geografia, dal tenore di vita, dalle esperienze sociali ed economiche, il Trattato di Roma, che resta il fondamento del sistema politico europeo, è stato esteso a ventisette Stati. E si profila l’adesione di altri paesi la cui appartenenza all’Europa, sotto il profilo culturale, politico e sociale, è dubbia. Una cosa è sicura: l’allargamento a ventisette paesi ha radicalmente modificato il profilo dell’Europa. E, come si è appena detto, l’allargamento si è realizzato, con tutte le conseguenze del caso, nel momento in cui gli Stati membri hanno aumentato, e pensano di aumentare ancora di più in futuro, le competenze dell’Unione con un ritorno alle pratiche intergovernative. Questo duplice allargamento testimonia la volontà di abbandonare il disegno di «una Unione sempre più stretta» sul quale si è fondato fin dalle origini l’edificio europeo. Abbiamo visto sia nel caso della difesa sia in quello delle relazioni estere che l’Europa vive una grave crisi di identità ed è precipitata in una contraddizione fondamentale.
Consideriamo il caso della difesa. Per essere veramente credibile, deve essere indipendente rispetto a qualsiasi condizionamento esterno, e in particolare a quello degli Stati Uniti, e deve dipendere da un potere politico che sia emanazione diretta dei popoli e non dei soli governi. Occorre insistere sul fatto che nell’attuale contesto il numero non fa la forza. Il numero degli Stati partecipanti non decide del suo successo; è semmai una debolezza. I mezzi non mancano. L’Europa si è ripresa, è diventata ricca e ciò genera un’illusione di potenza. Ma la sua abulia la rende evanescente.
 
3. La volontà.
 
Il problema dell’Europa, del suo posto nel mondo, della sua influenza nella storia, resta quello già emerso all’indomani della seconda guerra mondiale. In quel momento si pensava che la ricostruzione fosse l’obiettivo prioritario e che essa avrebbe dato agli europei i mezzi per affermare la loro indipendenza e per ritrovare il loro posto nel mondo e nella storia.
Gli anni successivi al 9 maggio 1950 sono stati testimoni di un enorme progresso, soprattutto nella riconciliazione fra gli europei. Questo è dipeso, in primo luogo, dall’instaurarsi di nuove relazioni tra Francia e Germania, cosa che è stata possibile perchè entrambi i paesi condividevano ormai lo stesso destino. Perchè questa riconciliazione non sia soltanto un fuoco di paglia è però necessario che i due popoli riaffermino la loro volontà di unione. Non devono essere i soli a farlo. I tre paesi del Benelux e l’Italia, così come la Francia e la Germania, hanno corso il rischio di scomparire nella grande tormenta della guerra.
Perché l’Europa si realizzi è necessario voltare le spalle alle formule intergovernative che possono di tanto in tanto dare l’illusione di un avanzamento ma che non consentono di costruire un’entità politica robusta e duratura, in grado di dare ai cittadini l’entusiasmante prospettiva di ritrovare il posto che hanno sempre occupato nel mondo.
Bisogna uscire dall’ambiguità legata al termine «Europa». Europa significa un’area geografica i cui confini sono incerti: ne sono testimoni la catena degli Urali così poco significativa e la Turchia che è certamente parte integrante del concerto europeo ma, nella realtà, si oppone all’Europa cristiana così come l’hanno percepita gli europei della seconda metà del XV secolo. L’ambiguità della parola «Europa» è riemersa dopo le guerre fratricide del XIX e del XX secolo quando si è proposto di ricostruire il «Concerto europeo». L’Europa del Congresso di Vienna, del Congresso di Parigi, del Congresso di Berlino e dei Trattati di Versailles, non corrispondeva alla nozione politica di Europa. Dove collocare la Russia? dove collocare la Turchia?
Ritengo che l’Europa di cui auspichiamo la creazione sia un’Europa capace di lanciare un messaggio politico; sia un’Europa della volontà, un’Europa che abbia lo stesso significato di Stati Uniti d’America quando pronunciamo la parola «America»; un’Europa costruita intorno ad un progetto più che un’Europa geografica. Così come gli Stati Uniti hanno elaborato la nozione di «destino evidente», anche l’Europa deve ormai essere quella della volontà, vale a dire un’Europa federale, una Federazione europea.
Nel 1950 l’Europa è nata con una grande ambizione, quella di ritrovare il suo rango, la sua potenza, il suo messaggio, grazie alla messa in comune dei suoi mezzi. Oggi si è assopita e non ha la consapevolezza dei pericoli che la circondano. Per essere presente, per essere attiva, deve ripartire con la volontà di ricostruire il proprio destino.
L’Unione europea non è l’Europa che avevamo sognato e che sogniamo ancora. È un’Europa disunita, oggetto di ironia a Washington e derisa dai suoi cittadini. È venuto il momento di riprendere lo slancio che ha consentito i grandi progressi degli anni Cinquanta e Sessanta e di dare a una Federazione europea una nuova e grande ambizione che deve fondarsi su tre pilastri.
Il primo e il più importante è l’indipendenza. L’indipendenza è diventata una priorità assoluta dopo la caduta dell’Unione Sovietica, quando il mondo ha scoperto che ormai c’era una sola superpotenza. Fino allora il legame tra le due sponde dell’Atlantico era più importante dell’indipendenza. Accordando la priorità all’indipendenza, il generale de Gaulle era in anticipo sui tempi. Il protocollo addizionale del Bundestag al Trattato dell’Eliseo del 1963 ne è la testimonianza. L’indipendenza significa non seguire pedissequamente le ingiunzioni dell’America. L’indipendenza è il mezzo e il simbolo del riappropriarsi del proprio destino da parte della Federazione europea, e significa differenziarsi e, se del caso, anche opporsi agli Stati Uniti.
Il secondo pilastro è quello del rango: la Federazione europea non può essere confinata in un ruolo minore, di assistente della prima potenza mondiale. Il rango deve certamente fondarsi su cose concrete: una popolazione numerosa, un reddito nazionale elevato, un livello di conoscenze di prim’ordine. La messa in comune dei fattori che costituiscono la base della potenza — la moneta, la difesa, la diplomazia — può rafforzare considerevolmente il ruolo della Federazione nel mondo.
Terzo pilastro: l’ambizione della stabilità. L’atteggiamento degli europei dal 1990 ad oggi è stato quello di pensare che fosse possibile garantire la stabilità di un paese aprendogli le porte dell’Unione. Dal momento che l’Unione era riuscita a instaurare nel suo seno la stabilità delle istituzioni e del loro funzionamento, si è ritenuto che il modo più efficace per assicurare la stabilità dei paesi lacerati da tensioni interne molto forti (si pensi alla Turchia, a Cipro, all’ex-Jugoslavia) potesse essere quello di accoglierli nell’Unione. A mio parere, non è possibile assicurare la stabilità facendosi carico delle tensioni di alcuni paesi che vedono nell’Europa una via per sfuggire alle loro responsabilità. L’importante è di creare, con la federazione, un centro di potere che grazie alla sua influenza sarà la miglior garanzia della stabilità per le regioni vicine alla Federazione europea.
Resta il fatto che l’Europa si scontra con i limiti intrinseci della nuova società internazionale. Storicamente l’Europa ha impresso il suo marchio sulle due Americhe e, sia pure in misura minore, sui grandi Stati asiatici, e in particolare su India, Indocina, Indonesia, Cina, Giappone e Corea. Sono questi Stati che contestano all’Europa il posto che le avevano riconosciuto a causa dello squilibrio delle forze in campo. Essa ha esteso la sua tutela sul mondo arabo-musulmano e su una parte del mondo africano. Come potrebbe aspirare a svolgere un ruolo di primo piano?
Da quindici anni l’Unione Sovietica non esiste più e l’Europa — l’Europa dei Dodici e poi dei Quindici — si è mossa nella scia degli Stati Uniti. Essa ha dato l’impressione di essere il suo «brillante secondo». Nessuna proposta di qualche rilievo è venuta dall’Europa disunita, soprattutto nel momento in cui i paesi dell’Europa orientale si sono sottratti alla tutela sovietica. L’Europa occidentale non ha avanzato alcun progetto significativo tranne quello di una «confederazione» indipendente dall’America, cosa che i paesi appena liberati non erano disposti ad accettare. Nulla ha detto a proposito delle crisi che hanno segnato l’ex-Jugoslavia anche se la Francia e la Gran Bretagna avrebbero potuto prendere l’iniziativa.
Lo stesso silenzio ha mantenuto sul problema delle armi di distruzione di massa e su quello del Medio Oriente. È vero che la guerra irachena ha provocato una viva opposizione in alcuni dei maggiori paesi dell’Europa occidentale, ma si è trattato di una semplice manifestazione di ostilità da parte dell’opinione pubblica senza altre conseguenze. Ancora più grave è l’impressione che l’Europa non abbia più la volontà di far valere il proprio punto di vista. Appare sempre più spesso al traino degli Stati Uniti e subordinata all’umore degli alleati americani. Come meravigliarsi, dunque, se alcuni concludono che l’idea europea, per quanto affascinante sia, ha ormai cessato di entusiasmare i giovani?
Una lunga frequentazione della storia europea, un non meno lungo coinvolgimento nei problemi internazionali, cinquant’anni di attiva osservazione delle istituzioni europee, mi autorizzano ad avanzare la proposta di una nuova solenne dichiarazione da parte dei sei paesi fondatori per riprendere insieme il cammino dell’unificazione europea. Si tratta di una scelta difficile ma anche esaltante. Gli altri paesi, dobbiamo constatarlo, ci trascinano nelle sabbie mobili.
Per avere qualche possibilità di procedere coraggiosamente, occorre ripartire da un gruppo ristretto. L’Unione europea definita dal Trattato di Nizza non deve essere abbandonata, ma occorre avanzare più speditamente, andare più lontano, in maniera più radicale e senza ripensamenti. È perciò necessario che i governi dei Sei elaborino un patto federale e, se necessario, un nuovo Trattato all’interno dei Trattati.
Perché non riprendere, nello spirito della Conferenza di Messina, la negoziazione di un patto federale? Perché non spiegare ai popoli dei sei paesi fondatori che l’Europa non è un insieme di regolamenti che ne offuscano le finalità? Perché non mettere l’accento sulla sussidiarietà e lasciare alle istituzioni nazionali la cura degli affari meno importanti? Perchè i Sei non possono elaborare una politica estera comune? Perché non creare il governo economico richiesto dalla moneta unica?
Quando è stata seguita, la via federale si è sempre tradotta in un successo, mentre la via intergovernativa ha portato solo a compromessi, a esitazioni, e a stanchezza. L’idea europea è così forte che, anche cedendo alla tentazione intergovernativa, ha compiuto dei progressi. Tuttavia la realtà che abbiamo sotto gli occhi ci ammonisce che senza un nuovo slancio si assisterà alla fine del progetto europeo e a un ritorno al passato.
A chi si può far credere che con un bilancio pari all’1% del prodotto interno lordo si dispone dei mezzi necessari per far fronte alle sfide del mondo moderno mentre un paese federale come il Canada destina il 50% delle risorse al bilancio federale, una somma analoga a quella iscritta nei bilanci provinciali?
La sconfitta nel referendum del maggio 2005 non è dovuta ad un eccesso di federalismo ma alle delusioni provocate dal fatto che una grande idea è stata applicata a finalità ridicole come la caccia agli uccelli migratori nella Francia del sud-ovest o alla pesca delle vongole. È per questa ragione che dobbiamo auspicare un patto federale negoziato dai sei paesi fondatori e ratificato dai popoli.
Davanti a noi stanno immense difficoltà. Ma possiamo credere che fossero minori il 9 maggio 1950? La ricostruzione, la ricchezza, l’armonia sono ostacoli peggiori delle rovine e dei problemi irrisolti? Non ci si rende conto che se non si avanza si finirà per retrocedere? È pensabile che i popoli siano tanto ciechi da credere che sia possibile ricuperare il loro rango e la loro indipendenza senza trasferire un parte della sovranità? D’altronde, se questo trasferimento non avverrà a favore dell’Europa, avverrà a beneficio dei grandi Stati che compongono la comunità internazionale.
Il patto federale dovrà creare delle istituzioni che non consentano un ritorno al passato e che prevedano un insieme di politiche sovranazionali. È venuto il momento di riprendere una politica coraggiosa e dinamica, e di accantonare tutte le esitazioni. È venuto il momento di lanciare un appello ai popoli dei sei paesi fondatori. Certo, i cittadini non sono più gli stessi e le condizioni sono cambiate. Ciò che invece non è cambiato è la Storia che ci ricorda i nostri sogni di grandezza. È importante proporre una via più ostica, più difficile ma anche più esaltante. È venuto il momento di indicare ai nostri popoli la via della federazione, la via di un sostanzioso trasferimento di sovranità. Bisogna essere consapevoli che senza un simile trasferimento di sovranità l’Europa non ritroverà il posto che ha sempre avuto nel mondo. Essa sarà in balia delle grandi potenze e i suoi cittadini saranno sfiduciati come lo sono ora.
È venuto il momento di proporre ai cittadini dei paesi fondatori una riforma radicale delle istituzioni che dovranno avere carattere federale e riposare su un patto che trasferisce ad un potere sovranazionale la gestione della moneta, della diplomazia e della politica estera. Questo patto dovrà essere ratificato dai diversi paesi e sottoposto a referendum.
I poteri federali dovranno essere ben definiti. È inutile che il potere sovranazionale si occupi di tutto. Al contrario, dovrebbe occuparsi meno di questioni trascurabili come la pesca delle vongole, nelle quali sono più frequenti i conflitti, e più di grandi progetti, come è stata la riconciliazione franco-tedesca. Non è questo il maggior risultato della politica europea degli ultimi cinquant’anni?
Si potrebbe prevedere, ad esempio, che soltanto i grandi problemi (le armi di distruzione di massa, la sicurezza collettiva, le relazioni internazionali, la guerra e la pace) siano di competenza della Federazione. Le crisi locali potrebbero essere affrontate attraverso missioni affidate ad uno Stato o ad un gruppo di Stati, senza impegnare necessariamente la Federazione. Si tratterebbe dell’applicazione del principio di sussidiarietà. Soltanto se le misure adottate nel quadro nazionale si rivelassero insufficienti, occorrerebbe rivolgersi al livello superiore, quello federale.
L’obiettivo che dovremmo porci oggi è quello di instillare negli europei impegnati nell’avventura federale una nuova ambizione. I cittadini devono sentirsi entusiasti di riprendere in mano il proprio destino. La federazione non è la rinuncia. Al contrario. Ma essa richiede una forte volontà di indipendenza, di conservare il proprio posto nella storia e di riassumere nelle nostre mani il nostro destino.

 

 

 

il federalista logo trasparente

The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia