Anno L, 2008, Numero 3, Pagina 182
Superare il metodo intergovernativo nella riforma dei trattati: quali ulteriori passi avanti in direzione Costituente?*
SALVATORE ALOISIO
1. Cosa resta dell’ultima tappa del processo di unificazione europea.
Anche se non è ancora chiusa definitivamente, la fase del processo di integrazione iniziata con la Dichiarazione di Laeken nel 2001 è ormai compiuta a un punto tale da potere consentirne una valutazione di insieme.
Quale che sia l’esito del Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, i tempi sono ormai maturi per cominciare a pensare al «dopo». L’esperienza ci insegna, infatti, che al momento in cui si procede alla firma di un accordo intergovernativo si sta già pensando alla riforma successiva.[1]
Al di là delle scelte di merito assunte dalla Convenzione[2] e via via annacquate dai consessi intergovernativi fino alle decisioni che hanno condotto al Trattato di Lisbona, la vera novità di questo tentativo di riforma dell’Unione europea è rappresentata dalla constatazione dei limiti del metodo intergovernativo, accompagnata dal goffo tentativo di superarli attraverso la Convenzione. La Convenzione rappresenta, infatti, un tentativo di ripiego, minimale rispetto alla constatazione dei limiti di legittimità, di trasparenza democratica e di capacità decisionale propri del metodo intergovernativo. Non solo il metodo intergovernativo è restato, nel «modello Laeken», quello utilizzato nella fase decisionale ma la Convenzione ha mostrato tutti i limiti derivanti dalla sua insufficiente legittimazione democratica:[3] l’incapacità di suscitare un autentico dibattito nell’opinione pubblica, l’incapacità di fare prevalere un suo funzionamento di stampo parlamentare, a favore di un metodo decisionale (il consenso) tipico del negoziato diplomatico, la prevalenza — al suo interno — del ruolo delle componenti governative.[4]
Tuttavia, non si può non riconoscere come la scelta di affidare la prima fase del procedimento di revisione dei trattati ad un organo come la Convenzione, oltre ad essere quasi il massimo possibile senza modifiche dei trattati vigenti, abbia rappresentato un rilevante elemento di innovazione nel metodo di riforma delle norme fondamentali dell’UE, forse il più importante che resta dall’esame di quest’ultima tappa del processo di unificazione, che volge ormai al termine.
È dunque da questo «mezzo passo avanti» (il cui risultato è stato ridimensionato successivamente da non pochi indietreggiamenti) che è necessario ripartire nello studio dei possibili sviluppi dell’integrazione ed in particolare dei loro aspetti procedurali e della relativa sostenibilità giuridica. Esula da questo esame l’analisi del dato relativo alla necessaria volontà politica a sostegno del progetto, elemento pregiuridico che deve essere dato per acquisito. Tuttavia, la sostenibilità formale del progetto stesso, pur non essenziale a fronte di una travolgente volontà politica «rivoluzionaria», può facilitarne l’affermazione, quanto meno spuntando alcuni argomenti critici. Come scrisse un grande giurista federalista, Piero Calamandrei, mostrare la possibilità di determinate scelte ne facilita l’assunzione, in guisa che il potere agevola il volere,più che il contrario.[5]
2. Pensando al dopo Lisbona.
Se, come è verosimile oltre che augurabile, il tema del rafforzamento dell’unificazione politica europea è destinato a riproporsi nei prossimi anni, può essere utile l’avvio, già adesso, di riflessioni che, tenuto conto del quadro politico nel quale vanno ad inserirsi, tendano a valutare la fattibilità giuridica delle diverse ipotesi avanzabili.
È però necessario partire da alcune considerazioni preliminari.
Una prima constatazione, di ordine prevalentemente politico ed ormai assodata,[6] riguarda l’impossibilità di giungere ad un approfondimento dell’integrazione politica dell’UE con una riforma a 27 dei trattati.
Esula, invece, dal contesto di questo intervento l’esame della possibilità di utilizzare le cooperazioni rafforzate, tanto nella versione contenuta nel Trattato di Nizza che nei progetti successivi,[7] al fine di procedere all’approfondimento dell’integrazione, essendo queste riflessioni riferite a evoluzioni dell’unificazione di portata tale da presupporre un superamento dei trattati vigenti come anche di quello firmato a Lisbona, ora in corso di ratifica, e finanche del testo, ormai storico, del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. Non pare negabile, tuttavia, che — a normazione fondamentale invariata — le cooperazioni possano rappresentare uno strumento importante per realizzare avanzamenti nell’unificazione europea. Allo stesso modo, però, non devono essere sottovalutati i loro limiti, relativi alla fase dell’instaurazione della cooperazione, al rischio di frammentazione del processo di unificazione tra varie cooperazioni diversamente partecipate (la c.d. Europa «à la carte») e alla loro effettiva possibilità di consentire l’esercizio di un vero potere sovranazionale, superando il metodo comunitario.[8]
Se è dunque assodata la difficoltà di avanzare nell’integrazione politica a 27 è, d’altra parte, necessario considerare che l’UE rappresenta ormai un dato talmente acquisito da rendere inverosimile o, almeno, estremamente improbabile, tanto la possibilità che un ipotetico gruppo di Stati membri determinato a portare avanti l’unificazione accetti di farlo escludendo unilateralmente gli altri componenti dell’Unione che non condividono l’intenzione, quanto un rassegnato recesso dall’UE di un’ipotetica minoranza di Stati non disponibili a portare avanti l’unificazione europea.
Nel delineare possibili procedure di rilancio del processo è pertanto necessario tentare di coniugare due elementi, per certi versi antitetici:
a) la (probabile) possibilità che solo alcuni Stati membri proseguano nell’integrazione politica;
b) la garanzia della stabilità del legame derivante dai trattati vigenti (o, meglio, dal Trattato in corso di ratifica) tra gli Stati intenzionati a proseguire nell’integrazione e quelli che non intendono farlo.
Un’altra valutazione preliminare riguarda lo strumento istituzionale adeguato a segnare un passo avanti nel senso dell’integrazione politica. L’esperienza della Convenzione deve essere superata, proseguendo però nel senso dalla stessa tracciato: quello di affidare ad un organo assembleare ad hoc (sulla cui composizione sono possibili svariate soluzioni) la funzione di discutere ed approvare l’atto costitutivo dell’Europa politica. Per evitare di ricadere nei limiti che hanno caratterizzato (negativamente) la Convenzione, tale assemblea dovrebbe comunque avere una maggiore legittimazione democratica,[9] possibilmente diretta, vale a dire essere eletta (almeno in parte) direttamente dai cittadini degli Stati partecipanti, a valle di una campagna elettorale imperniata sul mandato dell’assemblea.
3. Le soluzioni possibili.
Per giungere alla composizione di un’assemblea ad hoc, preferibilmente in parte di provenienza elettiva, esistono svariate procedure attivabili, ciascuna con caratteristiche peculiari. Tutte devono confrontarsi con vari interrogativi, tra i quali: 1) quale base giuridica può avere l’avvio e la disciplina della procedura; 2) quale rapporto ha la procedura col diritto comunitario vigente; 3) come e quando determinare quali paesi aderiscono al progetto; 4) come e quando decidere della disciplina dei rapporti tra il risultato dell’approfondimento politico dell’Unione e l’UE esistente.
Alcune ipotesi affidano ad una «forzatura»[10] dell’art. IV-443 del vecchio progetto di trattato costituzionale — ora[11] art. 48 del TUE, come modificato dal Trattato di Lisbona — la fase di avvio.
Si tratterebbe in sostanza di prevedere la convocazione di una nuova Convenzione (possibile anche a maggioranza), ma con dei poteri o una composizione diversa da quella prevista dall’articolo menzionato.
Una prima possibilità è quella della convocazione di una «Convenzione costituzionale».[12] In questo caso la Convenzione dovrebbe diventare una sede di confronto tra Parlamento europeo (PE) e Parlamenti nazionali e di codecisione di questi con i governi, dovendo i rappresentanti dei parlamenti essere posti sullo stesso piano di quelli dei governi. Ciò comporterebbe, sostanzialmente, l’eliminazione della Conferenza intergovernativa (CIG) sostituita dalla codecisione tra rappresentanti parlamentari e governativi in seno alla Convenzione. Successivamente seguirebbe il momento delle ratifiche con una clausola che preveda un quorum di validità alternativo all’unanimità.
Secondo un’altra ipotesi[13] la Convenzione dovrebbe avere una composizione diversa da quella prevista come ordinaria (art. IV-443 prima 48 adesso) ed essere eletta in concomitanza alle elezioni del PE.
Le decisioni di questa Convenzione-Assemblea ad hoc dovrebbero poi essere adottate dai governi ed eventualmente sancite da un referendum europeo.[14] Gli Stati che decidessero di non aderire potrebbero utilizzare l’ex art. I-60 (ora, art. 50 del TUE nella versione consolidata che considera il Trattato di Lisbona) per decidere di recedere dall’UE così modificata, negoziando le condizioni future delle relazioni tra UE e Stato/i recedente/i.
Queste procedure cercano di attenersi al dato normativo di diritto comunitario originario, anche se entrambe collocano un momento di rottura delle regole contenute nei trattati in occasione della decisione sulla convocazione della Convenzione / CIG.
Tra i loro limiti, la difficoltà di sostenere la convocazione a maggioranza di una Convenzione «costituente» o «trasformata» in assemblea ad hoc. Gli Stati contrari all’avvio della procedura di revisione dei trattati non acconsentirebbero a derogare alla composizione o ai poteri della convenzione rispetto a quanto previsto dal trattato, mentre una deroga del genere pare ammissibile solo se assunta all’unanimità. Inoltre, seguendo questo iter, i paesi contrari fin dall’inizio alla procedura finalizzata ad un approfondimento della coesione politica (questa sarebbe la sostanza del mandato, verosimilmente su proposta di alcuni Stati e/o della commissione e/o del PE) parteciperebbero all’assemblea con un ruolo di freno se non di aperto boicottaggio. Al termine di questa vicenda gli Stati contrari ad una maggiore unificazione, qualora minoranza, dovrebbero abbandonare, sia pure in maniera negoziata, l’Unione. Questa potrebbe essere considerata, anche da Stati favorevoli all’unificazione, una condizione troppo pesante da accettare.
La «Convenzione costituente», inoltre, non risponderebbe all’esigenza di assicurare al processo una effettiva legittimazione democratica ed il relativo dibattito tra la pubblica opinione.
Un’altra soluzione ipotizzabile presuppone un accordo essenzialmente politico tra gli Stati intenzionati ad avviare un processo di maggiore unità e gli altri. Tale accordo, successivo ad una rottura maturata al momento del voto per la convocazione di una Convenzione con maggiori poteri e/o a seguito della presentazione (da parte del PE, in particolare) di un progetto di revisione dei trattati molto innovativo, potrebbe essere contenuto in una dichiarazione del Consiglio europeo, come accaduto a Laeken, che prevedesse l’elezione (o la nomina) di un’assemblea ad hoc composta solo dai rappresentanti degli Stati disponibili ad accettare il mandato che la stessa dichiarazione dovrebbe fissare. Allo stesso tempo però la dichiarazione dovrebbe dettare le condizioni di massima dei rapporti tra il soggetto giuridico che potrebbe scaturire dall’assemblea e l’UE esistente, prevedendo altresì la convocazione di una CIG per apportare le modifiche eventualmente necessarie al trattato UE (per es. nel caso di organi comuni).[15]
In questo caso la base giuridica comunitaria sarebbe molto tenue e il progetto sarebbe sostenuto, sostanzialmente, da un accordo unanime comprendente il mandato per l’assemblea e la gestione della convivenza tra il risultato dell’assemblea e l’UE che continuerebbe ad esistere. La distinzioni tra Stati pro approfondimento e contrari si consumerebbe però in anticipo sulla definizione del mandato, ciò consentirebbe una gestione più costruttiva dell’assemblea ad hoc tra i disponibili; tale procedura dovrebbe essere affiancata — preferibilmente — da una CIG diretta a stabilire nel dettaglio i termini di coesistenza tra le due strutture, sulla base dell’accordo di massima sancito dal Consiglio europeo contestualmente alla definizione del mandato per l’assemblea.
Un’ultima possibilità è quella di una convocazione dell’assemblea ad hoc (o comunque di un organo costituente) del tutto al fuori dai trattati europei. Gli Stati interessati potrebbero, secondo questa logica, firmare un accordo tra loro volto a definire il mandato e le procedure dell’assemblea, al termine della quale sarebbero chiamati a fare definitivamente proprio o meno il prodotto della stessa. Parte del mandato potrebbe essere proprio la definizione delle relazioni tra l’entità che si andrebbe a costituire e l’UE.
Questa procedura sarebbe totalmente al di fuori del diritto comunitario ma non in contrasto con esso[16] e presupporrebbe una fortissima volontà politica da parte degli Stati promotori, disposti a farsi carico unilateralmente della rottura con gli altri membri dell’UE che, pur invitati o addirittura pur partecipando alla prima fase del negoziato, non volessero aderire all’accordo «base», ed anche della gestione dei rapporti con l’UE alla quale continuerebbero ad aderire. Si tratta di una procedura ricalcata, con gli opportuni aggiornamenti, su di un modello pensato in una situazione di assenza di qualsiasi sviluppo del processo di integrazione europea.[17] Nella situazione attuale pare, però, difficilmente perseguibile. La presenza di un’UE strutturata ed allargata è infatti allo stesso tempo un segno del successo del processo di unificazione ma anche un elemento di rallentamento con il quale ci si deve confrontare in un’ottica negoziale.
4. Conclusioni.
In prima approssimazione tutte le soluzioni prese in esame presentano pregi e difetti, pertanto nessuna può essere scartata a priori. Tuttavia degna di un particolare approfondimento pare l’ipotesi che prevede un accordo tra gli Stati intenzionati ad andare verso un’Unione politica e gli altri, concluso al momento della verifica di questo dissenso, prima dell’avvio di una vera fase costituente. Essa, infatti, non presenta né il rischio di ripercorrere i limiti della passata Convenzione né quelli insiti in una rottura unilaterale.
Siamo ad ogni modo in presenza di un quadro non esaustivo sul quale riflettere e da adattare alle situazioni che si dovessero determinare (p. es. il ruolo del PE dopo il 2009). Si tratta dunque di ipotesi che, al di là delle valutazioni sulla loro ammissibilità giuridica, non sono positive o negative in sé ma in relazione al contesto politico nel quale verranno dibattute.
* Questo scritto riproduce, con qualche aggiornamento, poche integrazioni e l’aggiunta di un apparato minimo di note, il testo dell’intervento svolto, il 12 ottobre 2007 a Forlì, nell’ambito del Convegno «L’attualità del pensiero di Altiero Spinelli nel centenario della nascita».
[1] In questo senso, di recente, P.V. Dastoli, «Chi ha paura del super-Stato europeo», in Il Mulino, 4, 2007, p. 738; più in generale è stato, correttamente, notato come dall’Atto unico europeo in poi si sia innescato un processo di revisione generale permanente o semipermanente dei trattati (così, M. Cartabia, «Riflessioni sulla Convenzione di Laeken: come se si trattasse di un processo costituente», in Quaderni costituzionali, 2002, p. 443; v. altresì U. Draetta, «L’Europa nel 2002», in Il Federalista, XLII, 2002, p. 83).
[2] Sulla Convenzione v., fra i tanti, F. Clementi, «La Convenzione sull’avvenire dell’Europa: il mandato, l’organizzazione, i lavori», in F. Bassanini e G. Tiberi (a cura di) Una Costituzione per l’Europa, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 23 e segg.
[3] Sottolineano questo dato P. V. Dastoli, op. cit., p. 738; S. Pistone, «Solo con il superamento dei veti nazionali si avrà una Costituzione europea», in Piemonteuropa, n. 1/2 Giugno 2007, p. 2.
[4] Le mie opinioni critiche in tema sono argomentate più ampiamente e, soprattutto, con richiami ad opinioni ben più autorevoli espresse in dottrina, in S. Aloisio, «Attualità delle riflessioni di Piero Calamandrei sul procedimento costituente europeo», in A. Landuyt e D. Pasquinucci (a cura di), L’Unione europea tra Costituzione e governance, Cacucci, Bari, 2004, 102 e segg;. e Id., «Da Amsterdam a Laeken: la Convenzione europea»,in corso di pubblicazionein L.V. Majocchi (a cura di), L’Unità europea: ieri, oggi, domani. Le radici storiche, le ragioni e le prospettive politiche di un possibile rilancio europeo dopo la mancata ratifica della Costituzione, in Francia e Paesi Bassi. Atti del Convegno, Pavia, 30 novembre – 1° dicembre 2006.
[5] P. Calamandrei, «Disegno preliminare di federazione mondiale – Presentazione», 1949, ora in Scritti e discorsi politici, a cura di N. Bobbio, I, 2, Firenze, La Nuova Italia, 1966, p. 466, afferma: «tra gli altri coefficienti che possono indurre gli uomini a volere, c’è anche quello di persuaderli che, se volessero, le difficoltà pratiche per arrivare allo scopo non sarebbero insormontabili. Il motto volere è potere è più vero capovolto: potere è volere».
[6] Quest’opinione è, ormai, talmente diffusa tra esponenti politici,analisti della politica europea ecc. da rendere superflua qualsiasi citazione, anche solo esemplificativa.
[7] Per un commento riferito a quanto disposto dal Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa — testo che resta sostanzialmente invariato anche a seguito del Trattato di Lisbona — v. G. Tiberi, «Le cooperazioni rafforzate»,in F. Bassanini e G. Tiberi (a cura di) La Costituzione europea, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 191 e segg.
[8] Mettono in evidenza i limiti delle cooperazioni rafforzate, R.A. Lorz, «L’attuabilità degli Stati Uniti d’Europa in una Unione europea allargata»,in Il Federalista, XLVIII (2006), p. 185 e segg. e G. Rossolillo, «Nucleo federale e Unione europea», ivi, pp. 202-203.
[9]In questo senso, S. Pistone, op. cit., p. 3.
[10] P.V. Dastoli, op. cit., p. 739, parla di una «un’applicazione straordinaria» dell’art. IV-443 del Trattato costituzionale, mantenuto anche nel testo approvato a Lisbona.
[11] I rinvii puntuali sono riferiti alla versione consolidata del trattato sull’Unione europea e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, pubblicata in GUUE in n. C 115 del 9 maggio 2008.
[12] Ne parla G. Montani, Relazione alla direzione del 15 settembre 2007, in www.mfe.it. p. 2.
[13] In questo senso, P.V. Dastoli, op. cit., p. 739.
[14] Anche a proposito dell’utilizzazione del meccanismo referendario come strumento di legittimazione del processo di unificazione non possiamo nemmeno sfiorare il tema, sia perciò consentito rinviare, ancora una volta, a S. Aloisio, «Legittimazione democratica del processo costituzionale europeo e strumento referendario»,in D. Preda (a cura di) L’Europa agli albori del XXI secolo, Cacucci, Bari, 2006, p. 375 e segg.
[15] L’esigenza di garantire la compatibilità tra diversi livelli di integrazione è da tempo oggetto di riflessioni, v. in proposito, A. Padoa Schioppa, «Unione europea e comunità europea due assetti istituzionali incompatibili?», in Il Federalista, XXX (1988), p. 210 e segg. e Id. «Nota sulla riforma istituzionale della CEE e sull’Unione politica», in Il Federalista, XXXIII (1991), p. 63 e segg., in part. p. 71.
[16] Sul punto v. L.S. Rossi, «Gli Stati Uniti nell’Europa»,in 301 del 16.06.06 www.caffeeuropa.it/unione/301rossi.html.
[17] Per vari aspetti, infatti, ricorda la proposta messa a punto da Calamandrei per la relazione sulla convocazione di un’assemblea costituente europea, presentata al II Congresso internazionale dell’Unione Europea dei Federalisti, tenutosi a Roma dal 7 all’11 novembre 1948, cfr. P. Calamandrei, «La convocazione dell’Assemblea costituente europea», 1948, ora in Scritti e discorsi politici, cit., p. 440 e segg.