Anno L, 2008, Numero 2, Pagina 108
I principi democratici dell'Unione europea nel Trattato di Lisbona*
UGO DRAETTA
1. Premessa.
Il Trattato firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007 modifica il Trattato sull’Unione europea (qui di seguito «TUE») e il Trattato che istituisce la Comunità europea, il quale ultimo assume anche il nuovo nome di Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (qui di seguito «TFUE»).[1] Il Trattato di Lisbona, tra le varie innovazioni rispetto ai testi precedenti, introduce nel TUE un Titolo II intitolato «Disposizioni relative ai principi democratici» nel quale sono raggruppate una serie di norme nuove insieme a norme preesistenti, tutte volte a migliorare la democraticità dell’intero sistema dell’Unione europea. Tali norme, già in parte contenute nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004, e successivamente abbandonato, costituiscono la risposta ai pressanti inviti inclusi nella Dichiarazione di Laeken, emessa dal Consiglio europeo il 15 dicembre 2001, la quale, nel definire il mandato della Convenzione sul futuro dell’Europa, faceva riferimento ben dodici volte alla necessità di «legittimità democratica», «controllo democratico», «valori democratici» e simili, a testimonianza del fatto che il livello di democraticità del sistema rimaneva ancora a quel momento il nodo cruciale irrisolto della costruzione europea.
Come è ampiamente noto, infatti, ognuno dei vari trattati di revisione del Trattato di Roma, che si sono susseguiti a partire dall’Atto Unico Europeo, si è proposto tra gli obiettivi principali quello di risolvere, o almeno attenuare, il problema del cosiddetto deficit o gap democratico, che ha accompagnato fin dalle origini il processo di integrazione comunitaria e che è parso aggravarsi con il progressivo allargamento delle competenze dell’Unione europea. Si tratta, in sostanza, della percezione di un inadeguato livello di rappresentatività democratica da parte di istituzioni comunitarie che possono emettere atti di natura sostanzialmente legislativa suscettibili di applicarsi direttamente ai cittadini e di un altrettanto inadeguato livello di controllo parlamentare cui è sottoposto il Consiglio, in quanto organo legislativo dell’Unione europea stessa. Alcuni, sulla base dell’aumento dei casi di coinvolgimento del Parlamento europeo nel processo decisionale comunitario attraverso la procedura della codecisione, nonché della considerazione che ogni membro del Consiglio in definitiva risponde al suo parlamento nazionale, hanno sminuito la portata e la gravità del problema. Altri, invece, osservando che la procedura di codecisione non dà comunque al Parlamento europeo la possibilità di orientare l’azione comunitaria secondo il suo volere e che il controllo dei parlamenti nazionali sui membri del Consiglio dei rispettivi Stati di appartenenza appare troppo remoto per essere significativo, hanno mostrato maggiore preoccupazione per il problema stesso.
Comunque, la soluzione del problema del deficit democratico è stata rinviata di volta in volta da ogni revisione di trattati alla successiva, senza, però, che ricorressero mai le condizioni politiche per una definitiva soluzione dello stesso. Questo non deve sorprendere ed appare, in certa misura, scontato nell’attuale contesto dell’integrazione europea. Infatti, l’unico sistema per eliminare completamente il deficit democratico resta quello di rispettare nell’ambito dell’Unione europea il principio della separazione dei poteri, attribuendo quello legislativo ad un organo democraticamente eletto, a cui affidare anche il controllo politico dell’esecutivo. Ciò si potrebbe compiutamente realizzare solo in due modi: o conferendo al Parlamento europeo (già eletto a suffragio universale diretto) il potere di avere l’ultima parola in merito all’emanazione degli atti legislativi, anche in caso di disaccordo del Consiglio, o facendo eleggere il Consiglio direttamente dai cittadini europei, così da trasformarlo da organo rappresentante degli Stati in una sorta di Camera Alta, o Senato, di una struttura bicamerale federale, in cui fossero rappresentate le istanze statali e/o regionali. Ma queste soluzioni implicherebbero svolte in senso federale, con conseguente perdita della sovranità degli Stati membri. Tali svolte sono apparse fino a questo momento politicamente improponibili, così che il problema del deficit democratico può essere solo attenuato, ma non completamente risolto.
2. I principi democratici e la democrazia rappresentativa.
In questo contesto, e con questi precedenti, i redattori del Trattato di Lisbona, consapevoli del fatto che i cittadini degli Stati membri si sentiranno veramente vicini all’Unione europea solo se sarà migliorato il livello della loro partecipazione democratica al funzionamento della stessa, hanno introdotto per la prima volta nel TUE, come detto, un Titolo II significativamente intitolato «Disposizioni relative ai principi democratici», nel quale è inclusa l’enunciazione di principio (art. 10, n. 1, TUE) secondo cui il funzionamento dell’Unione europea si fonda sulla «democrazia rappresentativa». Le relative norme sono volte a coinvolgere nel funzionamento dell’Unione europea i cittadini europei (sia direttamente che attraverso i parlamenti nazionali che li rappresentano) nella maggior misura possibile, senza oltrepassare, ovviamente, quella soglia al di là della quale il coinvolgimento stesso farebbe venire meno la sovranità degli Stati membri. Infatti, se l’Unione europea fosse compiutamente basata sul principio della democrazia rappresentativa, essa, come appena accennato, sarebbe un’entità federale che si sostituirebbe agli Stati membri. La necessità politica di non valicare il limite suddetto ha come conseguenza che le norme di cui discuteremo risentono della innegabile difficoltà a realizzare precari equilibri istituzionali nell’attuale contesto dell’integrazione europea e, quindi, la loro formulazione è spesso il frutto di qualche ambiguità ed acrobazia redazionale.
L’art. 10 TUE articola le basi su cui si fonda il principio della democrazia rappresentativa, riferendosi ai seguenti dati: (i) i cittadini europei sono direttamente rappresentati, a livello dell’Unione europea, nel Parlamento europeo, (ii) i rappresentanti degli Stati membri nel Consiglio europeo e nel Consiglio sono democraticamente responsabili dinanzi ai loro parlamenti nazionali o ai loro cittadini, (iii) ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione europea, (iv) i partiti politici a livello europeo contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione europea.
La norma in esame, nel suo encomiabile sforzo di sistematicità, offre elementi che costituiscono indubbi progressi nella direzione dell’attenuazione del problema del deficit democratico, pur nei limiti intrinseci che abbiamo appena menzionato.
Scendendo ad un’analisi più particolareggiata, il riferimento alla rappresentatività del Parlamento europeo assume senz’altro un rilievo significativo dato il maggior numero di decisioni che ora, sulla base del testo di Lisbona, devono adottarsi secondo la procedura legislativa ordinaria sostanzialmente equivalente a quella di codecisione. Tale procedura, prevedendo l’adozione congiunta dell’atto da parte del Consiglio e del Parlamento europeo, dà a quest’ultimo, in sostanza, un diritto di veto, ma non gli consente, in mancanza dell’accordo del Consiglio, di orientare l’azione dell’Unione europea secondo il suo volere, come il concetto di democrazia rappresentativa richiederebbe. Il riferimento, poi, al fatto che ciascun membro del Consiglio europeo o del Consiglio risponde politicamente dinanzi al rispettivo parlamento nazionale, in quanto Capo di Stato o di governo o membro del governo nazionale, è una ovvia considerazione che non vale, tuttavia, a conferire una legittimità democratica a tali istituzioni a livello dell’Unione europea. Esse, infatti, continuano ad essere sottratte collegialmente al controllo politico del Parlamento europeo, restano espressione degli esecutivi dei rispettivi Stati e i loro membri sono responsabili politicamente dinanzi ai rispettivi parlamenti nazionali in relazione al perseguimento degli interessi nazionali, non di quelli generali dell’Unione europea. Nessuna delle due istituzioni può, quindi, essere considerata come seconda camera, democraticamente eletta, di un sistema parlamentare bicamerale, né sarebbe, quindi, lecito intendere l’affermazione secondo cui la funzione legislativa è esercitata nell’Unione europea congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio (art. 14, n. 1 e art. 16, n. 1, TUE) come una qualsiasi assimilazione di tale funzione a quella caratteristica di un parlamento bicamerale in un sistema democratico.
Quanto alla partecipazione dei cittadini alla vita democratica dell’Unione europea, l’art. 10, n. 3, TUE contiene innanzitutto l’esplicito riferimento ai principi di prossimità e di trasparenza, secondo cui le decisioni vanno adottate nella maniera il più possibile aperta e vicina ai cittadini. Inoltre, l’art. 11, n. 1, TUE ricorda la possibilità per i cittadini di far conoscere e scambiare pubblicamente le loro opinioni in tutti i settori di azione dell’Unione europea, specie in occasione dell’emanazione da parte della Commissione dei cosiddetti Libri Verdi. Una novità interessante, al riguardo, è costituita dall’attribuzione ad un numero di cittadini di almeno un milione di un potere d’iniziativa, in base al quale essi possono invitare la Commissione a presentare proposte di atti giuridici ai fini dell’attuazione dei Trattati (art. 11, n. 4, TUE). I cittadini cui compete questo potere devono, però, appartenere ad un numero «significativo» di Stati membri, numero che verrà specificato in seguito dal Parlamento europeo e dal Consiglio ex art. 24, co. 1, TFUE.
Infine, il riferimento al ruolo dei partiti politici a livello europeo non aggiunge molto a quanto precedentemente previsto. Ricordiamo che i partiti si aggregano là dove esiste un potere politico da conquistare o da mantenere. La loro funzione, in uno Stato democratico, è quella di competere per la formazione di una maggioranza in un organo legislativo, di cui l’esecutivo possa essere espressione ed al cui controllo politico l’esecutivo stesso sia sottoposto. Il ruolo dei partiti politici nel Parlamento europeo, privo di un esclusivo potere legislativo e della possibilità di controllo politico sul Consiglio, non può essere assimilabile a quello dei partiti politici nazionali, ma va visto piuttosto come un esercizio preparatorio di un’auspicabile evoluzione dell’Unione europea, o di una parte dei suoi Stati membri, in senso federale. Un’importante novità al riguardo è, però, prevista dall’art. 17, n. 7, TUE (completato e precisato dalla Dichiarazione n. 11 allegata al testo di Lisbona), secondo cui il Consiglio europeo, nel proporre al Parlamento europeo un candidato per la carica di presidente della Commissione, deve tenere conto delle elezioni del Parlamento europeo, e, quindi, tale candidato deve essere, in linea di principio, espressione del partito politico che ha ottenuto la maggioranza nel Parlamento europeo. Questa norma si presta ad una lettura in chiaroscuro. Da un lato, essa aggiunge, sul piano formale, un elemento di democraticità nell’impianto istituzionale dell’Unione europea. D’altro lato, non è ovvio che una caratterizzazione così marcatamente politica del presidente della Commissione e la sua identificazione con una maggioranza di riferimento, sia necessariamente un bene per un organo, quale è la Commissione, cui spetta promuovere l’interesse generale dell’Unione europea al riparo dai condizionamenti politici cui è, invece, necessariamente sottoposto il Consiglio. A noi sembra, piuttosto, che la Commissione, nell’esercizio del suo potere di vigilanza sull’applicazione dei trattati, debba essere assolutamente sottratta a tale condizionamento politico, mentre, nell’esercizio del suo potere di iniziativa legislativa, debba formulare proposte nell’esclusivo interesse generale dell’Unione europea, proposte che sarà poi compito del Parlamento europeo e del Consiglio valutare dal punto di vista politico.
3. Le norme sulla cittadinanza europea.
Nell’ambito delle disposizioni relative ai principi democratici e alla partecipazione dei cittadini alla vita democratica dell’Unione europea in particolare, l’art. 9 TUE menziona la nozione di cittadinanza dell’Unione, riconosciuta fin dal Trattato di Maastricht, e ora articolata dalle norme di cui agli artt. da 20 a 25 TFUE, le quali innovano poco in materia.
È cittadino dell’Unione, ai sensi dell’art. 9 TUE, chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. È da intendersi che tale ultimo requisito vada determinato in base alla legislazione nazionale di ciascuno Stato membro, di modo che la cittadinanza dell’Unione si acquista o si perde a seguito dell’acquisto o della perdita della cittadinanza nazionale.[2] Nei casi in cui uno Stato membro riconosca ad un individuo una doppia cittadinanza (quella di detto Stato e di uno Stato terzo), tale doppia cittadinanza non pregiudica per l’individuo in questione il godimento dei diritti in cui si concreta la cittadinanza dell’Unione negli altri Stati membri, quale che sia la legislazione di tali Stati. In questo senso si è pronunciata la Corte di Giustizia[3] quando ha obbligato la Spagna a garantire i diritti derivanti dalla cittadinanza dell’Unione ad un individuo cui l’Italia aveva riconosciuto la doppia cittadinanza italiana ed argentina, anche se tale individuo risiedeva in Argentina e, pertanto, secondo la legge spagnola, fosse la cittadinanza argentina ad avere prevalenza.
L’art. 9 TUE precisa che la cittadinanza dell’Unione «si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce», precisazione ripetuta dall’art. 20, n. 1, TFUE. Si tratta, quindi, di un concetto di cittadinanza sui generis: esso non va confuso con la cittadinanza nazionale propria degli ordinamenti interni, la quale implica la soggezione ad uno Stato. L’Unione europea adotta, in verità, una sua nozione convenzionale di cittadinanza, che non mutua alcuna delle caratteristiche tipiche di tale status quali previste negli ordinamenti interni, ma che trova la sua definizione solo nei trattati. A questo proposito, sebbene l’art. 20, n. 2, TFUE specifichi che i cittadini dell’Unione «godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti nei trattati», di fatto le norme relative si riferiscono solo a diritti e non contemplano alcun dovere connesso alla cittadinanza dell’Unione, a conferma della natura sui generis dell’istituto.
In buona sostanza, il cittadino dell’Unione gode (a) del diritto di circolare liberamente e di soggiornare nel territorio degli Stati membri (art. 21 TFUE); (b) dell’elettorato attivo e passivo nello Stato di residenza (se diverso da quello di appartenenza) per le elezioni del Parlamento europeo e per quelle comunali, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato (art. 22 TFUE); (c) della protezione diplomatica e consolare da parte di uno qualunque degli Stati membri, alle stesse condizioni dei cittadini di quest’ultimo, nei confronti di un paese terzo nel quale egli si trovi e dove lo Stato di cittadinanza non sia rappresentato (art. 23 TFUE); (d) del diritto di petizione al Parlamento europeo, di ricorso al Mediatore europeo (abilitato a ricevere denunce per casi di cattiva amministrazione), di rivolgersi alle istituzioni e agli organi consultivi dell’Unione Europea in una delle lingue dei trattati e di ricevere una risposta nella stessa lingua (art. 20, n. 2, lett. d, TFUE).
L’elenco di tali diritti non è inteso come tassativo (cfr. le parole «tra l’altro» premesse all’elenco di cui all’art. 20, n. 2, TFUE) e, del resto, nuovi diritti possono essere aggiunti con delibera unanime del Consiglio, soggetta per la sua entrata in vigore alla «approvazione» degli Stati membri secondo le rispettive norme costituzionali (art. 25, co. 2, TFUE). Tale allargamento dei diritti richiede, quindi, in sostanza, una speciale procedura di revisione semplificata dei trattati, diversa da quella procedura di revisione semplificata prevista in generale dall’art. 48, n. 6, TUE. Le differenze consistono nel fatto che è il Consiglio, e non il Consiglio europeo, l’organo motore dell’iniziativa, nonché nel fatto che la modifica riguarda la Parte Seconda del TFUE (in cui sono incluse le norme sulla cittadinanza dell’Unione), mentre la procedura di revisione semplificata di cui all’art. 48, n. 6, TUE può riguardare solo le norme della Parte Terza del TFUE. Le analogie comprendono, invece, la non necessità di convocazione né di una Convenzione, né di una Conferenza intergovernativa, nonché il comune riferimento alla «approvazione» e non alla «ratifica» da parte degli Stati membri. Tale riferimento può far pensare a forme di manifestazione della volontà dello Stato a vincolarsi meno rigorose di una formale ratifica, ma che devono pur sempre essere conformi al dettato costituzionale interno.[4] Per quanto riguarda il nostro ordinamento, ci si potrebbe interrogare in merito alla possibilità di introdurre tali modifiche come accordi in forma semplificata, che non richiedono la ratifica e, quindi, nemmeno l’autorizzazione alla ratifica da parte del Parlamento. Ci sembra, però, che a tale conclusione osti l’art. 80 della nostra Costituzione, che richiede l’intervento del Parlamento per i trattati di natura politica e per quelli che implicano modificazione delle leggi (una modifica dei trattati comporta sempre una modifica della legge di autorizzazione alla ratifica e dell’ordine di esecuzione dei trattati precedenti).
La non tassatività dell’elenco dei diritti si giustifica anche per il fatto che alcune norme della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000 (Carta di Nizza), cui ora l’art. 6, n. 1, TUE riconosce lo stesso valore giuridico dei trattati, prevedono alcuni diritti a favore esclusivamente dei cittadini degli Stati membri, e non solo di ogni persona, diritti che sono sostanzialmente ripetitivi di quelli sopra menzionati.
I principali diritti derivanti dalla cittadinanza dell’Unione meritano qualche commento specifico, per verificare in quale misura essi realmente riguardano la partecipazione democratica dei cittadini alla vita dell’Unione.
Per quanto riguarda la libertà di circolazione e di soggiorno, essa è riconosciuta ai cittadini dell’Unione in quanto tali, anche, quindi, se non sono (o cessano di essere) lavoratori, i quali ultimi godono di un regime particolare di libera circolazione sulla base delle norme di cui alla Parte Terza, Titolo IV, TFUE. Vale la pena ricordare che ancora più ampia è la nozione di libera circolazione delle persone, di cui alle norme sullo spazio di libertà, sicurezza e giustizia contenute nella Parte Terza, Titolo V, TFUE, in quanto di essa beneficiano tutte le persone, siano esse o meno cittadine di uno Stato membro.
La libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari è stata disciplinata dalla direttiva n. 2004/38/CE del 29 aprile 2004, la quale richiede, all’art. 7, che, per un soggiorno superiore a tre mesi, il beneficiario debba dimostrare, tra l’altro, di disporre di sufficienti risorse economiche per non essere un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato ospitante. Inoltre, tale libertà non è senza limiti, in quanto lo stesso art. 21, n. 1, TFUE fa salve «le limitazioni e le condizioni previste dai Trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi». In particolare, l’art. 27 della suddetta direttiva prevede la possibilità per uno Stato membro di adottare provvedimenti restrittivi della libertà stessa per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza o sanità pubblica, pur nel rispetto del principio di proporzionalità.
L’art. 21 TFUE, e la direttiva appena menzionata, pur costituendo norme dirette agli Stati membri, attribuiscono ai beneficiari un diritto azionabile dinanzi ai giudici nazionali, in quanto la «efficacia diretta» della precedente norma che corrispondeva all’art. 21 TFUE è stata già riconosciuta dalla Corte di Giustizia.[5]
Circa l’elettorato attivo e passivo nello Stato di residenza (se diverso da quello di appartenenza) per le elezioni comunali, il suo effettivo riconoscimento ha in qualche Paese richiesto modifiche costituzionali.[6] In attuazione della norma in esame, il Consiglio ha emanato la direttiva n. 94/80/CE del 19 dicembre 1994. Tale direttiva prevede la facoltà per i cittadini dell’Unione di scegliere se votare nel proprio Stato nazionale o in quello di residenza, nonché la possibilità per gli Stati di negare la eleggibilità di non cittadini alla carica di capo di un ente locale di base (ad esempio un Sindaco) e di introdurre misure derogatorie qualora la percentuale di cittadini dell’Unione residenti, ma non nazionali, superi il venti per cento.[7] L’elettorato attivo e passivo di cui alla norma in esame si ricollega al divieto di discriminazioni sulla base della nazionalità, enunciato dall’art. 18 TFUE, le cui implicazioni non hanno, però, portato fino a prevedere per i cittadini dell’Unione la possibilità di partecipare alle elezioni politiche nello Stato, eventualmente diverso, di residenza.
L’elettorato attivo e passivo nello Stato di residenza (se diverso da quello di appartenenza) per le elezioni del Parlamento europeo, era già in precedenza previsto unilateralmente da alcuni Stati. Le modalità di esercizio di tale diritto sono contenute nella direttiva n. 93/109/CE, emanata dal Consiglio il 6 dicembre 1993.[8]
La protezione diplomatica e consolare nei paesi terzi corrisponde ad una prassi già radicata nelle relazioni internazionali ed espressamente prevista sia dalla Convenzione di Vienna del 18 aprile 1961 sulle relazioni diplomatiche (artt. 6 e 46), che dalla Convenzione di Vienna del 24 aprile 1963 sulle relazioni consolari (artt. 8 e 27). In adempimento della norma in esame, i rappresentanti dei governi degli Stati membri, riuniti in sede di Consiglio, hanno emanato la decisione n. 95/553, del 19 dicembre 1995, riguardante la tutela dei cittadini dell’Unione da parte delle rappresentanze diplomatiche e consolari. Tale tutela comprende i casi di decesso, incidente grave, arresto, atti di violenza, rimpatrio in caso di difficoltà, ma non può comportare aiuti economici senza la previa autorizzazione dello Stato membro di cittadinanza. Ovviamente, perché tale protezione possa trovare attuazione, è prevista la conclusione di opportuni accordi non solo tra gli Stati membri interessati, ma soprattutto tra questi e lo Stato terzo nel quale il cittadino dell’Unione cerca protezione. È appena il caso di ricordare che la protezione diplomatica e consolare in esame non ha nulla a che vedere con la protezione diplomatica esercitabile secondo il diritto internazionale generale dallo Stato il cui cittadino, in un altro Stato, abbia subito un torto come conseguenza della violazione degli obblighi circa il trattamento degli stranieri.
Alla luce di quanto sopra indicato, solo i diritti di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo, nonché i diritti relativi alle petizioni e al ricorso al Mediatore riguardano propriamente la partecipazione del cittadini alla vita democratica dell’Unione europea, mentre gli altri diritti connessi alla cittadinanza dell’Unione sono esercitabili piuttosto nei confronti degli Stati membri e la loro inclusione tra le disposizioni relative a tale partecipazione appare una forzatura.
4. Il coinvolgimento dei Parlamenti nazionali.
Le disposizioni relative ai principi democratici, raggruppate nel Titolo II del TUE, si completano con una serie norme, quasi tutte introdotte dal testo di Lisbona, relative al coinvolgimento dei parlamenti nazionali nel buon funzionamento dell’Unione europea. Tali norme sono riassunte nell’art. 12 TUE e completate da altre disposizioni del TFUE, nonché dal Protocollo n. 1, sul ruolo dei parlamenti nazionali nell’Unione europea, allegato al testo di Lisbona.
Anzitutto, l’art. 12, lett. a, TUE prevede in via generale che i parlamenti nazionali vengano informati sui progetti di atti legislativi che le istituzioni dell’Unione europea intendono emanare, ricevendone i relativi progetti. Tale obbligo di informazione è specificato nel suddetto Protocollo n. 1, il quale prevede la trasmissione ai parlamenti nazionali (a) di tutti i documenti di consultazione (Libri Verdi, Bianchi e comunicazioni) che la Commissione produce, (b) di tutte le proposte di atti legislativi inoltrate al Parlamento europeo e al Consiglio da chiunque abbia, nell’ambito dell’Unione europea, un potere di iniziativa o di richiesta (Commissione, gruppo di Stati membri, Parlamento europeo, Corte di Giustizia, Banca centrale europea, Banca europea per gli investimenti).[9]
Questi obblighi di informazione sono finalizzati a permettere ai parlamenti nazionali l’esercizio dei poteri di controllo (e, in alcuni casi, di veto) previsti dalle altre norme dei trattati, di cui diremo subito. Al riguardo, viene soprattutto in rilievo l’art. 12, lett. b, TUE, secondo cui i parlamenti nazionali vigilano sul rispetto del principio di sussidiarietà, ed hanno la facoltà, prevista dall’art. 3 del suddetto Protocollo n. 1, di inviare ai presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione pareri motivati qualora ritengano che tale principio non sia rispettato. Gli effetti di tali pareri motivati sono quelli previsti dal Protocollo n. 2 sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità.
Tale Protocollo n. 2, modificando accordi interistituzionali e altri protocolli precedenti, stabilisce le procedure di attuazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, contemplando un intervento molto incisivo dei parlamenti nazionali. Anzitutto, vengono ripetuti i suddetti obblighi di informazione dei parlamenti nazionali, già previsti dal Protocollo n. 1, relativamente ad ogni proposta di atto legislativo dell’Unione europea. Tale proposta, ai sensi dell’art. 5 del Protocollo n. 2, deve essere dettagliatamente motivata sotto il profilo del rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità. Essa deve, in particolare, contenere «elementi circostanziati» che consentano la valutazione del rispetto di tali principi, con indicatori sia qualitativi che, ove possibile, quantitativi, ivi compreso l’impatto finanziario. In altri termini, ogni proposta deve tenere conto della necessità che gli oneri finanziari per l’Unione europea e/o per gli Stati membri siano i meno gravosi possibili e commisurati all’obiettivo da raggiungere.[10]
Entro otto settimane dalla trasmissione di una tale proposta ciascun parlamento nazionale può presentare ai presidenti delle principali istituzioni dell’UE un «parere motivato» (come già prescrive il Protocollo n. 1) che espone le ragioni che lo inducano a ritenere che la proposta in questione non rispetti il principio di sussidiarietà (la norma — art. 6 del Protocollo n. 2 — non menziona il principio di proporzionalità). Limitandoci per brevità al solo caso in cui l’atto richieda la procedura legislativa ordinaria, qualora la maggioranza dei parlamenti nazionali abbia inoltrato tali pareri motivati la proposta deve essere riesaminata dalla Commissione. Il riesame può condurre al mantenimento, modifica o ritiro della proposta stessa. In caso di mantenimento, la Commissione deve spiegare in un parere motivato perché ritiene la proposta conforme al principio di sussidiarietà e sottoporre la questione al Consiglio e al Parlamento europeo. A questo punto, perchè la proposta venga abbandonata occorre che il Consiglio o il Parlamento europeo adottino una decisione di non conformità con il principio di sussidiarietà rispettivamente a maggioranza del 55% dei suoi membri o dei voti espressi.
In conclusione, relativamente al mantenimento di una proposta anche in presenza di opposizioni da parte della maggioranza dei parlamenti nazionali, l’ultima parola spetta al Consiglio o al Parlamento europeo, ciascuno dei quali, ove non vengano raggiunte le maggioranze richieste, può determinare tale mantenimento. Due osservazioni ci sembrano pertinenti al riguardo. Anzitutto, la situazione più sopra prospettata si presta ad originare possibili conflitti tra Parlamento europeo e parlamenti nazionali, che è sperabile non si verifichino in concreto, ma che non è possibile escludere in astratto, dato che i parlamenti nazionali rappresentano gli interessi dei cittadini di ciascuno Stato e non quelli generali di tutti i cittadini europei. In secondo luogo, il coinvolgimento dei parlamenti nazionali in tema di controllo del rispetto del principio di sussidiarietà pare assumere una valenza più formale che sostanziale. Se si aggiunge che il procedimento relativo a tale coinvolgimento è alquanto farraginoso, è dubbio che la norma risulterà di frequente applicazione. Tuttavia, un parlamento nazionale che ritenesse un atto dell’Unione europea contrario al principio di sussidiarietà può sempre indurre il suo governo a presentare un ricorso alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 8 del Protocollo n. 2. Quest’ultima norma prevede che uno Stato nazionale possa presentare un ricorso di legittimità alla Corte, ex art. 263 TFUE, per violazione del principio di sussidiarietà, anche a nome del suo parlamento nazionale, dando così a quest’ultimo la possibilità indiretta di fare valere le sue obiezioni ad una proposta, eventualmente contenute in un parere motivato che non abbia sortito l’effetto sperato a seguito della procedura di coinvolgimento dei parlamenti nazionali che abbiamo appena menzionato. Ovviamente, il diritto dell’Unione europea non può entrare nel merito della disciplina stabilita in ciascuno Stato membro, a livello costituzionale, circa i rapporti tra parlamento e governo e, quindi non può imporre ad uno Stato di presentare un ricorso alla Corte qualora lo richieda il parlamento nazionale. L’art. 8 del Protocollo n. 2, infatti, stabilisce che la trasmissione di un ricorso da parte di uno Stato a nome del suo parlamento avviene «in conformità con il rispettivo ordinamento giuridico interno». D’altra parte, poiché in uno Stato democratico il governo è sottoposto al controllo politico del parlamento nazionale, è da ritenere che la norma sortirà in genere l’effetto voluto. Piuttosto è da osservare che tale effetto avrebbe potuto prodursi anche in assenza della esplicita menzione che ne fa l’art. 8 del Protocollo n. 2, in quanto il ricorso perviene alla Corte solo dallo Stato membro e poco rileva, ai fini del giudizio sul ricorso stesso, la circostanza che, all’interno dello Stato in questione, sia stato il parlamento nazionale a richiederne al Governo la presentazione.
Il Protocollo n. 1 non prevede altri casi, oltre quello della non conformità con il principio di sussidiarietà, in cui i parlamenti nazionali possano reagire, tramite l’invio di un parere motivato, ad un progetto di atto legislativo dell’Unione europea, ma prevede, invece, in via generale, che il Consiglio non possa iscrivere un progetto di atto legislativo all’ordine del giorno, ai fini della sua adozione, prima del decorso di otto settimane dalla data di trasmissione di tale progetto ai parlamenti nazionali. Ricordiamo che è appunto entro otto settimane che, in base al Protocollo n. 2, i parlamenti nazionali possono formulare i loro eventuali pareri motivati circa la non conformità del progetto stesso al principio di sussidiarietà.
L’art. 12, lett. c, TUE prevede che i parlamenti nazionali, nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, partecipano ai «meccanismi di valutazione ai fini dell’attuazione delle politiche dell’Unione» e «sono associati al controllo politico di Europol e alla valutazione delle attività di Eurojust». Nell’ambito di tali formule alquanto elaborate sono comprese varie forme di intervento, non omogenee tra di loro.
Anzitutto, anche in questo settore, i parlamenti nazionali vigilano sull’applicazione del principio di sussidiarietà, come ripete l’art. 69 TFUE e come sarebbe avvenuto anche senza questo espresso richiamo. Inoltre, i parlamenti nazionali sono «informati» delle valutazioni che gli Stati membri compiono, in base all’art. 70 TFUE, in merito all’attuazione da parte delle autorità degli Stati membri delle politiche dell’Unione europea nel settore. Sono parimenti «informati» dei lavori del comitato permanente istituito in seno al Consiglio per assicurare all’interno dell’Unione europea la promozione ed il rafforzamento della cooperazione in materia di sicurezza interna (art. 71 TFUE). A tale diritto all’informazione non corrispondono, però, specifici poteri che i trattati attribuiscono ai parlamenti nazionali.
Molto più significativo è, invece, il diritto di veto che l’art. 81, n. 3, ult. co., TFUE attribuisce a ciascun parlamento nazionale in merito a qualsiasi proposta di atto legislativo riguardante gli aspetti del diritto di famiglia aventi implicazioni transnazionali. La scelta dei redattori dei trattati riflette le perplessità palesate da alcuni Stati membri circa le incursioni del legislatore dell’Unione europea nel campo del diritto di famiglia. Il diritto di veto in questione è esercitabile entro sei mesi dal ricevimento della proposta.
Infine, sempre nel settore dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, l’art. 85, n. 1, ult. co., TFUE e l’art. 88, n. 2, ult. co., TFUE prevedono l’emanazione di regolamenti volti, rispettivamente ad «associare» i parlamenti nazionali alla valutazione delle attività di Eurojust, nonché al controllo delle attività di Europol. Nessuno specifico potere viene, però, attribuito dai trattati ai parlamenti nazionali in connessione con tale «associazione».
L’art. 12, lett. d, TUE, alle prerogative dei parlamenti nazionali aggiunge la partecipazione alle procedure di revisione dei trattati, in conformità all’art. 48 TUE. Si tratta, in particolare, della procedura di revisione semplificata prevista dall’art. 48, n. 7, TUE, che riguarda la possibilità di escludere il requisito dell’unanimità a favore dell’adozione della procedura della maggioranza qualificata per alcune decisioni del Consiglio o di modificare, in alcuni casi, la procedura di decisione del Consiglio da procedura legislativa speciale a procedura legislativa ordinaria. In entrambi questi casi,il Consiglio europeo deve trasmettere ai parlamenti nazionali la proposta di modifica e non può adottarla se uno solo dei Parlamenti nazionali notifichi entro sei mesi la propria opposizione. Il silenzio dei parlamenti nazionali entro il termine di sei mesi consente al Consiglio europeo l’adozione della modifica, che entrerà in vigore senza necessità di un’ulteriore ratifica o approvazione da parte degli Stati membri. Si introduce, così, nel nostro ordinamento una procedura di conclusione di accordi internazionali non prevista dalla Costituzione, in quanto l’intervento del parlamento non avviene in sede di autorizzazione alla ratifica da parte del Capo dello Stato ed emanazione dell’ordine di esecuzione, ma in sede di approvazione tout court della modifica stessa. Tale procedura potrebbe sollevare delicati problemi di costituzionalità, come del resto è già accaduto in altri paesi con riferimento alla norma analoga contenuta nel precedente Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, non entrato in vigore.[11]
L’art. 12, lett. e, TFUE menziona anche il diritto dei parlamenti nazionali ad essere «informati» in merito alle domande di adesione di Stati terzi all’Unione europea, in conformità all’art. 49 TUE, mentre, infine, l’art. 12, lett. f, TUE dispone che i parlamenti nazionali partecipino, insieme al Parlamento europeo, ad una «cooperazione interparlamentare» definita, in termini essenzialmente programmatici, dagli artt. 9 e 10 del suddetto Protocollo n. 1, i quali prevedono anche che una conferenza degli organi parlamentari specializzati per gli affari dell’Unione europea possa discutere argomenti che rientrano nella politica estera e di sicurezza comune, senza che a tale discussione siano collegate particolari conseguenze sul piano giuridico.
Anche se le norme appena esaminate danno ai parlamenti nazionali solo alcuni diritti di informazione e di controllo, ai quali sono collegati poteri generali di un certo rilievo essenzialmente in tema di osservanza del principio di sussidiarietà, oltre che nell’ambito della procedura di revisione semplificata dei trattati, esse presentano, almeno in apparenza, aspetti positivi sotto il profilo della democratizzazione del funzionamento dell’Unione europea e della sua vicinanza ai cittadini rappresentati nei parlamenti nazionali. Al ruolo di questi ultimi nella fase di elaborazionedegli atti dell’Unione europea era, infatti, stato tradizionalmente attribuito un rilievo meramente interno, circoscritto alle modalità di formazione della volontà che sarebbe stata poi espressa da ciascuno Stato membro in sede di Consiglio. Tuttavia, tali norme si prestano ad una lettura meno positiva. Infatti, è il potenziamento del ruolo del Parlamento europeo (che agisce nell’interesse generale dei cittadini dell’Unione europea), non dei parlamenti nazionali (che agiscono nell’interesse dei cittadini dei rispettivi Stati membri), la modalità di democratizzazione dell’Unione europea più coerente con le caratteristiche complessive del sistema. Il coinvolgimento dei parlamenti nazionali previsto dai trattati può essere, invece, visto come una implicita delegittimazione del Parlamento europeo, a scapito dell’interesse generale dei cittadini europei da esso rappresentato, nonché come un tentativo da parte degli Stati membri di mettere ulteriormente sotto tutela il metodo comunitario, accrescendo i mezzi a propria disposizione per condizionarne lo sviluppo. Va, infine, osservato che, se pure dal coinvolgimento dei parlamenti nazionali possa in ipotesi derivare un qualche condizionamento dell’attività dei rispettivi rappresentanti degli Stati membri in sede di Consiglio, tale condizionamento non potrà che essere nel senso della tutela degli interessi dei cittadini nazionali rappresentati, appunto, in tali parlamenti nazionali. Tale coinvolgimento non varrà, in altri termini, a dare legittimità democratica al Consiglio, a livello dell’Unione europea, così da poterlo assimilare alla seconda camera di un sistema bicamerale, dato che una tale legittimità non potrebbe che derivare dall’elezione diretta dei membri del Consiglio stesso.
5. Conclusione.
Le riforme introdotte dal Trattato di Lisbona nel tentativo di affrontare il problema del deficit democratico del funzionamento dell’Unione europea si dimostrano quindi nella maggior parte dei casi ambigue se non addirittura controproducenti, e laddove contengono dei parziali miglioramenti, questi sono di entità troppo lieve per poter contribuire a sanare in modo significativo il problema.
Le ragioni strutturali dei limiti di tale riforme sono sostanzialmente due: la prima riguarda il fatto che gli Stati membri attualmente non condividono una visione comune circa la possibile evoluzione dell’Unione europea, e rimangono divisi tra i paesi che vorrebbero rafforzare le prerogative dei poteri nazionali (gli unici che ritengono possano essere democratici) e quelli che vorrebbero invece rafforzare — e democratizzare — le istituzioni europee. Da questa situazione strutturale consegue che solo superando l’unanimità prevista dai trattati, e quindi con un atto di rottura da parte di un gruppo di paesi, Francia e Germania in primis, si potrebbe uscire dall’attuale impasse. La seconda ragione è quella cui si faceva riferimento già all’inizio, vale a dire che solo compiendo il salto federale, e quindi assumendo le caratteristiche di un vero Stato dotato della prerogativa della sovranità e fondato sul consenso e la legittimazione diretta dei cittadini, l’Unione potrà eliminare il deficit democratico insito nella sua natura di organizzazione confederale. Finché non maturerà, in particolare nell’ambito dei paesi fondatori, la volontà di assumere un’iniziativa in tal senso, l’Unione è destinata a perpetuare questo suo vizio di origine — se non addirittura ad accentuarlo viste le difficoltà arrecate sotto questo profilo dai continui allargamenti — e a vedere il proprio consenso tra i cittadini calare progressivamente, sino a rischiare di mettere in crisi l’intero edificio comunitario.
* Il presente lavoro costituisce la rielaborazione di una relazione preparata dall’Autore per il Convegno su «L’Unione Europea di fronte alle sfide dell XXI secolo: quali progressi con il Trattato di Lisbona?», svoltosi il 9 maggio 2008 presso l’Università Cattolica di Milano.
[1] Sul Trattato di Lisbona, citiamo solo, da ultimo, R. Baratta, Le principali novità del Trattato di Lisbona, DUE, 2008, p. 21 e segg.; M. Fragola, Osservazioni sul Trattato di Lisbona tra Costituzione europea e processo di «decostituzionalizzazione», DCSI 2008, p. 205 e segg, cui rinviamo per gli ampi riferimenti bibliografici; sullo specifico tema dei principi democratici, v. J. Ziller, Il nuovo Trattato europeo, 2007, p. 71; C. Morviducci, «Il ruolo dei Parlamenti nazionali nel nuovo Trattato», in Sud in Europa, numero speciale dedicato alla riforma di Lisbona, Anno XI, Bari, febbraio 2008, 23 e segg; A. Santini, «Non basta un nuovo Trattato per rilanciare l’Europa», in Vita e Pensiero, n. 1/2008, 32 et seq., spec. 37.
[2] La Dichiarazione n. 63, allegata al testo di Lisbona, riguarda la particolare situazione dei cittadini dei territori britannici d’oltremare.
[6] Ciò è avvenuto, ad esempio, in Francia a seguito della pronuncia del Consiglio Costituzionale del 9 aprile 1992.
[8] L’Italia vi ha dato attuazione con d.l. 24 giugno 1994, n. 408, convertito nella l. 3 agosto 1994, n. 483.
[9] I Parlamenti nazionali, ai sensi del Protocollo n. 1, devono anche ricevere copia degli ordini del giorno e dei verbali delle sessioni nelle quali il Consiglio delibera su progetti di atti legislativi.
[10] È da ritenersi che il semplice difetto di motivazione al riguardo possa senz’altro condurre all’impugnazione dell’atto dinanzi alla Corte di Giustizia per violazione delle forme sostanziali, ai sensi dell’art. 263 TFUE. Al riguardo, la prassi mostra che le motivazioni circa il principio di sussidiarietà o di proporzionalità compaiano nei «considerando» dei vari provvedimenti e siano a volte succinte. La Corte, quando è stata investita del problema, ha mostrato di accontentarsi di tali motivazioni succinte o, a volte, persino implicite (v., ad esempio, la sentenza del 13 maggio 1997, causa C-233/94, Germania c. Parlamento e Consiglio).
[11] V. la decisione del Conseil constitutionnel francese n. 2004/505 DC del 19 novembre 2004, in Journal Officiel de la République française del 24 novembre 2004, p. 19885).