IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXIX, 1987, Numero 3, Pagina 214


 

Riflessioni sulla ragion di Stato americana e le relazioni Europa-America
 
GUIDO MONTANI
 
 
In un recente volume di saggi e discorsi,[1] Henry Kissinger discute le grandi opzioni della politica estera americana dal punto di vista di un osservatore esterno al meccanismo governativo che coinvolge il politico attivo (policymaker). E’ un angolo visuale, afferma l’ex Segretario di Stato nella Prefazione, particolarmente utile per esaminare le caratteristiche strutturali e di lungo periodo dei problemi internazionali. Chi è nella posizione di prendere quotidianamente decisioni non ha il tempo per analisi approfondite: «L’esperienza ha insegnato al nuovo osservatore esterno che i problemi di cui il politico attivo è cosciente sono i più urgenti, non necessariamente i più importanti» (p. IX). E in effetti la raccolta di saggi di Kissinger offre importanti elementi di riflessione sulla natura della politica internazionale, dal privilegiato punto di vista di una superpotenza, in una fase in cui le acquisizioni della scienza e la sempre più stretta interdipendenza economica impongono soluzioni globali a problemi che assillano l’umanità intera.
Il canone di interpretazione dei fatti politici contemporanei adottato da Kissinger viene definito con molta precisione nel corso dei saggi: esso corrisponde alla ragion di Stato americana, vale a dire al ruolo che gli USA devono svolgere nei confronti delle altre potenze mondiali per mantenere od accrescere il loro potere. La peculiare situazione in cui si trovano gli Stati Uniti viene così descritta: «Gli anni Ottanta rappresentano una fase in cui gli Stati Uniti devono riorientare la loro politica estera così come già altre nazioni hanno fatto nel corso della loro storia. Negli anni Cinquanta gli Stati Uniti rappresentavano il 52% del prodotto lordo mondiale. In quelle circostanze, la nostra politica estera consisteva di fatto nell’identificazione dei problemi e nel destinare abbondanti risorse alla loro soluzione. I nostri alleati erano ampiamente dipendenti da noi ed i nostri avversari avevano bisogno soprattutto di essere convinti che noi intendevamo ricavare profitti da qualsiasi questione che ci coinvolgesse. Da allora, in ogni decennio successivo, la percentuale del prodotto lordo mondiale relativa agli USA è diminuita del 10%. Oggi gli Stati Uniti rappresentano circa il 21 o il 22%, del prodotto lordo mondiale. Questo fatto, anche se siamo ancora la più importante entità economica mondiale, ci impone alcuni vincoli che la nostra tradizione storica ci rende difficile accettare… Oggi, per la prima volta nella nostra storia, se il resto del mondo dovesse cadere sotto una dominazione ostile, saremmo chiaramente sopraffatti. La nostra politica d’ora in poi dovrebbe essere molto simile a quella che la Gran Bretagna ha condotto nei confronti dell’Europa continentale per molti secoli. Il principio fondamentale della politica britannica è consistito nel riconoscimento del fatto che un’Europa unita sotto il governo di una singola potenza dominante sarebbe stata in condizioni di sopraffare e mettere in pericolo la Gran Bretagna; perciò, la Gran Bretagna divenne l’ago della bilancia dell’equilibrio europeo, un ruolo che perseguì con un’azione sobria, senza eccessi emotivi, e con un’attenta valutazione della bilancia del potere (balance of power). Nei confronti del resto del mondo, gli Stati Uniti oggi si trovano in una posizione analoga. Il mantenimento dell’equilibrio non è affatto un favore che facciamo alle altre nazioni. E’ una condizione della nostra sopravvivenza» (pp. 79-80).
Il perseguimento degli equilibri mondiali di potere rappresenta dunque la stella polare della politica estera statunitense. E Kissinger, con molta lucidità, si sforza di applicare questo principio alle principali questioni internazionali. L’ex Segretario di Stato si considera un realista: non ha senso schierarsi a spada tratta né per grandi ideali, né per il mantenimento di un ordine ormai condannato dagli avvenimenti. Vale solo la pena di perseguire quelle politiche che possono raggiungere l’obiettivo cruciale del rafforzamento dell’influenza americana nel mondo. Tuttavia, questo classico precetto di politica estera non sembra più tanto efficace nel mondo contemporaneo. Il lettore non può fare a meno di cogliere qua e là evidenti difficoltà: il mantenimento dell’equilibrio bipolare crea alla lunga più difficoltà di quante non ne risolva a breve. Ad esempio, nel Medio Oriente — la questione forse più complessa in cui l’amministrazione americana è inevitabilmente implicata con rischi enormi — Kissinger riconosce che «l’Egitto — e, se siamo onesti verso noi stessi, una parte rilevante del Dipartimento, di Stato — tenta di spingere le trattative nella direzione del riconoscimento di una entità palestinese, l’inevitabile crisalide di uno Stato palestinese» (p. 54). Ma, poco oltre, ammette che «la creazione di un altro Stato radicale con finalità irredentistiche nei confronti della Giordania e di Israele è inconciliabile con la stabilità del Medio Oriente» (p. 98). Si tratta del classico colpo al cerchio e colpo alla botte: l’America cerca di andare d’accordo con tutte le parti in causa (soprattutto con la potente lobby ebraica interna), con il risultato di aggravare le tensioni locali.
Ancora più stridente è la contraddizione insita nella politica estera americana verso il Terzo mondo. «E’ chiaro — afferma Kissinger — che il progresso mondiale e la pace richiedono che il centinaio di nuove nazioni in via di sviluppo entri a far parte del sistema internazionale; nessun ordine internazionale può sopravvivere a meno che esse se ne sentano parte integrante» (p. 20). Kissinger è ben cosciente, in proposito, della impossibilità per questi popoli di partecipare all’ordine mondiale — che per ora è solo quello dei paesi ricchi — senza una efficace politica di aiuti allo sviluppo, tanto che si spinge a proporre un nuovo Piano Marshall statunitense a favore dei popoli dell’America latina. Ma, in ultima istanza, è la politica come arte del possibile a prendere il sopravvento. «In un periodo di austerità nel mondo industrializzato, gli aiuti ufficiali non possono essere sostanzialmente aumentati. I paesi in via di sviluppo devono adattarsi alla realtà che sono gli investimenti esteri privati la fonte più promettente di sviluppo» (p. 72). Tuttavia, molto realisticamente, lo stesso Kissinger riconosce che questa politica non può non provocare, nel lungo periodo, un indebitamento crescente del Terzo mondo sul mercato finanziario e che non sono affatto infondati i timori di una nuova e drammatica crisi economica internazionale, di dimensioni ancora maggiori di quella del 1929. Il mondo è sull’orlo di un baratro e sono urgenti importanti riforme ammette Kissinger — sia nel sistema degli scambi commerciali (gli Stati nazionali sono sempre più tentati dal protezionismo) sia nel sistema monetario internazionale (è pericoloso insistere nella politica delle fluttuazioni). La costruzione di un nuovo ordine economico internazionale è dunque all’ordine del giorno. L’iniziativa non può venire che dagli USA. «Solo l’America può condurre il mondo verso una rapida ripresa economica» (p. 137), afferma con sicurezza Kissinger. Ma al lettore resta il dubbio legittimo di sapere — ammesso che l’America sia veramente in grado di promuovere la ripresa mondiale — come mai il governo statunitense (proprio mentre Kissinger era al potere) abbia scelto la via delle fluttuazioni monetarie e non quella del rafforzamento del sistema di Bretton Woods.
Le maggiori difficoltà e contraddizioni emergono, tuttavia, nei confronti della politica della sicurezza. La sicurezza degli USA dipende da due fattori fondamentali: i rapporti con l’URSS e quelli con l’Europa occidentale, il principale alleato degli Stati Uniti. Kissinger riconosce con molta lucidità la situazione di stallo in cui si trovano gli Stati Uniti: «Da quando l’Unione Sovietica ha acquisito la capacità di minacciare gli Stati Uniti con una risposta nucleare diretta, la garanzia americana di provocare una guerra totale per difendere l’Europa era destinata a perdere la sua credibilità ed il pubblico consenso, così come la politica di difesa strategica della NATO. Infatti questa strategia si fonda ora sulla minaccia di un suicidio reciproco… Come conseguenza, noi viviamo in una situazione di pericolosa combinazione di fiducia nella difesa nucleare, di propensioni verso lo stallo nucleare, di crescente pacifismo nucleare e di continua mancanza di forze convenzionali. Se le democrazie sono riluttanti a ricorrere alle armi nucleari e se esse continuano a sfuggire alla necessità di rafforzare le loro forze convenzionali, allora l’Alleanza occidentale sarà lasciata senza alcuna politica di difesa e noi rischieremo il collasso della bilancia militare che ha reso possibile trentacinque anni di sicurezza, prosperità e democrazia nell’Occidente. Avremo in effetti raggiunto il risultato di disarmare unilateralmente noi stessi mentre siamo seduti sulla più grande catasta di armamenti che il mondo abbia mai visto» (pp. 65-6).
E’ a questo punto che il lettore comincia a nutrire seri dubbi sul valore della stella polare individuata da Kissinger come guida sicura per l’incerto policymaker statunitense. Kissinger si dice convinto della superiorità degli USA, a meno che avvengano mutamenti sostanziali negli equilibri internazionali, nei confronti dell’URSS. Ad esempio, per quanto riguarda l’economia, «il dilemma del comunismo — afferma — è che sembra impossibile governare una moderna economia con un sistema di pianificazione totale; tuttavia non è possibile mantenere un sistema comunista senza un sistema di pianificazione totale» (p. 67). Questa contraddizione è sufficiente a mantenere le distanze tra i due sistemi economici: l’URSS è destinata a rincorrere eternamente gli USA. Ma, sul terreno militare, il lettore non può fare a meno di notare che non esistono ragioni per vantare una sicura superiorità degli USA. Se anche gli armamenti a disposizione delle due superpotenze venissero ridotti della metà, ne resterebbero abbastanza per assicurare una distruzione reciproca (come Kissinger ammette a p. 184). Non è dunque attraverso la ricerca della superiorità militare e tecnologica che gli Stati Uniti possono garantire la loro sicurezza (il progetto SDI non muta la sostanza del dilemma). Il problema di fondo, sul quale Kissinger più a lungo discute nei suoi saggi, è il rapporto con gli alleati europei. E’ l’Europa il terreno decisivo per il futuro dell’Occidente. La NATO è in crisi. Non può sopravvivere senza problemi una alleanza fra ineguali. «Nel lungo periodo — ricorda Kissinger — un sistema di consultazioni funziona solo quando coloro che sono consultati hanno la capacità di azioni indipendenti» (p. 205). Gli Europei non vogliono tuttavia assumersi responsabilità autonome in materia di difesa. Per questo, una delle principali proposte politiche contenute nel libro riguarda un piano di riforma della NATO, in cui Kissinger invita gli alleati europei ad assumersi la responsabilità di sostenere l’onere della difesa convenzionale dell’Europa. Ciò consentirebbe un graduale ritiro delle truppe americane in Europa oppure la loro utilizzazione, pur mantenendo come base l’Europa, in altre regioni del mondo (il Medio Oriente, l’Africa, ecc.). Solo nei confronti di un’Europa politicamente unita e cosciente delle sue responsabilità mondiali sarà possibile migliorare i rapporti fra alleati sulle due sponde dell’Atlantico. «Nel settore della difesa — osserva Kissinger — un’accresciuta responsabilità ed unità europea faciliterebbero una più stretta cooperazione con gli Stati Uniti» (p. 207).
Nei confronti del problema dell’unità europea gli Stati Uniti hanno avuto nel passato e mantengono tuttora un atteggiamento di compiacente attenzione. «Il federalismo — ricorda Kissinger — naturalmente era un sacrosanto principio americano. Appena dopo la Convenzione di Filadelfia, Beniamino Franklin sollecitò i Francesi a prendere in considerazione il progetto di un’Europa federale. Una simile predica, in termini più concreti, era implicita nel Piano Marshall». Gli Americani non sempre sono stati consapevoli del fatto che una maggiore indipendenza europea avrebbe generato motivi di contrasto con gli USA. Si sono illusi che l’Europa potesse condividere interamente le finalità di politica estera degli Stati Uniti e non cercasse di perseguirne altre per conto proprio. «Ma non poteva essere così». Nonostante queste delusioni, conclude Kissinger, «il nostro giudizio originario era corretto: l’unità dell’Europa, la sua forza e la fiducia nelle sue capacità sono essenziali per il futuro dell’Occidente. Restare il solo ed il principale centro di iniziativa e di responsabilità del mondo non comunista va oltre le risorse psicologiche degli Stati Uniti — non solamente quelle fisiche» (pp. 13-14).
 
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Colpisce, in queste osservazioni di Kissinger, l’assillo per problemi che inducono gli Stati Uniti a spingere lo sguardo al di là della loro ragion di Stato, intesa nel senso tradizionale del mantenimento degli equilibri mondiali esistenti. Il mondo attuale è fondato sul bipolarismo russo-americano, ma i maggiori problemi contemporanei costringono le due superpotenze a cercare soluzioni incompatibili con il mantenimento dello status quo. E’ infatti un vero e proprio non senso, in termini di equilibrio bipolare, favorire il processo di unificazione politica dell’Europa e di emancipazione del Terzo mondo. Una simile politica, se perseguita con coerenza, non può condurre che verso il policentrismo e, dunque, verso un ridimensionamento delle superpotenze ad un rango regionale. In verità, il parallelo suggerito da Kissinger fra la posizione della Gran Bretagna nei confronti del sistema europeo degli Stati del secolo scorso e quella attuale degli Stati Uniti è solo parzialmente corretto. Il sistema europeo degli Stati ha rappresentato un ordine internazionale evolutivo sino a che la dimensione dello Stato nazionale si è rivelata sufficiente a garantire lo sviluppo culturale, civile ed economico dei popoli europei. Il quadro nazionale si è, tuttavia, rivelato una insopportabile sovrastruttura già agli inizi del secolo, quando la crescente interdipendenza delle economie europee ha costretto gli Stati del vecchio continente a cercare disperatamente uno «spazio vitale» al di là dei sacrosanti confini nazionali.
Kissinger registra questo fatto nuovo dell’epoca contemporanea. «Per la prima volta nella storia l’economia è diventata veramente internazionale… Nemmeno la profonda differenza politica fra il blocco sovietico e l’Occidente si è rivelata un ostacolo nei confronti di questa tendenza dominante» (p. 223). Ne deriva che il principale compito della politica contemporanea è «quello di risolvere il contrasto fra economia internazionale ed un sistema politico basato sullo Stato nazionale» (p. 225). Da queste corrette premesse, tuttavia, Kissinger non tira la logica conclusione: non è più vero che gli Stati Uniti possono prendere — da soli — la leadership di un processo che possa condurre a soluzione i grandi problemi contemporanei. Non si può più ripetere quanto è avvenuto nell’immediato dopoguerra, con il Piano Marshall e le analoghe iniziative per la costruzione di uno stabile ordine economico internazionale, in cui gli USA hanno giocato un ruolo benefico per il mondo intero (URSS compresa). Qui risiedono le principali difficoltà della attuale politica estera statunitense. Il relativo declino della potenza statunitense nei confronti dei nuovi centri della politica internazionale (Europa, Cina, Giappone, Terzo mondo) sospinge il governo americano a cercare soluzioni fondate sempre di più sull’esercizio della forza, piuttosto che sul consenso degli alleati e degli altri popoli. Ma ciò genera una pericolosa spirale involutiva. La leadership statunitense si è fondata sinora più sul consenso degli alleati che sulla logica imperiale. E’ impensabile che l’America possa mantenere l’unità del mondo occidentale con metodi simili a quelli che l’URSS ha utilizzato nel dopoguerra con i suoi satelliti. La ricerca ostinata del primato mondiale allontanerà ancora di più gli USA dai suoi alleati d’oltreoceano.
Una vera svolta nella politica estera americana non può essere rappresentata che dal rovesciamento dell’attuale ordine di priorità (gli interessi dell’America, dice Kissinger, sono anche gli interessi del mondo). Gli interessi dell’America e dell’intero mondo occidentale possono essere meglio perseguiti se al primo posto verranno posti gli interessi dell’umanità intera o, per essere più empirici, se gli USA assegneranno una priorità assoluta alla soluzione delle grandi questioni mondiali attraverso la cooperazione — e non la contrapposizione — con gli altri centri di potere nel mondo. Oggi è possibile concepire politiche che vadano al di là della ragion di Stato, che rappresentino cioè l’asse portante di una reale distensione internazionale, indispensabile premessa del futuro (anche se lontanissimo) governo mondiale. Le linee direttrici di questa nuova politica statunitense potrebbero essere le seguenti.
1) Nei confronti dell’URSS, l’America dovrebbe cercare di ottenere delle reali garanzie per la propria sicurezza e quella dell’Occidente puntando più sulla trasformazione democratica del regime sovietico che su di una improbabile supremazia militare e tecnologica. L’olocausto nucleare è una minaccia comune ad Americani e Russi. Una guerra atomica, di questo ormai l’opinione pubblica mondiale è convinta, non potrebbe avere effetti limitati a una piccola regione del mondo. Il pericolo della guerra assume oggi una dimensione nuova nella coscienza dei popoli perché una guerra nucleare non lascerebbe né vincitori né vinti. Al punto di perfezione a cui sono giunti la tecnologia nucleare e lo sfruttamento dello spazio è veramente insensato perseguire la sicurezza unicamente in termini militari. L’unica vera garanzia di sicurezza per gli USA consiste nel favorire il processo di democratizzazione che, anche se faticosamente e con passo incerto, è ormai avviato in URSS dopo il XXVII Congresso del PCUS. Nel caso in cui questo processo si radicasse, si manifesterebbero le condizioni per rilanciare un piano di garanzia collettiva simile al Piano Baruch del 1947, quando gli USA, che detenevano allora il monopolio della bomba atomica, offrirono generosamente all’URSS la possibilità di mettere in comune il controllo della nuova tecnologia. La tensione generata dalla guerra fredda non consentì allora di raggiungere risultati apprezzabili, ma sarebbe ben diversa una rinnovata proposta «Baruch» in una situazione in cui l’opinione pubblica mondiale è sempre più preoccupata da fantascientifici progetti di guerre stellari ed auspica passi concreti verso la pace (garantita da un reale potere mondiale di controllo della tecnologia nucleare e non solo da accordi bilaterali).
Passi effettivi nel senso della distensione internazionale potrebbero inoltre essere rappresentati da una maggiore, ed eventualmente completa, liberalizzazione degli scambi commerciali, tecnologici e finanziari fra Oriente e Occidente. Gli USA si ostinano a impedire maggiori aperture anche fra i paesi europei dell’Est e dell’Ovest per ragioni di sicurezza militare. Ma ha senso continuare con questi ostracismi quando ormai USA e URSS sono talmente potenti sul piano militare da potersi distruggere più volte? Ed è legittimo chiedere al regime sovietico di realizzare più democrazia e libertà al suo interno mentre si fa di tutto per ostacolare un inserimento dell’economia sovietica nel mercato internazionale? Non ha sempre sostenuto il governo americano che la libertà economica ha rappresentato in passato e rappresenta tuttora una premessa importante della crescita economica, dello sviluppo della democrazia e, infine, di duraturi rapporti di amicizia fra i popoli?
2) Nei confronti dell’Europa, l’America sente attualmente il disagio di dover sostenere il costo della difesa europea per degli alleati che la ripagano con continue critiche. Kissinger ha ragione: un’alleanza fondata sulla ineguale distribuzione di responsabilità non regge al logorio del tempo. Il rimedio radicale a questo stato di cose è un esplicito invito degli USA agli Europei a provvedere da soli alla propria sicurezza. Sarebbe una scossa salutare per il vecchio continente che ha ormai un Parlamento europeo eletto a suffragio universale, ma non ha il coraggio di assumersi le responsabilità mondiali che dovrebbero competere ad un popolo ricco come quello degli USA e più numeroso di quello dell’URSS. L’Europa ha tutte le risorse sufficienti per assicurarsi una difesa autonoma. Ma a questo proposito occorrerebbe anche riconoscere che non ha senso realizzare le mezze misure proposte da Kissinger. Al limite, la NATO potrebbe essere sciolta, con un duplice vantaggio: si inviterebbero i paesi dell’Est europeo a fare altrettanto con il Patto di Varsavia e si eliminerebbe un fattore di grave tensione fra USA e URSS (la pretesa reciproca di spartirsi l’Europa in zone di influenza). Un’Europa capace di una difesa autonoma (dunque con un proprio deterrente nucleare) sarebbe un’alleata ben più preziosa dell’America di quanto non lo siano oggi i paesi europei, integrati nella NATO, ma del tutto dipendenti dal loro protettore d’oltreatlantico in fatto di difesa. La vera solidarietà fra Europa e Stati Uniti è fondata sulla comunanza di cultura, di regime politico e sulla ormai strettissima integrazione economica. Saranno questi i fattori decisivi per una futura comune azione degli USA e della Federazione europea nella politica mondiale a difesa della democrazia.
3) Nei confronti del Terzo mondo, gli Stati Uniti dovrebbero operare per promuovere un nuovo Piano Marshall mondiale per l’industrializzazione dei paesi sottosviluppati, con la concessione di crediti pubblici a lunga scadenza ai paesi più poveri. Alla realizzazione di questo Piano, il cui obiettivo fondamentale è di colmare il divario che separa il Nord dal Sud del mondo, dovrebbero contribuire tutti i principali paesi industrializzati, in particolare l’Europa occidentale, l’URSS e i paesi dell’Est europeo. Intorno a questo progetto di lunghissimo periodo, potrebbero allora essere ridefinite le strutture di un nuovo sistema monetario internazionale e di un nuovo regime degli scambi. La fondamentale caratteristica delle istituzioni del «nuovo ordine economico mondiale» dovrebbe essere quella di essere aperte alla partecipazione di tutti gli Stati che ne accettano i principi ispiratori e di favorire, nella misura del possibile, la formazione di un libero mercato mondiale con istituzioni monetarie e creditizie sottoposte al controllo collettivo (andrebbe, ad esempio, favorito lo sviluppo di strumenti di pagamento degli scambi internazionali come i Diritti speciali di prelievo (SDR) rispetto all’uso delle monete nazionali come monete di riserva). Va da sé che questo grande progetto di rinnovamento dell’economia mondiale potrebbe sfruttare gran parte delle agenzie ed istituzioni già create all’interno dell’ONU e, in definitiva, rappresenterebbe la spina dorsale di una politica volta al rilancio dell’ONU come principale organismo della cooperazione internazionale. Sul terreno economico, sarà in effetti possibile procedere nella direzione del rafforzamento delle istituzioni internazionali con maggiore gradualità rispetto a quanto è possibile fare sul terreno della sicurezza e degli armamenti. L’esperienza della Comunità europea dovrebbe in proposito rappresentare un modello significativo. Un clima di intensa cooperazione — fra USA, URSS, Europa e Giappone — per sconfiggere il drammatico problema della fame e del sottosviluppo non può che rendere irreversibile il processo di distensione tra Est e Ovest.
L’inversione di tendenza della politica estera americana qui proposta è ispirata al realismo politico, se con esso si intende il perseguimento di una politica che miri ad affrontare con concreti progetti i problemi posti dal corso della storia. Sotto questo aspetto, non è un buon politico, perché destinato alla lunga alla sconfitta, chi punta alla conservazione di un mondo ormai in declino: e non vi è dubbio che la politica estera americana fondata sulla ricerca della supremazia è ormai condannata dalla storia, perché col tempo si rivelerà contraria non solo agli interessi dei popoli alleati, ma degli Americani stessi. Per questo agli Europei incombe una particolare responsabilità. Essi devono condurre a termine, senza più esitazioni, il processo di costruzione della Federazione europea, con un proprio governo, una propria moneta e una propria difesa. La Federazione europea, è bene essere chiari in proposito, potrà divenire una nuova superpotenza ed operare anche in opposizione alla politica estera degli USA. Questo è nella logica di un sistema mondiale basato sugli equilibri di potere. Vi sono, tuttavia, molte ragioni, come si è già detto, che uniscono Europei ed Americani, tanto che non sarebbe affatto inconcepibile porre all’ordine del giorno, in una prima fase, una unione economico-monetaria fra USA ed Europa e, in un secondo tempo, la trasformazione del Patto Atlantico in una vera e propria Federazione Atlantica (con l’eventuale inclusione del Giappone). Ma ciò sarà praticamente impossibile sino a che perdureranno le tensioni fra Est ed Ovest. I popoli europei sentono profondamente i legami di storia e di cultura che li uniscono, al di qua e al di là della cortina di ferro. Vi è inoltre, sempre più radicata nelle coscienze, la convinzione che il mondo sia in marcia verso l’unità e che qualsiasi politica che miri a mantenere in vita i blocchi contrapposti sia ormai condannata dalla storia. Per questo è pressoché impossibile che in Europa occidentale si formi un moto d’opinione pubblica in favore della Federazione atlantica in contrapposizione ai paesi comunisti dell’Est (si pensi solamente al problema tedesco). E’ invece probabile che gli Europei accettino l’obiettivo della federazione delle democrazie se esso significa l’unione di tutti i popoli che accettano alcuni principi fondamentali della convivenza civile, primo fra tutti il pluralismo politico. Ma ad un simile progetto l’URSS dovrebbe essere cordialmente invitata a far parte, eventualmente concordando tutte quelle forme di unità compatibili con il grado di pluralismo e di democrazia realizzati al suo interno. La partecipazione, ad esempio, ad organismi comuni di controllo dell’economia internazionale è già sin da ora possibile ed auspicabile. In definitiva, la Federazione atlantica non dovrebbe rappresentare che una delle possibili varianti del «governo mondiale parziale» proposto da Einstein.
Nuovi fruttuosi rapporti fra federalisti europei ed americani sembrano ormai possibili. I federalisti statunitensi possono operare in favore della federazione fra democrazie, come primo passo verso il governo mondiale, anche attraverso una critica serrata della politica di potenza del loro governo, quando si manifesta, e suggerendo concreti progetti alternativi per il suo superamento. Su questa base — la lotta per il superamento della politica di potenza — può nascere una solida azione comune fra federalisti del vecchio e del nuovo continente.


[1] Henry Kissinger, Observations. Selected Speeches and Essays. 1982-1984, Boston, Little, Brown and Company, 1985.

 

 

 

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