Anno XXVII, 1985, Numero 1, Pagina 62
Progresso tecnico e integrazione europea
WASSILY LEONTIEF
Sono molto lieto di partecipare a questo convegno, anche se penso di essere l’unico non europeo, forse l’unico americano. Sono dunque un amico di famiglia, anche se non ne sono un membro, e naturalmente debbo essere molto modesto nel presentare le mie posizioni e le mie proposte.
Nei pochi minuti che ho a mia disposizione cercherò di sottoporvi alcune idee, alcune riflessioni e anche una raccomandazione, che rappresentano il risultato di un lungo studio del tema specifico sul quale sono stato invitato a parlare, cioè quello del ruolo del progresso tecnico. Mi permetterò anche di esaminare le circostanze particolari nelle quali l’Europa, la sua economia, e la sua società si trovano, e la risposta che l’Europa può dare alla sfida tecnologica.
Ovviamente il concetto di tecnologia è di per sé molto complicato. Ma io cercherò di utilizzare una definizione molto semplice. Altri, se lo vorranno, potranno adottare concetti più elaborati. Ogni tipo di attività produttiva o di servizi, in un tempo definito, utilizza una tecnologia particolare. Un buon esempio è il seguente: se volete impastare e cuocere il pane, potete leggere un libro di cucina per vedere come procedere; esso vi dice quali sono gli ingredienti per fare il pane, quanto tempo e quanto lavoro occorrono. Indica naturalmente anche il capitale, cioè il forno, di cui avete bisogno. Ma sono necessarie anche altre cose. Ad esempio, se il cuocere produce fumo, avrete bisogno, in specie nei nostri tempi moderni, di un ventilatore per eliminare l’inquinamento da fumo, e così via. Voglio dire che se un uomo d’affari intende fare del pane od aprire un negozio per la vendita di pane, deve fare uno studio tecnologico. Il progresso tecnico, in realtà, non è altro che il cambiamento della tecnologia. C’è un nuovo libro di cucina, con nuove ricette. Ciò vale non soltanto per il pane, ma anche per l’acciaio, per le automobili, ecc.
Nella storia, il progresso tecnologico ha rappresentato una forza di propulsione importante dello sviluppo socio-economico. Penso che alla lunga il progresso socio-economico si baserà sempre più sui cambiamenti della tecnologia. Ed è particolarmente interessante sapere che ogni tecnologia ha bisogno di una sua organizzazione economica. Un certo tipo di organizzazione economica che consente di sviluppare in maniera piena ed efficace una specifica tecnologia, magari non è adattabile o non consente di sfruttare adeguatamente un altro tipo di tecnologia.
L’Europa ha ancora alcuni elementi feudali nella sua organizzazione. Tuttavia, anche se ciò sembra paradossale, il Giappone è riuscito tanto bene perché la sua organizzazione feudale era più adatta ad un reale sfruttamento della moderna tecnologia rispetto alle istituzioni europee basate sulla libera iniziativa del XIX secolo. La tecnologia del XIX secolo, grazie alla quale Europa e Stati Uniti si svilupparono, e sono diventati quelli che oggi definiamo paesi sviluppati, si basava sullo sfruttamento della forza meccanica. La macchina a vapore, la macchina a benzina e l’elettricità hanno dato agli uomini ed alle donne la possibilità di produrre una grande e varia quantità di beni, liberando il lavoratore dallo sforzo fisico.
La moderna tecnologia è invece sostanzialmente diversa. Oggi non si impiega più nessuno sulla base dei suoi muscoli, ma si tenta di capire se una persona è intelligente e abile. Con i nuovi calcolatori si riesce a liberare il lavoratore anche da un certo tipo di sforzo mentale. E siamo solo all’inizio della nuova era. Con i progressi contemporanei muta la posizione dell’uomo nell’economia e nella società. L’avvenire è promettente. Potremmo ritornare in paradiso dove ogni cosa è prodotta senza sforzi. Ma anche in un paradiso ci sono tanti problemi: Adamo ed Eva non avrebbero né salario, né altri redditi perché non lavorerebbero e si troverebbero quindi in grosse difficoltà. lo penso che sia questo uno dei problemi fondamentali che noi dovremmo affrontare: cioè, la funzione dell’uomo nella produzione.
Questa funzione, sembra paradossale, si sta riducendo. È una promessa ed una sfida. Quando, due anni fa, la General Motors e la Chrysler entrarono in una crisi acuta, e cominciarono a negoziare con i sindacati sul livello dei salari, fu raggiunto rapidamente un accordo per il semplice fatto che la General Motors riuscì a mettere sul tavolo del negoziato una bozza di fabbrica automatizzata. Mostrò quel progetto ai lavoratori mettendoli di fronte all’alternativa di una drastica riduzione dei posti di lavoro.
Questo è un problema serio, che ha ovviamente degli aspetti istituzionali: quando aumenta la produttività del lavoro si pone il problema di come possa ancora funzionare la nostra società. Nel caso dei cavalli per l’agricoltura la cosa fu molto più semplice. Infatti furono introdotti i trattori ed i cavalli se ne andarono senza problemi. Ma se i cavalli avessero potuto associarsi in un partito e votare, l’esito sarebbe stato molto diverso.
lo penso che tutti questi mutamenti si produrranno molto lentamente. Abbiamo fatto un’analisi di questi problemi negli Stati Uniti e si è previsto che per la fine del secolo, quindi fra sedici anni soltanto, non vi sarà un’ampia disoccupazione tecnologica. Vi saranno modificazioni nelle professioni e nella formazione richiesta. Certo ci saranno delle persone che senza una riqualificazione resteranno senza lavoro. Ma, nei prossimi sedici anni, grazie al rallentamento nella crescita della popolazione, vi saranno meno giovani che entreranno nel mercato del lavoro.
Vorrei ora indicare un problema tecnico ma abbastanza semplice, anche se poi la soluzione non sarà certo facile da trovare. Nel XIX secolo la lunghezza di una giornata di lavoro si ridusse moltissimo. Alla fine del secolo, negli Stati Uniti, la settimana di lavoro media era di 75 ore; oggi, dopo la seconda guerra mondiale, è scesa a 42 ore. Se oggi tutti volessero lavorare 75 ore la settimana sarebbe assolutamente impossibile trovare lavoro per tutti. Personalmente penso che nei prossimi anni si dovrà ridurre il tempo di lavoro, anche se non necessariamente il tempo di lavoro settimanale. Le persone entreranno nel mondo del lavoro più tardi — perché avranno bisogno di una formazione diversa — ed andranno in pensione prima. Naturalmente sorgeranno dei problemi: ad esempio, quale tipo di reddito sarà più appropriato a questa situazione.
Lasciatemi ritornare ai miei cavalli. Negli Stati Uniti, potremmo facilmente mantenere 20 milioni di cavalli in agricoltura. Se lo volessimo veramente, potremmo dire che per la difesa nazionale è necessario avere 20 milioni di cavalli: vi assicuro che il nostro Congresso voterebbe lo stanziamento dei 50 miliardi di dollari per mantenere i cavalli ed il problema sarebbe risolto.
A questo punto si pone un problema etico. Se siete cresciuti in un’atmosfera in cui si può salvare la propria anima lavorando solo 75 ore la settimana, non sarete soddisfatti se si lavora di meno. Si produrrebbero delle forti tensioni sociali. Si dovrebbero cambiare opinioni e atteggiamenti. E ciò è molto difficile, perché l’interesse e la motivazione al guadagno continuano ad essere la forza trainante principale della nostra società. Il fatto, quindi, di aver cominciato a mantenere dei cavalli, anche se non lavorano molto, pone un problema di coscienza e sicuramente vi sentirete a disagio nel pensare allo spreco di risorse generato da questa situazione.
Insomma, si pone il problema della politica dei redditi. L’assistenza medica gratuita è politica dei redditi; la protezione dell’ambiente — che costa moltissimo — è politica dei redditi. E permettetemi di ricordare un mio articolo pubblicato dal New York Times a proposito di una importante discussione sorta sul sistema delle imposte, in relazione al nostro bilancio. Mi permisi, in quel contesto, di osservare che quando negli Stati Uniti — ed in Europa ancora prima — si è introdotta la tassazione dei redditi, si decise che fosse progressiva, perché si voleva fare una politica dei redditi con lo scopo di ridurre a poco a poco le differenze. Ma attualmente, in America, e certamente anche in Europa, la politica dei redditi è fondata non sulle entrate del bilancio, ma sulle uscite del bilancio statale (assistenza sociale, sicurezza medica e tutte le altre attività che vengono finanziate sul capitolo spese). Se si tiene presente questo fatto, mi sembra di poter affermare che poiché le imposte sul reddito pongono gravissimi problemi — evasioni, difficoltà di valutazione, etc. sono in favore di una tassa uniforme sui consumi, con una tassazione più alta per i beni di lusso. Grosso modo questa è una tassazione progressiva. Questo non significa distruggere il risparmio. Qualcuno deve pure risparmiare. Se lo può fare un ricco, fateglielo fare. Se non lo fa, lo devo poter fare io.
Ed ora vorrei andare un poco oltre nel ragionamento. Visto che il processo di cui stiamo discutendo è di lungo periodo, è molto importante guardare avanti, essere lungimiranti, perché questi cambiamenti sono molto lenti, molto difficili ed è importante guardare lontano. A questo proposito, lasciatemi fare un confronto fra USA e Giappone. La cosa interessante, per esempio, è che negli Stati Uniti, dove il rendimento sul capitale investito è di circa il 20-25% — non parlo del tasso di interesse ma di quello che negli affari si chiama rendimento percentuale sul capitale — i nostri investitori pensano di riottenere l’intero capitale dopo un periodo di investimento di quattro anni e mezzo. Così all’imprenditore non interessa poi tanto quello che succede dopo i quattro anni e mezzo, utilizza cioè un orizzonte piuttosto ristretto. Invece, in Giappone il rendimento sul capitale è molto più basso, grosso modo intorno al 12%, per cui l’intero capitale può essere riottenuto in 15 anni. Per questo i Giapponesi sono obbligati a guardare lontano.
La tecnologia moderna esige degli investimenti in beni strumentali che possono essere giustificati soltanto se si guarda lontano. Ripeto sovente che noi Americani guidiamo con le luci di posizione accese, mentre i Giapponesi usano gli abbaglianti. Insomma, negli Stati Uniti si sa benissimo che un presidente di una certa impresa perderebbe sicuramente il suo posto se non fosse capace di ottenere profitti per tre successivi trimestri. Ma con la tecnologia moderna si deve guardare molto più lontano dei tre trimestri successivi per organizzarsi bene ed avere dei risultati effettivi. Attualmente, non v’è dubbio sul fatto che l’introduzione di una nuova tecnologia esiga cambiamenti importanti negli investimenti, nell’occupazione e nella divisione territoriale del lavoro. E questi cambiamenti possono produrre vantaggi per alcuni e sacrifici per altri, durante il periodo di transizione.
A questo proposito vorrei fare un’osservazione specifica sul caso europeo. Supponiamo che nel processo di unificazione europea la tecnologia non cambi affatto — supponiamo che per venti anni o più non vi siano cambiamenti tecnologici. Ebbene l’integrazione economica e politica sarebbe comunque di grande vantaggio per tutta l’Europa, grazie alla divisione del lavoro nelle varie industrie, ad una maggiore concentrazione e ad un maggiore coordinamento produttivo. Ma senza progresso tecnologico vi sarebbe una forte opposizione a questi mutamenti, perché molti gruppi, perlomeno temporaneamente, ne sarebbero svantaggiati. Ed è questa, penso, la ragione principale della resistenza alle trasformazioni produttive ed alla ristrutturazione industriale.
Facciamo ora un’altra ipotesi. Pensiamo ad un’Europa già unificata, in cui avvengano importanti cambiamenti tecnologici. Anche in questo caso vi sarebbero periodi duri, momenti di difficoltà per molti gruppi e per molte industrie che non sono più capaci di tenere il passo con l’innovazione. Ma vi sarebbero anche forti aumenti di produttività e di benessere nei settori più dinamici. Ciò che voglio dire è questo: anche se l’Europa non si unificasse sarebbe comunque obbligata a introdurre importanti mutamenti tecnologici. È dunque doppiamente vantaggioso realizzare simultaneamente la ristrutturazione tecnologica e l’unificazione europea. Questo potrebbe essere un ottimo modo per affrontare le cose. È necessario pianificare quello che l’Europa potrà fare nei prossimi 10-20 anni. In poche parole bisogna adottare la nuova tecnologia e, nel contempo, unificarsi. Bisogna sempre pagare un prezzo per ogni cambiamento, perché comunque tutto costa. Ma il prezzo sarà minore se l’Europa sarà unita e capace di governare il processo di mutamento.
Ed ora, poiché sono un tecnico e non un politico — ho le mie opinioni politiche e filosofiche, delle quali però preferirei parlare in privato e non dichiararle pubblicamente —, penso che il mio compito consista nel mostrare in quale modo sia possibile per il politico essere coerente. È necessario conoscere la propria situazione, indagare e vedere quali sono le possibilità alternative. Sono colpito dal fatto che nel mio paese — e forse questo vale anche per l’Europa — si imposta una grandiosa programmazione politica, ma non si sa poi in realtà quali ne sono le conseguenze. Si pongono obiettivi senza fare una ricerca sulla strada che occorre seguire passo dopo passo. E il ruolo dell’economista è proprio quello di informare i politici delle alternative e delle possibilità. E vorrei approfittare dell’occasione per dire che gran parte della scienza economica è ormai antiquata e non ci aiuta molto. È fatta di affermazioni più o meno filosofiche; utilizza le statistiche solo come indicatori. Se siamo interessati a sapere che cosa è il calore, guardare al termometro non basta. Bisogna capire il meccanismo per intero.
lo credo che l’introduzione del computer inizi quella che possiamo chiamare l’era dell’informatica. Essa, anzi, ha già cominciato a rivoluzionare anche la scienza economica, che ora può svolgere dei compiti fino a poco tempo fa assolutamente impensabili. L’economia è stata per molto tempo deduttiva, come un sistema filosofico. Si discuteva di tendenze e di cose analoghe. Oggi, quando ci si occupa di produzione o di consumo, cioè di processi specifici, con i metodi ed i computers moderni si possono elaborare milioni di dati. L’unico problema è quello di formulare degli strumenti analitici, sapere come elaborare i dati ed interpretarne il significato. E questo è il mio compito, il compito della scienza. Occorre, tuttavia, procurarsi i dati. Le macchine calcolatrici, come l’aria, non costituiscono un problema perché sono poco costose, tenuto conto anche delle altre spese. È dunque necessario avere una teoria, sapere quali sono i modelli da costruire. Nel passato, si usava dire che si poteva descrivere o la foresta in generale oppure gli alberi individualmente. È una scelta che possiamo fare, ma è una scelta molto spiacevole, perché se descriviamo solo un albero non si sa cosa accade agli altri alberi e ci si trova presto in difficoltà. Se invece si parla della foresta in genere, non si utilizza un’informazione basata sui fatti e si parla piuttosto simbolicamente. Non esiste cioè una cosa come l’economia in genere. Vi sono delle industrie, dei processi, degli impianti particolari e chiunque lavori nel mondo degli affari lo sa bene. Adesso noi entriamo nella fase in cui possiamo cominciare a descrivere la foresta in termini di alberi specifici; possiamo ottenere informazioni con sufficienti dettagli non solo per fare dei discorsi politici, ma anche per aiutare le singole industrie a fare le loro scelte sulla base di queste informazioni.
Questo, secondo me, è stato uno dei motivi per cui il Giappone ha avuto tanto successo nell’usare le nuove tecnologie che non ha inventato, ma che ha costruito ed utilizzato. Nel mio campo specifico so che il modo in cui i Giapponesi raccolgono le informazioni, con molta disciplina, ed il modo in cui le utilizzano permettono loro di ottenere molto più facilmente risultati concreti.
Anche per noi sarebbe necessario basarsi non su convinzioni filosofiche, ma su fatti. È molto difficile descrivere una nuova tecnologia, ma può essere fatto. Tutte le industrie sanno quali sono le tecnologie che potrebbero essere introdotte. La Renault, ad esempio, sa esattamente quale macchina introdurrà tra cinque anni; potrà non farlo, però se lo farà sa già ora quale macchina costruire. E questo vale per tutte le industrie. Con modeste risorse anch’io ho raccolto delle informazioni. Altrettanto possono fare gli industriali e pianificare la loro attività: se si hanno le ricette, si conoscono i prezzi delle materie prime, si sa quanto costa il forno e il lavoro, si può alla fine scoprire il modo per cucinare con più efficacia.
Con la nuova tecnologia, quando la si introduce effettivamente, il reddito aumenta. Ma a questo punto nasce un problema: si utilizzerà questa tecnologia solo per aumentare il reddito del capitale, oppure anche per aumentare i salari reali? In genere si raggiunge un compromesso, perché se si cerca di fare entrambe le cose si finisce col produrre inflazione. Ma è molto più facile discutere dell’introduzione della tecnologia tra imprenditori e manodopera se si può mostrare in cifre quali sono le possibilità effettive. Così tra persone ragionevoli ci si può mettere d’accordo. In parte questo è ciò che i Giapponesi fanno: le imprese e il governo analizzano i vari settori, decidono di chiudere una certa industria o di espanderne un’altra e alla fine si mettono d’accordo, perché la loro non è una discussione filosofica.
È interessante vedere come in vari paesi è stato affrontato il problema. Circa dieci anni fa, l’introduzione delle nuove tecnologie nell’industria della stampa ha portato all’eliminazione delle vecchie macchine e sono stati introdotti i nuovi sistemi di fotocomposizione. Negli Stati Uniti questo fatto ha provocato degli scioperi violenti, perché molti lavoratori hanno perso il loro posto. Lo stesso è accaduto in Inghilterra. Mentre in Austria si sono riuniti i sindacati dei lavoratori e degli industriali per esaminare il problema. Hanno chiesto all’Accademia delle scienze, che ha una sezione economica, di fare un’analisi della situazione, di raccogliere le «ricette» e di fare non una sola proiezione, ma di descrivere delle alternative. Si trattava di vedere, ad esempio, se era necessario produrre i nuovi impianti in Austria od importarli, il che avrebbe naturalmente creato ulteriori complicazioni. Ebbene, l’Accademia ha fatto questa analisi, si sono mostrate le alternative alle varie parti interessate, cioè manodopera e imprenditori, e si è raggiunto un accordo, senza scioperi. Questo risultato è stato possibile perché non si è discusso sui principi, ma si è analizzata correttamente la realtà.
Credo che uno dei passi importanti che l’Europa potrebbe compiere sia quello di favorire questo lavoro di ricerca. È nel campo della ricerca degli effetti economici delle nuove tecnologie che si deve lavorare. Non si tratta di una ricerca di carattere ingegneristico ed è alla nostra portata. Naturalmente è costosa, molto più costosa che non scrivere tesi economiche di ordine generale. Però può essere fatto. E molte di queste informazioni non ci verranno dagli uffici centrali di statistica, ma dalle industrie stesse, poiché l’industria è ormai in grado di «osservare e descrivere gli alberi».
In sostanza, per l’economista si tratta di individuare delle alternative. Preciso la mia idea sul ruolo di questo tipo di ricerca con un aneddoto. Immaginate che un amico mi inviti ad un ristorante e mi chieda quali sono i miei gusti per potere ordinare in anticipo il menu ed essere così serviti immediatamente. La mia risposta sarà che non posso, non sono capace di descrivere i miei gusti, ma sarò in grado di fare una scelta una volta vista la carta.
Ecco, questo è il tipo di ricerca che io suggerisco all’economista. Una descrizione realistica delle alternative che consenta alla società, agli imprenditori ed ai sindacati di fare delle scelte. Non è necessario che i vostri interlocutori comprendano l’economia o la matematica ad alto livello. Le descrizioni debbono essere fatte in modo molto semplice, come in un libro di cucina. Naturalmente non ci sono principi semplici e univoci per scegliere. Qualche economista suggerirà di massimizzare l’utilità; altri di massimizzare il reddito. Ma è pericoloso imporre un criterio univoco, perché le scelte si fondano su motivazioni molto varie. Vi sono inoltre circostanze in cui un economista non può nemmeno lui pretendere di fare una scelta, come quando capita di desiderare proprio un piatto che non è incluso nella carta del ristorante. Bisogna veramente avere tutti gli elementi per poter scegliere.
Per concludere, vorrei solo ricordare che due paesi si sono già posti in questa prospettiva. Il Giappone elabora su vasta scala le tabelle input-output. Negli Stati Uniti esiste una piccola divisione del Dipartimento del commercio che si occupa di questo lavoro. Tutto ciò non restringe, come qualche volta si dice, la libertà d’azione. Non significa che gli economisti interferiscono con le decisioni politiche. Lo scopo è solo quello di dare un quadro molto chiaro di ciò che è possibile e di ciò che non lo è. Le scelte toccano ai cittadini ed ai loro rappresentanti.
Naturalmente creare una équipe in grado di effettuare queste elaborazioni è molto costoso. È costoso più o meno come i laboratori del CERN presso Ginevra, in cui si è realizzato recentemente un grande successo scientifico dell’Europa.[1] È stato un investimento immenso, ma i risultati sono altrettanto importanti. Ciò dimostra che quando l’Europa vuole agire con spirito unitario ottiene successi e che quindi questa è la via da seguire.
[1]Si tratta di un’allusione al conferimento del Premio Nobel 1985 per la fisica all’italiano Rubbia e all’olandese van der Meer (NdT).