Anno XXVII, 1985, Numero 1, Pagina 11
La sfida tecnologica
GUIDO MONTANI
In questo documento di lavoro si propongono alcune osservazioni complementari al documento precedente su «Le prospettive economiche e monetarie» ed al Rapporto Albert-Ball, presentato al Parlamento europeo nel luglio 1983, nel quale vengono con chiarezza denunciati i costi della «non-Europa», per quanto riguarda il ritardo tecnologico nei confronti di USA e Giappone.
La battaglia per l’Unione europea è ormai avviata. Dal suo successo dipenderà la possibilità di cominciare a rimpiazzare la «non-Europa» con un governo europeo efficace, al quale i cittadini, le forze culturali, sociali, politiche e, naturalmente, il Parlamento europeo possono chiedere di attuare quelle politiche necessarie per far fronte alla sfida tecnologica. Lo scopo di questo documento è quello di fornire i primi elementi per una riflessione in questa prospettiva.
Preliminarmente, è tuttavia necessario delineare i principali caratteri della sfida tecnologica con cui l’Europa è confrontata. Come è noto, il divario tecnologico dell’Europa nei confronti degli USA e del Giappone è solo il sintomo di un fenomeno più vasto. Sembra infatti confermata la tendenza secolare ad uno spostamento (décentrage, secondo Braudel) del baricentro dello sviluppo dell’economia mondiale dall’Atlantico al Pacifico. L’interscambio tecnologico, commerciale e finanziario fra Europa e USA che ha praticamente costituito il motore dello sviluppo internazionale post-bellico sembrerebbe dunque avviato sulla china del tramonto. Al suo posto, sta prendendo invece vigore il nuovo polo del Pacifico, grazie non solo all’apporto della dinamica economica giapponese, ma anche all’emergere, sulla sponda asiatica, dei paesi di nuova industrializzazione e del colosso cinese. Si è formato così un mercato fortemente integrato in cui l’Australia funge da gigantesco serbatoio di materie prime (che fino a poco fa erano dirette principalmente verso l’Europa) per le voraci industrie del Pacifico settentrionale, ormai localizzate in parte, persino per settori tecnologicamente maturi, al di fuori di USA e Giappone, che hanno dovuto, ciascuno, arginare la sfida produttiva degli ex paesi sottosviluppati asiatici. Le prospettive di sviluppo di questa nuova macroregione economica sono talmente allettanti che gli Stati Uniti stanno ormai orientando la loro politica estera nel senso di un rafforzamento dei legami economici, diplomatici e militari con i paesi del polo del Pacifico.
L’Europa deve pertanto, in primo luogo, prendere atto del carattere mondiale della sfida tecnologica (che include non solo i rapporti fra economie mature, ma anche con il Terzo mondo) e della necessità di organizzare una risposta capace di ribaltare la prospettiva che la vorrebbe relegare al ruolo di semi-periferia dello sviluppo mondiale. In secondo luogo, occorre prendere atto del carattere globale, per la società e per lo Stato, della sfida tecnologico-produttiva. Non è infatti casuale che si parli sempre più insistentemente della formazione di una società post-industriale. Forse, più correttamente, si dovrebbe dire che il vecchio modo di produzione industriale sta per essere soppiantato dal nuovo modo di produzione scientifico (i cui principali aspetti economici sono delineati nella Nota in appendice). Ciò che importa rilevare, tuttavia, è che siamo di fronte ad una vera e propria rivoluzione produttiva con conseguenze economiche, sociali, urbanistiche e, naturalmente, politiche di primaria importanza. È dunque necessario mettersi nella prospettiva di cercare nuovi strumenti di governo: è impensabile affrontare la sfida contemporanea con le istituzioni del secolo scorso. La strozzatura fondamentale, per quanto riguarda le politiche economiche, consiste nel monopolio al livello nazionale dei più importanti strumenti di politica economica (moneta e finanza, principalmente). La crisi del Welfare State, che molti attribuiscono erroneamente ad una cattiva miscela di privato e pubblico nell’economia, è in verità causata dalla incapacità e impossibilità dei governi nazionali di risolvere problemi la cui dimensione è locale o continentale (e, al limite, mondiale).
Il controllo razionale dello sviluppo tecnologico-produttivo contemporaneo è possibile solo con un nuovo modello di società e di Stato, più aperti ed articolati rispetto all’ottocentesco Stato nazionale burocratico ed accentrato. La ricostruzione della nuova statualità non può che iniziare dall’Europa dove sono ormai agonizzanti le vecchie strutture. Con la realizzazione dell’Unione europea si getteranno le premesse per una articolazione del governo democratico della cosa pubblica dal quartiere all’Europa e per orientare il mondo intero verso una politica di pace e di giustizia internazionale. Ecco, in breve, quali potrebbero essere i primi indirizzi di politica economica della nuova Europa.
1. Lavoro e occupazione. L’occupazione, in particolare in Europa, è oggi sottoposta ad una duplice minaccia strutturale. Da un lato, l’offensiva dei paesi emergenti del Terzo mondo che offrono prodotti a buon mercato e, dall’altro, la necessità di realizzare una accelerata ristrutturazione industriale, che consiste in pratica nella introduzione di processi automatizzati e nella espulsione di manodopera esuberante per tenere il passo con le economie più dinamiche. Le vecchie ricette keynesiane per la piena occupazione non riescono più nel loro intento ed a più riprese hanno mostrato i loro limiti (ultimo esempio, i tentativi del «socialismo dai colori di Francia», prima della svolta europea di Mitterrand), non solo per il fenomeno illustrato nel Rapporto Albert-Ball della dispersione comunitaria degli effetti di un investimento nazionale, ma anche per l’impossibilità di favorire l’occupazione con investimenti che, se all’avanguardia tecnologica, finiscono prima o poi col ridurla.
L’obiettivo centrale delle politiche keynesiane, vale a dire garantire a tutti coloro che non vogliono restare oziosi un posto di lavoro, è ancora possibile, ma con altri mezzi. Invece di puntare sulla crescita della domanda consumistica, come è avvenuto nell’immediato dopoguerra, è necessario riconoscere che oggi la maggior espansione, ricca di promesse per il futuro, si verifica sul fronte dei servizi, privati e pubblici. Su questa base, al fine di assicurare a tutti un posto di lavoro è necessario: a) mobilitare i vari livelli di governo — ed in particolare gli enti locali — per la formazione di piani di espansione dei servizi pubblici, o di supporto al settore privato, così da creare una offerta di posti di lavoro che certamente può superare di gran lunga la domanda di nuova occupazione da parte dei giovani e di chi abbandona le attività obsolete; b) che alle nuove responsabilità in materia di occupazione da parte degli enti locali corrisponda il conferimento di una effettiva sovranità fiscale, coordinata con tutti i livelli di governo secondo i principi del federalismo fiscale. Contrariamente a quanto si pensa comunemente, gli enti locali possono dare un contributo importante alla lotta contro l’inflazione. In primo luogo, se la politica dell’occupazione viene effettuata da enti privi del potere di battere moneta è escluso che la creazione di nuovi posti di lavoro sia finanziata in termini esclusivamente monetari. In secondo luogo, al livello locale è possibile ridurre all’essenziale il costo dei servizi pubblici, attraverso l’attivazione del servizio civile al fine di rendere palese il valore della solidarietà sociale, che molti tendono a dimenticare quando il servizio pubblico è ridotto, da un lato, ad un onere per il contribuente, e, dall’altro, ad una prestazione professionale. Va da sé che le strutture del servizio civile dovrebbero essere aperte a tutti i cittadini, di ogni età, che vorranno mettere il loro lavoro volontario al servizio della comunità, ma i giovani di entrambi i sessi dovrebbero svolgere, alla fine dei loro studi, un servizio civile obbligatorio, come completamento del loro curriculum.
A queste misure di intervento pubblico, dovrebbe affiancarsi una riforma del mercato del credito e dell’impresa. Con le nuove tecnologie non è più vero che la massima efficienza corrisponda alla massima dimensione dell’impresa. Sono sempre più frequenti i casi di piccole e medie imprese capaci di tener testa e di battere, eventualmente, i grandi colossi dell’industria. Tuttavia, la tendenza alla formazione di nuove imprese più dinamiche è spesso frenata dai vecchi indirizzi del mondo bancario che stenta a dar fiducia ai nuovi imprenditori e favorisce i colossi già esistenti. È necessaria una legislazione comunitaria che favorisca la formazione delle imprese cooperative. In molti casi, dei lavoratori privi di occupazione, ma dotati di grande competenza, potrebbero diventare essi stessi imprenditori se non fossero ostacolati dalla scarsità del credito.
Infine, al livello nazionale si impone l’adozione di una moderna politica dei redditi, realizzabile con i tradizionali strumenti della politica fiscale. Certe differenze di reddito tra settore pubblico e privato non sono più giustificabili, una volta che sia a tutti garantita la certezza del posto di lavoro. L’obiettivo della politica dei redditi è quello di definire, periodicamente, il ventaglio praticabile, secondo criteri di efficienza ed equità, tra i redditi minimi e quelli massimi.
2. Tecnologie d’avanguardia. Date le caratteristiche della scienza applicata contemporanea (la big science, che richiede programmi a lunghissima scadenza e costosissimi) è ovvio che in Europa è possibile solo al livello comunitario organizzarne con efficienza lo sviluppo. Del resto, sia il Parlamento europeo che la Commissione esecutiva hanno già elaborato progetti eccellenti, basati principalmente sulla politica delle commesse. I successi di Ariane (che persino i Giapponesi tentano di imitare), nel campo dell’esplorazione e dello sfruttamento dello spazio, dimostrano che l’Europa, quando agisce unitariamente, sa reggere gagliardamente la concorrenza mondiale. Va tuttavia detto con chiarezza che almeno tre ostacoli impediscono ancora una seria pianificazione europea della ricerca scientifica d’avanguardia: a) l’esiguità dei fondi ad essa destinati dal bilancio comunitario; b) le gelosie delle industrie nazionali, che cercano la protezione dei rispettivi governi e impediscono che si formi un mercato standardizzato europeo (fra l’altro questa è una delle cause della facile penetrazione giapponese ed americana); c) la protezione nazionale dei risultati delle ricerche di interesse militare. Questa è stata la principale ragione del fallimento dell’Euratom. È evidente che passi importanti verso una completa europeizzazione della ricerca scientifica si potranno compiere nella misura in cui l’Europa saprà anche avanzare sul terreno della difesa comune.
3. Le responsabilità europee nel governo dell’economia mondiale. L’economia mondiale moderna, sin dalle sue lontane origini post-feudali, si è sviluppata sulla base del modello centro-periferia, con fasi di espansione e di allargamento spesso caratterizzate da décentrages tecnologici, finanziari e produttivi. I popoli e gli Stati del passato hanno subito passivamente la forza travolgente, nel bene e nel male, del capitalismo mondiale. Ma questo ruolo subalterno delle regioni periferiche e semi-periferiche non è più né accettabile, né possibile. Non solo l’Europa sta tentando di riorganizzare le sue forze nei confronti della sfida del Pacifico, ma anche i paesi del Terzo mondo pretendono, con sempre maggiore energia, di essere aiutati nella loro emancipazione. Non è poi possibile ignorare la contraddizione stridente tra il potere ormai acquisito dall’uomo sulla biosfera (grazie a tecnologie che rendono ormai pensabile la distruzione dell’intero globo terrestre) e la sua incapacità di garantire un uso ragionevole di questi poteri. L’umanità ha imparato a governare la natura, ma non è ancora capace di sottoporre se stessa al governo della ragione. Le radici di questo male letale risiedono nella divisione del mondo in Stati sovrani, che è causa di guerre, imperialismi e povertà.
L’Europa, a partire dalle sue prime forme di unità politica, potrebbe portare un contributo decisivo al problema del controllo razionale del processo mondiale di sviluppo mettendo in cantiere almeno due grandi progetti politici.
a) La logica centro-periferia che domina lo sviluppo mondiale è il risultato inevitabile della mancanza di una programmazione mondiale. Il compito primario dell’Europa è di sottrarre se stessa, insieme alle aree a lei economicamente complementari dell’Africa e del Vicino Oriente, al ruolo subordinato a cui la condannerebbe la nuova divisione internazionale del lavoro. La Unione europea deve farsi promotrice di un grande (il primo di queste dimensioni nella storia dell’economia mondiale) piano internazionale di sviluppo, a cui dovrebbero essere invitati a partecipare anche i paesi socialisti dell’Est europeo, con l’obiettivo esplicito di far uscire le regioni afro-asiatiche interessate dalle loro condizioni di arretratezza, attraverso progetti integrati di industrializzazione e di formazione di infrastrutture pubbliche. Come l’area del Pacifico alimenta il suo poderoso slancio produttivo grazie all’interscambio fra paesi fortemente differenziati, nelle risorse naturali e nei livelli di reddito, così l’industria europea potrebbe a sua volta godere di un forte impulso espansivo proveniente dalla domanda potenziale dei popoli nuovi per la tecnologia ed i prodotti industriali europei. La precondizione di questo piano è ovviamente una maggior capacità finanziaria dell’Europa, conseguibile solo con l’uso dello scudo come moneta internazionale.
b) Le forze del progresso possono facilmente convertirsi nelle forze della distruzione e della morte se la politica mondiale non riuscirà a superare la logica della politica di potenza. Anche i fragili ed inadeguati strumenti della cooperazione internazionale, in primo luogo l’ONU, oggi vengono minati o sabotati continuamente nel loro funzionamento dal contrasto insanabile tra le due superpotenze. Ne è testimonianza eloquente la crisi attuale dell’UNESCO. È necessaria una netta inversione di tendenza e solo dall’Europa può venire un impulso decisivo per l’avvio di una politica di democratizzazione e rafforzamento degli organismi mondiali di governo. Del resto, il mondo sta affrontando oggi una serie di problemi molto simili a quelli che hanno generato la Comunità europea nel dopoguerra. Valga per tutti l’esempio del Trattato dei mari che riconosce gli oceani ed i fondi marini (ricchi di minerali ormai sfruttabili industrialmente) come un «patrimonio comune del genere umano» e ne affida la sovranità e la gestione ad una «Autorità internazionale», i cui poteri sono molto simili a quelli dell’Alta autorità della CECA: essa ha un bilancio proprio, può sfruttare autonomamente le risorse marine biologiche e minerali, può sottoporre a controllo le imprese multinazionali, può lanciare prestiti internazionali, può investire i suoi proventi in programmi utili allo sviluppo del Terzo mondo. Si tratta dunque di un embrionale ente per la programmazione democratica delle risorse economiche mondiali. Non è pertanto giustificabile l’atteggiamento di quei paesi europei, come la Gran Bretagna e la Germania, che, insieme agli Stati Uniti, ne contrastano l’avvio nella speranza di sfruttare la loro superiorità tecnologica per impossessarsi delle risorse naturali ancora res nullius. Si tratta di una politica egoistica e miope perché contrasta con il reale interesse di lungo periodo dell’Europa al dialogo Nord-Sud ed al superamento della politica dei blocchi contrapposti.
All’Europa incombe una responsabilità storica. La scienza ha per sua natura una vocazione universale. La politica è ancora nazionale ed ogni governo tenta di piegare il sapere umano al servizio della propria ragion di Stato. La completa realizzazione dell’automazione dell’economia consentirebbe ormai all’uomo di liberarsi dalla biblica condanna al lavoro faticoso. Le condizioni eccezionali che hanno reso possibile la meravigliosa fioritura della civiltà greca per un piccolo nucleo di uomini liberi potrebbero ripetersi su scala mondiale per tutti gli individui e per tutti i popoli, perché lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo non è più un prerequisito del benessere materiale. Ma per marciare speditamente in questa direzione occorre, da un lato, liberare lo sviluppo della cooperazione scientifica internazionale dal bavaglio della politica di potenza, in pratica dal segreto militare sulle scoperte scientifiche (e questi provvedimenti, è ovvio, potranno essere introdotti solo nella misura in cui avanzerà la lotta per il disarmo universale) e, dall’altro, conferire all’ONU un potere effettivo di governo sui grandi programmi scientifici di interesse comune a tutto il genere umano. Si tratta di un obiettivo ancora lontano. Ma l’Europa, battendosi per lo sfruttamento universale dei frutti del sapere, creerebbe anche le condizioni per una effettiva unione di tutti i popoli della Terra in una grande repubblica universale, in cui siano definitivamente abolite le distanze fra centro e periferia, fra deboli e potenti, fra ricchi e poveri.
Nota sugli aspetti economici
del modo di produzione scientifico.
Lo scopo di questa nota è di delineare, per sommi capi, le caratteristiche del modo di produzione scientifico che sta ormai soppiantando, nei paesi di più antica industrializzazione, il vecchio modo di produzione industriale, ormai adottato, invece, dai paesi emergenti. Sono queste le radici della ristrutturazione industriale come fenomeno mondiale.
La terminologia «modo di produzione scientifico» è preferibile a quella di «società post-industriale», utilizzata da alcuni sociologi come D. Bell e A. Touraine, perché con società postindustriale si designa soltanto il declino del vecchio mondo, ma si lascia indeterminato il nuovo; per la stessa ragione non sembra sufficiente parlare di «Rivoluzione scientifica e tecnologica», come propone il filosofo cecoslovacco R. Richta, perché è ormai fonte di confusione il riferimento alla seconda, terza, quarta (ecc.?) Rivoluzione industriale.
Ecco le caratteristiche economiche principali del nuovo modo di produzione.
1. Tendenziale scomparsa del ruolo dell’operaio. Nella manifattura e nella fabbrica, che hanno rappresentato la cellula elementare dello sviluppo economico, prima europeo e poi mondiale, la produzione di merci avveniva grazie all’armonica congiunzione del lavoro umano con la macchina. Questa combinazione produttiva rappresentò un sostanziale progresso rispetto all’età agricola, in cui l’uomo aveva imparato a rigenerare i prodotti della natura consumati, e all’età artigianale in cui la produzione avveniva, in pratica solo manualmente, per piccoli quantitativi. Nella fabbrica si potevano invece ottenere merci in grande quantità e a buon mercato. A poco a poco il benessere si diffuse a tutti gli strati sociali. Ma l’operaio, ridotto ad una vera e propria appendice della macchina, era condannato ad un lavoro ripetitivo ed alienante.
Le moderne tecnologie, specialmente grazie alle applicazioni dell’elettronica, consentono una completa automazione del processo produttivo. In Giappone, negli USA, ed anche in Europa, comincia a funzionare la fabbrica senza operai. Pochi tecnici qualificati sono sufficienti al controllo di produzioni standardizzate che un tempo richiedevano la catena di montaggio con l’assistenza di migliaia di lavoratori. Si prevede che entro la fine del secolo la dimensione del settore industriale nei paesi avanzati (che in alcuni paesi ha occupato, nel passato, sino al 45% della forza lavoro attiva) scenderà a circa il 7-9% della popolazione lavoratrice, pur conservando le attuali potenzialità produttive, grazie agli enormi aumenti di efficienza generati dal progresso tecnico.
2. Sviluppo del settore dei servizi. Nelle società pre-industriali europee — e nei paesi sottosviluppati — la forza-lavoro impegnata nell’agricoltura raggiungeva il 70-90%. Durante la fase di industrializzazione si è assistito ad un processo di urbanizzazione e di «proletarizzazione crescente della società», con un vero e proprio travaso di popolazione dall’agricoltura all’industria. Nella fase attuale, il settore dei servizi, che nel secolo scorso non assorbiva più del 10-15% della popolazione attiva, è ormai giunto al 60% in Europa ed al 65-70% negli USA.
I servizi si distinguono in servizi al consumo e servizi alla produzione. Si calcola che circa il 50% del totale siano servizi alla produzione, cioè attività complementari a quelle strettamente industriali. È dunque improprio parlare del restringimento della base industriale come di un vero processo di «de-industrializzazione». In effetti, l’espansione del settore dei servizi non rappresenta che una speciale forma assunta dalla moderna produzione industriale, in cui le attività di tipo intelligente e personale predominano, almeno sotto l’aspetto quantitativo, su quelle monotone e ripetitive della fase precedente l’automazione. Bisogna dunque riconoscere esplicitamente un ruolo «produttivo» al settore dei servizi.
L’espansione del settore dei servizi risponde anche ad un’altra esigenza: la domanda crescente di servizi pubblici (istruzione, sanità, ecc.). Gli USA, che sono al primo posto nella creazione di nuovi posti di lavoro, in verità hanno potuto conquistare questo primato grazie allo sviluppo del settore pubblico dei servizi. Lo Stato è destinato a diventare il principale datore di lavoro sul mercato della nuova economia dei servizi.
3. La nuova impresa. «La divisione del lavoro dipende dalla dimensione del mercato», aveva giustamente affermato Adam Smith. E in effetti, la principale caratteristica propulsiva della impresa industriale tradizionale è stato il fenomeno denominato dagli economisti «rendimenti crescenti di scala», vale a dire la possibilità di ottenere aumenti di produttività ampliando le dimensioni dell’impresa. Questa possibilità dipende dal fatto che l’operaio diventa tanto più veloce nel compiere le operazioni quanto più esse sono semplici, cioè quanto maggiore è il grado di divisione del lavoro, che a sua volta dipende dalla quantità prodotta (l’ampiezza del mercato).
Questo tipo di crescita comporta: a) la formazione di grandi concentrazioni industriali urbane; b) la formazione dei grandi imperi industriali e finanziari; c) la rigida distinzione, all’interno dell’impresa, tra dirigenti e diretti, in cui, come ha teorizzato Taylor, ai subordinati è riservato il solo compito di esecuzioni meccaniche e impersonali, nell’interesse della massima efficienza produttiva. E il modello tayloristico dell’impresa è un aspetto comune sia alle economie capitalistiche occidentali, che a quelle socialiste dell’Est. Nella moderna società post-industriale, con l’automazione del processo produttivo, una generale diffusione dell’istruzione e una miglior distribuzione della proprietà, diventa concepibile una radicale riforma dell’impresa. Le forme di proprietà e di controllo della produzione sino ad ora basate sul potere autocratico del capitale finanziario possono progressivamente lasciare il posto a forme moderne di autogestione (da non confondersi con l’ottocentesca autogestione operaia, che non si fondava sul superamento materiale della distinzione fra dirigenti e diretti). Il contributo del lavoro intelligente dei tecnici, degli ingegneri, degli economisti, ecc. diventerà ormai preponderante ai fini di una efficiente produzione industriale rispetto al fabbisogno di capitale finanziario, il cui potere è dunque condannato ad una lenta agonia (Keynes parlava di eutanasia del rentier). La fabbrica del futuro diventerà più simile ad un dipartimento che non all’opificio dell’età di Marx e di Schumpeter, in cui l’imprenditore-demiurgo dirigeva i suoi operai come un generale dirige un corpo d’armata. La struttura giuridica dell’impresa moderna e all’avanguardia tecnologica dovrà verosimilmente calcare il modello della società cooperativa.