IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLI, 1999, Numero 2, Pagina 80

 

 

Federazione europea
e Federazione mondiale*
 
FRANCESCO ROSSOLILLO
 
 
Presupposti e termini del dibattito.
 
Nell’ambito del Movimento federalista europeo è in corso un dibattito sui rapporti esistenti tra il processo di unificazione dell’Europa e il processo di globalizzazione e, più in particolare, sulla rilevanza strategica, per i federalisti, dell’obiettivo della Federazione mondiale rispetto a quello della Federazione europea. Si tratta di un dibattito delicato, perché esso tocca il nervo stesso della nostra strategia e coinvolge alcuni degli strumenti concettuali più importanti sui quali si è costruita fino ad oggi la dottrina federalista. Sono in discussione l’obiettivo della nostra lotta e la natura del processo storico nel cui alveo essa si colloca: quindi la nostra identità e, di conseguenza, la condizione essenziale della nostra stessa sopravvivenza. Per questo il dibattito deve essere condotto con franchezza, facendo ogni sforzo per esporre le proprie idee in modo non equivoco, e insieme con umiltà, mantenendo la consapevolezza del carattere non definitivo delle proprie affermazioni.
Il dibattito presuppone evidentemente l’esistenza di un terreno comune, cioè di alcune convinzioni che sono condivise da tutti. Esse riguardano la dimensione mondiale del federalismo come condizione della sua piena realizzazione, sia sotto l’aspetto di valore che sotto quello istituzionale, e il suo fondamento filosofico-storico, cioè la concezione della storia come processo di costruzione della pace attraverso l’unificazione politica del genere umano. La generale condivisione di questi principi di dottrina significa che tutti i federalisti sono mondialisti. Non per nulla il riferimento all’obiettivo ultimo della Federazione mondiale e ai valori universali che essa realizzerà viene considerato da tutti come essenziale per il reclutamento dei militanti e per la loro formazione. Il riconoscimento dell’esistenza di questo terreno comune è essenziale per la prosecuzione del dibattito perché è la garanzia del riconoscimento da parte di ciascuno della buona fede dei propri interlocutori. Questa garanzia verrebbe a mancare se si tentasse di far passare lo sforzo di riflettere sui tempi e la natura del processo di unificazione mondiale come il rifiuto di una prospettiva che fa parte della definizione della nostra stessa identità.
La visione mondialistica (che peraltro era sempre stata presente nella visione federalista) è stata valorizzata e accentuata da Albertini all’inizio degli anni ‘80 nella convinzione che l’allontanamento nel tempo della seconda guerra mondiale e la progressiva scomparsa di coloro che ne conservavano il ricordo diretto rischiasse di isterilire la fonte stessa dell’impegno federalista. Albertini pensava che si dovesse dare nuova linfa ai valori che di quell’impegno costituivano il fondamento tentando di sostituire l’immensa forza motivante del ricordo di una terribile catastrofe del passato con una visione del futuro che consentisse di ricuperare con la ragione un’ispirazione ideale che non si poteva più fondare sulla memoria. Questa visione non poteva essere che quella kantiana della realizzazione della pace perpetua attraverso la rinuncia di tutti gli Stati alla propria sovranità nel quadro di una federazione cosmopolitica.
Si trattava quindi in origine di collocare la lotta per la Federazione europea in una prospettiva storica che consentisse di caricarla dei valori universali legati all’idea dell’unificazione del genere umano, rafforzandone in questo modo le motivazioni. La visione mondialistica veniva adottata con un intento in un certo senso strumentale rispetto all’impegno europeo. E ciò implicava l’idea che l’unificazione federale dell’Europa (che sarebbe stata la prima di una serie di unificazioni regionali) fosse una condizione necessaria della costruzione della Federazione mondiale; e quindi che la battaglia per realizzarla fosse la vera battaglia che avrebbe dovuto condurre chi avesse a cuore questo obiettivo. La presenza critica del MFE all’interno del Movimento federalista mondiale era stata decisa proprio con il proposito di tentare di convincere persone ispirate dai nostri stessi valori che quella della costruzione della Federazione europea (e, in prospettiva, di altre grandi federazioni regionali) era l’unica via per dare realismo alla posizione mondialista, che altrimenti sarebbe stata condannata all’astrattezza o che, nel tentativo di sottrarvisi, avrebbe dovuto ripiegare su obiettivi minimalisti e su generiche battaglie pacifiste.
Oggi invece si manifestano nel Movimento tendenze a fare della Federazione mondiale un obiettivo strategico autonomo. Questa posizione, se fosse fatta propria dal Movimento, anziché rafforzare la lotta per la Federazione europea, la indebolirebbe sottraendole energie per impegnarle su di un altro fronte.
Il dibattito parte da qui. Il suo oggetto centrale è l’attualità della Federazione mondiale. Alcuni di noi pensano che una battaglia per il raggiungimento di questo obiettivo sia possibile fin da oggi, e che quindi un impegno politico in questa direzione abbia fin da oggi un senso. E ritengono a maggior ragione che questo sia l’obiettivo sul quale i federalisti dovranno impegnarsi subito dopo la fondazione della Federazione europea ed al cui perseguimento essi devono già oggi incominciare a prepararsi. Peraltro bisogna precisare che, quando si viene al concreto, non è la Federazione mondiale in quanto tale ad essere presentata come obiettivo strategico immediato, ma piuttosto alcune riforme funzionali o parziali, come la realizzazione del Tribunale penale internazionale o l’introduzione di mutamenti nella struttura del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Altri invece sono convinti che la fondazione della Federazione mondiale, intesa come obiettivo strategico, non sia oggi all’ordine del giorno, anche se essa deve essere permanentemente tenuta in vista come obiettivo ideale per evitare che la consapevolezza del senso storico della nostra lotta vada smarrito, e che quindi gli obiettivi parziali che vengono proposti non costituiscono stadi intermedi di un processo destinato a portare in tempi ragionevolmente brevi al raggiungimento dell’obiettivo finale, ma sono riforme di puro stampo intergovernativo. Il solo modo per accelerare l’avvento della Federazione mondiale è di conseguenza la prosecuzione — e l’intensificazione se ne saremo capaci — della lotta per la Federazione europea, che del cammino storico verso la Federazione mondiale costituirà il primo, indispensabile passo.
 
La Federazione mondiale come obiettivo strategico.
 
Con la richiesta di mettere sin d’ora all’ordine del giorno il problema della definizione di una strategia per il raggiungimento dell’obiettivo della Federazione mondiale, questo, da obiettivo ulteriore a quello della fondazione della Federazione europea e rispetto al quale la fondazione della Federazione europea costituisce una premessa indispensabile, diventa un obiettivo concorrente con questa. Questo cambiamento di prospettiva rischia seriamente di provocare nel Movimento una sorta di strabismo strategico che ne paralizzerebbe l’azione. Per garantire la capacità d’azione e di mobilitazione di qualunque movimento rivoluzionario — che in quanto tale è sempre povero di uomini e di mezzi — è essenziale che esso abbia un unico obiettivo sul quale concentrare tutte le proprie energie (non certo nel senso che il Movimento debba sempre comunque condurre un’unica azione, ma in quello che tutte le sue azioni devono sempre comunque essere condotte in vista di quell’unico obiettivo). L’individuazione di due obiettivi divide le forze e, confondendo le priorità, distrae l’attenzione e affievolisce l’impegno dei militanti fino a spegnerlo. Nel MFE questo rischia paradossalmente di accadere proprio in un momento «caldo» del processo di unificazione europea, nel quale il problema di dotare l’Unione di una costituzione incomincia ad essere avvertito dalla classe politica con crescente frequenza e intensità e nel quale quindi la nostra presenza e la nostra volontà di batterci è più che mai necessaria.
Di natura apparentemente diversa è l’affermazione secondo la quale, pur lasciando impregiudicato il primato strategico dell’obiettivo della Federazione europea, i federalisti hanno il dovere di porsi fin d’ora il problema di definire la strategia che essi adotteranno dopo la sua fondazione.
Prima di entrare nel merito di questa affermazione è opportuno notare che il problema di definire la strategia del dopo implica, secondo chi la avanza, quello di prepararla. E prepararla significa impegnarsi subito in battaglie che, dopo, si tratterà di continuare ed intensificare. Di fatto quindi nulla cambia rispetto alla prospettiva precedente.
Peraltro questa ambiguità è insita nel modo stesso in cui viene posto il problema. La strategia per la realizzazione di un disegno politico si definisce sulla base dell’analisi delle circostanze storiche attuali e si modifica a seconda della loro evoluzione; e la pretesa di definire la strategia di un movimento per una fase storica che non è ancora iniziata e i cui percorsi dipenderanno dagli esiti di una fase storica che non si è ancora conclusa appare difficilmente giustificabile. La strategia seguita del Movimento federalista europeo nella sua battaglia per l’unità politica dell’Europa è passata attraverso molteplici stadi: la mobilitazione dell’opinione pubblica attraverso la campagna per un Patto di unione federale europea, la battaglia per la CED e la Comunità politica, il Congresso del popolo europeo, il Censimento volontario del popolo federale europeo, le campagne per l’elezione diretta del Parlamento europeo, per la moneta europea, per la Costituzione europea. Queste fasi (tranne l’ultima) non erano certo presenti nella mente dei Padri fondatori fin dall’inizio, ma sono andate profilandosi con l’avanzare del processo. Per questo l’affermazione che il Movimento deve elaborare oggi la strategia del dopo di fatto nasconde la convinzione che il dopo è già cominciato.
Prescindiamo comunque da questa difficoltà, e supponiamo che l’esigenza di elaborare una strategia riguardi veramente soltanto il dopo. E’ a questo punto che si pone il problema del momento in cui la Federazione europea si potrà dire fondata. Vi sono infatti seri argomenti che forniscono un fondamento all’ipotesi secondo la quale la sovranità nazionale si potrà dire trasferita ad una nuova entità europea soltanto quando si sarà compiuto il processo — che peraltro è già iniziato con l’elezione diretta del Parlamento europeo e con l’Unione monetaria — di acquisizione da parte di tutti gli Europei — o della maggior parte di essi — della consapevolezza di essere membri della stessa comunità politica. Si tratta della nascita e del consolidamento dell’identità del popolo europeo: un’identità che sicuramente già esiste allo stato embrionale, ma che non si potrà considerare acquisita nemmeno con il fatto formale della ratifica da parte dei parlamenti nazionali di una Costituzione federale europea, per quanto importante questo momento debba essere considerato. Di fatto il nuovo assetto istituzionale non potrà considerarsi irreversibilmente acquisito prima di aver ricevuto vita e sostanza dalla concretezza dei comportamenti quotidiani dei cittadini, cioè prima che i cittadini abbiano fatto esperienza del nuovo modo di vivere insieme reso possibile dalle nuove istituzioni e senza che sia nato — attraverso il coinvolgimento in un nuovo tipo di lotta politica, l’assunzione di nuovi doveri di cittadinanza e l’esercizio di una più larga e articolata solidarietà — un vero e proprio senso civico — o, se si vuole, una qualche forma di «patriottismo costituzionale» — europeo. Questo processo sarà ostacolato, anche dopo l’evento della fondazione della Federazione europea, dalle resistenze nazionalistiche che faranno pesare su di essa la minaccia della disgregazione per tutto il tempo in cui la novità della formula politica che essa incarnerà la renderà fragile. E fino a che esso non sarà compiuto, l’impegno esclusivo dei federalisti dovrà comunque essere concentrato sull’obiettivo della Federazione europea.
Vero è che i federalisti, come tutti i militanti di movimenti rivoluzionari, devono comunque saper pensare il futuro. Del resto tutta la nostra azione è guidata da una rappresentazione del futuro. Noi lottiamo per la Federazione europea perché siamo convinti che essa garantirà agli europei la sicurezza, migliorerà la loro qualità di vita, darà un contributo decisivo all’instaurazione di un equilibrio mondiale più stabile e alla diffusione della cultura della pace. Questi effetti dell’unità politica dell’Europa si possono leggere a contrario nella realtà attuale, che fa apparire con estrema chiarezza i guasti gravissimi prodotti dalla divisione dell’Europa. E la loro descrizione è parte essenziale della nostra battaglia, perché senza la consapevolezza del cambiamento in meglio che la creazione della Federazione europea provocherà, e quindi senza la capacità di prevedere la natura della conseguenze della realizzazione del nostro obiettivo, il nostro impegno non avrebbe alcun senso e le nostre possibilità di mobilitazione dell’opinione pubblica e di influenza sulla classe politica sarebbero semplicemente inesistenti. Noi dobbiamo quindi saper pensare il futuro: ma non per questo dobbiamo perdere la consapevolezza del fatto che, quanto più le nostre previsioni si spingono lontano, tanto più esse diventano incerte e congetturali, e tanto più generali devono quindi essere le linee di tendenza dello sviluppo storico che possiamo arrischiarci a prevedere. Per questo, se si va al di là dell’obiettivo strategico della fondazione della Federazione europea e delle sue conseguenze immediate, si possono fare ipotesi sui cammini alternativi che la storia potrà prendere ma non si possono fare previsioni tanto precise da fondare una vera e propria strategia.
Resta il fatto che i federalisti possono legittimamente chiedersi se essi (e coloro che li seguiranno) continueranno ad avere un compito nella fase storica che separerà la nascita della Federazione europea da quella della Federazione mondiale. Si tratta anzi di un problema che chiunque viva intensamente l’esperienza federalista non può non porsi. Dopo la fondazione della Federazione europea, il federalismo non si dovrà spegnere, ma dovrà continuare ad essere attivo, anzi lo sarà assai più di quanto non lo sia ora, se è vero che il compito della fondazione della Federazione europea sarà quello di dare l’avvio alla fase federalista della storia universale. I federalisti quindi dovranno mantenere viva la consapevolezza che lo Stato che essi avranno contribuito a creare, in quanto primo passo verso la creazione della Federazione mondiale, sarà un’entità provvisoria, come tale destinata ad essere resa obsoleta dall’aumento dell’interdipendenza; ed insieme che essa avrà una decisiva funzione di esempio per la diffusione nel mondo del federalismo e della cultura della pace. Ciò di cui possiamo sin d’ora essere certi è che questa consapevolezza si renderà attiva in tutte le circostanze storiche che ne offriranno l’occasione. Ma come ciò avverrà, attraverso quali battaglie concrete, in quali tempi e in quale successione, a nessuno è dato prevedere. In ogni caso sia questo tipo di riflessione, sia la discussione sulle possibili linee di tendenza dello sviluppo storico futuro hanno la loro sede naturale nel dibattito culturale.
 
Il grado di maturità del processo.
 
Qualunque sia la nostra opinione sui tempi dell’avvento della Federazione mondiale, esso sarà il risultato di un processo, che si articolerà in tappe, caratterizzate dalla realizzazione di istituzioni parziali, come è avvenuto nel corso del processo di unificazione europea (elezione diretta del Parlamento europeo, moneta europea). Perché non pensare quindi che, dopo la fondazione della Federazione europea inizierà (o non sia addirittura già iniziato) a livello mondiale un processo simile a quello che i federalisti hanno già vissuto a livello europeo, nel quale si porrà il problema di realizzare istituzioni certo ancora imperfette e contraddittorie (un Parlamento senza governo, una moneta senza Stato), ma che comunque avvicineranno l’obiettivo finale, e per la cui realizzazione i federalisti si dovranno di conseguenza impegnare?
A questo proposito è opportuno ricordare che, in realtà, i federalisti hanno avuto atteggiamenti diversi nei confronti delle diverse tappe del processo di integrazione europea. Essi in particolare hanno criticato aspramente il Mercato comune come un tentativo di risolvere con i soli strumenti della collaborazione intergovernativa, cioè senza creare un potere politico sovranazionale, problemi che di fatto non avrebbero potuto essere risolti senza che gli Europei si unissero in una federazione. Così come è opportuno ricordare che quella della critica del Mercato comune è stata la fase nella quale il Movimento ha conquistato la propria autonomia liberandosi dalla tutela dei partiti e ha definito la propria fisionomia di Movimento di opposizione di comunità. Al contrario, nel caso della battaglia (fallita) per la CED e di quelle (riuscite) per l’elezione diretta del Parlamento europeo e per l’Unione monetaria, il Movimento si è battuto per la realizzazione di riforme parziali. Ma allora esso lo ha fatto sulla base del presupposto che i problemi di volta in volta sul tappeto mettessero in gioco alcuni dei fondamenti stessi della sovranità: l’esercito, il consenso democratico e la moneta (si trattava di un atteggiamento ispirato a quello che Albertini aveva chiamato «gradualismo costituzionale»). I federalisti quindi non hanno mai in realtà appoggiato battaglie di tipo funzionalista o settoriale, come quelle che si stanno conducendo a livello mondiale per la creazione del Tribunale penale internazionale o per la riforma del Consiglio di sicurezza.
Ma, nel nostro contesto, il problema si pone in termini più radicali. Si tratta cioè di capire se, dopo la fondazione della Federazione europea, o a maggior ragione oggi, il grado di integrazione raggiunto a livello mondiale sarà, o sia, paragonabile a quello raggiunto dall’Europa alla fine della seconda guerra mondiale. Che il raggiungimento di un obiettivo parziale assuma oggi il senso della conquista di una importante posizione strategica o quello di una operazione propagandistica o addirittura di una mistificazione dipende esclusivamente dal grado di maturità del processo. Le contraddizioni che comporta ogni battaglia per un obiettivo parziale — comunque esso sia individuato — rendono più visibile e cogente la necessità di andare oltre quando andare oltre è possibile, cioè quando il punto d’arrivo del processo è in vista, e quindi consente di iscrivere ogni passo intermedio in un disegno insieme realistico e progressivo; mentre, quando ciò non si verifica, esse fanno sì che le battaglie storicamente premature o non siano nemmeno combattute perché vengono percepite come velleitarie, o siano strumentalizzate a fini di propaganda o di copertura di un’egemonia, oppure corrano addirittura il rischio di perturbare la convivenza civile perché introducono un elemento di incertezza nei rapporti giuridici e istituzionali esistenti senza contrapporre loro un’alternativa credibile.
Quello sul grado di maturazione al quale si troverà il processo di unificazione mondiale nel momento storico in cui la Federazione europea potrà dirsi irreversibilmente costituita (una maturazione alla quale la nascita della Federazione europea darà un contributo decisivo) è un giudizio storico che non può essere dato con la sicurezza con la quale si enuncia una dimostrazione matematica, perché esso dipende dal tipo di contatto che ciascuno ha con la realtà politica, sociale e culturale del suo tempo. Resta il fatto che sembra arduo paragonare la situazione nella quale si troverà allora il mondo (sempre che l’Europa si faccia in tempi storicamente brevi) con quella in cui si trovava l’Europa alla fine della seconda guerra mondiale, considerando le abissali differenze economiche, sociali, politiche e culturali che, malgrado la globalizzazione, oggi dividono l’una dall’altra le grandi regioni del pianeta e il disordine, le tensioni e le crisi alle quali queste differenze danno quotidianamente luogo. L’Europa occidentale ha iniziato il suo processo di unificazione, che dura da cinquant’anni e non è affatto concluso, in un contesto di grande omogeneità, dopo la conclusione di una tragedia che aveva dato una drammatica scossa alle coscienze. L’orrore della seconda guerra mondiale aveva diffuso la consapevolezza della comunità di destino nella quale gli Europei si trovavano uniti, dell’incapacità degli Stati nazionali di promuovere i valori della convivenza civile e di garantire la sicurezza dei loro cittadini e il loro benessere, e del bisogno urgente di istituire, per soddisfare questi bisogni primari, una nuova statualità, di natura federale e di dimensione continentale. Inoltre, il cammino dell’unificazione era stato fortemente aiutato da un contesto internazionale (la leadership americana e la minaccia sovietica) che gli aveva consentito di avanzare anche in assenza dell’unità politica. Tutte queste condizioni mancano a livello mondiale, anche se esiste il problema di assicurare qualche forma di global governance per affrontare bene o male problemi che hanno una dimensione mondiale, e in primo luogo quello di garantire l’instaurazione e la permanenza di un equilibrio politico ed economico internazionale ragionevolmente stabile.
A questo proposito non si può evitare di menzionare l’esistenza di un altro problema. Pare che sia riconosciuto da tutti nel Movimento che la Federazione mondiale potrà nascere soltanto come unione tra grandi federazioni continentali, e che queste dovranno essere repubbliche nel significato kantiano del termine, cioè dovranno essere fondate sui valori della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia. Oggi la sola federazione continentale che risponda a questi criteri è quella degli Stati Uniti d’America. Nelle altre regioni del mondo o non è stata raggiunta la dimensione politica continentale, o il potere non ha una struttura federale, o non si sono ancora affermati i valori liberaldemocratici e lo Stato sociale o non sono state realizzate tutte queste cose insieme. Sembra quindi accettato da tutti che la strada per l’unificazione federale del genere umano dovrà necessariamente passare per la progressiva creazione di queste repubbliche federali continentali. Nel contempo saranno riformate e rafforzate le istituzioni della global governance. Ma prima che la base politica di queste sia costituita da repubbliche federali continentali, esse manterranno una natura inevitabilmente egemonica e autoritaria perché saranno l’espressione del dominio degli Stati forti su quelli deboli e dei governi totalitari sui loro popoli. Le due linee di sviluppo del processo saranno quindi inevitabilmente in un rapporto dialettico tra di loro: da un lato esse si rafforzeranno reciprocamente, perché ogni ordine egemonico mondiale è anche esercizio di responsabilità, e quindi indirettamente favorisce lo sviluppo economico e l’evoluzione civile dei soggetti che subiscono l’egemonia altrui; ma dall’altro saranno in contrasto, perché l’emergenza di nuovi soggetti attivi dell’equilibrio internazionale modificherà i rapporti di potere mondiali a prezzo di tensioni e conflitti. Questo è un punto sul quale bisognerebbe riflettere prima di cimentarsi nel tentativo di definire un piano d’azione per la riforma delle istituzioni internazionali.
 
La politica estera della Federazione europea.
 
Il problema dell’attualità della Federazione mondiale viene posto talvolta nel dibattito come un problema che non riguarda direttamente la strategia dei federalisti, ma la politica estera della Federazione europea, di cui si tratta di prefigurare le scelte. Si è avanzata a questo proposito l’affermazione piuttosto impegnativa che dalle posizioni che si assumeranno a questo riguardo dipenderà la nuova linea di divisione tra progresso e conservazione che sostituirà quella tracciata dal Manifesto di Ventotene. Anche su questo tema, come peraltro su molti altri che sono oggetto del dibattito in corso, le enunciazioni di partenza sono formulate in un modo ambiguo. L’ambiguità consiste nel fatto che si confonde, o si scambia, il piano della previsione (cioè del giudizio di fatto) con quello della presa di posizione o dell’auspicio (cioè del giudizio di valore).
Per tentare di capirsi è quindi necessario, prima di ogni altra cosa, tenere accuratamente distinti i due piani. Sul piano del giudizio di fatto, come si è già accennato, si tratta di tentare di prevedere quale nuovo tipo di equilibrio mondiale la nascita della Federazione europea contribuirà a creare e quali nuove forze essa contribuirà a liberare. E tutti noi siamo federalisti perché crediamo che la Federazione europea sarà un importante passo avanti verso la Federazione mondiale, che essa consentirà di stabilire rapporti più stabili, pacifici e aperti tra i popoli, garantirà un fondamento più solido all’azione dell’ONU, favorirà, per effetto dell’esempio che offrirà al resto del mondo con la sua nascita, l’emergenza di spinte verso altre unificazioni regionali, darà un forte impulso alla diffusione della cultura dell’unità del genere umano. E farà tutto ciò in grazia della sua sola esistenza, indipendentemente dagli orientamenti di politica estera dei suoi governi.
Se invece non ci si mantiene rigorosamente sul piano del giudizio di fatto è inevitabile che si cada nella trappola della domanda «Quale Europa?», che è stata in passato all’origine di tanti guasti all’interno del Movimento; cioè che si faccia dipendere il contenuto di valore della Federazione europea non dal solo fatto della sua esistenza, ma dalle scelte che i suoi elettori, o i suoi governi, potranno liberamente fare o non fare. La verità è che i governi europei del futuro dovranno indubbiamente fare scelte di politica estera, ma le potranno fare all’interno di un campo assai ristretto, che sarà definito dai rapporti di forza obiettivi che la nascita della Federazione europea contribuirà a creare: e che le più egemoniche — o, all’estremo opposto, le più isolazioniste — tra queste possibili scelte saranno comunque incomparabilmente più avanzate di tutte le non-scelte alle quali gli Stati membri dell’Unione sono attualmente condannati dalla loro divisione e dalla conseguente assenza di una qualsiasi politica estera europea.
Non vi potrebbe quindi essere errore più grave di quello consistente nel «decidere» sin d’ora quale governo dovrà avere la Federazione europea, dimenticando che essa sarà prima di tutto uno Stato democratico, nel quale si alterneranno governi con diversi orientamenti; e dimenticando insieme il carattere unitario della lotta per l’Europa e l’esigenza prioritaria che deve guidare l’azione dei federalisti: quella di reclutare consensi e di formare alleanze su tutta l’estensione dello spettro politico (con la sola eccezione delle forze dichiaratamente autoritarie e nazionaliste) guardandosi dalla tentazione di qualificare i propri obiettivi in modo da dividere il fronte degli amici e da alienarsi il consenso di forze che per altro verso sarebbero favorevoli all’Europa. Questo significa che, nell’ottica della politica estera, il nostro modello di Europa deve essere definito in modo da poterci consentire di ottenere il sostegno di un arco di opinione che vada dai pacifisti realisti a coloro che nell’Europa cercano una garanzia di sicurezza, anche militare. Del resto si tratta di ciò che stiamo facendo nella nostra azione politica quotidiana.
Una breve riflessione a parte merita l’opinione secondo la quale la politica estera europea dovrebbe avere come asse portante la collaborazione con gli Stati Uniti, e questo orientamento dovrebbe addirittura assumere un rilievo costituzionale o quasi-costituzionale. Si tratta anche in questo caso di un’affermazione che va chiarita. Essa può significare che, fatta la Federazione europea, si entrerà immediatamente nella fase della costruzione di una federazione euro-atlantica, introdotta dalla istituzione di una Comunità simile alla Comunità europea. Ma questo sarebbe un progetto poco credibile perché ciò che spinge gli Stati ad unirsi è la constatazione di una comune debolezza di fronte a problemi gravi e drammatici che richiedono una nuova dimensione; mentre Stati Uniti ed Europa sarebbero i perni del nuovo equilibrio internazionale ed avrebbero la capacità di garantirne una gestione ragionevolmente equilibrata per un periodo di tempo ragionevolmente lungo con gli strumenti della sola collaborazione intergovernativa. Oppure essa può esprimere proprio l’auspicio di una solida collaborazione tra i due governi: una collaborazione che sarà vivamente auspicabile e che potrà essere ancorata in trattati, la cui validità, come quella di tutti i trattati, dipenderà dalla clausola rebus sic stantibus, cioè, in chiaro, dalla condizione che essi continuino a rispondere agli interessi vitali delle parti contraenti: ma non certo costituire l’oggetto di un impegno costituzionale o quasi-costituzionale unilaterale. La collaborazione tra due soggetti internazionali indipendenti è il risultato della volontà di entrambi e non certo di quella di uno solo di essi, a meno che si tratti di una collaborazione forzata, che mascheri l’egemonia di uno Stato sull’altro (cioè che, nel caso specifico, si pensi ad un’Europa dimezzata, né federale né confederale, che sia costretta a rimanere nella sfera di influenza degli Stati Uniti).
 
Natura del processo di globalizzazione.
 
L’esigenza di definire subito la strategia per la realizzazione dell’unificazione federale del genere umano va di pari passo con la concezione della globalizzazione come un fenomeno radicalmente nuovo nella storia dell’umanità e provvisto di una carica esclusivamente aggregativa; e insieme come un processo inarrestabile e sempre più rapido, destinato a travolgere, come un torrente in piena, le strutture istituzionali per il cui tramite la politica controlla la realtà economica e sociale, adeguandole con una forza irresistibile, in breve tempo e in modo indolore all’evoluzione di quest’ultima.
Non si tratta qui certo di negare la realtà del processo di globalizzazione. Ma è opportuno precisarne la natura facendo tre puntualizzazioni.
1) E’ evidente che da circa un decennio il processo di aumento dell’interdipendenza dei rapporti tra gli uomini ha assunto un ritmo spettacolare. Ma, se è vero che la rivoluzione informatica ha determinato, quantomeno in alcuni settori, una forte accelerazione del processo, è vero anche che il mercato mondiale per certi aspetti esisteva già prima e per altri non esiste ancora. Il suo sviluppo attuale è quindi un fatto più quantitativo che qualitativo. La storia umana in tutto il suo svolgimento è stata la storia della formazione del popolo mondiale. Il processo di globalizzazione non è quindi iniziato quando qualcuno ha introdotto per primo questa parola nel linguaggio della politica e dell’economia: esso è in corso dall’inizio della storia. Era in corso al tempo della civilizzazione greco-romana del Mediterraneo e dell’Europa; era in corso al tempo delle grandi scoperte geografiche. Era in corso quando Marx parlava di mercato mondiale; e quando Norman Angell, nel suo bestseller The Great Illusion, pubblicato tre anni prima dello scoppio della prima guerra mondiale, constatava che l’intensificazione dei commerci e l’intreccio di interessi che ne derivava avevano ormai raggiunto un grado tale da rendere la guerra impossibile. Il vero elemento di novità che contraddistingue l’epoca che stiamo vivendo è piuttosto l’inizio della fase federalista della storia mondiale, cioè il fatto obiettivo che la sola forma statuale che è oggi in grado di controllare il processo di aumento dell’interdipendenza è la forma federale. Il momento in cui la svolta ha avuto luogo si può collocare in momenti diversi, a seconda che lo si faccia risalire all’esplosione delle contraddizioni reali che sono state all’origine del processo (il fascismo e le due guerre mondiali) o all’emergenza della consapevolezza della sua natura e alla manifestazione della volontà di portarlo al suo necessario esito politico (Einaudi, Federal Union, Spinelli o, più in generale, l’inizio del cammino dell’unificazione europea); ma in ogni caso deve essere collocato al più tardi al termine della seconda guerra mondiale. Non è quindi giustificata l’affermazione secondo la quale la globalizzazione costituirebbe una novità così radicale da imporre una revisione profonda delle stesse categorie con le quali oggi deve essere interpretato il processo politico.
2) L’intensificazione dell’interdipendenza dei rapporti tra gli uomini non crea soltanto intrecci di interessi complementari e occasioni di dialogo e di reciproco arricchimento tra le culture, ma è anche causa di guerre, della diffusione di epidemie, di crisi finanziarie globali, dell’internazionalizzazione della criminalità e del commercio delle armi, delle migrazioni di massa, dell’impoverimento e dell’emarginazione di parti numericamente crescenti delle società dei paesi avanzati e delle intere società di un numero rilevantissimo di paesi in via di sottosviluppo (mentre alcune decine di milioni di persone nel mondo si scambiano messaggi via Internet, altri ottocento milioni circa soffrono di problemi gravi di malnutrizione). E’ certamente vero che gli aspetti degenerativi del processo sono a loro volta la causa dell’emergenza di quelli positivi. La seconda guerra mondiale, che è stata pur sempre una conseguenza dell’aumento dell’interdipendenza, è stata anche una condizione necessaria dell’inizio del processo di unificazione europea. Ma riconoscere tutto questo significa riconoscere che il processo di unificazione mondiale è dialettico, che la meta non è necessariamente a portata di mano, che il cammino che vi conduce passerà necessariamente attraverso molte e sanguinose peripezie e che chi intende dare un serio contributo al suo raggiungimento deve esserne consapevole.
3) La ragione profonda della natura dialettica del processo di unificazione mondiale sta nel fatto che la politica ha un grado di autonomia rispetto allo sviluppo della realtà economica e sociale. Vero è che prima o dopo la politica si adegua alla natura dei problemi posti dall’aumento dell’interdipendenza. Ma l’adeguamento non è meccanico né immediato. Tra il processo di aumento dell’interdipendenza e il processo politico esiste uno sfasamento che, da una parte, è la causa delle crisi istituzionali e delle guerre e che, dall’altra, crea lo spazio nel quale l’azione umana consapevole riacquista un margine di libertà. La necessità di unire politicamente l’Europa era evidentissima all’indomani della fine della seconda guerra mondiale. Da allora sono passati cinquantaquattro anni e l’Europa è ancora politicamente divisa. L’impressionante, e incessante, aumento dell’interdipendenza (che non si è certo limitata ai mercati finanziari, ma che coinvolge profondamente la società, la condivisione dei valori politici, l’armonizzazione dei comportamenti, gli scambi culturali, la conoscenza tra i giovani) non è ancora arrivata, in Europa, ad esasperare la contraddizione tra natura dei problemi e assetto del potere al punto di farla esplodere. Questa realtà, che abbiamo vissuto e viviamo tutti in prima persona, legittima una volta di più la supposizione che, prima che si possa parlare in termini strategici di unificazione mondiale, sarà necessario un lungo e faticoso processo, irto di ostacoli e cadenzato da crisi. Esso dovrà passare attraverso la democratizzazione della Cina, l’introduzione di un minimo di giustizia sociale in India, l’unificazione politica dell’America latina e del Sud-est asiatico, il superamento del fondamentalismo islamico, l’ingresso dell’Africa nell’era moderna. Ognuno di questi nodi sarà la causa di tensioni e di conflitti. La creazione della Federazione europea sarà importante per fare evolvere questi problemi nella direzione di una loro soluzione positiva. Ma non li risolverà certo da sola, e non in breve tempo.
 
Evoluzione del modo di produrre e ragion di Stato.
 
Quest’ultimo punto merita un approfondimento. Lo sfasamento di cui si è appena parlato è il risultato del conflitto tra due fattori: l’evoluzione del modo di produrre e la ragion di Stato.
L’evoluzione del modo di produrre è il processo attraverso il quale gli uomini trasformano continuamente la qualità della loro vita attraverso l’innovazione tecnologica e la creazione di nuovi modi di organizzare la divisione del lavoro. Essa è il motore del processo storico e il luogo della creatività. Essa infittisce i rapporti tra gli uomini e ne allunga le catene di interdipendenza fino a rendere, in certe fasi critiche, i modi prevalenti di funzionamento della società incompatibili con l’assetto di potere esistente e con le istituzioni che lo esprimono. La ragion di Stato, per contro, è la sfera delle leggi ferree ed immutabili della politica come lotta per il potere e gestione del potere: un potere che ha una sua formidabile inerzia, che tende a perpetuare gli equilibri esistenti e a condizionare il modo stesso in cui gli uomini percepiscono e interpretano i loro interessi, creando così il consenso che legittima la sua conservazione.
Esistono due modi radicalmente errati di porsi di fronte alla realtà del proprio tempo. Essi consistono l’uno nel non vedere la realtà del processo e l’altro nel non vedere la realtà dell’inerzia del potere e delle leggi che ne governano gli equilibri. Un certo ottimismo illuministico mette tra parentesi la ragion di Stato e concepisce il processo storico come una sorta di marcia trionfale dell’umanità verso la completa realizzazione delle proprie disposizioni. Un certo realismo politico mette tra parentesi lo sviluppo storico e vede nella realtà soltanto l’eterno dominio delle leggi della politica, l’incessante riprodursi di situazioni di potere mutevoli nell’apparenza ma sempre uguali nella sostanza. Soltanto un approccio che tenga conto insieme di entrambi i fattori rende ragione di quello che è l’andamento reale del processo storico: un succedersi di fasi di equilibrio, o di movimento lento, nelle quali la società civile evolve, ma l’assetto di potere esistente rimane sostanzialmente immutato e riesce a controllarne l’evoluzione; e di fasi di crisi, o di movimento rapido, nelle quali l’assetto di potere esistente non riesce più a controllare l’evoluzione della società civile e ne viene travolto, spesso dopo aver tentato di perpetuare la propria esistenza anche con l’uso della forza. Sono queste le fasi nelle quali si verifica il passaggio da un equilibrio preesistente ad un equilibrio nuovo e le leggi della ragion di Stato sono temporaneamente sospese, perché i soggetti dei quali esse regolano il comportamento stanno cessando di esistere e si preparano a lasciare il posto a soggetti nuovi. Ed è in queste fasi che si apre uno spazio per l’irruzione nella storia della ragione tout court.
Non sembra che oggi esista nel Movimento un consenso unanime sulla verità di queste proposizioni. E’ un fatto comunque che nella quotidianità del dibattito, e di fronte a problemi concreti, si sentono di tempo in tempo affermazioni che con quel consenso sembrano incompatibili: come quelle secondo le quali sarebbe in corso un profondo mutamento, provocato dal processo di globalizzazione, della natura del diritto internazionale e del ruolo e del potere delle organizzazioni internazionali; o quelle che riguardano addirittura la pretesa necessità di superare la categoria stessa della ragion di Stato. Questi accenni possono indurre a temere che nel Movimento si stia facendo strada l’idea che l’aumento dell’interdipendenza abbia reso ormai obsoleta la logica del potere, inaugurando un’era nella quale l’interesse degli Stati, correttamente interpretato, li spingerà ad adottare, nei loro rapporti reciproci, comportamenti ragionevoli e collaborativi, fino al punto in cui la scomparsa di qualunque ragione che giustifichi la divisione porterà tutti i governi del mondo alla decisione di superarla con la fondazione della Federazione mondiale.
Peraltro si è tentato di conciliare questa conclusione con il riconoscimento della permanente efficacia delle leggi della ragion di Stato. Si è affermato che il processo di globalizzazione non porterebbe al deperimento, ma alla convergenza, delle ragioni di Stato di tutti gli Stati del mondo, o almeno dei più importanti, e quindi alla generale consapevolezza che il mondo costituisce un’unica comunità di destino. Si tratta di una tesi che si ispira alla teoria di Albertini del piano inclinato, o della eclissi, o convergenza, delle ragioni di Stato degli Stati membri della CEE. Ma la teoria di Albertini si riferiva ad un periodo limitato di tempo e ad un processo che si svolgeva in un contesto internazionale stabile (quello della guerra fredda). Tant’è vero che Albertini, lungo tutto il corso della sua militanza politica, si è riferito con insistenza quasi ossessiva alla pagina 89 dello Scrittoio del Presidente, nella quale Einaudi mette in guardia contro il pericolo che gli Stati europei perdano l’attimo fuggente, il tempo propizio, come avevano fatto gli Stati italiani del Rinascimento. Per Albertini quindi la convergenza delle ragioni di Stato dei paesi della CEE era un fatto fragile e transitorio. Nella versione che viene sostenuta oggi nel dibattito interno al Movimento invece la tesi della convergenza delle ragioni di Stato non è più contestualizzata. Essa diventa strutturale ed è destinata a non conoscere crisi e a durare fino alla fondazione della Federazione mondiale, della quale costituisce il presupposto. Ciò significa che di qui alla fondazione della Federazione mondiale, che abolirà la ragion di Stato, gli Stati saranno spinti dalla loro ragion di Stato a comportarsi come se la ragion di Stato non esistesse: il che equivale a dire che la ragion di Stato è già di fatto abolita.
Questo punto è decisivo. I più vecchi tra di noi — e anche molti giovani — hanno iniziato la loro avventura federalista quando, grazie all’insegnamento di Albertini e alla lettura dei grandi testi fondatori di Kant e di Hamilton, hanno capito che la politica si basa sui rapporti di forza e che la logica del potere è quella di conservarsi e di rafforzarsi a scapito del potere altrui: per questo la pace e il perseguimento dell’interesse comune ad una pluralità di Stati non si possono conseguire con la collaborazione internazionale, ma soltanto con la creazione di uno Stato sovranazionale. Si ricordi la frase di Hamilton che figura sulla copertina della rivista Il Federalista: «Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l’esperienza accumulata dal tempo». Tutto ciò non significa che in particolari circostanze di equilibrio, di comune pericolo esterno o di sottomissione ad una comune egemonia alcuni Stati non possano convivere pacificamente e gestire i loro rapporti reciproci attraverso la collaborazione: ma significa che ciò non può accadere che in modo parziale e imperfetto e per periodi di tempo — in termini storici — brevi. Per questo Einaudi ha criticato duramente la Società delle Nazioni. Per questo i federalisti hanno criticato duramente il Mercato comune. Per questo essi hanno lottato e lottano per l’unificazione federale dell’Europa. La tesi del superamento, o della convergenza strutturale, delle ragioni di Stato mette quindi in discussione alcune delle categorie che sono all’origine della nostra esperienza di militanti. La politica stessa, come lotta per il potere, scompare dall’orizzonte, e viene sostituita da un confronto pacifico tra uomini ragionevoli in vista della realizzazione di un grado sempre maggiore di collaborazione tra i popoli, della promozione del benessere economico generale e della intensificazione del dialogo tra le culture. La ragione prende nella storia il posto della ragion di Stato, il che paradossalmente rende inutile la Federazione mondiale perché la sola collaborazione internazionale sarebbe in grado di realizzarne i valori.
Analogo discorso va fatto a proposito del diritto internazionale e delle organizzazioni internazionali. Noi ci siamo formati sulla dottrina kantiana secondo la quale c’è diritto soltanto dove c’è Stato, e dove non c’è lo Stato vige la legge della forza. Oggi sembra di capire che questa dottrina non sia più data per scontata, e che qualcuno ritenga che si debbano rivalutare il diritto internazionale, le cui differenze rispetto al diritto interno si starebbero attenuando, e le organizzazioni internazionali, le cui differenze rispetto agli Stati starebbero diventando sempre meno rilevanti. A questo punto è lecito chiedersi se dopo decenni di riflessione sulla natura del potere i federalisti, buttando a mare tutta la loro cultura, stiano diventando kelseniani, o internazionalisti, o pacifisti, sì da valutare i progressi del genere umano nella sua lunga marcia verso la pace non sulla base dell’analisi dell’evoluzione delle situazioni di potere, ma su quella dell’esame della lettera dei trattati o delle risoluzioni delle Nazioni Unite (dimenticando che la seconda guerra mondiale è scoppiata undici anni dopo la firma del Patto Kellogg, che metteva la guerra fuori legge).
E’ più che evidente che con questo non si vuol dire che diritto internazionale e organizzazioni internazionali siano una pura mistificazione. Il diritto internazionale è nato con lo Stato moderno. Esso è stato ed è uno strumento importante usato da soggetti politici responsabili per garantirsi reciprocamente una misura sufficiente di prevedibilità delle rispettive condotte. Il rispetto — rebus sic stantibus — del principio «pacta sunt servanda» è da quattro secoli un presupposto importantissimo della convivenza internazionale. Né si intende negare che la civiltà abbia fatto enormi passi avanti dal Cinquecento ad oggi e che questo valga in una certa misura anche per i rapporti internazionali (anche se un monarca assoluto, sottratto alle pressioni dell’opinione pubblica, poteva in determinate circostanze essere più libero di stare ai patti di quanto non lo sia un governo democratico). Ma questo non significa che il diritto internazionale sia un vero diritto. Esso è semmai la speranza di un diritto, la prefigurazione del contenuto di un futuro diritto cosmopolitico, che sarà tale soltanto quando sarà assistito dal potere coercitivo di uno Stato federale mondiale. E questo è tanto vero che il diritto internazionale non ha mai impedito (oggi come nel passato) al flagello della guerra di infierire periodicamente in ogni parte del mondo.
Lo stesso vale per le organizzazioni internazionali. Esse, con la parziale eccezione dell’Unione europea, che è l’espressione di una fase di transizione rivoluzionaria, sono il riflesso dei rapporti di potere tra gli Stati che le compongono. Il che non toglie né che esse svolgano un’importante funzione nella gestione dei rapporti internazionali né che la loro moltiplicazione e la loro evoluzione siano una delle manifestazioni della progressiva intensificazione dell’interdipendenza tra i popoli. Ma il loro valore resta quello di uno strumento della diplomazia, né esse intaccano minimamente la sovranità degli Stati che ne fanno parte.
Questi punti di dottrina, sui quali si fonda il nostro impegno per la fondazione della Federazione europea, cioè di un potere sovranazionale europeo, sono veri oggi esattamente come lo erano quarant’anni fa. Il pacifismo e l’internazionalismo rimangono, oggi come allora, l’esatto contrario del federalismo. E la specificità del federalismo sta proprio nel loro superamento. Mettere questo in discussione significa mettere in discussione la nostra identità.
Peraltro è un fatto che la concezione della storia come cammino verso la Federazione mondiale si fonda per tutti noi sul postulato che in una certa fase del processo si verificherà l’ultima crisi, dal cui grembo nascerà il popolo federale mondiale. E’ quindi possibile conciliare i fondamenti della nostra cultura politica con l’idea dell’attualità della Federazione mondiale avanzando l’ipotesi che l’ultima crisi è già avvenuta, talché le attuali guerre etniche con i relativi genocidi, la drammatica crisi della Russia, il fatto che tre quinti dell’umanità vivano in condizioni di sottosviluppo, le turbolenze finanziarie che hanno recentemente scosso l’una dopo l’altra tutte le economie del mondo, ecc. siano soltanto impercettibili increspature in un mare che al di sotto della superficie si trova ormai in uno stato di profonda e definitiva bonaccia; oppure quella che essa stia avvenendo ora, e sia così grave e profonda che i suoi orrori susciteranno nell’intero genere umano sentimenti della stessa natura e della stessa intensità di quelli che la seconda guerra mondiale ha fatto nascere tra i popoli europei, e che sono stati il vero fondamento sul quale si è potuto sviluppare il processo di unificazione del continente. Se una di queste due ipotesi fosse vera, cioè se il mondo nella sua interezza si trovasse già, o stesse per entrare, in una fase di transizione rivoluzionaria verso la sua unità politica, il diritto internazionale sarebbe già qualcosa di più della speranza di un diritto e le istituzioni internazionali qualcosa di più di una pura espressione dei rapporti di potere tra gli Stati, come accade per il diritto e le istituzioni comunitarie. Che le cose non stiano né nell’uno né nell’altro modo non può essere dimostrato con il rigore di un teorema. Ma è importante che i termini del problema siano chiari, in modo che ogni presa di posizione, quale che essa sia, sia accompagnata da chi la esprime, e da chi ne viene a conoscenza, dalla consapevolezza delle sue implicazioni.
 
La Federazione europea conte nuovo modello statuale.
 
La mia opinione è che è irrealistico pensare che il processo di globalizzazione sia destinato a travolgere l’Europa all’indomani della sua unificazione politica, inducendola in tempi brevi a progressive rinunce di sovranità a favore dell’ONU, fino alla fondazione della Federazione mondiale: anche se l’Europa darà un importantissimo contributo all’accelerazione del processo, grazie al solo fatto di esistere e di dare così l’esempio di come Stati opposti l’uno all’altro e consolidati nella loro struttura di potere da secoli di antagonismo possano liberamente unirsi in una federazione. Ma se l’unificazione del genere umano sarà destinata ad essere un processo faticoso, imprevedibile nel suo percorso e comunque segnato da innumerevoli crisi e salti dialettici, l’Europa, una volta unita politicamente, dovrà durare, e comunque attrezzarsi per portare avanti la sua missione di allargamento della sfera della solidarietà con gli strumenti della politica, e non soltanto con quelli dell’esempio: garantendo per prima cosa la propria solidità interna contro ogni rischio di disgregazione e di secessione e dotandosi in secondo luogo della capacità di agire necessaria sia per assumere le proprie responsabilità nel nuovo ordine mondiale sia per diffondere nel mondo i valori del federalismo e il modello istituzionale federale.
Nel dibattito in corso all’interno del Movimento è quindi in gioco anche la fisionomia istituzionale dell’Europa che noi vogliamo. A questo proposito si deve notare che l’opinione che tende ad attenuare l’importanza dei processi di unificazione regionale, e prima di tutti di quello in corso in Europa, e a privilegiare la dimensione mondiale dell’aumento dell’interdipendenza, rischia di trovarsi in una situazione di equivoca consonanza con gli orientamenti degli europeisti moderati, che sono infastiditi dalla contrapposizione «dogmatica» tra federazione e confederazione e preferiscono pensare alla futura unione politica dell’Europa come a qualcosa di ambiguo («nuovo»), che non sarà né l’una né l’altra cosa (un «oggetto politico non identificato» nella formula di Delors). Sia gli uni che gli altri infatti tendono a mettere tra parentesi — implicitamente o esplicitamente — l’obiettivo dello Stato federale europeo: gli uni perché non si spinge abbastanza in là e gli altri perché vi si spinge troppo. Ad entrambi l’idea di Stato riesce fastidiosa: ai moderati, perché essi hanno come principale preoccupazione quella di non spaventare nessuno — e più di ogni altro sé stessi — con la prospettiva traumatica di un trasferimento di sovranità; agli altri, perché la nascita di solidi Stati federali di dimensione continentale implicherebbe necessariamente, prima che la battaglia per la Federazione mondiale diventi attuale, l’instaurazione, nei loro rapporti reciproci, di una fase di relativo equilibrio dalla durata indeterminabile. E questa comune repulsione per l’idea di Stato fa sì che gli uni e gli altri finiscano per convergere pericolosamente con l’ultraliberismo di quanti vedono (con favore) nella globalizzazione soltanto un processo di progressiva abdicazione della politica di fronte alle forze del mercato.
In questo modo i federalisti rischiano di lasciare libero il campo, nel dibattito politico-culturale, allo scontro tra chi sostiene che lo Stato nazionale è ormai superato dalla globalizzazione, ma non ha da contrapporre a questa constatazione che la visione di un secondo Medioevo, nel quale è lo Stato come tale che di fatto ha cessato di esistere, e le idee di sovranità, di legittimità e di cittadinanza vengono negate, mentre in loro vece si afferma l’inevitabile avvento di una società mondiale dominata dall’intreccio e dallo scontro degli interessi privati, regolati in modo non vincolante da una confusa sovrapposizione di organizzazioni funzionalistiche e di ordinamenti contraddittori; e chi vuole preservare le idee di diritto, di democrazia e di solidarietà rivendicando la necessità primordiale dello Stato, ma si arrocca nella difesa del solo modello di Stato che oggi esiste, che è quello dello Stato nazionale. In questo scontro tendenzialmente vince il nazionalismo, perché lo Stato è una categoria dalla quale si può prescindere nelle elucubrazioni di qualche intellettuale, ma non nella realtà della vita quotidiana. Per questo la sola alternativa che oggi può battere il nazionalismo affermando insieme l’imprescindibile necessità dello Stato come fondamento di tutti i valori della convivenza civile e negandone la dimensione nazionale è un progetto federalista proiettato in una dimensione continentale.
La nostra lotta per il superamento dello Stato nazionale ha come suo fondamento la constatazione che oggi in Europa (e non soltanto in Europa) la statualità è in crisi. Il suo scopo più immediato è quindi quello di fondare, in Europa, una nuova statualità che possa costituire il quadro di un rilancio del processo di promozione civile degli Europei (e, al seguito degli Europei, di tutto il genere umano). Non si può quindi partire dal presupposto che la Federazione europea sarà già in crisi al momento della sua nascita. Essa al contrario ridarà nobiltà alla politica e vigore al senso civico e al consenso democratico dei suoi cittadini. Abbiamo del resto già notato in un altro contesto che il trasferimento della sovranità a livello europeo — che, se avrà luogo, sarà l’evento che darà al processo di unificazione politica dell’Europa il suo significato storico rivoluzionario — si verificherà quando si sarà radicato un solido «patriottismo costituzionale» europeo. E’ vero che tutti questi valori si realizzeranno nella loro pienezza soltanto nel quadro della Federazione mondiale e che la Federazione europea sarà quindi uno Stato imperfetto, destinato a termine ad essere superato in un quadro più vasto. Ma nascerà vitale, e sarà vitale per una lunga fase del suo percorso storico se dovrà essere il vettore dell’ideologia federalista nel mondo.
E’ in questo contesto che ci si deve porre il problema se è sensato pensare che, fin da subito dopo la fondazione della Federazione europea (e dato per scontato che comunque, dopo l’inizio della fase federalista della storia mondiale, ogni politico morale dovrà comunque confrontarsi in qualsiasi circostanza con i valori del federalismo) il solo atteggiamento ragionevole per chi vorrà continuare a definirsi federalista sarà quello di astenersi da qualunque impegno politico nel nuovo quadro che si sarà formato per dedicare tutte le proprie energie alla lotta per la fondazione della Federazione mondiale o, meglio, per la realizzazione di qualche obiettivo di tipo funzionalistico. Perché se è vero che, nelle fasi di crisi acuta della statualità, l’affermazione quotidiana della solidarietà e l’impegno concreto per il perseguimento del bene comune della propria comunità nella vita politica normale deve essere sostituita dall’impegno rivoluzionario per la creazione di un nuovo quadro istituzionale che ne renda di nuovo possibile la realizzazione, per parziale che essa sia, non si può chiedere che questa rinuncia si prolunghi fino alla fine della storia.
E’ opportuno sottolineare a questo proposito che, quantomeno nella fase ascendente della vita della Federazione europea, il lealismo dei cittadini nei confronti della nuova comunità politica non sarà per nulla in contrasto con i valori del cosmopolitismo. In questa fase il significato ideale dell’Europa sarà il superamento della sovranità nazionale, e quindi la rottura di uno steccato storico, la negazione della chiusura delle nazioni nei confronti del resto del mondo. La nascita dell’Europa sarà quindi un evento che affermerà quegli stessi valori che fanno della Federazione mondiale l’obiettivo ultimo dell’impegno federalista: e nella percezione del quale quindi l’importanza simbolica delle frontiere interne che il nuovo Stato cancellerà sarà incomparabilmente maggiore di quella delle frontiere esterne che esso dovrà istituire. Verrà poi il tempo nel quale l’ulteriore crescita dell’interdipendenza renderà insufficienti anche le dimensioni dell’Europa e darà anche alle sue frontiere lo stesso significato di chiusura nei confronti del resto del mondo che oggi hanno le frontiere nazionali. Sarà quello il tempo in cui diventerà attuale l’obiettivo della Federazione mondiale.
Ma è essenziale non confondere il fatto che nessuno Stato è mai del tutto autosufficiente e del tutto indipendente, e quindi che la sovranità statale è sempre — in astratto — in contraddizione con il valore del bene comune dell’umanità, con la realtà concreta della specifica crisi di una forma di Stato che si manifesta quando la contraddizione tra l’aumento dell’interdipendenza economica e sociale e il processo politico mette in pericolo grave e immediato le prospettive di sviluppo equilibrato di una regione del mondo, il benessere dei suoi cittadini e la sopravvivenza delle istituzioni democratiche. Nel primo caso gli strumenti della politica internazionale sono in grado — bene o male — di risolvere i problemi e di ristabilire gli equilibri. Essi esistono del resto proprio a questo scopo. Mentre nel secondo la sola via d’uscita dalla crisi è quella di sostituire una forma di Stato con una forma più avanzata.
 
Gli obiettivi «intermedi» sulla strada della Federazione mondiale.
 
E’ opportuno, a questo punto, esaminare brevemente uno per uno quelli che sono stati finora indicati nel dibattito come obiettivi intermedi di una strategia per la creazione della Federazione mondiale. Si tratta in sostanza dell’idea di una nuova Bretton Woods (o di uno SME mondiale), della creazione del Tribunale penale internazionale e di varie riforme dell’ONU, che, in alcuni contesti, sono state indicate nel loro complesso con il nome di «governo mondiale parziale».
La nuova Bretton Woods. La creazione della Federazione europea darà luogo (dopo qualche possibile iniziale scossa di assestamento) a rapporti internazionali più stabili degli attuali. Vi è quindi ogni motivo di ritenere che essa contribuirà in modo decisivo (dopo qualche possibile iniziale scossa di assestamento) alla nascita di un sistema monetario mondiale più stabile dell’attuale. Del resto la stabilità monetaria è nell’interesse del mondo intero. In quale misura e in quale forma questo nuovo sistema possa e debba essere istituzionalizzato spetta agli economisti monetari dirlo, così come a loro spetta fare le proposte relative. Non rientra tra i compiti del Movimento quello di battersi per obiettivi di natura squisitamente tecnica, anche se una buona proposta formulata da una persona competente che fosse anche un esponente del Movimento non potrebbe che giovare al prestigio del MFE. Le affermazioni che mi sento di proporre all’attenzione del Movimento perché non sono di carattere tecnico ma politico sono due. La prima è che qualunque nuovo sistema monetario internazionale non dovrà avere il dollaro come moneta egemone, ma ruotare attorno al dollaro e all’euro (ed eventualmente allo yen e ad altre monete, se se ne creeranno le condizioni). Gli Stati Uniti dovranno perdere il privilegio di creare moneta senza creare inflazione interna facendo pagare agli altri i propri debiti, così come l’Europa dovrà perdere quello di arricchirsi senza assumersi le responsabilità che la gestione di una moneta mondiale comporta. La seconda, che discende da tutti gli argomenti che sono stati esposti in questo scritto, è che il nuovo sistema monetario internazionale, contrariamente allo SME rispetto alla moneta europea, non sarà comunque il preludio alla creazione di una moneta mondiale, ma sarà soltanto uno strumento di collaborazione internazionale, sicuramente importante, ma che durerà tanto quanto durerà l’equilibrio che lo avrà reso possibile.
La regionalizzazione del Consiglio di Sicurezza e la partecipazione dell’Unione europea. Secondo questa proposta nel Consiglio di Sicurezza dovrebbero essere rappresentate le grandi regioni del mondo, sia direttamente, quando esse sono già unificate, sia per il tramite di uno Stato importante della regione, quando esse non lo sono. Si è proposto in particolare che la rappresentanza dell’Europa in seno al Consiglio sia garantita dall’Unione europea in quanto tale.
La proposta di allargare il numero dei membri permanenti del Consiglio con diritto di veto, includendovi in particolare alcuni Stati del Terzo mondo può essere auspicabile, anche se è destinata a rimanere altamente improbabile fino a che i rapporti di potere mondiali non muteranno radicalmente. In ogni caso non si tratta di un obiettivo che investa minimamente la responsabilità dei federalisti, data la sua natura rigorosamente e dichiaratamente intergovernativa. Diversa è invece la proposta di assicurare la presenza, tra i membri permanenti, di un rappresentante dell’Unione europea in quanto tale (e sempre che non ci si riferisca alla futura Federazione europea, nel quale caso il problema non si pone neppure). Non si riesce infatti a vedere come, fino a che l’Unione europea non sarà divenuta una vera e propria federazione, dotata, tra le altre, delle competenze della politica estera, della sicurezza e della difesa, gli attuali membri europei del Consiglio di Sicurezza — la Gran Bretagna e la Francia — possano accettare di abbandonare il loro seggio a favore di un’entità che di fatto non esiste, e il cui rappresentante dovrebbe agire sulla base delle istruzioni impartitegli dai governi di quindici Stati sovrani. A questo si deve aggiungere che, poiché l’Unione europea, in materia di politica estera, può soltanto decidere all’unanimità, il suo rappresentante non saprebbe che posizione assumere in tutte le occasioni nelle quali l’unanimità non dovesse essere raggiunta (e questo a prescindere dall’enorme complessità delle procedure di consultazione). Se poi la presenza di un rappresentante dell’Unione europea dovesse essere concepita come soltanto aggiuntiva rispetto a quelle dei rappresentanti della Gran Bretagna e della Francia, essa sarebbe puramente simbolica, perché il rappresentante dell’Unione sarebbe subordinato agli altri due membri europei del Consiglio dei quali dovrebbe sempre ottenere il consenso, insieme a quello degli altri tredici membri dell’Unione stessa.
Il Tribunale penale internazionale. Si tratta di una istituzione che, se sarà creata, si collocherà in un contesto internazionale fondato su rapporti di potere tra Stati sovrani e che dovrà riferirsi a questi sia per la consegna degli imputati che per l’esecuzione delle sue sentenze. Ciò suggerisce due ordini di riflessioni.
La prima è che esso giudicherà soltanto i crimini commessi dai vinti e mai quelli commessi dai vincitori e comunque quelli commessi dai deboli e mai quelli commessi dai forti. Gli autori degli stessi atti sono spesso eroi in patria e criminali fuori, e la loro sorte dipenderebbe quindi dalla collocazione del loro paese nel contesto internazionale. Ma, se questo è vero, il TPI non imporrebbe il rispetto del diritto, ma si limiterebbe a sancire i rapporti di forza esistenti. In un regime giuridico la norma viene fatta valere (anche se non sempre e non perfettamente) indipendentemente dai rapporti di forza tra le parti in conflitto, grazie all’esistenza del potere irresistibile dello Stato, che azzera le differenze di potere tra i suoi cittadini. La verità è che nei rapporti tra Stati sovrani i conflitti possono essere evitati, limitati o fatti cessare soltanto con gli strumenti della politica. E la politica, in certe situazioni, comporta la necessità di sporcarsi le mani, di lavorare nell’ombra, di fare compromessi anche con personaggi spregevoli e, talvolta, con autentici criminali, spesso anche incoraggiandoli e aiutandoli. E questa necessità è tanto più forte e più frequente quanto più chi ne deve subire il condizionamento si trova in una posizione di responsabilità. In molti di questi casi l’atteggiamento rigoroso del giurista, che deve sempre agire alla luce del sole e non accettare compromessi, creerebbe, se avesse voce in capitolo, intralci gravissimi alla politica e rischierebbe di far fallire ogni tentativo di mediazione rendendo più probabili, più lunghe e distruttive le guerre e le dittature invece di evitarle o di attenuarne le conseguenze. Per questo è perfettamente comprensibile il fatto che gli Stati Uniti, che sono attualmente la sola potenza mondiale che eserciti effettive responsabilità nel controllo dei conflitti, siano contrari alla proposta. Con questo non si vuole negare che il Tribunale penale internazionale potrebbe avere la funzione, in qualche caso, di sottrarre quelli tra i vinti o i deboli che si sono macchiati, o sono sospettati di essersi macchiati, di genocidio, di crimini di guerra o di crimini contro l’umanità alla vendetta cieca e feroce di qualche fazione estremista nel campo dei vincitori, garantendogli un processo equo e una punizione umana. Ma questo, lungi dal costituire per i criminali una minaccia, offrirebbe loro una garanzia. E comunque sarebbe un inganno presentare all’opinione pubblica questo risultato come un decisivo passo avanti verso l’instaurazione del diritto nei rapporti internazionali.
La riforma in senso democratico dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Questa idea è stata evocata nei dibattiti federalisti per le analogie che presenterebbe con l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo. Si tratta di un progetto ambizioso perché comporterebbe sia la riforma della composizione delle delegazioni nazionali in modo da renderle almeno grosso modo proporzionali alla cifra di popolazione degli Stati rappresentati, sia la democratizzazione di tutti gli Stati membri dell’Organizzazione (a meno di non procedere ad elezioni unilaterali). Inoltre, essa avrebbe senso e credibilità soltanto se fosse inserita in un progetto (come quello che era contenuto nei Trattati di Roma) che prevedesse l’evoluzione dell’Organizzazione verso un esito istituzionale di natura federale. La verità è che la differenza tra l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo che, malgrado l’estrema debolezza dell’istituzione, ha giocato un ruolo importante nel processo di unificazione europea, ed un’ipotetica elezione a suffragio universale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sta nel fatto che nel 1979 la Comunità economica europea aveva realizzato un grado tale di integrazione delle economie e delle coscienze da rendere credibile che l’elezione di un Parlamento ancora senza poteri potesse essere il primo atto della fase costituente del processo di integrazione europea. Mentre lo stesso non si può certo dire oggi del mondo. E l’assenza della prospettiva credibile di un’evoluzione ulteriore priva a sua volta di senso, e quindi di credibilità, l’idea di eleggere democraticamente i rappresentanti di 180 Stati — più di metà dei quali non democratici o assai imperfettamente democratici — in un organo privo del benché minimo potere.
Il governo mondiale parziale. Questo non è inteso nel senso di Einstein di Unione federale di un nucleo di paesi dotati di un potere sufficiente a fare di essi il magnete della formazione di una Federazione cosmopolitica, ma in quello di una riforma dell’ONU in senso quasi federale. Si tratterebbe in particolare, oltre che di riformare il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea generale nei modi che si sono esaminati precedentemente, di dotare il primo dei due organi di una forza di pace stabile, che sia indipendente dagli Stati che forniscono i relativi contingenti, e di risorse finanziarie proprie. E’ opportuno sottolineare a questo proposito che, a meno che il trasferimento del controllo delle forze armate e del bilancio al Consiglio di Sicurezza non sia soltanto apparente, e a meno che le dimensioni delle une e dell’altro non siano così modeste da rendere la riforma puramente simbolica, l’accoglimento di una proposta del genere comporterebbe, da parte degli Stati membri, un vero e proprio abbandono di sovranità: quindi la creazione di una dittatura mondiale del Consiglio di Sicurezza, e in particolare dei suoi membri permanenti, che non sono eletti da nessuno e che, con l’esercizio del diritto di veto, condizionano tutte le decisioni del Consiglio (anche se si tratterebbe di una dittatura temperata dal loro disaccordo). Comunque sia di ciò, si tratta di una proposta che implica, una volta di più, un atto di fede nel fatto che, con la fondazione della Federazione europea, il mondo entrerà nella sua fase costituente. La proposta quindi sta o cade a seconda che questa affermazione sia o meno condivisa. Peraltro anche a chi pensi che una riforma di questo grado di radicalità sia ormai all’ordine del giorno non dovrebbe essere molto chiaro perché ci si debba proporre un obiettivo di questo genere. Il processo costituente mondiale, quando ci sarà, inizierà con un singola riforma parziale, quale è stata l’elezione diretta del Parlamento europeo rispetto a quello che speriamo sia il processo costituente europeo. Questa riforma farà nascere, con le contraddizioni alle quali darà luogo, la necessità di riforme ulteriori, fino al conseguimento dell’obiettivo finale. Chi crede in questa prospettiva dovrebbe quindi proporsi di individuare, da un lato, il primo passo del cammino e, dall’altro, il suo punto d’arrivo. Le ragioni per le quali si debba isolare oggi come obiettivo della strategia federalista dopo la fondazione della Federazione europea il penultimo passo del cammino verso la Federazione mondiale, quindi un traguardo che non è né concreto né mobilitante, mi rimangono oscure.
 
Conclusione.
 
Quelle che sono contenute in questo scritto possono sembrare a prima vista riflessioni puramente teoriche, come tali prive di impatto sulla nostra azione. Ma non è così. Di fatto sono in gioco i fondamenti del nostro impegno. So perfettamente che tutti gli amici che sostengono le posizioni dalle quali dissento sono militanti ammirevoli, che hanno dedicato la loro vita al Movimento. Sarebbe ingeneroso da parte mia imputare loro l’intento di indebolire quei fondamenti, così come sarebbe ingeneroso da parte loro accusare me e coloro che hanno opinioni uguali o simili alle mie di non riconoscersi nei valori e nella prospettiva del mondialismo. Resta il fatto che certe opinioni camminano con le loro gambe e possono produrre danni, soprattutto tra i giovani, indipendentemente dalle intenzioni di coloro che le professano.
Riassumo quindi, per concludere, le mie preoccupazioni:
1) L’assegnazione al Movimento di due obiettivi strategici confonde le idee, indebolisce l’impegno dei militanti e ne paralizza l’azione.
2) Lo spostamento dell’accento dal ruolo obiettivo che la Federazione europea avrà nel mondo grazie alla sua sola presenza alle scelte di politica estera che essa potrà fare o non fare comporta la conseguenza che la fondazione della Federazione europea, in sé e per sé, sarà un evento storico neutrale, al quale soltanto le scelte successive daranno un segno positivo o negativo. E non si vede per quale ragione si dovrebbe dedicare la propria vita ad una lotta difficile e non gratificante per il raggiungimento di un obiettivo che non sia in sé portatore di grandi valori positivi.
3) La preoccupazione che l’Europa non nasca troppo forte, per non pregiudicare la prosecuzione del processo, mette in sordina il problema della statualità, del trasferimento della sovranità e della distinzione tra federazione e confederazione. In questo modo si tende a mettere in ombra il nostro obiettivo strategico e il suo ruolo di evento critico nel processo di unificazione del genere umano; e ad accreditare una prospettiva secondo la quale la soluzione dei problemi del mondo di oggi passa per il rafforzamento delle istituzioni internazionali. Si apre così la porta all’internazionalismo.
4) Se il processo di globalizzazione è destinato a promuovere comunque in tempi brevi l’unificazione del genere umano, la circostanza che l’Europa si faccia o non si faccia ha un’importanza relativa. Il valore di esempio dell’evento della fondazione della Federazione europea sarebbe del tutto irrilevante. La Federazione europea non sarebbe più un passo indispensabile sulla strada dell’unificazione mondiale. Perché dunque faticare per realizzarla?
5) Ad uguale conclusione si giunge se si nega di fatto l’autonomia della politica. La radice del nostro impegno risiede proprio nella convinzione che l’aumento dell’interdipendenza non basta, che tra il processo di aumento dell’interdipendenza e il processo politico esiste uno sfasamento, che questo può essere colmato soltanto dalla volontà politica e che la volontà politica non può nascere senza l’iniziativa di un movimento rivoluzionario. Se quindi la politica non ha un grado di autonomia, il Movimento non serve.
6) Se la ragion di Stato è una categoria superata, o comunque converge irreversibilmente a livello mondiale grazie alla coincidenza di interessi prodotta dalla globalizzazione, la politica non è più lotta per il potere, ma dialogo tra persone ragionevoli, capaci di interpretare correttamente gli interessi a medio e lungo termine delle collettività alle quali appartengono e di operare di concerto per la realizzazione del bene comune. Si tratta in fondo di una variante della vecchia teoria secondo la quale il commercio è incompatibile con la guerra. L’Europa si farà da sé, o sarà addirittura inutile perché la ragionevolezza dei suoi uomini di governo consentirà loro di risolvere i problemi che dovranno affrontare con le strutture istituzionali esistenti (e lo stesso varrà, sia detto per inciso, per la Federazione mondiale). La nostra presenza è quindi ancora una volta del tutto inutile.
Io penso che esprimere queste preoccupazioni non significhi rifiutare i valori del mondialismo, o addirittura essere nazionalisti europei. Penso che sia vero il contrario, perché fare l’Europa oggi è il solo modo per gettare nel mondo il seme del federalismo e per avviare il processo di unificazione mondiale. Si tratterà di un processo lungo e difficile. Ma senza l’unificazione dell’Europa esso non incomincerà nemmeno. E una riflessione sugli ostacoli che esso incontrerà sulla sua strada resta comunque il solo modo efficace per attrezzare la cultura federalista a superarli.


* Da qualche tempo è in corso nell’ambito del Movimento federalista europeo un dibattito sulla mondializzazione e le sue conseguenze, che è stato ampiamente documentato sul Dibattito federalista. In questo numero del Federalista e nel prossimo pubblichiamo due contributi, rispettivamente di Francesco Rossolillo e di Lucio Levi, che si inquadrano in questo dibattito e che, per i problemi teorici che toccano, pensiamo che possano interessare i nostri lettori.

 

 

 

il federalista logo trasparente

The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia