Anno XLI, 1999, Numero 1, Pagina 9
Luigi Sturzo tra autonomismo e federalismo
RODOLFO GARGANO
Introduzione.
La vicenda umana e politica di Luigi Sturzo[1] è per parecchi versi singolare e paragonabile solo a pochi altri esempi di illustri personalità portate dal volgere degli eventi e dalla passione civile ad essere elemento fondante di un nuovo modo di intendere e di agire nelle comunità dei popoli. Siciliano di nascita, ma presto in contatto con gli ambienti ecclesiastici romani dopo la sua ordinazione sacerdotale, Luigi Sturzo ebbe la ventura di vivere a cavallo delle due esperienze del Regno e della Repubblica del neo-costituito Stato nazionale italiano e di partecipare alle problematiche locali del governo cittadino assistendo anche alle vicende terribili della due guerre mondiali, che ponevano con urgenza la questione del governo del mondo, in un contesto italiano ed europeo dove l’amara riflessione sul fenomeno del nazifascismo e del bolscevismo imponeva una scelta precisa di democrazia e di libertà.
La sua stessa vita, che abbraccia circa tre generazioni, pare scandire profeticamente tale percorso, e in effetti proprio la sua attività di politico può agevolmente dividersi in due grandi periodi, ciascuno di circa trent’anni, in cui Sturzo ora si dedica con passione alla disamina dei problemi dell’amministrazione locale, ora affronta con pari vigore e tenacia le più controverse questioni di livello internazionale, dando al termine della sua esistenza quasi un suo suggello a due grandi realizzazioni della politica del dopoguerra, e cioè l’ordinamento regionale del costituente italiano del 1948 e l’inizio del processo di integrazione europea. E’ proprio questa doppia esperienza di Sturzo, della piccola dimensione della comunità cittadina e della grande dimensione della comunità mondiale, in cui speciale rilevanza era assunta dai tumultuosi rivolgimenti politici dell’Europa, a porre concettualmente le premesse del suo interesse per istituzioni che superando la visione burocratica ed accentrata dello Stato nazionale realizzassero una comunità realmente a misura dell’uomo: sicché ambedue quelle scelte della classe politica della Repubblica si può dire che in buona misura traggono le loro origini, sia pur parzialmente, dalle linee guida del suo pensiero, restando altresì tuttora un validissimo contributo all’analisi politica della società italiana.
In questo contesto una speciale rilevanza riveste certamente anche la sua adesione al moto per l’unità europea del secondo dopoguerra, che rendeva concrete talune sue affermazioni del suo esilio fuori d’Italia, nell’ambito più generale del suo impegno per una democrazia internazionale. Se si pon mente al fatto che il processo di integrazione europea è in realtà nato, di là dalle generiche aspirazioni del Comitato Paneuropa del conte Coudenhove-Kalergi e dalla buona volontà di Briand e Stresemann nell’intervallo fra le due guerre, proprio dall’incontro e dal comune sentire di tre uomini, come Adenauer, Schuman e De Gasperi, che erano anche espressione di partiti democristiani, appare abbastanza significativa l’opera intellettuale del sacerdote calatino che per lunghi anni aveva dato impulso e vigore ad un modo nuovo di far politica, che coniugasse insieme un altissimo senso etico del dovere e un ardire mirabile di fondare nuovi ordini politici.
Con Luigi Sturzo infatti l’esplorazione concettuale di nuove basi tendenti a istituzioni più libere e democratiche, anche per le sue particolarissime vicende personali che lo condussero alla fondazione di un partito cattolico prima, e alla lotta contro il fascismo e all’esilio nei paesi anglosassoni poi, assume una valenza amplissima, tuttora di eccezionale significato per l’Italia e per il suo faticoso avanzare dalla prima alla seconda Repubblica. Certo, il suo procedere dall’autonomismo al federalismo, così come la scelta europeista, non è scevro di oscurità e di contraddizioni: questo tuttavia non giustifica l’atteggiamento di larga parte degli studiosi e commentatori della copiosa produzione sturziana, i quali, con significative eccezioni, hanno preferito ignorare questo rilevante aspetto del pensiero di Sturzo,[2] che invece più che mai acquista al giorno d’oggi una sua bruciante attualità, ed è insieme di monito per i troppo facili sostenitori di improbabili «ingegnerie istituzionali» e di impulso per chi intenda realmente adoprarsi per il miglioramento delle società umane.
L’antistatalismo meridionalista.
L’adesione ad una visione autonomista nei rapporti fra governo nazionale e comunità locali sorge prestissimo nel giovane Sturzo e l’accompagna si può dire per tutto il corso della sua vita, saldandosi da un lato con il suo meridionalismo e dall’altro con un approccio antistatalista che continua perfino nel periodo della Repubblica. Così negli anni di fine secolo Sturzo avvia una forte lotta contro lo Stato accentratore, riprendendo da siciliano il problema del decentramento amministrativo che già avevano sollevato i gruppi cattolici che si rifacevano a Giuseppe Toniolo e Roberto Murri. Ma Sturzo inserisce il problema del governo locale nel più vasto aspetto dell’attenzione che a suo giudizio avrebbe dovuto avere il nuovo Stato nazionale nei confronti della Sicilia e delle classi più deboli del Mezzogiorno, quali i contadini e più in generale la povera gente, ed è sotto tale profilo che Sturzo si scaglia contro la «guerra regionalista» rivendicando l’esigenza di pervenire al più presto ad una vera autonomia municipale e regionale.[3]
In tale contesto, uno speciale ruolo è riservato al comune, considerato «ente concreto» rispetto alla provincia, alla regione e allo Stato, per cui con qualche ragione questo autonomismo è stato definito soprattutto municipalismo. Il partito municipale democratico cristiano ha così nel programma municipale del 1902 a Caltanissetta la rivendicazione forte dell’autonomia, se pur intesa essenzialmente nei suoi aspetti finanziari e amministrativi. D’altra parte, Sturzo non dimentica la rilevanza della regione, da lui vista giustamente come l’Ente che meglio può opporsi alle pretese del potere centrale. Nel suo Pro e contro il Mezzogiorno del 12 luglio 1903, scriveva testualmente: «La questione è lì: noi siamo regionalisti… La Sicilia ai Siciliani, una nuova dottrina di Monroe, deve essere la base di un vero movimento politico siciliano… a cui aderirebbero tutti gli altri partiti, con la bandiera di autonomia amministrativa e finanziaria, e col carattere di lotta al governo centrale». E aggiungeva: «I fieri siciliani di un tempo si ricordino che questa terra non è nata per servire, ma ha servito quasi sempre, per la vigliaccheria dei suoi figli».[4] Del resto, appena due anni prima, dichiarando «Io sono unitario, ma federalista impenitente»,[5] aveva scritto che il rimedio ai mali d’Italia (si riferiva soprattutto ai differenti pesi fiscali nelle diverse parti del Regno) «sarebbe ed è un sobrio decentramento regionale ed amministrativo e una federalizzazione delle varie regioni, che lasci intatta l’unità di regime».[6]
Non è chi non vede, proprio da questi passi, le ambiguità e le incertezze del pensiero di Don Sturzo, e non soltanto nella parte in cui mescola decentramento amministrativo e federalizzazione dell’Italia: più rilevanti infatti appaiono gli accenti nazionalistici relativi alla Sicilia, che mal si conciliano con una scelta di autonomia «amministrativa e finanziaria» e con lo stesso rifiuto della secessione, che ne sarebbe viceversa la conseguenza più logica sulla strada di un evidente favore per un nazionalismo isolano. Mentre è indubbio tuttavia che la strada dell’indipendenza della Sicilia non fu mai presa realmente in considerazione dal sacerdote calatino,[7] appare piuttosto probabile che l’uso indistinto di termini fra loro confliggenti, decentramento e federalismo, fosse dovuto in buona misura all’esigenza di non apparire in opposizione di regime rispetto allo Stato unitario uscito da Porta Pia,[8] e fors’anche di non dare priorità ai problemi istituzionali, rispetto a quelli di contenuto, che richiamavano urgenti interessi delle classi contadine, la cui mancata soluzione era a suo dire la causa preminente della sudditanza civile e psicologica del Mezzogiorno.[9]
Certo, non si può disconoscere che nella scelta federalista, peraltro dichiarata senza alcuna esitazione sin dal 1901, permane una qualche genericità, che rivela l’originaria simpatia per Gioberti e i neoguelfi, di comune matrice cattolica, ma poco federalisti rispetto per esempio al rigoroso impianto strutturale del federalismo di Cattaneo. Tuttavia, se lo stesso apparente bisticcio di parole tra «unitario» e «federalista» è spiegabile col carattere proprio del federalismo, che mira con tutta evidenza a coniugare diversità ed unità, perfino il richiamo a «decentramento» e «federalizzazione» appare quasi una graduazione logica o temporale di fasi diverse o successive con le quali assicurare il massimo possibile di autogoverno alla comunità locale pur nel necessario coordinamento col livello superiore del governo centrale. Sturzo, invero, all’epoca non avrebbe potuto far altro che indicare un percorso da perseguire, e con indomito vigore, per le popolazioni del Mezzogiorno e in particolare per la Sicilia, convinto più che mai che nell’autonomia locale coordinata a livello di Stato-nazione esse avrebbero trovato quel riscatto civile, economico e morale cui giustamente aspiravano.[10]
Tali considerazioni trovano in un certo senso conferma nella tenacia con la quale Sturzo, dopo la fondazione del Partito popolare italiano, ripropose nel 1921 a Venezia, durante i lavori del III Congresso nazionale del partito, un nuovo ordinamento dello Stato fondato sulla costituzione della regione, come «ente elettivo-rappresentativo, autonomo-autarchico, amministrativo-legislativo»:[11] la regione è infatti per Sturzo una realtà naturale in cui meglio può realizzarsi il decentramento e l’autonomia fiscale che peraltro, ad evitare fenomeni di anarchia, va coordinata a livello nazionale. Anzi, è proprio il concetto di coordinamento che viene introdotto come essenziale nei rapporti fra i diversi livelli di governo, dal comune ai consorzi di comuni e alle provincie, enti tutti che vanno mantenuti ed organizzati, secondo un principio che in effetti non può che considerarsi assai vicino al sistema istituzionale federale.[12]
In tale contesto, lo spirito che permea di sé tutta l’opera di Luigi Sturzo, e non solo nel primo trentennio della sua attività di uomo politico ed amministratore locale, fino al suo forzato esilio fuori d’Italia del 1924, è la sua vis polemica contro lo Stato burocratico accentrato, condotta talora anche con accenti vibranti di inusitata asprezza. Già nell’Appello a tutti gli uomini liberi e forti del gennaio 1919, Sturzo testualmente diceva: «Ad uno Stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato… che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali — la famiglia, le classi, i comuni…».[13] Come ognuno può riscontrare, il riferimento, invero di singolare attualità, è a quel principio di sussidiarietà, che da sempre considerato essenziale ai sistemi federali, è da Sturzo rivendicato come insopprimibile ad una società non statalista e che recentemente è stato anche inserito nell’ordinamento comunitario dal Trattato di Maastricht sull’Unione europea.[14]
Questo contesto di base non andrà perso nemmeno durante gli anni trascorsi da fuoriuscito, nel Regno Unito e negli Stati Uniti, fino al suo rientro in Italia nel 1946, anzi ne acquisterà maggiore vigore in presenza dell’oppressione nazifascista nel continente europeo. Sotto tale profilo s’inserisce anzi una critica puntuale allo Stato nazionale, che viene sviluppata in quel periodo con dovizia di particolari. Scrive Sturzo: «Sotto tutte le latitudini i caratteri dello Stato-nazione furono il centralismo ognor crescente, il militarismo basato sulla coscrizione e gli eserciti permanenti, la scuola di Stato come mezzo per creare un conformismo nazionale… L’economia liberale e l’internazionalismo avrebbero dovuto sviluppare molto più vigorosamente il senso cosmopolita in opposizione al nazionalismo».[15] Qui non solo puntualmente vengono richiamati gli aspetti più rilevanti delle caratteristiche dello Stato-nazione, dall’esasperato centralismo burocratico alla deliberata commistione fra militarismo e scuola di Stato, quest’ultima evidentemente orientata all’altro, ma altresì è evidenziata l’opposizione irriducibile tra nazionalismo e cosmopolitismo, tra senso di appartenenza esclusiva ad una data nazione e coscienza di far parte della comune umanità al di sopra delle artificiali barriere nazionali, con una punta di amarezza per la debolezza delle organizzazioni liberali e socialiste nei confronti di questo Stato, oltre che per la Chiesa, che ad esso s’oppose, in una lotta però «in cui fu sconfitta».
Per un internazionalismo senza più guerre.
Gli anni dell’esilio furono per Sturzo motivo di ulteriori riflessioni sui problemi dell’internazionalismo e del governo del mondo. In effetti, la polemica autonomista portava inevitabilmente ad un approfondimento anche dal versante internazionale dei temi legati allo Stato totalitario affermatosi col nazifascismo, in particolare per ciò che atteneva alla possibilità della comunità internazionale di porre dei limiti al potere degli Stati, onde pervenire al disarmo universale e all’eliminazione del «diritto di guerra», come del resto già recitava il programma del Partito popolare. Per la verità, l’avvento della Società delle Nazioni voluta da Wilson all’indomani della prima guerra mondiale aveva trovato il Nostro pienamente favorevole in linea di principio alla costituzione di un organismo oltre gli Stati, ma non senza fare a meno di evidenziare le «organiche deficienze» del suo statuto, permanentemente in bilico tra la riaffermata indipendenza dei singoli Stati e l’autorità della Società. Per Sturzo, «…la Società delle Nazioni ha meno autorità di un imperatore medioevale che, se non altro, aveva la forza del proprio regno particolare e degli eserciti che assoldava; ha meno prestigio di un papa medioevale, i cui responsi politici erano appoggiati sull’autorità religiosa, tale da far decadere un re e sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà».[16]
E tuttavia, secondo il sacerdote calatino, il piano più solido per rinsaldare la Società delle Nazioni è la fiducia nell’opinione pubblica degli Stati democratici, nello spirito di una ricerca assidua e costante della pace e della convivenza fra i popoli: in tal senso, per un nuovo assetto dell’ordine politico internazionale, la Società dovrà fondarsi su delle federazioni regionali di Stati, identificate in base ad una certa omogeneità socio-economica.[17]
Ma Sturzo non si nasconde che il problema principale sia quello dell’eliminazione del «diritto di guerra», che è strettamente collegato al potere coercitivo di una siffatta organizzazione. «Nello Stato — scrive amaramente — tutti i cittadini sono disarmati e solo il potere pubblico è armato; nella comunità internazionale tutti gli Stati sono armati e solo l’autorità internazionale è disarmata. In questa situazione l’esercizio di un potere coercitivo è nullo».[18] Tuttavia questa affermazione di principio incontra in Sturzo la difficoltà della sua pratica realizzazione. Egli si trova di fronte allo stesso dilemma affrontato e non risolto da Kant, una volta pervenuto alla conclusione che per garantire una pace perpetua occorreva piegare «la selvaggia libertà» degli Stati, assoggettandoli in un’unione federativa universale al dominio del diritto nelle relazioni interstatali ed eliminando alla radice la guerra e l’anarchia internazionale. Non conoscendo in modo preciso il meccanismo federale — che pure era stato esposto nei saggi del Federalist, elaborati in difesa della Costituzione federale degli Stati Uniti d’America e pubblicati nel 1787 — Kant non seppe dare risposta al problema dei rapporti tra il potere federale e i poteri degli Stati e ciò lo portò a denunciare il pericolo della trasformazione della federazione in impero.[19] Allo stesso modo Sturzo denuncia il pericolo della nascita di un super-Stato che «si tradurrebbe in una dominazione egemonica intollerabile»,[20] dimostrando di non avere ben chiaro come «superare completamente il dualismo antagonistico di ragione e di forza con una loro sintesi attraverso la razionalizzazione della forza stessa… e sostituire, cioè, al diritto di vittoria che è diritto di pura forza, un diritto giudiziario e sociale che è un diritto di ragione».[21] La necessità di costruire fra gli Stati un legame istituzionale cogente, e quindi un vero e proprio ordinamento giuridico che è quello dello Stato federale, era infatti la condizione ineliminabile per eliminare quel diritto di guerra contro cui polemizzava Sturzo e realizzare un internazionalismo senza più guerre che era nei voti del sacerdote calatino.[22]
D’altra parte la sua difficoltà è anche legata al fatto che egli oscilla fra due interpretazioni della guerra e della sua causa, laddove arriva ad affermare che la guerra è una scelta volontaria, non è né un fatto ineluttabile né un accadimento inevitabile: anzi, «…non c’è contrasto fra Stati che non possa portare alla guerra, e non c’è contrasto che non possa, più o meno bene, essere regolato con mezzi pacifici»[23] e per ciò stesso la responsabilità delle classi dirigenti degli Stati nazionali, così come si erano venuti a configurare in Europa col fascismo, è da lui chiaramente denunciata senza mezzi termini in alcuni suoi articoli apparsi a Parigi tra il 1937 e il 1938. Di conseguenza, per risolvere tale situazione Sturzo preferiva invocare la ripresa dello spirito cristiano di fratellanza ad opera dei governi e non scorgeva nella stessa politica internazionale e nella persistenza di entità sovrane come gli Stati la causa strutturale che di fatto favoriva l’anarchia internazionale e creava le basi della guerra: ma nel dicembre del 1926 era pur insorto contro il dogma della sovranità assoluta dello Stato, espressamente dichiarando: «Noi neghiamo la concezione della sovranità assoluta ed illimitata dello Stato».[24] Differentemente che nel problema dei rapporti centro-periferia all’interno dello Stato, in cui, dopo aver specificatamente denunziato lo statalismo imperante, aveva altresì avanzato concrete proposte di limitazione dei poteri del governo nazionale mediante l’istituzione delle regioni, nell’ambito internazionale Sturzo auspica ancora una rivoluzione morale che conduca gli Stati, sia pure con gradualità, a rinunziare ad ogni diritto di guerra: «Allora gli Stati non useranno più i mezzi violenti, ma potranno usare le arti del persuadere e del costringere; non danneggeranno più popolazioni innocenti… ma cercheranno di avere dalla loro parte la maggioranza del Consiglio o dell’Assemblea e il giudizio favorevole dei tribunali arbitrali».[25] Ma si avvede anche presto dell’insufficienza di un vincolo morale,[26] e in particolare a proposito della necessaria inclusione della Germania in una nuova organizzazione europea, non può fare a meno di suggerire esplicitamente il ricorso al principio federativo e la creazione di una Federazione europea.[27]
Italia regionale ed Europa federata.
Quando nel settembre del 1946 Luigi Sturzo rientra in Italia trova ad accoglierlo un paese per taluni aspetti fondamentalmente diverso da quello che aveva lasciato ventidue anni prima. Caduto il fascismo, rimessa in discussione la stessa struttura dello Stato, modificati sostanzialmente i rapporti di forza fra i partiti politici che esistevano all’epoca del suo esilio e sortine di nuovi, Sturzo si trovò ben presto nella scomoda poltrona del polemista e del censore il più delle volte inascoltato, in primo luogo dagli stessi dirigenti della Democrazia cristiana che del Partito popolare aveva preso il posto e l’eredità nel secondo dopoguerra.
In realtà, con l’avvento della Costituzione repubblicana che si ispirava ad un modello piuttosto decentrato di Stato unitario, sembrò che fosse giunto il momento di dar corpo a quell’avanzata forma di autonomia locale che era uno dei punti cardine di Sturzo sin dai tempi della Croce di Costantino. E in effetti lo Stato regionale uscito dai lavori della Costituente, secondo quanto sostenuto da Gaspare Ambrosini già nel 1933, pareva realizzasse gran parte delle rivendicazioni autonomistiche del programma di Venezia. Pur fra numerose, oltre che minuziose critiche, il sacerdote calatino, con svariati interventi su autorevoli giornali fra il marzo e il maggio del 1947 e con la sua raccolta La regione nella nazione del 1948, difese con vigore la scelta del costituente rispetto agli interessati detrattori dell’istituto regionale. «Cattaneo e gli altri — scrive Sturzo — non volevano una federazione di Stati belli e fatti (l’idea dei neoguelfi cadde presto); essi si opposero ad uno Stato uniformizzato e centralizzato; essi volevano uno Stato strutturalmente unitario e organicamente regionalista… Non si tratta di cambiare la struttura unitaria dello Stato in struttura federale: si tratta di dar voce reale, effettiva e libera al popolo attraverso l’elettorato e la rappresentanza regionale».[28] E a coloro che l’accusavano di voler smembrare l’Italia col federalismo, replicava: «La regione non può prendersi come una semplice circoscrizione territoriale, come è in Francia il dipartimento. La regione nostra dovrà essere messa in equidistanza fra il dipartimento francese e il cantone svizzero. Le regioni non saranno mai Stati sovrani, come sono i cantoni svizzeri, limitati solamente dall’autorità confederale che li unifica: né potranno considerarsi dei semplici dipartimenti, nei quali si esprima sola e tutta l’autorità dello Stato».[29]
In realtà, non si può disconoscere che si debba in buona parte proprio all’opera di Sturzo l’adesione del costituente italiano alla scelta dello Stato regionale, superando riserve e dichiarate opposizioni che nascevano da decenni di tradizioni basate sulla pretesa superiorità dello Stato burocratico accentrato di stampo napoleonico. Un momento di rottura con tale tradizione si era del resto già verificato nel 1946, al momento dell’approvazione dello Statuto della Regione siciliana, uno Statuto che a detta di molti contiene in talune sue parti chiari aspetti di federalismo.[30] E anche se l’inevitabile assorbimento delle funzioni dell’Alta Corte, ivi prevista, da parte della Corte costituzionale italiana, provocò l’indignazione e l’amarezza anche di Luigi Sturzo, tuttavia è un fatto che lo Statuto siciliano risulta ancor oggi espressione di una regione ad avanzata autonomia, assimilabile ad analoghe esperienze spagnole, come la Catalogna.
Se è universalmente nota l’attività del sacerdote calatino volta al riconoscimento di un’autentica autonomia delle comunità locali, lo è in effetti meno quella con la quale, sviluppando le riflessioni dell’esilio sulla comunità internazionale, Luigi Sturzo aderisce senza riserve al moto per l’unità europea e auspica vivamente la nascita di un’Europa federata. In un suo intervento su Il Popolo dell’aprile del 1948 si mostra del tutto favorevole all’unità europea in forma federale, anzi si chiede: «Sarà più fortunata l’Europa di oggi, che non sia stata quella del passato prossimo o remoto? Ecco la domanda che viene rivolta a noi, federalisti del 1948».[31] Del resto, aveva già scritto due anni prima: «L’Europa, con sforzo perseverante, dovrà divenire una e rinsaldare i vincoli morali e materiali fra i popoli che han creato la presente civiltà», e ancora a più chiare lettere nel 1939: «Nel 1914 si disse che si combatteva per l’ultima guerra: oggi si deve dire che si combatte per la Federazione europea. Il problema internazionale dell’Europa è la posta di questa guerra: o la federazione o l’egemonia del nazionalismo alleato al bolscevismo».[32] Per Sturzo, fra l’altro, nel dopoguerra l’economia non avrebbe più potuto essere «strettamente nazionale» e per questo doveva essere «federativa», fra diverse unità economiche da cui doveva essere bandita ogni forma di autarchia, che «per definizione è anti-federativa» mentre «la federazione richiede un’economia aperta e non chiusa». In questa previsione c’è l’Europa: «Gli Stati Uniti d’Europa — scriveva nel 1929 — non sono un’utopia, ma soltanto un ideale a lunga scadenza, con varie tappe e con molta difficoltà. Occorre anzitutto il risanamento finanziario attraverso la sistemazione definitiva di tutti i debiti di guerra, e il risanamento delle diverse monete. Procedere quindi ad una revisione doganale che prepari un’unione doganale, con graduale sviluppo fino a poter sopprimere le barriere interne. Il resto verrà in seguito». E aggiungeva nel dopoguerra: «Noi vogliamo un’Europa indipendente e federata. Se l’oriente resterà totalitario, la Federazione europea comincerà da occidente…».[33]
Nonostante la tarda età, Sturzo partecipa con lettere, messaggi, interventi alle problematiche aperte dal processo di integrazione europea, si iscrive al Movimento federalista europeo di Altiero Spinelli,[34] firma il manifesto per la Petizione per un Patto federale predisposto dai federalisti nel 1950, invia una sua missiva di plauso al Congresso di fondazione a Ginevra del Consiglio dei Comuni d’Europa, che in tale processo di integrazione europea voleva a buon diritto rappresentare la voce delle comunità di base di tutta Europa. Nominato senatore a vita, nel 1953 è presente con un suo messaggio a Paul-Henry Spaak per il Congresso dell’Aja del Movimento europeo, ed è duro con Mendés France per la caduta della Comunità europea di difesa all’Assemblea nazionale francese.[35] Ormai varata nel 1957 la Comunità economica europea, Sturzo affida alla «nuova società» il compito di proiettarsi verso il Sud, convinto che in tale direzione debba ritrovarsi la «pacificazione araba» e più in generale «una politica economica e culturale dell’Europa nel Mediterraneo».[36]
Conclusioni.
Quando morì a Roma, l’8 agosto 1959, Luigi Sturzo parve ai più un «sopravvissuto», portatore di idee ed interessi che più non collimavano con le nuove aspirazioni della classe politica uscita dal fascismo e che si apprestava ora a governare l’Italia repubblicana. Eppure, se lo Sturzo del secondo dopoguerra mantiene intatte la tensione politica e morale dello Sturzo amministratore locale e segretario nazionale del Partito popolare e dello Sturzo degli anni dell’esilio, ciò avviene certamente non a scapito della sua attenzione vigile e compartecipe della realtà quotidiana, cui lo portava proprio la sua passata esperienza di politico avveduto e tenacemente legato alla concretezza dei problemi. Piuttosto, appare significativo allo studioso sia il continuo adattamento dei suoi ideali politici, fermi restando taluni suoi punti fermi, alle mutevoli condizioni politiche del momento, sia l’introduzione di nuovi percorsi e suggerimenti tendenti a realizzare nei fatti le maggiori aspirazioni del sacerdote calatino.
Fra questi suoi punti fermi, il primo posto merita certamente la sua appassionata opera per un riscatto delle popolazioni meridionali, e in particolare della sua Sicilia, non attraverso l’elargizione dall’alto di un grado più rilevante di progresso sociale, economico e morale, quanto piuttosto mediante un’assunzione dal basso di responsabilità per la gestione, sia pur rischiosa, ma in piena autonomia, degli affari della comunità di base. In questo senso, l’autonomismo di Sturzo, che è di volta in volta municipalismo o regionalismo, di là da taluni isolati eccessi verbali, vuole esprimere non uno sterile richiamo ad abusati slogan di tipo «nazionale» o «nazionalistico», preludio a forme esasperate di micronazionalismo e di scelte secessionistiche sempre aborrite da Sturzo, ma la razionale e democratica opzione per una democrazia comunitaria fondata su un armonico coordinamento tra governi locali e governo centrale, in una visione complessiva sostanzialmente federalista, e che racchiude altresì un’elevatissima tensione morale e pedagogica.
Ma anche per un altro ordine di motivi Sturzo non è solo autonomismo o lotta per l’istituzione di un livello locale di governo nella libertà e nella democrazia. Il fenomeno dell’avvento del nazifascismo in Europa e i problemi della comunità internazionale, visti alla luce di un più giusto ordine internazionale fondato sull’abolizione del diritto di guerra, l’avevano fatto riflettere profondamente, specie durante il suo esilio fuori d’Italia, su un altro aspetto delle relazioni esistenti nelle società umane, e cioè quello deputato a sovraintendere ai rapporti fra gli Stati. Sotto tale aspetto, su una netta presa di posizione contro la guerra, sulla sua assoluta negatività, e sull’altrettanto assoluta esigenza di pervenire decisamente al suo superamento, Sturzo è parimenti reciso: anche se poi è l’inevitabile conclusione di dover ipotizzare un adeguato potere coercitivo per un’autorità internazionale superiore che rende perplesso ed incerto il suo giudizio sulla Società delle Nazioni prima e sull’ONU poi, e contraddittoria e inadeguata la sua proposta di una rivoluzione morale che spinga gli Stati a rinunziare al diritto di guerra.
Ad una prima disamina, il suo federalismo rischia perciò di apparire di una qualche genericità,[37] stretto tra un autonomismo angusto e un internazionalismo moraleggiante, ed abbastanza marginale lo stesso interesse del sacerdote calatino per il processo di unificazione europea, cui anche per l’età avanzata non poteva dedicare ampi approfondimenti. E tuttavia tale giudizio sarebbe probabilmente erroneo per difetto e certamente anche ingeneroso nei confronti di una personalità certamente eccezionale, anche con riferimento ai suoi contemporanei. Basta por mente alla tenacia con cui Sturzo denunziò instancabilmente l’occhiuta onnipresenza e la pretesa onnipotenza dello Stato, per dedurre che la sua opera va riesaminata alla luce di un più complesso approccio interpretativo, fondato su una precisa lotta antistatalista cui egli in sostanza dedicò tutta la sua vita. Invero, la sua incessante attività a favore dell’autonomia del governo locale, così come quella per pervenire concettualmente all’abolizione del preteso diritto di guerra, non sono altro che due inseparabili aspetti dell’unica tenace opposizione allo Stato-Moloch, accentratore e illiberale all’interno, imperialista e guerrafondaio a livello internazionale.
Sotto tale profilo, la sua critica minuziosa alle caratteristiche dello Stato-nazione e al nazionalismo che ne è risultato il supporto ideologico, il suo rifiuto della sovranità assoluta e illimitata dello Stato, la sua denuncia del contrasto irriducibile fra nazionalismo e cosmopolitismo, pongono senza mezzi termini Luigi Sturzo in prima linea, e con accenti di straordinaria attualità, di fronte al problema dello Stato burocratico accentrato nato dall’esperienza della rivoluzione francese, o meglio ancora, della totale contrapposizione di tale modello statuale rispetto ad una società libera e democratica qual era quella che il sacerdote calatino ambiva costruire. La sua adesione al federalismo europeo e al processo di integrazione visto come una tappa verso gli Stati Uniti d’Europa ne è la logica conseguenza e in un certo senso anche il coronamento del suo impegno politico ultradecennale. Ma Sturzo ha avuto anche il merito indiscusso di saldare i problemi comuni della vita della povera gente con quelli propri della classe dirigente, le questioni di contenuto con quelle istituzionali e di struttura dello Stato, i pregi e i difetti della piccola dimensione cittadina e regionale con quelli della comunità internazionale e delle relazioni fra Stati sovrani, in un momento particolarissimo prima di profonda crisi dello Stato nazionale e poi di ricostituzione di nuove istituzioni statuali dopo le tragedie dei conflitti mondiali.[38]
In questo contesto, la battaglia antistatalista, condotta per altro in grandissima parte in termini positivi, di riforma dello Stato nazionale, e di costruzione di un superiore ordine internazionale, è la chiave di volta dell’approccio politico del sacerdote calatino, attento sempre a coniugare il realismo del riscatto delle popolazioni siciliane e più in generale del Mezzogiorno con il tenace impegno per la libertà e la democrazia dei popoli, in una prospettiva di unità federale per l’Europa e di pace universale a livello mondiale.
Certo, Sturzo non arriva a collegare la stessa essenza dello Stato sovrano superiorem non recognoscens alla politica imperialista e all’anarchia internazionale e, all’interno, ad una politica tendenzialmente autoritaria e negatrice delle autonomie locali: le numerose intuizioni di chiara impronta federalista restano quindi spesso prive di organicità e di difficile collegamento tra loro, sparse come sono fra l’altro nelle numerose pagine della sua copiosa produzione. Se però è mancato in Sturzo l’aver individuato con precisione nella permanenza della sovranità assoluta dello Stato l’origine dell’accentramento dei poteri a livello nazionale e dell’anarchia internazionale nei rapporti fra gli Stati, e nel federalismo (melius, nel federalismo europeo) il suo antidoto più efficace, resta tuttavia a suo merito l’aver concepito correttamente la gravità di un modello statuale quale quello dello Stato-nazione che aveva condotto allo Stato totalitario, certamente all’antitesi di una società libera e democratica. Per questi motivi, nel suo impegno antistatalista nella prospettiva della Federazione europea, è l’eccezionale grandezza di un siciliano fuori del comune, che resta d’esempio e di sprone per tutti coloro che si avvicinano anche ai nostri giorni al suo pensiero tuttora di straordinaria attualità.
[1] Luigi Sturzo nasce a Caltagirone il 26 novembre 1871 da famiglia della piccola nobiltà di campagna che l’avvia presto agli studi religiosi, che completa a Roma, dove viene ordinato sacerdote nel 1894. Tornato a Caltagirone, fonda il settimanale La Croce di Costantino e dà vita ad un’intensa attività con comitati parrocchiali, società di mutuo soccorso, cooperative, fino alla costituzione di un movimento politico di cattolici, che guida alle elezioni locali, riuscendo consigliere provinciale e nel 1905 pro-sindaco di Caltagirone. Il 18 gennaio 1919 a Roma fonda il Partito popolare italiano, diffondendo il suo famoso appello A tutti gli uomini liberi e forti, e da segretario del nuovo partito moltiplica la sua attività politica, distinta e in opposizione a socialisti e fascisti. All’epoca del congresso di Venezia del partito dell’ottobre del 1921 aveva già definito le sue principali tesi sull’antistatalismo e la difesa delle ragioni delle comunità locali, insieme con un severo giudizio sul nazifascismo e il bolscevismo. Costretto all’esilio nel 1924 per consiglio del Vaticano, resta lontano dall’Italia per circa 22 anni, prima a Londra e poi a New York, ulteriormente precisando le sue tesi sui problemi della guerra e delle relazioni internazionali. Rientra a Roma nel settembre del 1946, e partecipa da subito al dibattito sulla nuova Costituzione repubblicana, specie per la parte relativa all’istituto regionale, nonché ai primi passi del processo di integrazione europea aderendo al federalismo europeo di Altiero Spinelli. Muore a Roma l’8 agosto 1959. Fra le sue opere, ora raccolte nell’Opera Omnia pubblicata da Zanichelli per l’Istituto Luigi Sturzo, ricordiamo in particolare: Popolarismo e fascismo (1924), La Comunità internazionale e il diritto di guerra (1928), Miscellanea londinese (1926-1940), Politica e morale (1936), L’Italia e l’ordine internazionale (1944), Nazionalismo e internazionalismo (1946), La Regione nella Nazione (1949), Politica di questi anni. Consensi e critiche (1946-1959).
[2] Si veda per tutti il limitato interesse che tali problematiche hanno suscitato fra gli studiosi partecipanti al congresso internazionale di studi su Luigi Sturzo svoltosi nel marzo del 1989 a Roma, sotto l’alto patrocinio del Presidente della Repubblica, e i cui contributi sono ora raccolti in volume per i tipi della Laterza (Gabriele De Rosa (a cura di), Luigi Sturzo e la democrazia europea, Roma-Bari, 1990).
[3] L’espressione «guerra regionalista» è usata da Sturzo in occasione della polemica per l’emanazione del decreto Zanardelli sulla riduzione delle tariffe ferroviarie all’interno, di cui al suo intervento del 12 luglio 1903 su La Croce di Costantino. Sugli aspetti autonomistici del meridionalismo di Sturzo, vedi Francesco Renda, «Per una riconsiderazione del meridionalismo sturziano», in Luigi Sturzo e la democrazia europea, cit., pp. 271-74.
[4] Luigi Sturzo, «Pro e contro il Mezzogiorno», in La Croce di Costantino, 12-13 luglio 1903, riportato in C. Petraccone (a cura di), Federalismo e autonomia in Italia dall’unità ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 159-61.
[5] Luigi Sturzo, in La Croce di Costantino, Caltagirone, 22 dicembre 1901, riportato in Id., Contro lo statalismo, a cura di Luciana Dalu, Messina, Rubbettino, 1995, p. 125.
[6] Luigi Sturzo, «Nord e Sud. Decentramento e federalismo» in Il Sole del Mezzogiorno, 31 marzo - 1° aprile 1901, riportato in Id., Contro lo statalismo, cit., pp. 120-21.
[7] Tale posizione di Sturzo è ampiamente confermata non soltanto per aver valutato l’unificazione italiana come un processo fondamentalmente positivo, ma anche per aver più volte ribadito la sua avversione e le sue apprensioni per i progetti separatisti che sorsero in Sicilia durante l’occupazione alleata del 1945, per ultimo col suo famoso discorso alla Radio di New York («autonomia sì, separatismo no»). Al riguardo vedi Eugenio Guccione, Municipalismo e federalismo in Luigi Sturzo, Torino, S.E.I., 1994, pp. 22 e 32-3.
[8] C. Petraccone, op. cit., p. 158.
[9] Sull’argomento vedi anche Zeffiro Ciuffoletti, Federalismo e regionalismo. Da Cattaneo alla Lega, Roma-Bari, Laterza, 1954, pp. 94-5. Per quanto concerne poi le problematiche dell’autonomia dei poteri locali con riferimento alle esperienze europee, soprattutto in materia di welfare state e di federalismo fiscale, vedi Pierangelo Schiera (a cura di), Le autonomie e l’Europa. Profili storici e comparati, Bologna, Il Mulino, 1993, e I volti del federalismo, a cura dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, SPAI, Milano, 1996.
[10] Altra cosa è il rapporto tra l’ideologia del popolarismo, che è stato ritenuto soprattutto l’espressione degli interessi di una società contadina sostanzialmente preindustriale, e il moderno Stato burocratico industriale «razionalmente» accentrato preconizzato da Weber (così Norberto Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino, Einaudi, 1986, pp. 122-23). In ogni caso infatti, e partendo proprio dall’autonomismo sturziano, non pare comunque che si possa condividere questo preteso carattere «premoderno» o conservatore come tipico del sistema federale in confronto ad uno Stato unitario tendenzialmente più innovatore o progressista, quanto meno per gli aspetti di assai maggiore libertà e democrazia che si realizzano in una società pluralistica a potere diffuso, qual è quella di tipo federale.
[11] Luigi Sturzo, Nicola Antonetti (a cura di), Opere scelte. Riforme e indirizzi politici, vol. V, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 35 e segg.
[12] Ibidem, pp. 47 e 61-5. Per la definizione di governo federale come sistema di governi indipendenti e coordinati, vedi Kenneth C. Wheare, Federal Government, Londra, 1963 (trad. it. Del governo federale, con introduzione di John Pinder, Bologna, Il Mulino, 1997). Sul federalismo vedi poi Lucio Levi, Il Federalismo, Milano, Franco Angeli, 1987 e più recentemente anche Corrado Malandrino, Federalismo. Storia. idee, modelli, Roma, Carocci, 1998.
[13] Luigi Sturzo, Opere scelte. Il popolarismo, vol. I, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 40.
[14] Art. 3 B: «…Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario…». L’argomento della sussidiarietà nell’Unione europea ha destato numerosi interventi e approfondimenti, fra cui si segnalano Peter-Christian Muller-Graff, «Subsidiarity as a legal principle», in The European Union Review, Pavia, n. 1, settembre 1996, pp. 75 e segg. e Gianluca D’Agnolo, La sussidiarietà nell’Unione europea, Padova, CEDAM, 1998. Per una sommaria analisi del principio della sussidiarietà nell’ordinamento comunitario in relazione ai possibili sviluppi dell’Unione e all’esperienza federale tedesca, vedi anche Rodolfo Gargano, «Il principio di sussidiarietà nel Trattato di Maastricht e il federalismo cooperativo», in La Fardelliana, Trapani, 1994, pp. 157 e segg.
[15] Luigi Sturzo, «Lo Stato totalitario», in Id., Contro lo statalismo, a cura di L. Dalu, cit., pp. 84-5, e poi di seguito p. 86. Ancora nel 1924 aveva scritto: «La teoria ed il sistema nazionalista porta un capovolgimento di valori morali, sì da negare l’affratellamento e la libertà dei popoli, per esaltare l’idea di nazione che diviene un bene per sé stante, e quindi un idolo… per arrivare al predominio di un popolo e alla soggezione o servitù degli altri…» (Luigi Sturzo, Popolarismo e fascismo, Torino, Piero Gobetti editore, 1924, p. 304). Sulla critica allo Stato nazionale e sul significato del cosmopolitismo come polo opposto al nazionalismo vedi poi Mario Albertini, Lo Stato nazionale, (1959), Bologna, Il Mulino, 1997, e dello stesso autore Il federalismo, Bologna, Il Mulino, 1993.
[16] Luigi Sturzo, Opere scelte. La Comunità internazionale e il diritto di guerra, vol. VI, a cura di Gabriele De Rosa, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 11.
[17] Sull’argomento vedi Gabriele De Rosa, «I problemi dell’organizzazione internazionale nel pensiero di Luigi Sturzo», in Luigi Sturzo e la democrazia europea, cit., pp. 5-25.
[18] Luigi Sturzo, La comunità internazionale…, cit., p. 11. E nel 1946 aggiungeva: «L’esperienza umana ci porta a credere che gli uomini, per mantenersi organizzati, hanno bisogno tanto dell’elemento razionale che ci spinge ad accettare le limitazioni della società, quanto dell’elemento coercitivo che ci impedisce di evaderne» (L. Sturzo, Nazionalismo e internazionalismo, Bologna, Zanichelli, 1971, p. 219).
[19] Cfr. Immanuel Kant, Per la pace perpetua, a cura di N. Bobbio, Roma, Editori Riuniti, 1996; Id., La pace. la ragione e la storia, introduzione di Mario Albertini, Bologna, Il Mulino, 1985; Mario Albertini, Il federalismo, cit. Diversamente, nel senso che Kant resta fermo alla confederazione di Stati, legati da un patto di società senza potere coercitivo centrale, vedi Id. Per la pace perpetua, a cura di N. Bobbio, Roma, Editori Riuniti, 1985, p. XVI. Sull’argomento vedi anche W.B. Gallie, Filosofie di pace e guerra. Kant. Clauselvitz, Marx, Engels, Tolstoj, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 29 e segg.
[20] Luigi Sturzo, La comunità internazionale…, cit., p. 7.
[21] Luigi Sturzo, Ibidem, p. 8.
[22] L’espressione è di Sturzo (ibidem, p. 61).
[24] Luigi Sturzo, Lo statalismo, a cura di L. Dalu, cit., p. 55. E proseguiva: «…bisogna convenire che il concetto di sovranità di uno Stato nel senso vero della parola, cioè di illimitatezza interna ed esterna e autodominio, ormai non ha più senso, tranne che per distinguere lo Stato indipendente da quelli dipendenti, come gli Stati sotto protettorato o sotto mandato e le colonie» (L. Sturzo, Nazionalismo e internazionalismo, cit., p. 274).
[25] Luigi Sturzo, La Comunità internazionale…, cit., p. 15. Al riguardo non si può tuttavia fare a meno di rammentare quanto scriveva Alexander Hamilton nel Federalist: «Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l’esperienza accumulata dal tempo» (Id., Il Federalista, a cura di Lucio Levi, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 164).
[26] Agli inizi del secondo dopoguerra scriveva infatti: «…fin dalla prima guerra mondiale… non una lega di Stati, ma una lega di popoli si doveva costruire. Anche oggi, durante e dopo la costituzione delle Nazioni Unite, si ritorna all’idea di un parlamento internazionale eletto dai popoli degli Stati associati, attribuendovi potere legislativo e dando al centro esecutivo poteri politici, amministrativi e militari. (…) Spetta agli uomini civili dar preponderanza alla ragione piuttosto che all’istinto, e superare la cieca fiducia evocata dalla forza, accettando la risposta della legge morale. Tutto ciò sarebbe impossibile senza una qualche forma di autorità internazionale capace di fare leggi, di difendere la giustizia e di affermarsi anche con la forza. Un’organizzazione internazionale senza il sostegno della forza sarebbe inefficace e di ingombro» (L. Sturzo, Nazionalismo e internazionalismo, cit., pp. 225 e 329-30).
[27] Giuseppe Ignesti, «I problemi della pace e dell’assetto politico internazionale nell’analisi di Sturzo», in Luigi Sturzo e la democrazia europea, a cura di G. De Rosa, cit., p. 339.
[28] Luigi Sturzo, «La regione nella struttura dello Stato», in La Voce Repubblicana, 28 maggio 1947, dal volume Politica di questi anni. Consensi e critiche (dal settembre 1946 all’aprile 1948), Bologna, Zanichelli, vol. I, pp. 247-50.
[29] Luigi Sturzo, «Senato e Regione», in Il Popolo, 18 settembre 1947 (dal volume Politica di questi anni (1946-1948), cit., pp. 294-99).
[30] Sull’argomento vedi, con dovizia di particolari, Eugenio Guccione, Dal federalismo mancato al regionalismo tradito, Torino, Giappichelli, 1998, pp. 71-4. Sulle rinate identità regionali e i loro effetti sulle basi istituzionali dell’economia vedi Ilaria Porciani, «Identità locale - identità nazionale: la costruzione di una doppia appartenenza», in O. Janz, P. Schiera, e H. Siegrist (a cura di), Centralismo e federalismo tra Otto e Novecento. Italia e Germania a confronto, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 141 e segg., e Paolo Perulli (a cura di), Neoregionalismo. L’economia-arcipelago, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. Vedi anche, per i suoi riflessi a livello dell’integrazione europea, Rodolfo Gargano, «La rinascita delle piccole patrie e l’Europa delle Regioni», in I Temi, Cagliari, dicembre 1996, pp. 61 e segg.
[31] Luigi Sturzo, «La federazione europea», in Il Popolo, 29 aprile 1948, e «I problemi dell’ora»(conversazione con il corrispondente di Cité Nouvelle di Bruxelles), ora ambedue in Id., Politica di questi anni (1946-1948), cit., rispettivamente pp. 421-24 e 22-4.
[32] Luigi Sturzo, «L’Italia e la guerra», in Il Mondo, New York, dicembre 1939, rip. in Id., Opere scelte. La Comunità internazionale…, cit., p. XVIII, e poi ivi, p. XIX, L. Sturzo, «Economia del dopoguerra», in People and Freedom, maggio 1940, e «Il problema delle minoranze in Europa», in Il Pungolo, Parigi, 15 ottobre 1929.
[33] Luigi Sturzo, «La federazione europea», in Id., Politica di questi anni (1946-1948), cit., p. 423.
[34] Di Altiero Spinelli vedi anzitutto Il Manifesto di Ventotene, Bologna, Il Mulino, 1991. Sul processo di integrazione europea, si segnalano altresì Lucio Levi e Umberto Morelli, L’unificazione europea. Cinquant’anni di storia, Torino, Celid, 1994, e Luigi Vittorio Majocchi, La difficile costruzione dell’unità europea, con prefazione di Antonio Padoa-Schioppa, Milano, Jaca Book, 1996.
[35] Luigi Sturzo, «Europa oggi e domani», in Il Giornale d’Italia, 8 settembre 1954, ora in Id., Battaglie per la libertà, Palermo-S. Paulo, Ila Palma, vol. I, pp. 127-30.
[36] Luigi Sturzo, «La piccola Europa», in Il Giornale d’Italia, 24 luglio 1958, ora in Id., Battaglie per la libertà, Palermo-S. Paulo, Ila Palma, 1992, vol. II, pp. 799-803.
[37] Ci si riferisce in particolare alla critica sturziana nei confronti della Società delle Nazioni e più in generale della comunità internazionale, che appare concettualmente distaccata dal progetto politico dell’unità europea così come proposto dai federalisti europei di Spinelli; vedi al riguardo Sergio Pistone, L’Italia e l’unità europea. Dalle premesse storiche all’elezione del Parlamento europeo, Torino, Loescher editore, 1982, p. 41 n.
[38] Su Sturzo come interprete genuino della crisi dello Stato liberale, vedi Sabino Cassese, Quando «la politica divenne arte senza pensiero». La crisi dello Stato e Luigi Sturzo, in G. De Rosa (a cura di), Luigi Sturzo e la democrazia europea, cit., pp. 278 e segg. Su un auspicato ritorno a Sturzo come un’occasione sinora mancata, vedi infine Autori vari, Chi ha paura di don Sturzo? Passato e futuro del cattolicesimo liberale, Fondazione amici di «liberal», Roma, 1996.