IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXVI, 2024, Numero 1, Pagina 71

La difesa europea*

VINCENZO CAMPORINI

Il sogno della costruzione di un’Europa della difesa ha radici antiche: la presa d’atto che nel nostro continente fosse necessario un approccio strutturale per prevenire il rinnovarsi dei contrasti che portarono a due catastrofi belliche trovò una sua prima concretizzazione nella Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (18 aprile 1951) tra Belgio Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Olanda, proposta da Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi per la gestione unitaria delle risorse carbo-siderurgiche, elementi  chiave per lo sviluppo di capacità militari. L’ottica era quella di aprire un mercato comune nello specifico settore, cancellando qualsiasi misura nazionale che limitasse o drogasse produzione e commercio, consentendo altresì lo sviluppo di una libera concorrenza nei territori dei sei paesi: una vera e propria struttura sopranazionale cui i paesi partecipanti conferivano elementi di sovranità nazionale nello specifico settore.

Il progetto rispondeva in realtà ad una visione di progressiva integrazione in una prospettiva federale e il passo immediatamente successivo non poteva che essere quello della messa in comune delle capacità militari, con tutti i condizionamenti dovuti al dibattito sull’ipotesi di riarmo tedesco; tale dibattito scaturiva ovviamente dalla rapida evoluzione del quadro strategico, con lo scoppio della guerra di Corea, la guerra in Indocina, la minaccia sovietica in Europa con l’avvio della Guerra fredda, con il blocco di Berlino. Il piano per la CED, elaborato da Monnet, ma presentato dal Presidente del Consiglio francese Pleven, da cui prese il nome, mirava a contemperare tutte queste esigenze politiche e strategiche, in un quadro istituzionale di progressiva cessione di elementi della sovranità nazionale. Il trattato che ne seguì, faticosamente elaborato, prevedeva una forza di 40 divisioni terrestri e di tutte le forze aeree dei paesi firmatari, da porre sotto il comando operativo che la NATO aveva costituito. Venne avviato nei rispettivi parlamenti il processo di ratifica, completato da Olanda, Belgio, Germania e Lussemburgo, mentre in Italia De Gasperi assunse una posizione attendista, in vista di quello che poteva accadere in Francia, dove una strana alleanza tra gollisti e comunisti bocciò il trattato, decretando la fine del progetto di una Comunità Europea di Difesa.[1]

L’iniziativa veniva dunque archiviata, ma al di là dei motivi politici contingenti, pur decisivi, è bene sottolineare che la vicenda aveva messo in evidenza come fosse aleatorio ipotizzare istituzioni e strutture comunitarie nel campo della sicurezza e della difesa, nella totale assenza di una politica estera comune.

È un’illusione, questa, assai pericolosa, ed è tentazione ricorrente, anche ai giorni nostri, in cui, come si vedrà, iniziative che possono apparire generose, ma che sono solo velleitarie, pretendono di costruire edifici complessi gettando le fondamenta sulla sabbia.

L’esigenza di mantenere comunque in vita, almeno formalmente, un’iniziativa europea nel campo della sicurezza, non venne comunque accantonata con il fallimento della CED. Già il mese successivo alla mancata ratifica da parte dell’Assemblea Nazionale francese del trattato della Comunità Europea della Difesa si riunirono a Londra i paesi firmatari del Patto di Bruxelles (Belgio, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Regno Unito) con Italia, Repubblica Federale di Germania (RFG), Canada e Stati Uniti, che concordarono la trasformazione della Western Union in Western European Union – Unione Europea Occidentale (UEO), invitando nel contempo Italia e RFG a sottoscrivere il relativo trattato, opportunamente emendato.

In realtà la valenza dell’UEO è stata storicamente di carattere politico-formale, piuttosto che militare e un ruolo importante nel corso della sua storia l’UEO lo ha assolto ed è stato quello di anello di congiunzione tra le strutture euroatlantiche e quelle dei paesi aderenti al Mercato Comune Europeo prima ed in seguito alla Comunità Europea.

L’humus concettuale costituito dall’UEO si rivelò ideale nel 1992, nel periodo cruciale di metabolizzazione della fine della guerra fredda e della dissoluzione prima del Patto di Varsavia e poi dell’Unione Sovietica. L’occasione fu la rituale riunione ministeriale (esteri e difesa) tenutasi il 19 giugno a Petersberg. Il lungo e articolato comunicato finale delinea con precisione un percorso inteso a sviluppare l’UEO come elemento politico-militare dell’Unione Europea (il che avrebbe comportato non poche complicazioni sul piano formale data la macroscopica non coincidenza dei paesi aderenti alle due organizzazioni), nell’ottica di un rafforzamento del pilastro europeo della NATO.[2]

L’elemento di novità, ma che, peraltro, portava a maturazione i concetti cui si è accennato, è costituito dall’affermazione della disponibilità dei paesi membri a mettere a disposizione, sotto bandiera dell’Unione Europea Occidentale, alcune delle proprie risorse militari per condurre operazioni al di fuori del tradizionale scenario di difesa da un attacco che provenisse dall’esterno, ipotizzato dagli articoli V e 5, rispettivamente dei due trattati istitutivi dell’UEO e della NATO.

Vennero così coniate le definizioni di quelli che da quel momento in poi sono noti e citati in tutti i consessi internazionali come “i compiti di Petersberg”. Raramente una formula di un comunicato diplomatico ha avuto simile popolarità e fortuna, ma ciò è dovuto al singolare equilibrio tra spirito innovativo e voluta ambiguità che caratterizza le definizioni citate. Ad un’attenta analisi non può non rilevarsi come praticamente quasi tutte le operazioni militari, con la sola eccezione del conflitto aperto tra potenze fra loro paragonabili, del tipo Guerra fredda, ove questa fosse degenerata, possono essere fatte rientrare nei casi elencati a Petersberg: al riguardo è illuminante osservare come qualche analista, con argomenti non privi di una certa validità, abbia ricompreso fra i compiti di Petersberg anche la Prima Guerra del Golfo, in quanto si trattava di impiego di forze combattenti al fine di ripristinare le condizioni di pace preesistenti all’invasione del Kuwait da parte delle truppe irakene.

Ci si trovava in ogni caso in un periodo di riflessione, in cui la NATO stessa doveva trovare una riconferma della propria ragion d’essere, con una necessaria ridefinizione del rapporto transatlantico, il che in qualche modo spiega, anche se non giustifica, la prudenza con cui da Washington si guardava all’ipotesi di un’Unione Europea con una propria capacità militare autonoma.

Si giunse dunque al vertice franco-britannico tenutosi a Saint Malo il 3 e il 4 dicembre 1998. Se osservato in prospettiva, lo sviluppo di una politica europea comune di sicurezza e difesa tra l’autunno del 1998 e il giugno del 2000 può a ragion veduta essere definito rivoluzionario, soprattutto se raffrontato al lentissimo progresso, per non dire all’immobilismo, che aveva caratterizzato i decenni precedenti: parlando di rivoluzione è quindi più che naturale cercare di identificare un evento che possa apparire come quello che abbia dato l’avvio a tutto il processo.

In realtà il vertice di Saint Malo, per quanto attiene agli aspetti di sicurezza e difesa, costituiva il punto di arrivo di sviluppi concettuali e politici intervenuti nei mesi precedenti, in cui il governo britannico letteralmente ribaltò il proprio tradizionale atteggiamento in merito al ruolo dell’Unione Europea nel campo della difesa.

Uno dei tre temi trattati fu esplicitamente quello della PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune) e in quella sede Tony Blair espose il nuovo atteggiamento del governo britannico, che per la prima volta si mostrava desideroso di dare un impulso nuovo e vigoroso alle al momento inesistenti capacità militari dell’Unione in quanto tale.

La revisione della tradizionale politica britannica deve essere vista nel contesto storico in cui era maturata. Era il momento cruciale della crisi kosovara, che seguiva l’altra recente grande tragedia balcanica della Bosnia-Herzegovina. In tutte queste circostanze non solo si era palesata la sostanziale incapacità delle Nazioni Unite di porre fine a guerre civili alimentate dall’odio interetnico e religioso, ma quella che era uscita umiliata era l’Europa in quanto tale, dimostratasi impotente militarmente e, come tale, sbeffeggiata da Milosevic, da un lato certo della mancanza di coesione politica all’interno dell’Unione, dall’altro rassicurato dall’impossibilità tecnico-militare dei paesi europei, per carenza delle minime risorse necessarie, di avviare un’operazione che avesse una ragionevole possibilità di successo, tenendo anche conto della fragilità dell’opinione pubblica interna europea.

L’impotenza dell’Unione venne dunque drammaticamente alla luce in tutta la sua evidenza; la riluttanza di Washington ad essere coinvolta in quello che veniva considerato l’ennesimo conflitto interno europeo fu tenace e persistente: per lunghi mesi le potenze europee tentarono in tutti i modi di non fare esplodere una crisi i cui presupposti erano vecchi di un decennio, mentre gli Stati Uniti volutamente ignoravano qualsiasi tentativo teso a coinvolgerli direttamente o indirettamente. Peraltro l’unico strumento militare operativamente valido, in grado di esercitare una sufficiente pressione politica e una credibile deterrenza, era la NATO e un coinvolgimento di questa avrebbe di per sé automaticamente comportato un impegno statunitense.

Si fece così strada anche a Londra l’idea di una capacità militare dell’Unione Europea per interventi ritenuti necessari, ma per i quali non fosse ritenuto opportuno un impegno dell’Alleanza Atlantica in quanto tale. L’importanza e il significato della dichiarazione comune deriva dalle tradizionali posizioni politiche dei due paesi: Regno Unito difensore e garante dell’ortodossia atlantica, e Francia, da sempre paladina di una sostanziale autonomia e indipendenza dell’Europa da un qualsiasi condizionamento derivante dal rapporto con gli USA: una convergenza politica in tema di capacità militari europee tra Londra e Parigi spianava la strada a concreti e radicali sviluppi.

Tre giorni dopo Saint Malo il Financial Times pubblicava un articolo di Madeleine Albright,[3] allora Segretario di Stato USA, che contiene un auspicio ad un ruolo più deciso ed efficace dei paesi europei nella gestione delle crisi, in particolare “in Europe’s backyard”, ma sempre, ovviamente nel rigoroso rispetto del quadro e dell’ortodossia Atlantica.

L’importanza dell’articolo, pertanto, sta nell’enunciazione chiara ed esplicita delle condizioni che gli Stati Uniti ponevano ai nuovi sviluppi in tema di capacità militari europee, enunciazione fatta con la ormai ben nota elencazione delle tre “D” da evitare.

In primo luogo occorreva rifuggire da ogni tentazione di decoupling: le capacità dell’Unione Europea non dovevano portare ad un allentamento del legame atlantico, di cui la NATO era l’espressione ad un tempo concreta e simbolica.

La seconda “D” da evitare era la “duplicazione”: cioè non disperdere energie in processi di pianificazione separati e nella costituzione di autonome strutture di comando.

La terza condizione posta era quella di evitare “discriminazioni” nei confronti dei membri della NATO che non fossero membri dell’UE, con particolare riferimento alla Turchia.

La macchina era partita e il 28 maggio 1999, si teneva a Bonn, su iniziativa della presidenza tedesca, una riunione informale dei Ministri della Difesa.

In una pausa dei lavori, un membro della delegazione tedesca, il Sottosegretario Walther Stützle, avvicinò rappresentanti di Francia, Italia e Regno Unito, proponendo un incontro a quattro, da tenersi a Bonn all’inizio di luglio, per esaminare in ambito ristretto e tecnico la tematica della ESDP, al fine di giungere alla formulazione di proposte concrete.

A Roma la proposta fu accolta con soddisfazione, anche se con ciò si contraddiceva il principio, spesso sostenuto per motivi puramente teorici e di immagine, della contrarietà a qualsiasi forma di direttorio. Il 12 luglio 1999 si ritrovarono dunque a Bonn per la Francia Marc Perrin de Brichambaut, per la Germania, ovviamente, Walther Stützle, per la Gran Bretagna Richard Hatfield e per l’Italia chi vi sta parlando, che costituirono lo Informal Initiative Group con la finalità di predisporre entro la fine della presidenza finlandese un documento che delineasse in modo chiaro e inequivocabile i passi da compiere per giungere ad una reale capacità operativa dell’Unione, nei limiti e secondo i criteri che ormai erano stati definiti a livello politico.

Si concordò rapidamente un piano di lavoro per predisporre un documento, che sarebbe stato informalmente offerto alla presidenza finlandese, in modo che questa potesse farlo proprio, per un’approvazione da parte del Consiglio Europeo.

L’Italia predispose un documento che, partendo da criteri di convergenza per le capacità militari a similitudine di quanto avvenuto per la creazione della moneta unica, portasse alla definizione degli aspetti più squisitamente operativi.

Si giunse così al Consiglio di Helsinki del 10 e 11 dicembre 1999 in cui la proposta dello Informal Initiative Group, definito Helsinki Headline Goal (HHG), venne approvata, con la definizione di uno strumento militare, articolato nelle sue componenti terrestre, navale ed aerea, secondo lineamenti qualitativi e quantitativi, e dei relativi orizzonti temporali. In estrema sintesi l’Unione si ripromette di poter mettere in campo entro il 2003 un corpo d’armata di 60.000 militari, da sostenere per almeno un anno per un’operazione “Petersberg- fascia alta”, in un’area prossima ai confini dei suoi Stati membri; e la costituzione, all’inizio su base interinale, di una serie di organismi di gestione politica e strategica, identificati nel COPS (analogo al Consiglio Atlantico della NATO), nel Comitato Militare e nello Stato Maggiore Militare.

La PESC/PESD iniziava il suo cammino.

Dopo gli iniziali entusiasmi (alla Pledging Conference dell’ottobre 2000 a Bruxelles i paesi membri misero a disposizione il triplo delle risorse richieste) si cominciarono a palesare difficoltà, che svuotarono gradualmente le potenzialità dell’iniziativa: senza entrare nei dettagli, il carattere intergovernativo mostrò tutti i suoi limiti. Era stato disegnato infatti uno strumento militare razionale e potenzialmente efficace, ma mancava il presupposto di una politica estera realmente comune, condivisa da tutti i paesi membri, per la cui realizzazione risultasse funzionale anche l’uso della forza militare. Era il problema irrisolto che già nel 1951 aveva evidenziato Spinelli in un memorandum da cui emergeva chiaramente che solo con una evoluzione in senso federale il progetto poteva assumere concretezza, evoluzione che non ci fu e che ancora oggi appare un obiettivo lontano.[4]

Oggi dunque, che cosa abbiamo? Il quadro istituzionale vede il livello politico, rappresentato dal Political and Security Committee (PSC), in cui siedono ambasciatori, che riferiscono ai rispettivi membri del COREPER, formato dagli ambasciatori rappresentanti permanenti dei governi, che riferisce al Consiglio, nei suoi vari formati. Già così si percepisce chiaramente una catena decisionale lenta, con l’inevitabile vincolo della unanimità.

Dal punto di vista operativo, archiviato lo HHG, e messi nel dimenticatoio i Battle Group, decisi nel 2007, ma rimasti allo stato virtuale, lo Strategic Compass dell’Alto Rappresentante Borrell, prevede ora una forza di intervento rapido di 5.000 (cinquemila !!) militari, il 20% in meno dei vigili urbani di Roma!

Preso atto della irrinunciabile necessità di una convergenza politica che vada al di là dell’occasionale, si pone il problema tecnico della struttura di pianificazione e comando, che possa gestire le risorse militari messe a disposizione dai singoli Stati membri: una soluzione pragmatica e politicamente ineccepibile fu la sottoscrizione dell’accordo detto Berlin Plus, in base al quale, in caso di operazioni militari dell’Unione, la NATO avrebbe messo a disposizione il proprio Comando Supremo di Mons, lo SHAPE, eventualità più volte verificatasi nei Balcani. Altra ipotesi è quella di assegnare il compito al comando operativo nazionale di uno degli Stati membri impegnati (framework nation): anche questa modalità è stata utilizzata in diverse circostanze.

L’ipotesi di uno SHAPE europeo, al di là del mancato rispetto del principio di ‘non duplicazione’, presentava costi soprattutto organici, troppo elevati: l’unica cosa in tale direzione fu la costituzione dello MPCC,[5] Military Planning and Conduct Capability, per la gestione di missioni ‘non-esecutive’, cioè quelle, non combat, che hanno compiti di addestramento delle forze armate e di consulenza.

Dopo questo accenno a due problemi non eludibili, quello della convergenza delle politiche estere e quindi della unicità della direzione politica e quello della necessità di un vertice operativo, cui venga conferita l’autorità di pianificazione e comando, non è possibile trascurare un terzo formidabile ostacolo al conseguimenti di una effettiva capacità militare dell’Unione in quanto tale, ostacolo costituito dalla eterogeneità dei mezzi in dotazione ai singoli reparti nazionali chiamati ad operare insieme.

E’ un tema che presenta aspetti e conseguenze diverse e che affonda le sue radici nel cuore del concetto di sovranità: quando vennero definite le regole del mercato comune europeo si previde un’eccezione, relativa agli approvvigionamenti riguardanti la sicurezza nazionale, invocando la quale era consentito procedere ad acquisizioni  su base nazionale. L’eccezione è tuttora vigente con l’art. 346 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea;[6] in questo modo si è inteso salvaguardare un principio di sovranità tecnologica, che ha consentito, anzi ha incentivato la frammentazione delle capacità industriali nel settore della difesa, con il proliferare di tipi diversi, a volte tra loro incompatibili, dei sistemi d’arma e degli equipaggiamenti. Così oggi in Europa sono operativi almeno 6 tipi di MBT (carri armati) diversi, 18 mezzi blindati, 3 velivoli da combattimento di 4a generazione: ne conseguono costi di sviluppo moltiplicati e costi di produzione che non possono mai beneficiare delle economie di scala; in estrema sintesi la spesa per gli investimenti militari dei paesi europei ha un rendimento che è una frazione di quanto potrebbe avere con programmi di sviluppo e approvvigionamenti  integrati. Questa situazione presenta altri aspetti negativi, se vogliamo ancora più gravi: sul piano del supporto logistico, ciascuno dei paesi deve alimentare i propri equipaggiamenti peculiari il che, nel caso di operazioni internazionali, moltiplica le necessarie catene logistiche con una vera e propria esplosione delle complessità organizzative e dei costi associati. Ma ancora più gravi sono le conseguenze dal punto di vista strettamente operativo, in quanto contingenti di diversa nazionalità che lavorano fianco a fianco (come accaduto nei Balcani, in Afghanistan, in Libano), sono impossibilitati a supportarsi vicendevolmente, se non per il carburante e a volte, ma non sempre, nel munizionamento.

Tutto ciò avviene per la strenua difesa dei cosiddetti “campioni nazionali” che i governi attuano a protezione di una pretesa sovranità tecnologica e dei posti di lavoro nel comparto difesa.

Per ovviare alle conseguenze negative che ho descritto si è intrapresa la strada delle cooperazioni multinazionali su alcuni specifici sistemi d’arma: caso emblematico fu il programma MRCA Multirole Combat Aircraft, avviato da Germania, Gran Bretagna Italia che ha portato allo sviluppo e alla produzione del velivolo Tornado. Ottime le intenzioni, ma nel corso degli anni ogni paese ha apportato modifiche specifiche, per discutibili esigenze nazionali, ma spesso solo per favorire produttori locali di sottosistemi e di equipaggiamenti, con il risultato che la comunalità logistica e l’interoperabilità si è persa per strada.

In campo navale altro esempio illuminante è quello della collaborazione tra Francia e Italia per lo sviluppo e la produzione di comuni unità navali della classe fregate, le FREMM; il risultato finale è che le unità francesi hanno un dislocamento di 6.000 tonnellate a fronte delle 6.900 di quelle italiane, che sono più lunghe di 2,60 metri: neanche lo scafo hanno uguale!

E tuttavia la strada non può che essere questa, di una sempre più stretta collaborazione tra le imprese nazionali, adeguatamente incentivata dalla Commissione, con rigorosi controlli sulle deviazioni, evidenziando autorevolmente che ciò non comporta affatto rischi per l’occupazione, ma solo una radicale riorganizzazione dei processi produttivi, passando da un sistema in cui tutti pretendono di fare tutto, a forme sempre più spinte di specializzazione, in cui le specifiche eccellenze tecnologiche di ciascuno Stato membro vengono esaltate a favore di tutti. E’ un processo che deve essere consapevolmente guidato e che richiede da parte dell’Unione un impegno finanziario che vada oltre il simbolico, come purtroppo sta avvenendo con lo European Defence Fund (EDF).

Lo EDF infatti venne creato nel 2017 per stimolare la cooperazione industriale nel campo della difesa, attraverso meccanismi di co-finanziamento. In breve, se tre o più paesi concordano sullo sviluppo di un sistema comune, l’Unione partecipa alle spese. Purtroppo un tale meccanismo per essere efficace deve essere sufficientemente appetibile ed avere fondi adeguati. Invece per il bilancio 2021-2027, da un’iniziale proposta di 13 miliardi di euro, si è poi approvato uno stanziamento di 8 miliardi, poco più di un miliardo all’anno, a fronte di spese per la difesa, somma dei bilanci nazionali, di circa 280 miliardi annui.

Un caso esemplare è il programma EUROMALE, per un drone europeo a lunga autonomia per quote medio-alte, che dovrebbe vedere il primo esemplare volare nel 2027, sviluppato e prodotto in cooperazione tra Francia, Germania, Italia e Spagna. Il programma si prevede che avrà un costo di 7 miliardi di euro ed ha ottenuto un contributo da parte della Commissione dell’entità di circa 100 milioni!

È chiaro che anche qui manca la volontà politica dei governi, chiusi in miopi egoismi, che impediscono sviluppi tecnologici adeguati, a costi sostenibili, con il risultato perverso di favorire la competitività di prodotti extra-Unione, stimolandone acquisizioni da parte di Stati membri, come sta facendo ad esempio in modo importante la Polonia.

Chiudo, sintetizzando in poche frasi il messaggio che intendo trasferirvi:

— parlare di difesa europea senza il presupposto di una intesa politica, se non in senso federale, almeno di condivisione formale di un nucleo di politica estera comune, non ha senso;

— capacità militari condivise necessitano di una struttura di pianificazione e comando cui conferire l’autorità operativa: la soluzione Berlin Plus è un’opzione valida, accanto ad altre, che in ogni caso comportano oneri elevati;

— il concetto di interoperabilità deve essere perseguito senza tentennamenti, puntando ad una standardizzazione degli equipaggiamenti la più spinta possibile;

— la progressiva integrazione delle industrie della difesa nazionali deve costituire un obiettivo strategico, in modo da conseguire un adeguato livello tecnologico e le necessarie economie di scala.

Per tutto ciò serve la volontà politica di una leadership visionaria. Riusciremo ad averla?


[*] Intervento al 43° Seminario di formazione federalista e al 40th International Seminar on Federalism organizzati a Ventotene dall’1 al 6 settembre 2024, dall’Istituto Spinelli in collaborazione con il Comune di Ventotene, la Provincia di Latina, il Movimento federalista europeo (MFE), l’Unione europea dei federalisti (UEF), la Gioventù federalista europea (GFE), la Jeunesse Fédéraliste Européene (JEF) e il World Federalist Movement (WFM).

[1] Per una cronaca dettagliata della complessa vicenda si veda il lemma Comunità europea di Difesa, in Dizionario dell’interazione europea, https://www.dizie.eu/dizionario/comunita-europea-di-difesa/.

[2] https://www.cvce.eu/obj/petersberg_declaration_made_by_the_weu_council_of_ministers_bonn_19_june_1992-en-16938094-bb79-41ff-951c-f6c7aae8a97a.html.

[3] The right Balance will secure NATO’s Future, Financial Times, 7 dicembre 1998, https://www.jstor.org/stable/resrep06989.8?seq=1.

[4] M. Marchesiello, Per una politica di difesa europea. La CED: un’occasione mancata, Corriere della Sera, 6 giugno 2022, https://www.micromega.net/comunita-europea-di-difesa, G. Salpietro, L’attualità della CED, Il Federalista, 56 n.3 (2014),  https://www.thefederalist.eu/site/index.php/it/note/1506-lattualita-della-ced.

[5] The Military Planning and Conduct Capability (MPCC), https://www.eeas.europa.eu/eeas/military-planning-and-conduct-capability-mpcc_en.

[6] b) “ogni Stato membro può adottare le misure che ritenga necessarie alla tutela degli interessi essenziali della propria sicurezza e che si riferiscano alla produzione o al commercio di armi, munizioni e materiale bellico”.

 

 

 

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