IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXVI, 2024, Numero 1, Pagina 23

Guerra costituente e ruolo dei politiques*

GIORGIO ANSELMI

“E debbasi considerare come non è cosa più difficile a trattare, né più dubia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini. Perché lo introduttore ha per nimici tutti coloro che degli ordini vecchi fanno bene, et ha tepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbano bene. La quale tepidezza nasce, parte per paura delli avversarii, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità delli uomini; li quali non credano in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza. Donde nasce che, qualunque volta quelli che sono inimici hanno occasione di assaltare, lo fanno partigianamente, e quelli altri difendano tepidamente; in modo che insieme con loro si periclita. È necessario per tanto, volendo discorrere bene questa parte, esaminare se questi innovatori stanno per loro medesimi, o se dependano da altri; ciò è, se per condurre l’opera loro bisogna che preghino, o vero possono forzare. Nel primo caso capitano sempre male, e non conducano cosa alcuna; ma quando dipendono da loro proprii e possano forzare, allora è che rare volte periclitano. Di qui nacque che tutt’i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorono. Perché, oltre alle cose dette, la natura de’ popoli è varia; et è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che, quando non credono più, si possa fare credere loro per forza.”  (Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap.VI)

Queste considerazioni costituirono motivo di profonda riflessione per Altiero Spinelli prima e dopo la stesura del Manifesto di Ventotene. Forse gli suggerirono addirittura di abbandonare la battaglia per gli Stati Uniti d’Europa quando, contrariamente alle sue previsioni, dopo la fine della Seconda guerra mondiale vide la rinascita degli Stati nazionali. Solo il Piano Marshall, con gli USA nel ruolo di federatore esterno, lo convinse a riprendere la lotta.

La premessa storica che permise a questo grande disegno di prendere forma e svilupparsi è la crisi irreversibile degli Stati nazionali. Preconizzata dalle menti più illuminate già tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, quando gli splendori della Belle Époque ed il dominio coloniale sugli altri continenti nascondevano il fatto che la seconda rivoluzione industriale si stava sviluppando non in Europa, ma in uno Stato di dimensioni continentali quali erano gli USA, diventati in qualche decennio la prima potenza economica e finanziaria del globo. Crisi resa a tutti manifesta nella prima metà del XX secolo dalle due guerre mondiali, concluse con la spartizione del Vecchio Continente tra le due superpotenze. Con una differenza gravida di conseguenze: ad Est l’URSS impose il suo tallone di ferro sugli Stati satelliti, non concedendo ad essi alcuna autonomia; ad Ovest invece gli Stati Uniti promossero la rinascita degli Stati europei appunto col Piano Marshall e ne favorirono l’integrazione con una politica lungimirante ed illuminata. Proprio grazie a questa egemonia i numerosi incidenti di percorso che hanno contrassegnato fin dall’inizio il cammino europeo non sono divenuti per lungo tempo distruttivi ed in grado di metterlo seriamente in discussione.

Questa situazione creò però anche delle contraddizioni, rimaste a lungo nascoste e rese evidenti nella loro carica dirompente solo negli ultimi decenni. Da un lato, infatti, gli europei poterono permettersi di avanzare a piccoli passi e persino di buttare a mare i progetti più ambiziosi, come capitò nel 1954 alla CED, bocciata da un voto dell’Assemblea Nazionale francese. Dall’altro, l’integrazione, divenuta via via più profonda, finì per rafforzare gli Stati europei e creò in essi la fallace illusione di potersela sempre cavare senza bere l’amaro calice della rinuncia ad una sovranità divenuta in molti ambiti pura parvenza.

Con la fine dell’equilibrio bipolare la situazione ha iniziato a modificarsi. Se l’unificazione monetaria ha risposto con una crescente integrazione allo sfaldamento del blocco orientale, la Comunità e poi l’Unione non sono state in grado di prevenire e poi nemmeno di intervenire nella polveriera balcanica, resa di nuovo incandescente dall’implosione della Jugoslavia. L’unico strumento nelle mani di Bruxelles restava l’adesione dei Paesi liberatisi dal giogo sovietico. Sia detto senza remore: l’allargamento ha permesso di estendere lo Stato di diritto, la democrazia, l’economia di mercato prima a tre paesi usciti da regimi autoritari (Grecia, Spagna e Portogallo), poi al mondo ex-comunista. E non è certo un caso che gli Stati dei Balcani occidentali ancora esclusi dal club europeo vedano nell’adesione all’UE un’àncora per la propria stabilità e per lo sviluppo economico. Senza dire che anche paesi come l’Ucraina e la Moldova e persino una Repubblica caucasica come la Georgia sono oggi ben felici di unirsi al convoglio europeo.

L’allargamento è dunque una storia di successo, perché ha permesso di riunificare il nostro continente dopo quasi mezzo secolo di divisione e di contrapposizione. A prezzo però di una crescente incapacità delle istituzioni europee di rispondere alle sfide del nuovo millennio. Il problema era ben noto, tanto che fin dalla seconda metà degli anni Ottanta, seguendo in parte le indicazioni del Progetto Spinelli approvato dal primo Parlamento europeo eletto, si mise mano ad una serie di riforme che portarono in rapida successione all’approvazione dell’Atto Unico Europeo, del Trattato di Maastricht, del Trattato di Amsterdam, del Trattato di Nizza ed infine alla proposta di una Costituzione europea da parte della Convenzione sul futuro dell’Europa presieduta da Giscard d’Estaing. Non furono però i nuovi entrati a bocciare quest’ultima, ma i referendum tenuti in Francia e nei Paesi Bassi, due Paesi fondatori. Con non poche discussioni e recriminazioni si arrivò così al Trattato di Lisbona, che dal primo dicembre 2009 regola la vita dell’Unione.

Prima ancora che entrasse in vigore, il cataclisma economico-finanziario scoppiato negli Stati Uniti aveva già messo a dura prova l’impianto della moneta unica e con essa dell’intero edificio europeo. Quelli che marciano contro il vento. Così si definivano gli indiani di una piccola tribù delle pianure centrali: gli Omaha. Nonostante le sconfitte, gli arretramenti, le contraddizioni del processo di integrazione europea, per lungo tempo i federalisti europei hanno marciato con il vento. Non con il vento in poppa. Questo mai. Però con una direzione di marcia che andava nel senso da loro auspicato. Sono i testi ufficiali a proclamarlo. Dalla Dichiarazione Schuman, che definiva la CECA “les premières assises concrètes d’une fédération européenne”, allo stesso Trattato di Lisbona, che impegna gli Stati a creare “un’unione sempre più stretta” e a compiere “ulteriori passi ai fini dello sviluppo dell’integrazione europea”.

Proprio negli anni che vedevano la difficile ratifica di quest’ultimo trattato, il vento è cambiato ed ha iniziato a spirare contro. Ora abbiamo nemici che assaltano “partigianamente”, mentre gli amici difendono “tepidamente”. Vi hanno concorso due fattori che si sono rafforzati a vicenda: da un lato, la crisi economico-finanziaria scoppiata in America ha trovato l’Unione e le sue istituzioni impreparate ad affrontarla, e per questo ha avuto gli effetti più gravi e più duraturi proprio in Europa; dall’altro, i cambiamenti geopolitici, con il ripiegamento degli Stati Uniti, la crisi migratoria, l’emergere di nuove potenze, la ricerca di nuovi e difficili equilibri.

Gli Stati europei hanno risposto a queste sfide ricorrendo sempre più ai metodi ed agli strumenti intergovernativi, a scapito degli organi sovranazionali, come il Parlamento e la Commissione. Hanno salvato in tal modo l’Unione e l’euro, ma hanno alimentato la sfiducia dei cittadini e favorito l’ascesa dei movimenti populisti e nazionalisti. L’UE è apparsa sempre più un fortino assediato: dall’interno e dall’esterno. In certi momenti solo la BCE, sotto la sapiente guida di Mario Draghi, si è dimostrata in grado di approntare una serie di misure per rafforzare la tenuta dell’Eurozona ed impedirle di sfasciarsi. Ne è risultata una crescente divaricazione tra gli Stati del Nord e del Sud per quanto riguarda l’economia,  tra quelli dell’Est e dell’Ovest sul tema dell’immigrazione e della politica estera. Si aggiunga che la globalizzazione dei mercati, il turbocapitalismo finanziario, le nuove tecnologie, l’impetuosa crescita delle potenze emergenti hanno finito per aggravare le differenze anche all’interno degli Stati, sia tra i gruppi sociali che riescono a reggere la competizione e quelli che vengono invece sempre più emarginati, sia tra le varie aree e regioni, come accade tra l’Italia centro-settentrionale ed il Meridione. La nascita dei movimenti nazionalisti e populisti è dovuta sicuramente anche a queste situazioni di disagio e di incertezza.

“Serve una scienza politica nuova ad un mondo tutto nuovo. Ma è ciò a cui non pensiamo affatto: posti al centro di un rapido fiume, noi fissiamo ostinatamente gli occhi verso qualche detrito che si scorge ancora sulla riva, mentre la corrente ci spinge e ci trascina verso gli abissi.” Questa riflessione di Tocqueville fu posta da Altiero Spinelli all’inizio del suo Manifesto dei federalisti europei (Parma, 1957), meno noto del Manifesto di Ventotene, ma profondamente influenzato dal fallimento del primo tentativo di fondare la Federazione europea nella prima metà degli anni Cinquanta del secolo scorso. Se serviva allora una scienza politica nuova in un mondo che aveva trovato nell’assetto bipolare USA-URSS una stabilità ed un ordine durati quasi mezzo secolo, tanto più servirebbe oggi in un passaggio epocale le cui coordinate sono ancora difficili da decifrare. Purtroppo si usano invece ancora categorie legate a quel contesto storico del tutto superato per indicare la complessa fase della storia mondiale che stiamo vivendo. Così si pretende che l’attuale confronto USA-Cina possa definirsi come una nuova guerra fredda. Sgombrare il campo da simili “detriti” è il primo compito per chi non voglia farsi trascinare “verso gli abissi.”

In primo luogo, la competizione USA-URSS che ha segnato la seconda metà del Novecento è stata tale solo sul piano politico-militare, non su quello economico-finanziario. In quest’ultimo non v’era competizione, perché la superiorità del modello occidentale nel fornire beni e servizi tramite il mercato era indiscutibile. Quando Kruscev lanciò la sua sfida, assicurando che la pianificazione centralizzata sarebbe stata in grado di fornire condizioni di vita ancora migliori, in verità finì per farsi involontario profeta della fine dell’economia di comando in caso di insuccesso. Del resto, proprio in quegli anni la costruzione del Muro di Berlino per evitare la fuga in massa verso Ovest forniva la prova più evidente di quale dei due modelli di economia e di società venisse giudicato preferibile dai cittadini dell’Est. Il Muro sancì quella separazione tra Primo e Secondo Mondo che sarebbe durata fino al 1989, mentre tutto il resto del pianeta veniva confinato in quello che si definì il Terzo Mondo.

Oggi quell’impetuoso movimento di persone, merci e tecnologie compreso sotto il nome di globalizzazione ha provocato un’integrazione tra i continenti quale mai si era immaginata. È in quest’unico mondo reso una comunità di destino, come la pandemia di COVID–19 ha evidenziato nel breve volgere di qualche mese, che si colloca il confronto USA-Cina. Si tratta di un confronto per sua natura sistemico, perché la Cina, a partire dalle riforme di Deng Xiaoping, ha fatto e sta facendo passi da gigante in tutti gli ambiti. D’altro lato, le due potenze sono contrapposte e nello stesso tempo legate da una fortissima interdipendenza, soprattutto nella sfera economico-finanziaria. Si pensi agli squilibri della bilancia commerciale americana, compensati in parte da una bilancia dei pagamenti che vede la Cina tra i principali acquirenti dei titoli del debito pubblico USA. Si pensi alla competizione tecnologica, coi nuovi campioni cinesi (Alibaba, Baidu, Huawei, Tencent) che sfidano le grandi imprese americane raccolte sotto l’acronimo GAFAM, all’accaparramento delle materie prime, alle catene del valore che legano le imprese globali ed anche quelle minori, come mostra il caso dei chip.  Nel 2018 l’ex-presidente Trump dichiarò che le guerre commerciali erano “facili da vincere.” A parole, verrebbe la voglia di aggiungere, vendendo quanto è successo negli anni seguenti.  Per citare un dato recente, a maggio 2024 la Cina ha registrato un surplus commerciale di 82,62 miliardi di dollari, a fronte dei 65,55 miliardi dello stesso mese del 2023.

Infine tra USA e Cina è in atto anche uno scontro ideologico, perché i due Paesi vengono dipinti in Occidente rispettivamente come il campione delle democrazie liberali e delle autocrazie dispotiche.  Questo è il carattere che più avvicina la competizione attuale alla guerra fredda del passato, ma non va dimenticato che ogni configurazione bipolare tende, fin dai tempi di Atene e di Sparta, a trasformarsi inevitabilmente in una contrapposizione ideologica.

Che cosa si può dunque ragionevolmente dire su quella che l’attuale Pontefice ha definito “terza guerra mondiale a pezzetti”? Gli studiosi di relazioni internazionali ed anche molti storici adoperano il concetto tipico-ideale di “guerra costituente” per indicare quei grandi conflitti epocali che mettono fine ad un ordine e ne instaurano un altro. Tali sono stati la Guerra dei Trent’anni del XVII secolo, che fece nascere il sistema che non a caso si definisce ancor oggi vestfaliano dal nome della regione tedesca in cui si conclusero gli accordi di pace, e poi la guerra dei 30 anni del XX secolo (1914-45), che mise fine al sistema europeo degli Stati e diede origine al governo bipolare del mondo. Finito quest’ultimo e tramontata anche l’illusione che gli Stati Uniti potessero dar soli garantire l’ordine mondiale (la “fine della storia” ipotizzata da Fukuyama), possiamo forse già individuare qualche linea del nuovo quadro mondiale. Diciamo anzitutto che non possiamo permetterci una guerra tra grandi potenze per stabilire il nuovo assetto di potere planetario, perché sarebbe la fine dell’umanità. In secondo luogo, alcuni problemi, a cominciare dalla lotta ai cambiamenti climatici, possono essere avviati a soluzione solo attraverso la collaborazione internazionale. Sfortunatamente quasi tutte le istituzioni internazionali sorte nel secondo dopoguerra, in primo luogo l’ONU, non sono state adeguate ai nuovi equilibri mondiali e soffrono quindi di una grave crisi di legittimità. Di questi due ultimi aspetti è conseguenza il fatto che sono nati gruppi informali di Stati, il più famoso dei quali è il G20, che hanno l’ambizione di affrontare le più spinose questioni mondiali e di supplire in tal modo alle carenze delle organizzazioni multilaterali. Se poi si va a vedere gli Stati invitati agli ultimi vertici del più antico, omogeneo e schierato di questi club, il G7, si scopre che ormai è rimasto tale solo nel nome. All’ultimo incontro in terra di Puglia sono intervenuti infatti, oltre ai presidenti dell’Algeria, dell’Argentina, del Brasile, degli Emirati Arabi Riuniti, del Kenya, della Tunisia, della Turchia, dell’Ucraina e dell’Unione africana, anche il re di Giordania, il primo ministro dell’India e addirittura il papa.

Alla fine si dovrà arrivare ad un nuovo ordine, che non potrà essere che mondiale. Sarà inevitabile, insomma, che le principali potenze si siedano attorno ad un unico tavolo, magari mettendo mano ad una profonda ristrutturazione delle organizzazioni internazionali fondate ancora sugli equilibri della guerra fredda e dunque del tutto obsolete, a cominciare appunto dall’ONU. Non è in corso quindi alcuna nuova guerra fredda tra USA e Cina o tra democrazie ed autocrazie, anche se è comodo farlo credere. La Segretaria USA al Tesoro Janet Yellen, dopo anni in cui si sono sbandierati programmi di reshoring e friendshoring, ha avuto l’onestà di riconoscere che una completa separazione tra l’economia americana e quella cinese “sarebbe disastrosa per entrambi i paesi e destabilizzante per il resto del mondo” (discorso del 20 aprile 2023 alla John Hopkins University). Il protezionismo e la rinazionalizzazione dell’economia non sono pasti gratuiti, né sul piano propriamente economico né su quello politico-militare. Quando nel 1930 gli USA approvarono lo Smoot-Hawley Tariff Act, più di mille economisti scrissero una lettera al presidente Hoover che si concludeva con queste amare previsioni: “I dazi più elevati indicati in questa proposta (...) invitano apertamente le altre nazioni a competere con noi alzando ulteriori barriere commerciali. Una guerra dei dazi non offre terreno fertile alla crescita della pace mondiale.”

Sarebbe ingeneroso affermare che nell’ultimo quindicennio l’UE non ha fatto nulla, ma si può tracciare una netta differenza tra le misure prese nel decennio 2009-19 e quelle adottate nella legislatura appena conclusa. Un quarto di secolo dopo la svolta impressa dalla coppia Thatcher-Reagan nel biennio 1979-80, nel 2016 l’affermazione di Brexit nel referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’UE e l’inopinata vittoria di Trump nelle presidenziali americane sembrarono segnare un altro passaggio epocale, con le potenze anglosassoni ancora in grado di indicare una direzione all’Occidente e forse al mondo. Le cose non sono andate così. Con le elezioni europee del 2019, che confermarono una larga maggioranza europeista e che portarono Ursula von der Layen alla presidenza della Commissione, l’Unione si attrezzò per dare una risposta unitaria e coordinata alle nuove emergenze che hanno segnato fin da subito l’ultima legislatura. La prova più dura fu affrontare la pandemia e la gravissima crisi economica che la seguì. Dopo la mossa indovinata di acquistare i vaccini con dei bandi europei, in appena tre mesi si adottò un piano di investimenti da 750 miliardi di euro tramite la creazione di un debito pubblico europeo. Si superava così un tabù che mai era stato messo in discussione dalla nascita della moneta comune e tramite il Next Generation EU si fornivano ai Paesi più in difficoltà le risorse per mettere in cantiere dei piani nazionali di ripresa.

Molti commentatori si affannano a dire che occorreva un fatto traumatico come l’aggressione russa all’Ucraina per svegliarci dall’illusione di poter essere in grande quel che la Svizzera è stata per secoli in Europa: un’area di stabilità, pace e prosperità in un mondo devastato dai conflitti. Bisogna riconoscere con onestà che l’offensiva scatenata da Putin il 24 febbraio 2022 ci ha fatto finalmente aprire gli occhi. Pur con qualche incertezza e divisione interna, l’UE si è in gran parte liberata dalla dipendenza dal gas russo, ha approvato ben 14 pacchetti di sanzioni contro la Russia e con le ultime decisioni ha superato nettamente gli Stati Uniti nel fornire sostegno economico e finanziario all’Ucraina. Se si aggiunge che si è arrivati addirittura ad accettare la candidatura di uno Stato aggredito ed in guerra, cosa mai avvenuta e nemmeno ipotizzata prima, si può concludere che gli europei hanno finalmente capito qual è la posta in gioco e che non intendono abdicare alle loro responsabilità.

Non si devono nemmeno sottovalutare i tentativi che le istituzioni europee, in particolare la Commissione, stanno mettendo in campo per rispondere alla crescente competizione globale: dalla revisione della normativa sugli aiuti di Stato alla proposta di un fondo sovrano europeo; dallo European Chips Act al Critical Raw Materials Act; dalle giga-fabbriche per le batterie al progetto Gaia-X e alla Bussola per il digitale 2030.

La partita più importante è però appena iniziata ed impegnerà l’UE per i prossimi anni. Pur coi compromessi al ribasso necessari per far passare in plenaria le proposte di modifica dei Trattati avanzate dalla Commissione affari costituzionali, il voto del Parlamento europeo del 22 novembre scorso ha segnato un punto di svolta e l’avvio di una seria discussione sul futuro dell’Unione europea. Gli ostacoli vengono ora dalla Commissione e soprattutto dal Consiglio. Se in un primo tempo Ursula von der Leyen aveva riconosciuto al Parlamento di Strasburgo il merito “di aver avanzato idee coraggiose per la riforma dei nostri Trattati” e si era impegnata a presentare un pacchetto di proposte per “preparare ad una Unione con più di 30 Stati membri”, le idee poi avanzate sono state davvero deludenti. Ancora più sconsolante risulta il quadro offerto dai governi nazionali. Se nove Stati hanno già proposto l’abolizione dell’unanimità in seno al Consiglio, una procedura che condanna l’Europa a subire veti e ricatti di ogni tipo, riducendola all’impotenza ed esponendola all’irrisione da parte dei nemici della democrazia, i capi di Stato e di governo hanno ignorato finora la richiesta di convocare la Convenzione per la riforma dei Trattati, come previsto dall’art. 48 del Trattato di Lisbona. Torniamo alla lezione del Segretario fiorentino. Negli ultimi 5 anni l’UE è stata in grado di rispondere alle crisi che l’hanno via via coinvolta, ma “la natura de’ popoli è varia; et è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione”. Una profonda riforma dei Trattati serve a far in modo “che, quando non credono più, si possa fare credere loro per forza”.

Se fu la crisi degli Stati nazionali europei a provocare le catastrofi della prima metà del XX secolo, oggi è la crisi delle potenze di dimensione continentale a spingere il mondo verso il baratro di un confronto  sempre più aspro e con esiti imprevedibili, non esclusa la fine dell’umanità. L’inadeguatezza dei grandi Stati alle sfide del nostro tempo emerge a livello politico, ideologico ed economico. Forse mai come oggi si è parlato tanto di blocchi, schieramenti, coalizioni, in un proliferare di sigle e acronimi che lascia quasi disorientati. Il caso più recente e più eclatante è stato l’allargamento dei BRICS ad altri sei membri effettivi: Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Così un gruppo di paesi inizialmente assembrati da un economista di Goldman Sachs si propone oggi di rappresentare il Sud globale, col 36 % del Pil ed il 47 % della popolazione mondiale. Per il futuro le ambizioni sono ancora maggiori, perché si ipotizzano altri allargamenti ed addirittura l’adozione di una unità di conto comune, se non proprio di una moneta. In realtà, l’unico collante di un insieme così eterogeneo sembra essere una forte opposizione al cosiddetto Occidente o, per essere più precisi, agli Stati Uniti e all’egemonia del dollaro. Lo dimostra il fatto che è bastata l’elezione di Milei alla presidenza dell’Argentina per mutare la prospettiva dell’importante paese sudamericano. Un’altra contrapposizione, questa volta molto enfatizzata proprio dagli USA, è quella tra democrazie ed autocrazie. Se poi si va a vedere la composizione di questi gruppi, si scopre che alcuni paesi fanno parte di più schieramenti in competizione tra loro. E’ il nuovo disordine mondiale, dovuto alla già sottolineata marginalità e persino irrilevanza delle organizzazioni multilaterali. La geometria variabile con cui si coalizzano grandi e medie potenze è anche la dimostrazione che, al di là di tanti roboanti proclami, nessuna di essere è in grado di ambire ad una supremazia mondiale.

La seconda dimensione che testimonia la crisi d’identità di cui soffrono anche gli Stati più grandi è quella che abbiamo definito ideologica. Com’è ben noto, lo Stato moderno si è affermato in Europa lottando contro i poteri feudali preesistenti, compreso quello della Chiesa. Si tratta di un processo di lunga durata che ha trovato il suo compimento con la Rivoluzione francese e con la formazione degli Stati nazionali. L’esempio europeo è stato poi seguito in altre parti del mondo. Si pensi alla cosiddetta Restaurazione Meiji in Giappone o alla Rivoluzione dei Giovani Turchi, per non citare che due casi.  Ebbene, oggi assistiamo invece alla riscoperta della religione in funzione di suprema legittimazione dello Stato. Enzo Paci ha descritto efficacemente questo fenomeno in poche righe: “Nel mondo contemporaneo il ritorno della boria degli imperi e delle nazioni nasconde la crisi verticale delle grandi narrazioni dell’Otto-Novecento. Le élite al potere tornano a guardare alle religioni come il malato a corto di fiato che si attacca alla bombola di ossigeno.”

Non è nemmeno il caso di ricordare l’uso politico della religione che viene fatto in alcuni paesi dell’Unione europea, inclusa l’Italia. Basti il lapidario giudizio di Olivier Roy, docente dell’Istituto universitario europeo di Firenze: “Non si è mai parlato tanto dell’identità cristiana dell’Europa, né delle sue radici cristiane, come da quando gli europei hanno gradualmente smesso di essere praticanti.” La debolezza, per non dire l’insignificanza, degli attuali Stati europei è tanto evidente da giustificare in qualche modo quel ricorso alla bombola di ossigeno religiosa. Per la tesi che cerchiamo di sostenere qui sono molto più significativi i tentativi di recupero delle tradizioni religiose da parte delle potenze continentali. L’aggressione all’Ucraina ha portato la Federazione russa a pretendere e ad ottenere il sostegno incondizionato del patriarca Kirill e della gerarchia ortodossa, con una forma di cesaropapismo che si pensava ormai consegnata ai libri di storia. Anche negli USA, l’avversario storico prima dell’URSS ed ora della Russia putiniana, il nazionalismo di matrice evangelica ha fornito una forte legittimazione al suprematismo bianco di Trump e della destra americana. Quando è salito poi al potere Biden, è nato un conflitto tra l’episcopato statunitense e l’attuale pontefice, accusato di tollerare la difesa di alcuni diritti civili da parte del nuovo presidente. Se si passa alle due principali potenze asiatiche, stupisce come in pochi anni l’induismo, definito da Ali Raja Saleem “una delle religioni più aperte ed inclusive”, sia divenuto nelle mani di Narendra Modi e del suo partito uno strumento per imporre un nazionalismo che discrimina le minoranze, in particolare quella musulmana. Ancora più stupore può destare la riscoperta del confucianesimo da parte di Xi Jinping e del Partito comunista cinese, ma anche in questo caso il patrimonio culturale del passato viene asservito alla ragion di Stato e di partito senza molti riguardi per le semplificazioni e le falsificazioni storiche. Il caso più drammatico resta, tuttavia, quello di molti Paesi a maggioranza musulmana, in cui la shari’a ha finito per essere imposta dalle élite al potere come legge dello Stato.

Infine, sul piano economico, vi è la crescente incapacità degli Stati di controllare i grandi potentati economici. In Occidente lo testimoniano le indagini per pratiche monopolistiche sulle aziende Big Tech. Episodi come le trattative tra Elon Musk ed il Pentagono per fornire all’Ucraina le informazioni del sistema satellitare Starlink o la richiesta ultimativa rivolta dallo stesso Musk al governo tedesco perché giustificasse gli aiuti alle ONG che operano nel Mediterraneo, seguita dall’invito agli elettori dell’Assia e della Baviera a votare per AfD, sono ancora più inquietanti. Del resto, il fatto che questo signore venga spesso ricevuto dalle massime autorità governative come fosse anch’egli un capo di Stato la dice lunga sul potere di condizionamento ed anche di ricatto di personaggi come lui. Nei regimi autocratici i rapporti tra potere politico e potere economico sono più opachi, ma non meno preoccupanti, come dimostra il caso Evergrande in Cina.

Prima scrivevamo che alla fine della guerra costituente in corso le principali potenze dovranno sedersi  attorno ad un tavolo per definire il nuovo ordine mondiale. Al momento non sappiamo chi siederà a quel tavolo, perché lo scontro è in atto e le gerarchie non sono ancora stabilite, ma come europei possiamo contare su una certezza e formulare una scommessa. Sicuramente già oggi nessuno Stato europeo ha la forza per poter da solo pretendere di essere un protagonista dei nuovi equilibri mondiali. Come è stato ben detto, i paesi europei si dividono in due sole categorie: quelli che sanno di essere piccoli e quelli che devono ancora capire di esserlo. Per tutti dovrebbe valere allora la scommessa di condividere la sovranità in materie in cui divisi non contiamo più nulla, come la politica estera, la difesa, l’energia, la politica industriale.

Ogni guerra costituente si combatte anche in nome di principi e valori. Due logiche sono oggi in competizione: quella imperiale e quella federale. Lo scontro si gioca soprattutto nei ventri molli segnati dalla divisione e oggetto delle mire delle grandi potenze: in Africa anzitutto, ma anche in America Latina, nel Medio Oriente, nel Sud-Est asiatico. Ed in Europa, che potrebbe diventare la preda più ambita se non riuscirà a compiere passi decisivi verso la propria unificazione. Osservando il quadro mondiale, la logica imperiale sembra aver già vinto. I risultati delle recenti elezioni europee, ed in particolare gli esiti delle stesse in Francia e Germania, hanno convinto molti che non c’è più nulla da fare. Nella Francia della seconda metà del Cinquecento devastata dalla guerra civile tra cattolici ed ugonotti accadde la stessa cosa. Solo un gruppo di uomini di Stato e di intellettuali ebbe il coraggio di mettere da parte le appartenenze religiose e di proclamare che occorreva affermare la laicità dello Stato e mettere fine alle guerre di religione. Erano i Politiques. Oggi tocca ai federalisti svolgere questo ruolo contro tutte le fedi imperialiste, con la consapevolezza che qui in Europa si stanno giocando le sorti del mondo. Senza falsi timori. Con prudenza, ma anche con veemenza, se necessario. Usando la forza della ragione e non le ragioni della forza.


[*] Questo testo riprende, in alcune parti integralmente, articoli pubblicati da L’Unità Europea.

 

 

 

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