Anno LXII, 2019, Numero 1, Pagina 29
La questione culturale e il problema politico dell’unità africana
ANDREA APOLLONIO
The Human Race must move towards unity. (Julius Kambarage Nyerere) |
Introduzione.
L’idea che sia ormai giunta al termine l’epoca della divisione del genere umano in nazioni e che, congiuntamente, abbia avuto inizio l’era dell’interdipendenza e dell’unità sovranazionale è l’assunto fondamentale del federalismo come teoria politica.
Un secondo assunto, altrettanto importante, accompagna il primo: la storia del genere umano non consiste in una serie di eventi non correlati, dotati di significato unicamente in sé stessi — quindi assolutamente insignificanti[1] — ma in un processo di cui è possibile ricostruire il senso, indirizzato verso la realizzazione delle condizioni politiche della pace, intesa come assetto politico duraturo reso possibile dall’esistenza di una legge sovranazionale, che limita il comportamento delle singole comunità politiche, e di una fonte legittima di quella legge, ovvero istituzioni sovranazionali che esprimono la volontà delle persone e delle comunità locali secondo garanzie democratiche.
Queste due consapevolezze — l’interdipendenza politica del genere umano e la direzionalità (ipotizzabile) del corso storico — caratterizzano lo spartiacque tra la vecchia visione del mondo, secondo la quale esistono gruppi umani naturali, liberi di autodeterminarsi politicamente come nazione, e una nuova visione del mondo, condivisa da coloro che hanno compreso che le sfide formidabili che si pongono dinanzi all’umanità chiedono alle comunità politiche di evolvere, maturare, fare un passo avanti.
L’Europa, obbiettivamente, è stata la sede storica nella quale la consapevolezza culturale e politica rispetto all’obsolescenza del sistema nazionale e all’interdipendenza delle comunità politiche ha alimentato la lotta politica e l’avvio del primo processo di integrazione sovranazionale, ovvero il primo tentativo, ancora incompiuto, di superamento della forma politica dello Stato nazionale.
Se è vero che l’Europa rappresenta il luogo nel quale, per una serie di circostanze storiche, il processo di superamento del sistema nazionale ha compiuto i passi più importanti, è falsa la fantasia di chi crede che l’Europa sia l’unica sede della suddetta consapevolezza, nonché l’unico laboratorio di sperimentazione di questo nuovo tentativo politico.
L’obsolescenza del sistema nazionale è davanti agli occhi di tutti. Un’analisi oggettiva della realtà non può che mettere in luce questo aspetto; non può che rivelare la profonda contraddizione del mondo nel quale viviamo, le discrasie dei nostri sistemi politici che arrancano inutilmente cercando di governare la globalizzazione, incespicando e mancando sempre l’obbiettivo.
Una mente critica non può che giungere ad una conclusione: non esistono ricette nazionali per il benessere nel mondo globalizzato. Non esistono soluzioni intergovernative per vincere le sfide globali dell’economia, delle migrazioni, delle trasformazioni climatiche accelerate.
Svincolandoci dalla prospettiva europea, gettando lo sguardo sulla riva opposta del Mediterraneo, anche lì, nel continente africano, troviamo i germi della medesima consapevolezza e le prove del medesimo tentativo politico. Lo sguardo razionale sul mondo non ha bandiera.
La prospettiva culturale e politica dell’unità africana.
Nei primi anni del Novecento comincia ad emergere quella che viene definita coscienza africana (sense of africanness). Detto altrimenti, comincia a svilupparsi una comunità immaginata dei neri d’Africa; una narrazione i cui richiami identitari centrali consistono nelle esperienze storiche della schiavitù e del colonialismo. L’aspetto peculiare di questa forma identitaria è che essa si sviluppa non in Africa, bensì nel continente americano. Uno dei maggiori interpreti di questo senso di collettività africana è William Edward Burghardt Du Bois, stimato intellettuale statunitense, naturalizzato ghanese, primo organizzatore dei Congressi panafricani, che studia largamente il concetto di panafricanismo, indaga i legami identitari tra africani della diaspora e africani del mondo coloniale, nonché i problemi che accomunano gli africani in quanto comunità di destino.
Un secondo volto, di connotazione popolare e operaia, è quello di Marcus Garvey, leader del movimento nazionalista nero, sostenitore di idee quali il ritorno all’Africa, il diritto all’unità dei neri africani della diaspora, nonché critico delle condizioni di lavoro precarie della comunità nera.
Ciò che l’intellettuale delle élite Du Bois e il sindacalista Garvey hanno in comune è l’idea che esista una comunità nera, legata dai medesimi problemi storici e politici, che debba in qualche modo riunirsi nella terra di origine e ottenere il diritto di autodeterminarsi[2].
I limiti di questa visione, che traccia una storia teleologica per legittimare l’unità degli africani della diaspora e degli africani continentali, talvolta con toni marcatamente razziali e nazionalisti, sono evidenti. Ciononostante, il panafricanismo della diaspora (in particolare attraverso i Congressi di Du Bois e in generale attraverso le rivendicazioni del movimento), pone, direttamente o indirettamente, la questione dell’unità del continente africano.
Il panafricanismo, ovvero la prospettiva culturale e politica dell’unità sovranazionale del continente africano, giunge a maturazione con la decolonizzazione, svincolandosi quasi del tutto dalle connotazioni razziali e offrendosi come progetto politico raffinato.
A mio parere, sono due i maggiori interpreti della questione dell’unità africana in ambito post-coloniale. In un certo senso, potremmo considerare queste due figure come i padri del panafricanismo continentale[3], ovvero la prospettiva politica dell’unità sovranazionale degli Stati africani.
Il primo grande interprete è Kwame Nkrumah, Presidente del Ghana dal 1960 al 1966. Egli è il leader che guida il Ghana nel processo di decolonizzazione verso l’indipendenza, avendo ben chiaro in mente un monito: l’indipendenza del Ghana sarebbe incompleta se non accompagnata dall’indipendenza non solo politica ma anche economica del continente africano. Ciò che Kwame Nkrumah comprende con chiarezza è che la decolonizzazione e l’indipendenza politica degli Stati nazionali africani, slegati e autonomi, rischia di produrre da sé le condizioni per nuove forme di dominio, che egli definisce neocoloniali, di carattere economico. Se gli Stati africani non comprendessero per tempo che al processo di indipendenza nazionale dovrà affiancarsi un processo di progressiva integrazione sovranazionale, in ambito politico ed economico, il continente africano rimarrà alla mercé delle grandi potenze e i rapporti di dominio sostanzialmente inalterati. In ultima analisi, il rischio che il primo Presidente del Ghana vede nella decolonizzazione è che risulti in un cambiamento gattopardesco.
Una buona sintesi delle riflessioni politiche di Nkrumah in merito alla questione culturale e politica dell’unità africana è raccolta nel testo Africa Must Unite[4], pubblicato nel 1963. “The idea of African union is not just a sentimental one, emanating from a common experience of colonialism and a desire for young, untried states to come together in the effervescence of the new freedom, though sentiment undoubtedly has its part. The unity of the countries of Africa is an indispensable precondition for the speediest and fullest development, not only of the totality of the continent but of the individual countries linked together in the union”.[5]
Il panafricanismo continentale, il cui sviluppo deve molto agli stimoli dei Congressi organizzati dai panafricanisti della diaspora, mostra, rispetto alla posizione di questi ultimi, un grande balzo concettuale: la questione dell’unità non si presenta più in termini di diritto di autodeterminazione della nazione africana e dei neri del mondo. Piuttosto, emerge come unica soluzione politica per il benessere, lo sviluppo e la reale indipendenza del continente africano dopo la decolonizzazione. Il salto qualitativo, in termini culturali, è notevole. Ciò che Nkrumah comprende è che il nuovo ordine mondiale, che negli anni Sessanta si sta ormai dispiegando, premierà coloro che intraprenderanno con coraggio e decisione cammini di integrazione sovranazionale. I piccoli Stati nazionali, nel nuovo mondo, avranno un ruolo marginale.
La consapevolezza delle sue posizioni deriva anche da un’analisi critica rispetto a ciò che accade contestualmente nel continente europeo: “It seems, then, curiously paradoxical that in this period when national exclusivism in Europe is making concessions to supernational organizations, many of the new African states should cling to their new-found sovereignity as something more precious than the total well-being of Africa and seek alliances with the states that are combining to balkanize our continent in neo-colonialist interests”.[6]
Se da un lato il giudizio del Presidente del Ghana è decisamente critico verso il continente europeo, di cui sospetta intenzioni economiche neocoloniali, dall’altro egli riconosce in Europa il primo tentativo di superamento del sistema nazionale, e le prime conquiste politiche in tal senso. Nonostante le impressioni negative che l’Europa suscita nel vecchio mondo coloniale, come è ovvio che sia, il processo di integrazione europea ispira i leader politici, spingendoli a immaginare il mondo secondo nuove logiche. Nkrumah immagina un futuro sovranazionale per l’Africa negli stessi anni dei Trattati di Roma, pochi anni dopo la Dichiarazione Schuman. È del tutto evidente che tra questi fatti vi è una profonda connessione. Il mondo comincia a guardare l’Europa non solo come il vecchio continente, centro di un ordine mondiale definitivamente sconquassato dai conflitti bellici. Le menti più acute comprendono che i fenomeni embrionali che attraversano l’Europa hanno una portata rivoluzionaria per il mondo intero.
Un secondo grande interprete del panafricanismo continentale, senz’ombra di dubbio, è Julius Kambarage Nyerere, Presidente dell’ex-Tanganika prima e poi Presidente della Tanzania dal 1964 al 1985. Nel 1963, un anno prima del compimento del processo di decolonizzazione e della nascita, con l’indipendenza, dello Stato della Tanzania, Nyerere pubblica alcune importanti riflessioni in un breve saggio dal titolo A United States of Africa.[7] In questo breve testo emergono chiari alcuni degli aspetti salienti del suo pensiero rispetto alla questione dell’unità africana. Un primo aspetto consiste nella consapevolezza che il nazionalismo come paradigma politico è ormai desueto, persino nocivo. Se le tendenze nazionaliste dei neonati Stati africani dovessero prevalere sul sentimento di unità della comunità di destino africana, essi non otterranno condizioni politiche di reale autonomia. L’indipendenza, infatti, si potrà realizzare solo con la consapevolezza dell’interdipendenza. “We must use the African national state as instruments for the reunification of Africa, and not allow our enemies to use them as tools for dividing Africa. African nationalism is meaningless, is anachronistic, and is dangerous, if it is not at the same time Pan-Africanism”.[8]
Una seconda peculiarità del suo pensiero consiste nell’idea secondo la quale l’obbiettivo dell’unità continentale non si potrà ottenere con un unico grande balzo simultaneo degli Stati. La via da percorrere, realisticamente, deve prevedere passaggi graduali, associazioni regionali. Trattandosi di un continente molto eterogeneo in termini storici, politici e culturali, riconoscendo che persino la recente storia coloniale non si è realizzata ovunque nei medesimi termini, è necessario comprendere che “aree differenti potrebbero avanzare sulla strada verso l’unità a velocità differenti”.[9]
Il terzo e ultimo aspetto che caratterizza la visione politica di Nyerere, e che mostra il livello di maturazione raggiunto dal panafricanismo continentale, riguarda la natura della forma associativa a cui tendere. Nyerere immagina una federazione, ovvero non un’unione fondata su interessi e obbiettivi comuni, ma un nuovo Stato con autonomia politica e decisionale in alcune sfere di competenza, sovrano e democratico. “One thing must be clear; once a Federation has been established by the will of the people it must not be allowed to break up again. It may expand or merge into a still larger unit, but its component parts will have made up a new body politic which cannot be chopped up”.[10]
Il problema politico dell’unità africana.
Il 1963 è un anno di grandi speranze per chi sogna l’unità africana. Nel bel mezzo del processo di decolonizzazione, Nkrumah e Nyerere, due delle personalità più influenti del movimento per l’unità africana, pubblicano riflessioni che rivelano la maturità raggiunta dal pensiero filosofico panafricanista. Il 1963, apparentemente, sembra anche inaugurarne la realizzazione politica. Nel mese di maggio, infatti, nasce l’Organization of African Unity, una confederazione di Stati indipendenti riuniti attorno ad interessi comuni e ambiti di cooperazione. Non si tratta dell’obiettivo prefissato, ma la neonata associazione di Stati segna un primo passo in quella direzione. Come l’Europa anche l’Africa sembra affacciarsi finalmente alle porte di un mondo nuovo, ma così non è. Le speranze del movimento sono presto sconquassate da un avvenimento inaspettato: nel 1966 il presidente del Ghana, Nkrumah, subisce un colpo di Stato. Il movimento per l’unità africana, nell’esatto momento in cui tenta di avviare un progetto politico reale, perde il più importante sostenitore e rappresentante istituzionale. Viene a mancare il leader che si è fatto carico del progetto in termini politici.[11]
I decenni a seguire sono segnati da una graduale frustrazione delle speranze riposte nel progetto. Gli Stati africani, alcuni dei quali formalmente riuniti per l’unità africana, in realtà perseguono politiche di sviluppo separate e autonome. Alla balcanizzazione economica si affianca poi un secondo fenomeno, ovvero lo sviluppo di Stati via via più autoritari, illiberali, talvolta tirannici. Nel 1990 solo quattro dei 54 Stati membri dell’organizzazione sono riconosciuti dalla comunità internazionale come Stati pienamente democratici.[12] L’ultimo decennio del XX secolo segna il definitivo declino dell'organizzazione, che perde la sua credibilità portando all’esasperazione alcuni dei vincoli che hanno sancito la sua nascita: tra tutti, il rispetto incondizionato della sovranità degli Stati membri e il principio di non-interferenza negli affari interni degli Stati. Ciò porta l’Organizzazione a non esprimersi in alcun modo rispetto a tragedie umanitarie epocali, come ad esempio il genocidio etnico in Ruanda nel 1994.
George Ayittey, economista e Presidente della Free Africa Foundation, in uno dei suoi scritti individua questa contraddizione, denunciandola con forza: “By 1994, Africa’s refugee count exceeded 10 million, and the death toll from those senseless wars was even greater. (…) How does one promote continental Pan-Africanism under these circumstances?”[13]
A questo punto dell’analisi, non rimane che un quesito: perché una prospettiva culturale apparentemente razionale e dalle forti connotazioni morali, alla prova dei fatti incappa in un fallimento tremendo? Potremmo dare una risposta in termini culturali, servendoci di alcune categorie di pensiero. Prendiamo, per esempio, le tre condizioni che Francesco Rossolillo pone alla base di ogni tentativo rivoluzionario di superamento dell’ordine politico esistente: la situazione di crisi, i leader illuminati e la coscienza popolare.[14] Nel contesto africano degli anni Sessanta non si assiste tanto ad una situazione di crisi o impasse, quanto a impressionanti trasformazioni di carattere politico e sociale. Nello specifico si assiste al processo di decolonizzazione e alla nascita di nuove entità statali. In quel contesto, quindi, manca la percezione di una situazione di stallo. Ciò sancisce una differenza sostanziale rispetto al contesto europeo, dove invece Stati nazionali maturi, dopo due conflitti bellici devastanti, comprendono la loro obsolescenza. Venendo alla seconda condizione, ovvero la presenza di leader illuminati, nel 1966 la figura più significativa e carismatica, Kwame Nkrumah, viene spodestata, perdendo la sua rilevanza istituzionale. Il vuoto lasciato da Nkrumah non è colmato da altri. Per quanto riguarda il terzo aspetto indicato da Rossolillo, ovvero la presenza di una forte coscienza popolare che sostiene il salto rivoluzionario, sarebbe necessaria un’analisi etnostorica che riveli l’esistenza, in quegli anni, di comunità nazionali relativamente omogenee, capaci di esprimere un’opinione pubblica e di attivare dibattiti politici condivisi. Rispetto a ciò, personalmente, nutro forti riserve, anche se ciascun contesto meriterebbe un’analisi a sé stante. Le tre condizioni rivoluzionare per il salto sovranazionale, ad ogni modo, mancano. Inoltre, a mio parere, esiste un problema nel rapporto tra la società africana e lo Stato; il continente Africano non può compiere il salto sovranazionale perché sono prima necessari alcuni passaggi nel rapporto tra società e Stato, nella consapevolezza pubblica, nelle forme di partecipazione, quindi nella capacità di investire sulle potenzialità economiche e produttive del continente, che la società africana, nel suo insieme, deve imparare a gestire, in un rapporto corretto ed equo con i partner internazionali. Oltre alle condizioni politiche di Rossolillo, mancano, a mio avviso, le condizioni materiali.
Tuttavia, affrontando il quesito attraverso queste categorie analitiche, rischiamo di elaborare risposte arbitrarie, semplicistiche, che non forniscono un quadro chiaro né della complessità del contesto africano né dei fattori peculiari che caratterizzano la dimensione della politica in quel continente. In tal senso, le riflessioni dell’antropologia politica forniscono un sostegno prezioso. John Gledhill, nel testo Power and Its Disguises,[15] propone alcune considerazioni illuminanti, tutte legate al medesimo assunto di partenza: sarebbe un errore sconsiderato quello di studiare una realtà socioculturale così diversa dalla nostra a partire dalle stesse categorie analitiche che utilizziamo per spiegare le società occidentali. Nell’analisi degli Stati africani è fondamentale problematizzare lo stesso concetto di Stato, tenendo a mente i seguenti aspetti:
1) gli Stati africani si rivelano spesso reciprocamente incongruenti rispetto al regime politico adottato, e comunque sensibili a variazioni, cambiamenti, mostrandosi talvolta instabili;[16]
2) il potere, nel contesto africano, non è sempre esercitato nelle forme dello Stato, legittime e riconosciute; in tal senso John Gledhill introduce il concetto di “shadow state”, ovvero quell’insieme di poteri informali, nascosti, fuorilegge, che esercitano però un’influenza politica ed economica decisiva nei contesti locali e regionali; non si tratta semplicemente del “collasso dello Stato, ma di una trasformazione delle forme del potere statale”.[17]
Questa breve disamina di alcune peculiarità del contesto africano, rivelate dall’analisi antropologica, ci deve spingere ad adottare un nuovo punto di vista rispetto alla questione panafricanista. La radicale specificità del continente africano, infatti, rende impensabile, almeno nel breve termine, l’idea di perseguire la giusta ed importante via per l’integrazione sovranazionale attraverso un processo imitativo rispetto a quanto avvenuto in Europa negli ultimi decenni.
L’Africa dovrà seguire la propria strada che, dal mio punto di vista, appare certamente tortuosa, impervia e lunga, ma anche necessaria e inevitabile.
Nuove prospettive per l’unità africana.
Il XXI secolo si apre con un nuovo tentativo: a marzo 2001, a Sirte, si assiste alla sottoscrizione della Dichiarazione dell’Unione Africana, un documento che sancisce la nascita dell’omonima organizzazione l’anno successivo.
L’African Union, che rimpiazza l’ormai compromessa Organization of African Unity, si ispira direttamente ed esplicitamente al modello fornito dall’Unione europea, in particolare rispetto alle istituzioni che ne caratterizzano l’assetto. Inoltre, rispetto alla ormai superata OAU, l’African Union stabilisce nella sua Carta fondativa, la Carta di Durban, alcuni aspetti del tutto innovativi; in particolare, sostituisce il nocivo principio di non-interferenza con il principio di non-indifferenza, arrogandosi il diritto potenziale di intervenire rispetto a infrazioni costituzionali e mediare in situazioni di chiara violazione dei diritti umani, facendosi promotore di buona politica[18]. Secondo Treccani, “La Carta di Durban introduce la possibilità che organi collettivi interafricani intervengano quando l’autonomia dei singoli governi mette a rischio gli equilibri regionali e continentali, anche attraverso sanzioni, avvicinandosi al concetto della responsibility to protect delle Nazioni Unite”.[19] Il principio di non-indifferenza, sulla carta, introduce il primo tentativo embrionale di ridimensionamento della sovranità degli Stati membri, sottoponendo le loro azioni al controllo di istituzioni sovranazionali. Con il XXI secolo, quindi, anche l’Africa riconosce l’ostacolo fondamentale di ogni tentativo di costruzione politica sovranazionale: la resistenza delle sovranità nazionali che, recalcitranti, frenano ogni avanzamento secondo il principio di autoconservazione.
Nonostante le ottime intenzioni fondative, l’AU arranca faticosamente negli anni a seguire. Sebbene non manchino i sostenitori politici, è proprio tra le fila di questi ultimi che si nascondono le più gravi minacce alla sua credibilità. Tra i leader di spicco, era emerso per il suo aperto sostegno al progetto di costruzione di un governo sovranazionale africano Muhamar Gheddafi, il Presidente libico morto nel 2011, che ebbe il ruolo di Presidente dell’AU dal 2009 al 2010. Evidentemente, il problema consiste nel fatto che Gheddafi non godeva certo delle credenziali democratiche necessarie per sostenere un progetto che esplicitamente fa riferimento all’esperienza europea. Il caso di Gheddafi rivela la grande stortura che caratterizza questo nuovo tentativo di avviamento del processo di unificazione sovranazionale, una stortura che ricalca l’esperienza della seconda metà del secolo precedente: l’instabilità degli Stati africani e la loro incongruenza rispetto ai sistemi economici e ai regimi politici adottati. Questa caratteristica mina la convergenza degli interessi e lo sviluppo di una linea comune. Ancora una volta, quindi, l’eterogeneità e l’instabilità politica, sociale e culturale del continente rende difficoltoso il processo, seppur graduale, per l’unificazione sovranazionale.
Nonostante gli aspetti esposti sino a questo punto, la nuova organizzazione ottiene alcuni risultati importanti. In particolare, nell’agosto del 2019 avviene la sottoscrizione da parte di più di 50 Stati africani di un trattato di libero scambio, che istituisce la cosiddetta African Continental Free Trade Area (AfCFTA). Il trattato prevede la riduzione delle tariffe commerciali interne, attiva politiche di diversificazione dell’export e pone alcuni obbiettivi comuni. Si tratta di un primo piccolo ma importante passo verso la creazione di un mercato unico africano, verso una corretta gestione dell’interdipendenza economica degli Stati africani. L’accordo raggiunto da 54 delle 55 nazioni africane segna una conquista storica; l’AfCFTA, infatti, “copre una popolazione di 1,2 miliardi di persone e costituisce la più grande area di libero scambio al mondo per numero di Paesi coinvolti dall’entrata in vigore dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). La nuova area di libero scambio si inserisce, inoltre, nell’ambito dell’Agenda 2063, il programma che guida le azioni dell’UA volte allo sviluppo del continente”.[20] Si tratta di un’importante conquista in termini di liberalizzazione del mercato intra-africano, che sancisce anche un passo nel riconoscimento dell’interdipendenza degli Stati africani in quanto comunità di destino.
Oggi più che mai è attuale la consapevolezza che negli anni ’60 del XX secolo guida le riflessioni e i tentativi politici di Nkrumah e Nyerere: la reale autonomia dell’Africa si raggiungerà non vagheggiando l’autodeterminazione nazionale, bensì riconoscendo l’interdipendenza che unisce i destini di tutte le comunità politiche, che richiede passi concreti nel cammino verso l’integrazione sovranazionale.
L’Unione africana, che gode di un rapporto privilegiato con le istituzioni europee, dovrà tenere a mente un monito per indirizzare le proprie scelte e riacquisire credibilità come progetto: a questi primi tentativi di integrazione commerciale ed economica dovrà affiancarsi parallelamente un lavoro costante e graduale di costruzione di vincoli politici reali. L’AU dovrà lentamente guadagnarsi l’autorevolezza necessaria per porre vincoli e determinare standard per l’ammissione e permanenza degli Stati membri, utilizzando la leva della partecipazione all’area di libero scambio e sanzioni. Tali vincoli non dovranno necessariamente ricalcare i princìpi liberali della tradizione politica europea, ma comunque dovranno tutelare la qualità della vita delle persone, i bisogni delle comunità locali e garantire trasparenza e chiarezza nei processi decisionali, condannando per tempo situazioni sociopolitiche drammatiche e inaccettabili, sapendo intervenire e mediare in situazioni di instabilità, accompagnando i sistemi politici africani, talvolta ancora fragili e instabili, nella loro crescita. Solo così l’African Union apparirà non solo come un’istituzione internazionale per l’economia e il commercio, ma come una proposta politica sovranazionale credibile agli occhi degli Stati membri e della comunità internazionale.
Il progetto panafricanista dimostra che la lotta per l’integrazione sovranazionale è una prospettiva politica condivisa. Certamente, questa prospettiva si declina e si esprime secondo le specificità contestuali, ma ripropone la stessa consapevolezza fondativa e lo stesso sfondo di senso.
L’Unione europea, obbiettivamente, rappresenta il laboratorio nel quale questo progetto ha ottenuto i risultati più rilevanti. In questo senso, l’Unione ha una doppia responsabilità: da un lato, dovrà garantire benessere ai suoi cittadini, confermando le speranze di chi la sostiene e dissipando i timori di chi invece dubita. Dall’altro, in quanto modello per altre comunità, dovrà saper imporre a sé stessa coraggiosi passi avanti, sostenendo le importanti conquiste che ne hanno caratterizzato l’assetto, come il mercato unico, ma mostrando che esse assumono senso compiuto solo se unite ad uno slancio politico che, infine, dovrà condurre alla formazione di un solido Stato federale.
[1] Parafrasi di alcune riflessioni di Francesco Rossolillo; Francesco Rossolillo, Il Federalismo e le Grandi Ideologie, Il Federalista, 31 n. 1 (1989), p. 7.
[2] George Ayittey, The United States of Africa – A revisit, The Annals of the American Academy of Political and Social Science, Perspectives on Africa and the World, 632 (2010), p. 88.
[3] Ibidem, p. 89.
[4] Kwame Nkrumah, Africa Must Unite, Frederick A. Praeger Publishers, New York, 1963.
[5] Ibidem, p. 163.
[6] Ibidem, p. 158.
[7] Julius K.Nyerere, A United States of Africa, The Journal of Modern African Studies, 1 (1963), pp. 1-6.
[8] Ibidem, p. 6.
[9] Ibidem, p. 4.
[10] Ibidem, p. 6.
[11] George Ayittey, The United States of Africa…, op. cit., p. 90.
[12] Ibidem, p. 92.
[13] Ibidem, p. 94.
[14] Francesco Rossolillo, Il Rivoluzionario, Il Federalista, 47 n. 1 (2005), p. 7.
[15] John Gledhill, Power and Its Disguises, Anthropological Perspectives on Politics, Londra, Pluto Press, 2000.
[16] Ibidem, pp. 94-100.
[17] Ibidem, p. 103.
[18] Cfr. Atlante Geopolitico, Treccani, African Union, 2016, http://www.treccani.it/enciclopedia/african-union_%28Atlante-Geopolitico%29.
[19] Ibidem.
[20] Luca Barana, Africa: nasce l’AfCFTA, area di libero scambio per il continente, Affari Internazionali, 12/7/2019, https://www.affarinternazionali.it/2019/07/africa-afcta-area-libero-scambio/.