Anno LXI, 2019, Numero 3, Pagina 145
Il dilemma dell’identità europea
ANDREA APOLLONIO
“Questo a me pare il senso dell’identità europea:
l’europeo in conflitto con il suo essere sociale
per diventare, con gli altri, ciò che è, un uomo.”
(Mario Albertini, L’Identità europea, Il Federalista, 1977)
Introduzione.
Il progetto di integrazione europea è una delle ambizioni politiche più grandi del nostro secolo e del secolo precedente. Esso segna un crocevia, pone un’alternativa paradigmatica al destino della società umana. Il compimento del progetto di integrazione — ovvero la fondazione dello Stato federale europeo — sprigionerebbe due elementi di novità assoluta: una innovazione istituzionale, vale a dire il primo modello statuale post-nazionale e le prime istituzioni democratiche post-nazionali, e una innovazione culturale, ovvero la cultura post-nazionale del cosmopolitismo, dell’unità del genere umano.
Con l’avanzamento storico del processo, che fortunatamente non si arresta per la pavidità di alcuni, un quesito turba le coscienze di chi comincia a percepire la drammaticità della svolta: cosa significa essere europei? Cosa rende l’europeo tale e distinto dai non-europei? Quali elementi storici e culturali legittimano un progetto politico per il demos europeo? Il senso comune fornisce risposte molto chiare al dilemma. Tra i vari elementi che concorrono a formare la narrazione, due, a mio avviso, ricorrono con maggiore frequenza.
Il primo elemento è la grecità. Nessuno oserebbe negare la profonda influenza che la cultura greca ha esercitato sulla nostra civiltà. Omero, al di là del dibattito riguardante la sua esistenza come autore, è il padre del mythos e della narrativa occidentale. L’Iliade e l’Odissea hanno segnato i percorsi educativi di molte generazioni di studenti, plasmandone la sensibilità artistica. Platone e Aristotele sono i fondatori dell’impianto filosofico occidentale, e le loro riflessioni sul logos e sui concetti estetici tutt’ora offrono stimoli all’accademia e stimolano nuovo sapere scientifico. Non per niente, Alfred North Whitehead ha affermato che “la più sicura caratterizzazione della tradizione filosofica europea è che essa consiste in una serie di note a margine su Platone”.[1]
Il secondo elemento che, sommandosi al primo, concorre a formare la nostra specificità identitaria è la cristianità. Come negare che i dettami della dottrina cristiana permeino la nostra moralità? Il nostro apparato etico, i concetti di bene e male attraverso i quali orientiamo le nostre scelte, i criteri attraverso i quali giudichiamo le azioni degli altri, derivano dal costante riferimento (conscio ed inconscio) alle vicende evangeliche e ai significati che esse veicolano. La cristianità ha esteso il raggio della sua influenza ben al di là della sfera religiosa e spirituale: essa germoglia e produce frutti nella cultura popolare, nell’immaginario politico, persino nelle istituzioni pubbliche.
Tuttavia, la veridicità di queste affermazioni è solo apparente. In realtà, esse rimandano a costruzioni radicate nel nostro modo di concepire noi stessi, inserite nel nostro orizzonte concettuale, nel nostro immaginario. Sebbene non sia possibile negare che i macrofenomeni culturali della grecità e della cristianità abbiano esercitato un’influenza decisiva nella definizione di quella che oggi etichettiamo come “civiltà europea”, sarebbe scorretto sostenere che tali elementi definiscano in modo esclusivo la nostra identità culturale, che definiscano, quindi, l’europeo in quanto tale e distinto dal non-europeo.
La storiografia ci aiuta a svelare questa impropria generalizzazione: l’ellenismo, ovvero il fenomeno di diffusione della grecità nei Regni ellenistici e il suo mescolamento con elementi della cultura locale, ha coinvolto un’area geografica che si estendeva oltre i confini europei, oltre il Mediterraneo, giungendo a toccare le rive del fiume Indo. La grecità, in termini filosofici, architettonici e artistici è giunta a permeare l’essenza di popoli notevolmente lontani, sia a livello geografico che culturale, generando un bacino di pensiero condiviso.
La cristianità, similmente, è un fenomeno non ascrivibile alla sola area europea. Innanzitutto, Yehoshua Ben Yosef, l’individuo che noi conosciamo come Gesù, non era europeo, bensì palestinese; non era cristiano, bensì ebreo. La dottrina religiosa fondata sulle vicende evangeliche si è diffusa sin dai primi secoli del suo sviluppo in gran parte dell’area mediterranea. Se, nonostante le rivelazioni della storiografia, taluni decidessero di portare a limite i propri assunti, giungerebbero alla conclusione — assurda poiché derivante da premesse sostanzialmente errate — che un tedesco e un egiziano, condividendo un certo background storico e culturale, sono similmente europei. Infatti, come ha asserito lo storico Alessandro Barbero, “essere imbevuti di cultura greca, diventare cristiani; erano tutte cose che avevano investito chi abitava in Gallia come chi abitava in Egitto, o chi abitava in Asia Minore. (…) La nascita dei regni romano-barbarici è un fenomeno che riguarda solo l’Europa”.[2] In tal senso, esasperando la ricerca dei tratti esclusivi che ci caratterizzano come europei, la storiografia ci porterebbe a confessare la peggiore delle vergogne: la storia dell’Europa occidentale, ovvero la storia esclusiva di questa piccola parte di mondo, ha origine con le invasioni barbariche e con la conseguente nascita dei regni romano-barbarici. Paradossalmente, i barbari incivili hanno definito la nostra civiltà, aprendo un capitolo di storia esclusivamente europea.
Queste provocazioni non devono certo sconvolgere i fondamenti del nostro senso comune, o portarci a credere che, più che ai filosofi greci e ai predicatori cristiani, dobbiamo la nostra esistenza in quanto europei ad Alarico e ai suoi guerrieri. Piuttosto, ci mostrano che non esistono elementi e tratti socioculturali esclusivamente europei, non esiste una storia esclusivamente europea, non esiste l’europeo in quanto tale e distinto dal non-europeo. Il tema di fondo, che conduce all’assurdità delle nostre conclusioni, è quello dell’identità, un oggetto ambiguo e sdrucciolevole, argomento privilegiato dello studio di molti filosofi e antropologi.
Ai fini della nostra analisi è utile adottare il cosiddetto paradigma contrastivo, concettualizzato dall’antropologo Fredrik Barth[3]. Secondo questa prospettiva teorica, l’identità, da un punto di vista scientifico, non può essere considerata un’essenza, un oggetto reperibile in natura. Piuttosto, essa è una costruzione la cui funzione primaria è quella di marcare una distinzione tra il proprio gruppo sociale e gli altri. Ovvero, l’identità consiste esattamente nei suoi stessi confini, sul crinale dei quali collide con l’alterità. Stando a questa prospettiva, non esiste l’italiano in sé, e non avrebbe senso parlare di italianità in un mondo nel quale la totalità delle terre abitabili corrispondesse alla penisola italica. Invece, esiste l’italiano in quanto distinto dal francese, il padano in quanto distinto dal campano. Queste forme identitarie di carattere contrastivo sono puramente artificiali. Esse sono il prodotto storico di narrazioni, cioè rielaborazioni ordinate di fatti, eventi, tradizioni e idee. Queste ricostruzioni ignorano la reale complessità del mondo, celando i profondi e inestricabili legami storici, sociali e culturali che uniscono un italiano ad un francese, un padano ad un campano e via discorrendo.
Il paradigma contrastivo di Barth aderisce alle identità nazionali per alcune ragioni particolari. In primo luogo, poiché le nazioni, intese come popoli i cui membri condividono etnia, lingua e cultura, sono costruzioni, cioè il risultato di una revisione mitopoietica del passato, che comporta la selezione di alcuni tratti, l’esclusione di altri e la formulazione di una narrazione ordinata e sensata. In secondo luogo, perché l’identità nazionale è per sua natura oppositiva. Essa, infatti, tende a promuovere un’omogeneità culturale interna pressoché totale, discriminando tratti eterogenei, marcando una differenza evidente con le altre nazioni e quindi postulando la naturalità dei confini. Il risultato è la produzione di un carattere nazionale, quindi di un comportamento nazionale. Il cittadino è plasmato dalla nazione ed è indirizzato a perseguire fini nazionali. Il fenomeno politico del nazionalismo, dal punto di vista identitario, sancisce la sopravvenienza del particolare, ovvero ciò che separa e distingue, sull’universale, ciò che accomuna, unisce. Per dirla con Federico Chabod, storico e filosofo italiano, “dire senso di nazionalità, significa dire senso di individualità storica. Si giunge al principio di nazione in quanto si giunge ad affermare il principio di individualità, cioè ad affermare, contro tendenze generalizzanti, il principio del particolare, del singolo.”[4]
L’antropolgo Pietro Scarduelli ha dedicato un brillante volume al tema dell’identità nazionale, cercando di spiegarne il funzionamento facendo ricorso alle categorie classiche della disciplina: “Sia le identità nazionali che la nuova identità europea non sono realtà oggettive ma rappresentazioni collettive, comunità immaginate, manufatti culturali immateriali”.[5] Ciò che Scarduelli suggerisce è che l’impresa di definizione dell’identità politica di un gruppo umano consista in uno sforzo costruttivo collettivo e virtuale. “In questa prospettiva non è rilevante che gli elementi costitutivi della narrazione siano disomogenei o addirittura inconciliabili tra loro (come ad esempio cristianesimo e illuminismo, fede religiosa e razionalità scientifica, impero romano e democrazia rappresentativa). Una narrazione ideologica non deve essere necessariamente coerente: basta che sia convincente. (…) Ogni identità collettiva è per sua natura contrastiva e relazionale, perché per esistere deve differenziarsi.”[6] Le riflessioni dell’antropologo sono illuminanti: esse portano alla luce le contraddizioni insite in ogni tentativo di costruzione identitaria, la sua funzione persuasiva e rappresentativa. Contestualmente, però, esprime una considerazione con la quale faremo i conti nelle prossime righe: “Anche la costruzione dell’immagine dell’Europa non può evitare di ricorrere a questo meccanismo.”[7] Scarduelli, riconoscendo processi poietici molto simili nel confronto tra le identità nazionali e l’identità europea emergente, rivela una sostanziale omologia nella natura immaginifica di tali narrazioni, postulando l’inevitabilità di un fatto: l’identità europea non potrà costruirsi se non attraverso meccanismi sostanzialmente simili a quelli ai quali ricorrono gli Stati nazionali.
Rispetto a quest’ultima affermazione, desidero proporre una tesi alternativa, articolata su due punti.
1) Il concetto di identità europea, a differenza delle identità nazionali che ad essa soggiacciono, è attualmente oggetto di una contesa. Il processo di integrazione europea, infatti, è un’impresa in fieri. Nessuna delle visioni in campo è definitiva; piuttosto, esse collidono, offrendo prospettive e interpretazioni diverse non di ciò che l’Europa è, ma di ciò che dovrà essere.
2) Analizzando i discorsi politici e le prospettive intellettuali, è possibile rintracciare due “paradigmi identitari”, ovvero due modelli di declinazione dell’identità politica (il paradigma nazionale e il paradigma post-nazionale), i quali, se applicati all’idea di Europa, producono rispettivamente due concezioni identitarie, apparentemente distanti tra loro ma in realtà costruite a partire dagli stessi assunti.
Il paradigma identitario nazionale.
Questo paradigma concettuale consiste esattamente nel modello problematico descritto sino a questo punto. L’identità è intesa come un’essenza omogenea. Essa è espressione di un gruppo umano individuato entro confini stabiliti, sostanzialmente omogeneo dal punto di vista storico e culturale, radicalmente distinto dagli altri. Partendo da questi assunti paradigmatici, storicamente si sono sviluppate due concezioni dell’idea di Europa apparentemente antitetiche ma in realtà legate alle medesime premesse.
In primo luogo, la concezione internazionalista. Essa sostiene che l’Europa sia un’espressione geografica e storica. Da un punto di vista politico, non è possibile parlare di Europa se non in termini di relazioni internazionali. L’argomentazione più diffusa tra le fila di coloro che promuovono questa idea è la no-demos thesis, secondo la quale il progetto di integrazione politica non è tanto indesiderabile, quanto impossibile. L’impossibilità fattuale del progetto è determinata dalla mancanza del soggetto costituente, ovvero dalla mancanza del popolo, la nazione europea. Non può esserci progettualità politica in mancanza di un popolo che condivide cultura, lingua, tradizioni e interessi. Tra i più noti sostenitori di questa posizione spicca Charles De Gaulle, il quale, nel corso di una conferenza stampa del 15 maggio 1962, affermò: “Non ci può essere altra Europa che quella degli Stati, tutto il resto è mito, discorsi, sovrastrutture”.[8] Questa concezione presenta una contraddizione in termini logici: riconosce, correttamente, l’inesistenza di un popolo europeo e l’artificiosità di ogni tentativo di costruzione identitaria ex-post. Contestualmente, però, suggerisce, scorrettamente, l’esistenza delle nazioni europee come entità naturali. Se ogni tentativo di definizione identitaria degli europei risulta artificioso, nondimeno lo sono le narrazioni identitarie nazionali.
La seconda prospettiva è quella offerta dalla concezione europeista. Essa, apparentemente antitetica rispetto alla precedente, si fonda sui medesimi assunti paradigmatici: la progettualità politica, anche in questo caso, è legittima solo sulla base dell’esistenza di una presunta nazione naturale. Ciò che cambia è il giudizio in merito all’esistenza del demos europeo: esistono legami culturali che rendono l’Europa tale, ovvero esiste un’Europa pre-politica e gli europei come comunità di destino. Alcide De Gasperi, a mio giudizio uno dei più autorevoli sostenitori di questa prospettiva, durante la Conferenza Parlamentare Europea del 1954, a Parigi, asserì quanto segue: “Io affermo che all’origine di questa civiltà europea si trova il cristianesimo. Non intendo con ciò introdurre alcun criterio confessionale, esclusivo, nell’apprezzamento della nostra ‘storia’. Soltanto voglio parlare del retaggio europeo comune, di quella morale unitaria che esalta la figura e la responsabilità della persona umana, col suo fermento di fraternità evangelica”.[9] Secondo De Gasperi, la legittimità del progetto di integrazione si fonda sulla condivisione di una morale unitaria e sull’origine cristiana della civiltà europea. Questa considerazione, che rimanda alle riflessioni proposte nell’introduzione, è il risultato di una selezione artificiale. La scelta è di carattere mitopoietico, ovvero funzionale alla costruzione di una storia che legittimi l’apparato valoriale e culturale attualmente associato al Vecchio continente.
Il paradigma identitario post-nazionale.
A differenza del paradigma identitario nazionale, e in contrapposizione ad esso, il paradigma post-nazionale si fonda su assunti antitetici. Innanzitutto, tale paradigma presuppone che la nuova struttura materiale del mondo, ovvero l’economia globalizzata, richieda il superamento del sistema nazionale, pensando creativamente ad un nuovo modello. Venendo al punto, se per il paradigma nazionale l’identità è storicamente antecedente rispetto al progetto politico e fonte della sua legittimazione, nel caso del paradigma post-nazionale si ha un’inversione consequenziale: l’esercizio politico e le istituzioni determinano il processo di formazione identitaria. In questo senso l’identità è il risultato di azioni umane, di scelte politiche; non è un’essenza rintracciabile nel passato storico e culturale. All’interno di questo paradigma, a mio giudizio, è possibile individuare due concezioni. Esse non si escludono vicendevolmente, come nel caso del paradigma nazionale, ma la seconda porta a compimento le tesi della prima fino alla dissoluzione del concetto che stiamo trattando. Questa prospettiva nuova segna una rottura con il modello che la precede. Attualmente questo paradigma è largamente citato e diffuso in ambito scientifico, e comincia ad esercitare le prime influenze anche nel dibattito politico, producendo nuove riflessioni per immaginare il futuro.
La prima concezione, che, semplicemente, potremmo definire concezione post-nazionale, sostiene che l’identità politica nasca precisamente nell’esercizio democratico. Ovvero, essa non è fonte di legittimazione di un’impresa politica. Piuttosto, consiste nel prodotto negoziato del rapporto tra le nuove istituzioni e i cittadini che quelle istituzioni rappresentano. In questo senso, la Costituzione europea e l’assetto istituzionale che ne deriverà agiranno come una self-fulfilling prophecy. Rendendo manifesto lo spostamento di potere, la creazione di un’arena politica più ampia e il coinvolgimento di un numero di cittadini maggiore (e non di un popolo naturale o di una nazione) produrrebbero dibattito e attiverebbero processi culturali creativi. I principali sostenitori di questa prospettiva, a mio avviso, sono Jürgen Habermas e Zygmunt Bauman. Sostenendo l’idea per la quale il popolo nasce nell’atto fondativo e cresce con le istituzioni, Bauman, in un passaggio del volume Oltre le nazioni afferma che “La forza di uno Stato costituzionale democratico si basa proprio sulla capacità di creare e ricreare l’integrazione sociale attraverso l’impegno politico dei cittadini. La comunità nazionale non precede la comunità politica, ma è il suo prodotto. (…) Quali che siano le sue radici o la fonte del suo potere, lo stimolo all’integrazione politica, e il fattore necessario affinché progredisca, è la visione condivisa di una missione collettiva”.[10]
La seconda concezione legata alle premesse paradigmatiche post-nazionali è stata sviluppata principalmente nel contesto d’analisi federalista. Il federalismo come teoria sostiene che l’affermazione secondo la quale l’identità corrisponde ad un oggetto monolitico ed uniforme sia una mistificazione operata dalla cultura nazionalista. In linea con l’assetto governativo multilivello caratteristico dello Stato federale, similmente l’identità politica, con il federalismo, subisce un processo di frammentazione e riarticolazione. In tal modo, il lealismo politico si manifesta su gradi differenti, riflettendo le scale di appartenenza a comunità politiche via via più ampie. Un individuo nato a Milano, secondo questa prospettiva, è contestualmente milanese, lombardo, italiano, europeo e cittadino del mondo. I livelli identitari non si escludono, ma sono complementari e coesistenti.
Mario Albertini, filosofo politico pavese e maggiore teorico del federalismo, ha portato a compimento questa scomposizione del concetto sino a giungere alla sua dissoluzione. Albertini affronta la questione in modo rigoroso nel saggio L’identità europea, pubblicato su questa rivista nel 1977. Secondo l’autore, lo Stato nazionale è “uno Stato tale da far credere ai suoi membri che essi costituirebbero un gruppo di uomini naturalmente o essenzialmente diversi da ogni altro uomo”[11] e la relativa cultura “la cultura della divisione del genere umano”. L’Unione europea, in questo senso, è il primo progetto politico mirante a scardinare l’assetto nazionale e a promuovere la cultura dell’unità del genere umano.
In questo progetto, però, Albertini intravede un rischio. La rivoluzione federale del continente europeo sarebbe oggettivamente un fatto culturale in grado di sprigionare nuovi valori politici da offrire al mondo. Il fatto in sé, però, va radicalmente distinto dalla sua prosecuzione istituzionale. Ovvero, la federazione, dopo aver sprigionato per la prima volta nel corso storico la cultura politica post-nazionale dell’unità del genere umano, correrebbe il rischio di istituzionalizzare tale cultura come “cultura europea”, espressione simbolica della nazione europea e della sua identità. Ovvero, per usare le parole dell’autore, “la cultura europea esiste come tale proprio perché, con la cultura politica della divisione del genere umano, l’Europa presenta la cultura universale, che è giunta al primo compimento nel suo seno, come una cultura separata, come la sua cultura (…). Non ci sarebbe più la cultura europea — questo presentare come europea la cultura universale — ma ci sarebbe, naturalmente, lo Stato europeo (…); e, con lo Stato europeo, il cittadino europeo, l’identità sociale europea (ancora un affermare alcuni e negare altri).”[12]
Precisando che Albertini intende il concetto di cultura come cultura politica, ovvero la cultura “riferita ai criteri di comportamento che compaiono con i grandi episodi storici”, la contraddizione che l’autore rileva è illuminante: il progetto di integrazione, portatore di un nuovo modo di intendere la cultura e l’identità politica, corre il rischio di disattivare la portata rivoluzionaria se, istituzionalizzandosi, cristallizzerà i nuovi valori in una forma esclusiva. “Ciò equivale a dire che il contrasto che si manifesta sempre tra un ‘fatto culturale’ e il potere che gli succede (così la rivoluzione francese, quella sovietica, ecc.) sarebbe attivo non solo nella sfera dell’ideale puro, ma anche in quella dell’ideale politico, mirante ormai alla riunificazione degli uomini, al riconoscimento politico di tutti gli uomini.”[13] In tal senso, ciò che noi definiamo “identità europea”, se realmente crediamo che il progetto di integrazione debba essere non solamente il processo di istituzione di una nuova superpotenza ma il fatto rivoluzionario che porterà al superamento del sistema nazionale, dovrà essere intesa come un concetto transitorio, inserita in un processo trasformativo che necessariamente porterà alla sua dissoluzione. “Così, dopo aver tolto di mezzo, con il superamento della cultura politica della divisione del genere umano, la base stessa della presentazione europea della cultura umana, cioè dopo aver soppresso la cultura europea per realizzarla come cultura universale, l’Europa si troverebbe di fronte al compito di sopprimere sé stessa per realizzarsi nel mondo. Questo mi pare il senso dell’affermazione secondo la quale la federazione europea aprirà la via alla federazione mondiale. E questo a me pare il senso dell’identità europea: l’europeo in conflitto con il suo essere sociale per diventare, con gli altri, ciò che è, un uomo.”[14]
Conclusione.
Il federalismo è una prospettiva politica dalla portata rivoluzionaria. Tale teoria, infatti, non si limita a suggerire soluzioni di carattere amministrativo, connotazione che invece ha assunto nel senso comune e nei discorsi ordinari. Quando si parla di federalismo si considera un oggetto con una massa critica ben maggiore; tanto che alcuni autori lo definiscono non semplicemente una teoria, ma una ideologia, ovvero un sistema complesso di idee per interpretare il mondo e gestire il corso storico.
Il federalismo è rivoluzionario poiché esso intacca direttamente il cuore dello status quo, dell’ideologia nazionalista e del sistema nazionale: la sovranità. Se per lo Stato nazionale la sovranità è un fatto monolitico, indivisibile se non in termini funzionali secondo l’articolazione classica dei poteri (esecutivo-legislativo-giudiziario), il federalismo mette in luce l’idiosincrasia che emerge quando il modello nazionale si confronta con la datità del mondo globalizzato. La complessità con la quale gli Stati si confrontano, infatti, richiede nuove forme di governo, articolate su più livelli. Così il federalismo fa a pezzi il cuore dello Stato nazionale, la sovranità, scomponendola e riorganizzandola. Ciò avviene non semplicemente per una naturale avversione; il federalismo è piuttosto una teoria critica, ovvero non si limita a proporre una battaglia di idee e valori, ma, mettendo in luce le contraddizioni della realtà, rivela le storture insite in essa e le trasformazioni necessarie a cui gli Stati dovranno sottoporsi, se non vorranno essere travolti dagli eventi. Come per il marxismo teorico la rivoluzione socialista non è semplicemente un obbiettivo politico ma una necessità storica, così per il federalismo la rivoluzione federale è un passaggio trasformativo che la stessa struttura materiale del mondo reclama.
L’identità monolitica e uniforme tipica dello Stato nazionale è il corollario diretto dell’idea monolitica di sovranità. Non può che esistere uno Stato, un potere, una nazione, un popolo, una lingua e via discorrendo. Infrangendo il mito della sovranità monolitica, una stortura della nostra epoca, il federalismo infrange l’identità nazionale, anch’essa una stortura, dissolvendo il concetto e ristrutturandolo in termini post-nazionali. Anche in questo caso, non si tratta semplicemente di uno scontro valoriale, ma di risolvere “la contraddizione fondamentale del nostro tempo”, che “non sta più nei conflitti di classe, ceto o potere all’interno delle nazioni — ma sta invece e proprio nella divisione del genere umano, che mantiene l’ineguale distribuzione del potere e della ricchezza fra i popoli (gli Stati) e impedisce il governo razionale del mondo.”[15]
[1] Alfred North Whitehead, Process and Reality, New York, Free Press, 1979, p.39.
[2] Citazione tratta da una conferenza dello storico Alessandro Barbero dal titolo Ai confini dell’Europa: da Adrianopoli a Poitiers tenuta a Matera il 9 febbraio 2019 nel quadro del ciclo Future Digs, Lezioni di storia. Oltre i confini, https://www.youtube.com/watch?v=2ZVbKnrZI40.
[3] Per approfondimenti, consultare: Fredrik Barth, Ethnic Groups and Boundaries, Boston, Little, Brown, 1969.
[4] Federico Chabod, L’idea di Nazione, Bari, Editori Laterza, 1999, p. 17.
[5] Pietro Scarduelli, Antropologia del Nazionalismo. Stati Uniti, Unione europea, Russia, Sesto San Giovanni (MI), Mimesis Edizioni/Antropologia Oggi, 2017, p. 36.
[6] Ibidem, pp. 38-40.
[7] Ibidem, p. 40.
[8] Affermazione di Charles de Gaulle durante una conferenza stampa (Palazzo dell’Eliseo, Parigi, 15 maggio 1962). “Il ne peut pas y avoir d’autre Europe possible que celle des États, en dehors naturellement des mythes, des fictions, des parades.” https://fresques.ina.fr/de-gaulle/fiche-media/Gaulle00078/conference-de-presse-du-15-mai-1962-questions-europeennes.html.
[9] Citazione tratta dal discorso di Alcide De Gasperi alla Conferenza Parlamentare Europea del 21 Aprile 1954, http://www.francescoocchetta.it/wordpress/?p=44568.
[10] Zygmunt Bauman, Oltre le Nazioni. L’Europa tra sovranità e solidarietà, Editori Laterza, Bari, 2019, p. 16.
[11] Mario Albertini, L’identità europea, Il Federalista, Rivista di Politica, 19 (1977), n. 2, pp. 75-83, https://www.thefederalist.eu/site/index.php/it/?option=com_content&view=article&id=827&catid=62&lang=it-IT.
[12] Ibidem.
[13] Ibidem.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.