Anno LXI, 2019, Numero 1-2, Pagina 10
Tutela della concorrenza
e politica industriale europea
FABIO MASINI
Premessa.
La negata autorizzazione, lo scorso 5 febbraio, alla fusione tra Alstom e Siemens, i due colossi francese e tedesco dell’alta velocità, da parte del Commissario danese alla concorrenza Margrethe Vestager suggerisce qualche riflessione. Se da un lato si tratta di una decisione ineccepibile, secondo le logiche del diritto dell’Unione Europea (che prevede una competenza esclusiva per la regolazione della concorrenza sul mercato europeo, volta a tutelare i cittadini contro abusi di posizioni di monopolio), essa appare allo stesso tempo paradossale, in un mercato globale ben più ampio di quello del Vecchio Continente.
Da qui nasce una questione che diventa sempre più ineludibile per le prospettive di lungo periodo dell’economia europea: è ancora possibile, oggi, avere una visione del mercato limitata alla sola dimensione continentale e, sulla base di essa, impedire la formazione di colossi produttivi e finanziari in grado di competere sul mercato mondiale? Se da un lato la Commissione ha, infatti, con questa decisione, tutelato il diritto del cittadino europeo a difendersi da un potenziale monopolio, ha anche indubbiamente danneggiato le prospettive competitive globali di un’industria europea. Due obiettivi che non possono essere messi in contrapposizione; ma che devono trovare una sintesi in grado, allo stesso tempo, di garantire i cittadini europei e la capacità competitiva globale delle imprese.
In sintesi, si tratta di comprendere come promuovere – accanto alla difesa, ‘costituzionalmente’ sancita nei Trattati, della concorrenza come garante della libertà ed equità degli scambi – una vera e propria politica industriale europea. Per illustrare il problema, ho ritenuto di articolare la riflessione su tre aspetti, fra loro interconnessi: le ragioni teoriche della politica europea a favore della concorrenza (primo paragrafo) e la sua evoluzione storica (secondo paragrafo); le prospettive multi-livello della politica industriale, o più semplicemente dello sviluppo (terzo paragrafo); il nodo istituzionale, che si risolve in quale sia l’assetto istituzionale o di leadership tale da poter portare avanti un disegno strategico unitario di sviluppo europeo (quarto paragrafo).
1. Politica antitrust europea: le ragioni teoriche.
La politica a tutela di un mercato concorrenziale in Europa risale ai Trattati di Roma del 1957; diventa poi materia di competenza esclusiva della Commissione UE nel 1990, in vista dell’avvio del mercato unico europeo; e si arricchisce di nuovi regolamenti nel 2003 e 2004.
La sua ratio economica è evidente: la tutela di una forma di mercato concorrenziale, o il più possibile lontana da forme di monopolio o oligopolio collusivo, difende i consumatori, che si troverebbero altrimenti ad acquistare un bene o servizio in una posizione d’inferiorità negoziale nei confronti del venditore (o dei pochi venditori). Quando infatti ci si discosta da quella che nei manuali di microeconomia è denominata concorrenza perfetta, le imprese possono fissare il prezzo ad un livello superiore rispetto al costo medio di lungo periodo, realizzando un extraprofitto a spese degli acquirenti.
Nella realtà, la concorrenza perfetta non esiste. Essa presuppone, infatti, prodotti perfettamente omogenei, ossia identici anche nella percezione dei consumatori; il che non avviene mai. Quando acquisto un dentifricio, per quanto abbiano tutti la stessa funzione, tenderò ad avere un comportamento inerziale (acquistando quello comprato in precedenza, se mi sono trovato bene) o orientato dal marketing (mi lascio convincere che i micro-granuli, poniamo, siano più efficaci; che un tal dentifricio lasci l’alito più fresco degli altri; ecc.), non basato semplicemente sul prezzo più basso.
L’idea, direi virtuale, di concorrenza perfetta lascia così spazio a quella che è la vera forma dominante di mercato, la concorrenza monopolistica, nella quale ciascun produttore riesce a comportarsi quasi come un monopolista nella propria nicchia del più ampio mercato di un prodotto, senza per questo che vi siano barriere all’ingresso di nuove imprese. Ad esempio, se ho inventato e brevettato un dentifricio coi micro-granuli, in quella specifica nicchia sarò monopolista (tutelato dal brevetto), anche se il mercato dei dentifrici rimane ampio ed aperto: i consumatori possono sempre decidere di smettere di acquistare il dentifricio ai micro-granuli e cambiare tipologia/marca.
La concorrenza monopolistica è alla base dell’economia capitalistica moderna, perché consente lo sfruttamento dell’innovazione per realizzare extraprofitti temporanei, tali da remunerare gli sforzi in ricerca e sviluppo, oltre che le spese di promozione del prodotto. Per quanto estremamente subdola e difficilmente riconoscibile dal consumatore medio, essa non può essere eliminata né facilmente regolamentata. Al contrario di quanto accade col monopolio (che può essere individuato e sanzionato in maniera ragionevolmente semplice), col quale il venditore, unico sul mercato, può fissare liberamente il prezzo di vendita e la quantità prodotta al fine di realizzare il massimo profitto, a scapito della collettività.
Questa la ragione per la quale un’efficace politica di contrasto alla formazione e abuso di posizioni dominanti è una competenza strategica. E la Commissione europea, che (giustamente) la esercita in maniera esclusiva per l’intero mercato unico europeo, è garanzia di rispetto delle posizioni degli agenti più deboli sul mercato, ossia i consumatori.
Questa breve digressione teorica è funzionale a comprendere sia le ragioni della tutela della concorrenza, sia quelle che indirizzano verso una politica a favore della promozione della competitività, soprattutto in alcuni settori, nei quali i costi fissi (impianti, ricerca) e le economie di scala sono rilevanti. Non è detto insomma che la competitività di un’impresa sia coerente con il mantenimento della concorrenza nel suo settore. Come abbiamo osservato, anzi, livelli di competitività più elevati (derivanti dall’utilizzo di extraprofitti in attività di ricerca, sviluppo e innovazione) si associano solitamente a deformazioni del mercato di concorrenza.
Se quindi la concorrenza, che pure non esiste nella sua forma manualistica, è un bene pubblico da tutelare, anche la competitività, intesa come capacità di una o più imprese di attrezzarsi, organizzarsi e magari fondersi per reggere sul mercato la concorrenza di altre imprese, può essere considerata un bene pubblico da tutelare; anche secondo indirizzi ideologici teoricamente orientati a lasciare che il mercato sia il supremo regolatore dei vincitori e dei vinti, senza alcuna interferenza statale. Persino gli economisti liberali dell’Ottocento sottolineavano, ad esempio, l’importanza di supportare le industrie nascenti col sostegno pubblico per attrezzarsi a competere sul mercato. Così come il neoliberalismo imperante negli ultimi decenni ha sistematicamente promosso la deregolamentazione dei mercati e la privatizzazione degli asset pubblici come strumento di lotta (hobbesiana, senza regole) sul mercato, dove non vince chi è più competitivo, ma chi è meglio attrezzato (ossia più forte: con un più ampio sistema di relazioni economiche e politiche, con maggiori disponibilità finanziarie per realizzare il marketing-mix desiderato, ecc.).
Il problema, delicato, è che non è semplice distinguere fra un intervento conforme a questa necessità di attrezzare una o più imprese alla competitività ed una violazione, da sanzionare, della concorrenza. Nel dicembre 2018, ad esempio, la Commissione UE aveva giudicato conforme alla normativa contro gli aiuti di Stato il progetto di Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna per sostenere la ricerca e l’innovazione nel settore della microelettronica, in quanto ritenuta “key enabling technology”.[1]
Una scelta condivisibile per un settore che appare obiettivamente strategico, ma che fa sorgere qualche ulteriore dubbio sul perché il settore dei vettori e delle infrastrutture ad alta velocità debba essere invece considerato meno strategico, soprattutto nell’ottica di un mercato globale dell’alta velocità. Il mercato delle infrastrutture e dei vettori ad alta velocità è infatti mondiale. Ogni paese cerca di dotarsi di tali linee e si rivolge quindi a chi è in grado di fornire le garanzie migliori, che spesso (anche se non sempre) dipendono dalla capacità di fare massa critica, ottimizzando le risorse in ricerca e sviluppo (decisive per la sopravvivenza in quel settore), produzione, commercializzazione.
Per evitare una contrapposizione fra due obiettivi entrambi importanti, si potrebbe pensare a fornire incentivi economico-fiscali alle imprese che dimostrino di investire nella ricerca e sviluppo sulla frontiera delle possibilità tecnologiche, restituendo in tal modo – sotto forma di capacità competitiva collettiva – quello che le imprese si trovano a raccogliere in termini di extraprofitti dalle tasche dei consumatori, grazie magari a forme di mercato non perfettamente concorrenziali. In questa logica, può essere che la fusione Alstom-Siemens avrebbe potuto essere accettata.
2. Politica antitrust europea: le influenze intellettuali.
Accennavamo prima ad un altro fattore che occorre tener presente nella valutazione dell’attuale assetto di policy della UE sulla concorrenza e sulle sue prospettive future: l’influenza esercitata sul processo storico d’integrazione europea dal rapporto di forze (culturali, ma anche ideologiche e politiche) fra l’interventismo francese e l’ordoliberalismo tedesco, quest’ultimo volto a creare le condizioni costituzionali di un ordine economico in cui lo Stato, o comunque il potere pubblico, si fa garante della concorrenza come requisito di giustizia nei rapporti economici e sociali.
Negli anni dei negoziati per la formazione del Mercato Comune, ma anche nei decenni successivi e fino ai nostri giorni, si sono sempre confrontate in Europa queste due matrici culturali diverse, per molti versi opposte, rispetto al rapporto fra mercati e poteri pubblici. I francesi si sono impegnati ad affermare un ruolo positivo delle autorità pubbliche nel mercato, fino a cercare di trasferire a livello europeo prerogative tipiche della statualità nazionale (come già tentò di fare Marjolin, negli anni Cinquanta, in qualità di Commissario agli Affari economici e monetari). Tanto che la loro preminenza nelle politiche europee degli anni Sessanta si riflette in una politica industriale europea improntata a “promoting the creation of firms large enough to compete with the giants of the US”,[2] che farà registrare un vero e proprio boom delle fusioni, favorito da legislazioni antitrust frammentate a livello nazionale. Inoltre, “as a consequence of this fragmentation of the internal market, aggregate concentration developed without any similar increase in competition. The merger wave led to the creation of big national champions enjoying substantial market power”.[3] È in questa seconda fase che prevale l’orientamento tedesco, volto a promuovere un esercizio negativo delle prerogative statuali sull’economia, quindi primariamente a difendere la concorrenza come cornice essenziale allo svolgimento corretto ed equo dei meccanismi di scambio. In questa direzione ci si avvia con l’Atto Unico.
Nonostante il nuovo approccio d’impronta ordoliberale, nei primissimi anni Novanta sopravviveva ancora l’ipotesi di dare all’Europa delle competenze positive in ordine alla politica industriale. Il Libro bianco di Delors del 1993 su Crescita, competitività, occupazione era esattamente il tentativo (probabilmente già tardivo) di individuare e promuovere settori strategici d’investimento a livello europeo per meglio resistere ad una competitività globale che si preannunciava sempre più ampia ed agguerrita. Come è noto, il documento venne accantonato e la politica industriale europea si ridusse alla sola politica di tutela della concorrenza sul mercato unico europeo. Che ha dato eccellenti frutti, difendendo il cittadino-consumatore dagli abusi di potenziali posizioni di oligopolio e monopolio; ma che non può essere considerata una politica industriale. Una vera politica industriale si deve porre il problema di fornire, a ciascun livello del mercato di riferimento per ciascun settore produttivo, un quadro strategico e gli strumenti normativi per meglio essere attrezzati nella concorrenza, che può anchenon essere continentale, ma globale. E qui veniamo al tema della precisazione, per niente semplice, del concetto di mercato di riferimento.
3. Mercati, istituzioni e politiche multi-livello.
Qual è la dimensione del mercato? Sembra una domanda banale, ma è molto più complessa di quanto possa apparire. Consideriamo qualche esempio concreto. Immaginiamo il mercato delle mele. Quelle prodotte (raccolte) localmente, su scala ridotta, probabilmente avranno un mercato di sbocco locale, magari su base rionale o comunale. Quelle coltivate, raccolte e distribuite da grandi consorzi (si pensi alla Val di Non, in Trentino) hanno come riferimento un mercato nazionale e perfino transnazionale. Un innovativo produttore di scale retrattili di design ha iniziato qualche anno fa vendendo localmente in una zona sperduta dell’Australia, per poi divenire un monopolista globale del settore grazie alla creatività del suo design, ai materiali che utilizza e alla delocalizzazione di nuovi impianti produttivi per la produzione e distribuzione in tutto il mondo. Grazie alle piattaforme digitali oggi esistenti, un produttore di torrone del Gennargentu, abituato al mercato fieristico locale, si è trovato improvvisamente a dover far fronte ad ordini provenienti da ogni parte del mondo.
Il mercato è quindi un concetto in continua evoluzione, riferibile a ciascuno specifico prodotto in una particolare coordinata spazio-temporale (che è anch’essa in continua evoluzione). Dipende dal rapporto fra i costi fissi e quelli variabili (che mutano la scala efficiente minima di produzione, influenzando quindi la dimensione ottimale del mercato), dal tipo di produttore e dalla sua organizzazione, dalle risposte degli acquirenti, dalla capacità di marketing e da tanti altri fattori. Quello che è certo è che, al giorno d’oggi, se è vero che i mercati continuano ad essere segmentati ed articolati in maniera concentrica, a partire da quelli locali, il mercato potenziale, per ciascun prodotto, è quello mondiale.
Un mercato non può funzionare senza qualche istituzione che ne fissi le regole e le faccia rispettare. All’interno di ciascuno Stato, il mercato è regolato dalle istituzioni nazionali, escluso il caso dell’Unione europea, dove questa competenza è stata trasferita in via esclusiva alla UE. A livello internazionale, accordi multilaterali cercano di replicare la capacità di regolamentazione e di enforcement delle regole degli ordinamenti statali. Con qualche successo; e inevitabili insuccessi.
Un’efficace strategia di sviluppo non può non tener conto, quindi, della dimensione multilivello, da quella locale a quella globale, dei mercati. E della conseguente necessità di abbracciare, in Europa, una governance multilivello: una politica industriale non più essere condotta, oggi, a livello meramente nazionale. La si può perseguire in alcuni settori; come in alcuni settori si possono e si dovrebbero fare politiche industriali (o meglio perseguire strategie di sviluppo) locali. Ma in un mercato globale, sul quale si confrontano competitors di dimensione colossale (soprattutto in ambito digitale) come Amazon, Google, Alibaba, Apple, Microsoft, ma anche in altri ambiti (Nestlé, Wal-mart, Coca-Cola, JPMorgan, ecc.), non può mancare una politica industriale europea.
Il Progetto Galileo, che è stato lasciato languire per decenni, doveva essere una risposta a questa esigenza. Il progetto Airbus, per contrastare la concorrenza Boeing, aveva lo stesso fine. Comminare multe a Google per abuso di posizione dominante, come ha fatto la Commissione UE lo scorso anno, è stato un grande risultato per il cittadino europeo. Ma lo sarebbe ancora di più se fosse il preludio alla creazione di un polo di ricerca e sviluppo di piattaforme digitali in Europa, in grado da confrontarsi alla pari coi colossi americani e quelli emergenti cinesi e russi.
Insomma, le industrie strategiche per lo sviluppo devono poter diventare competitive, anche se questo conduce alla formazione di monopoli. Dovrebbe essere poi cura degli organi politici della UE intervenire per regolamentare quei monopoli sul mercato interno e compensare i consumatori delle perdite eventualmente subite, in modo (magari, ma è solo una delle possibili ipotesi) da ripristinare le condizioni che si verrebbero a delineare se fosse presente un mercato interno concorrenziale.
In sintesi, mettere in campo tutte le difese giuridiche per tutelare il cittadino europeo dagli abusi delle posizioni di monopolio non può e non deve aver nulla a che fare con la necessità di creare poli produttivi, finanziari e di ricerca a tutti i livelli ai quali, in ciascun settore, il mercato di riferimento lo impone; naturalmente in un’ottica sinergica e sistemica. Ripensare ed attuare dei precisi indirizzi di politica industriale anche a livello nazionale non deve essere in contrasto con una politica industriale europea. Ciò significa, concretamente, ripensare l’intero sviluppo economico europeo cercando di privilegiare i vantaggi competitivi di ciascun paese e di ciascun ambito territoriale, in modo da armonizzarli rispetto ad una visione coerente e complessiva del posizionamento strategico dell’industria europea. Una visione sistemica e multi-livello dello sviluppo, come dicevamo, che tuttavia può essere adottata evitando conflitti d’interesse solo se tutti i paesi europei potranno sedersi al tavolo della sua definizione; il che ci porta ad affrontare il tema istituzionale.
4. Il nodo istituzionale.
All’indomani della decisione negativa della Commissione sulla fusione Alstom-Siemens, i Ministri delle Finanze di Francia e Germania hanno reagito segnalando l’esigenza di mettere in discussione l’attuale politica UE sulla concorrenza. L’argomentazione è basata sulle stesse ragioni indicate qui a favore di una visione del mercato globale come quello di riferimento per alcuni settori produttivi. E si sono poi mossi di conseguenza, concordando il testo per A Franco-German Manifesto for a European industrial policy fit for the 21st Century.[4]
Riconoscendo l’aspetto rivoluzionario dell’era digitale, il documento chiede con forza una politica industriale europea “to enable Europe to compete on the global stage and the development of long-term industrial strategies”, basata sulla condivisione di “funding, skills, and expertise”. Difficile negare la legittimità – ed anche la sensatezza – di queste istanze. Così come sono legittime e sensate le richieste sul primo dei tre pilastri della proposta, mentre sugli altri due le opinioni saranno necessariamente controverse.
Il primo punto suggerisce l’esigenza di un massiccio investimento collettivo nell’innovazione, soprattutto nell’intelligenza artificiale, senza la quale l’industria europea non è in grado di posizionarsi sulla frontiera delle possibilità produttive. Un investimento che richiede la creazione di un fondo ad hoc (non essendo probabilmente ritenuto sufficiente lo European Fund for Strategic Investments), capace di mobilitare risorse private e pubbliche, e mercati finanziari adeguati alle necessità di settori con elevati rischi, che richiedono un orizzonte temporale di medio-lungo periodo.
Il secondo punto, la cui analisi combacia perfettamente con quanto detto nei paragrafi precedenti, è assumere un’ottica di mercato competitivo globale. Questo il ragionamento: “Despite our best efforts, which we must pursue, there is no regulatory global level playing field. And there won’t be one any time soon. This puts European companies at a massive disadvantage. When some countries heavily subsidize their own companies, how can companies operating mainly in Europe compete fairly? Of course, we must continue to argue for a fairer and more effective global level playing field, but in the meantime, we need to ensure our companies can actually grow and compete”.[5]
Sulla parte di policy, invece, occorre a mio avviso maggiore cautela; per agire, secondo Francia e Germania, occorrerebbe modificare la normativa sugli aiuti di Stato, in particolare se orientati alla formazione di conglomerati europei; così come occorre rivedere i criteri per la valutazione delle fusioni. Insomma, servirebbe di fatto indebolire la politica antitrust finora portata avanti dalla Commissione, il che ci pare estremamente pericoloso.
Ancora meno agevolmente condivisibile è il richiamo del terzo pilastro: quello alla protezione delle industrie europee. Pur ribadendo la necessità di difendere il multilateralismo e l’apertura dei mercati, le indicazioni vanno chiaramente nella direzione di proteggere la formazione ed il consolidamento di settori ed imprese europee. Adattarsi ad un clima di crescente protezionismo globale può essere una facile tentazione. Ma l’Europa ha un modello produttivo e competitivo fortemente legato alla trasformazione, quindi di per sé necessariamente aperto (ci occorrono importazioni per creare valore aggiunto da realizzare tramite la trasformazione e l’export). Non ci pare quindi che rendere eccessivamente esplicito questo indirizzo di politica commerciale de facto protezionista sia una mossa intelligente.
Al di là della valutazione sui singoli aspetti del documento, esso ha un indubbio merito: portare all’attenzione del dibattito pubblico gli obiettivi collegiali della UE e rilanciare un’idea di politica industriale che si accompagni a quella della concorrenza. Il problema è capire semmai chi se ne farà carico: se la Commissione, seguendo una strada collegiale a 28 (27?) o se un’avanguardia di paesi attorno a Francia e Germania. Più in generale, non limitata cioè alla sola politica industriale, la questione che emerge è se sia ancora possibile avere o meno un’Europa a trazione comunitaria.
Francia e Germania, come ha dimostrato il rinnovato impegno sottoscritto col Trattato di Aquisgrana, spingono apparentemente per procedere oltre nell’integrazione europea; ed intendono farlo con una regia intergovernativa, non col metodo comunitario (o indipendentemente da esso). È un paradosso interessante, perché il metodo comunitario teoricamente dovrebbe essere più efficiente e democraticamente legittimato a compiere scelte collettive europee, rispetto a quello intergovernativo. Ma è anche vero che procedere a 28 (o a 27, vedremo a breve) verso una maggiore integrazione è praticamente impossibile in un contesto decisionale in cui l’unanimità è ancora la regola principale di scelta collettiva sulle questioni più importanti (a parte qualche eccezione, comunque di non poco conto, come dimostrano i successi dell’EFSI). Legittimo quindi (nella prospettiva di una più agguerrita politica europea) che due grandi paesi cerchino di forzare la mano a Bruxelles su una strategia condivisa di posizionamento produttivo sul mercato competitivo globale.
Può darsi che l’Europa comunitaria sia arrivata al capolinea, soprattutto se con le prossime elezioni europee si dovesse palesare una maggioranza che per rimanere in piedi è costretta a strizzare l’occhio ai nazional-sovranisti. Ma anche i governi, finora, non hanno dato davvero prova di voler procedere verso una maggiore condivisione della sovranità. La domanda che si apre con questa vicenda è allora se Francia e Germania, senza le quali indubbiamente nessun avanzamento del processo d’integrazione europea è possibile, saranno in grado di trainare un nucleo di paesi in una sorta di avanguardia che rinnovi lo spirito di condivisione della sovranità che aveva portato negli anni Cinquanta ai primi passi delle comunità europee, piuttosto che portare avanti una logica semplicemente intergovernativa.
Storicamente, l’Italia ha sempre dato un contributo cruciale per consentire di individuare i compromessi necessari al motore franco tedesco di trovare un’iniziativa cantierabile per compiere un salto nell’integrazione europea. L’assenza dell’Italia non solo dai negoziati, ma anche dalle discussioni fra i due paesi (anche in altri ambiti, si pensi al tema della riforma della governance economica europea, che pure è per noi più che per Francia e Germania essenziale), non solo tiene fuori il paese dai dossier che contano, ma rischia di risolversi in una pericolosissima mediazione mancata, che può contribuire al mantenimento dello status quo (che ci penalizza) e all’indebolimento della formazione di un nucleo strategico più coeso e genuinamente sovranazionale in Europa. In questo senso, il governo italiano (che negli ultimi mesi ha platealmente ostentato l’interesse a voler smantellare proprio l’idea di una maggiore condivisione della sovranità come elemento fondante dell’integrazione europea) fa benissimo a prendere le distanze dai due alleati storici; il problema è che lo fa contro gli interessi degli italiani.
Considerazioni conclusive.
La politica di difesa della concorrenza, faticosamente acquisita nel tempo dalla Commissione UE, volta a difendere il mercato unico ed il cittadino europeo da abusi derivanti da posizioni dominanti, è una competenza preziosa, che deve essere salvaguardata.
Naturalmente, non le si può chiedere di agire in una più ampia logica di promozione della competitività (così come non si promuove la crescita con la sola politica monetaria). Non si fa politica industriale semplicemente difendendo la concorrenza; o meglio, la si fa solo in negativo. Soprattutto se le imprese europee sono poi costrette a competere su un mercato mondiale dove lo scontro è con colossi che si muovono in modo decisamente più spregiudicato, dove nessuna autorità si fa garante delle regole di salvaguardia della concorrenza.
Insomma, la politica industriale è complessa, e non la si persegue semplicemente difendendo una forma di mercato concorrenziale a livello continentale, ma promuovendo la competitività sul mercato globale. Questo quadro suggerisce due osservazioni.
La prima è che chi cerca di porre in contrapposizione questi due obiettivi, rende un pessimo servizio alla causa europea. Si tratta di due competenze entrambe strategiche e di natura diversa, per molti versi complementari: una sostanzialmente di natura arbitrale, l’altra di indirizzo politico-strategico. È quindi possibile, oltre che doveroso, realizzarle congiuntamente.
La seconda osservazione, che segue dalla precedente, riflette la crescente consapevolezza che sia venuto il momento per la UE di affiancare alla sacrosanta competenza esclusiva della Commissione in materia di difesa della concorrenza, una competenza anche nella promozione di una strategia produttiva per alcuni settori chiave dell’economia europea.
Si tratta tuttavia di una scelta che richiede una qualche forma di statualità, di capacità di esprimere un indirizzo strategico collettivamente condiviso e sostenuto; il che pone un serio problema istituzionale. Come si può immaginare di arrivare a questo obiettivo e chi potrebbe portarlo avanti? In un’ottica federalista, che è quella che assumiamo in questa sede, qualsiasi mossa tale da avvicinare alcuni paesi dell’Unione Europea ad un soggetto democraticamente legittimato e capace di assumere decisioni strategiche collettive, nell’ottica di condivisione della sovranità, deve essere salutata con entusiasmo.
In questa logica, entrambe le soluzioni prospettate (quella comunitaria e quella intergovernativa) sono al tempo stesso ricche di promesse ma anche insidiose. Sul lato intergovernativo verrebbe a mancare quella legittimità democratica che rischia di allontanare sempre più i cittadini dalle scelte compiute in sede europea; il che, in questo preciso momento, costituisce un serio rischio di ulteriore indebolimento della credibilità delle istituzioni e delle politiche europee. Sul lato comunitario, il pericolo maggiore è l’impasse.
In sintesi: qualsiasi cosa dimostri ai cittadini che una politica è più efficace se perseguita a livello europeo piuttosto che nazionale è utile a promuovere la causa del federalismo; quindi, ben vengano due strategie, apparentemente o artificiosamente contrapposte e in concorrenza fra loro, per l’avanzamento di una politica industriale europea. Sempre che l’esito di questo confronto non vada a costituire l’ennesimo pretesto per non cambiare nulla.
[1] European Commission, Press Release, December 18, 2018: http://europa.eu/rapid/press-release_IP-18-6862_en.htm.
[2] Elizabeth De Gellinck, European Industrial Policy against the background of the single European act, in Peter Coffey (ed.) Main Economic Policy Areas of the EEC. Toward 1992, Dordrecht, Kluwer Academic Publishers, 1990, pp. 125-156. Vedi p. 127.
[3] Ibid., p. 129.
[4] Anche la lettera di Macron Per un Rinascimento europeo allude ad una necessità analoga: https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2019/03/04/per-un-rinascimento-europeo.it.
[5] https://www.bmwi.de/Redaktion/DE/Downloads/F/franco-german-manifsto-for-a- european-industrial-policy.pdf?__blob=publicationFile&v=2.