Anno XXXIII, 1991, Numero 1 - Pagina 9
Considerazioni sulla Comunità europea e il nuovo ordine mondiale
LUCIO LEVI
I cambiamenti rivoluzionari che si susseguono con crescente accelerazione (la perestrojka in URSS, il crollo dei regimi comunisti, l’unificazione tedesca, la fine della guerra fredda) stanno erodendo il vecchio ordine mondiale formatosi dopo la seconda guerra mondiale. Ma un nuovo ordine non si è ancora affermato. La guerra del Golfo è infatti espressione della crisi del vecchio ordine bipolare e, nello stesso tempo, della mancanza di un nuovo ordine. Essa sgombra il campo dall’illusione di un progresso ormai acquisito verso un ordine mondiale pacifico. E segna la sconfitta dei due soggetti politici (la CEE e l’ONU), che hanno perseguito il disegno di una soluzione negoziale del conflitto. Tuttavia il loro ruolo mette in evidenza il punto sul quale bisogna far leva per far nascere un nuovo ordine mondiale, che faccia prevalere la forza del diritto su quella delle armi.
I complessi problemi della transizione dal vecchio al nuovo ordine esigono che ci si interroghi sui caratteri e sulle tendenze della politica mondiale. Infatti, se collocati in questo contesto, gli stessi lineamenti del disegno politico dell’unificazione europea assumono un significato nuovo. Nella nuova era che si è aperta dopo la fine della guerra fredda, la Federazione europea non si presenta più come un terzo polo nel sistema mondiale degli Stati, ma piuttosto come il primo passo sulla via della Federazione mondiale. In altri termini, la funzione storica universale della Federazione europea è dimostrare che è cominciata l’era del federalismo nel mondo.
D’altra parte, la fase costituente del nuovo ordine mondiale erode le vecchie istituzioni della guerra fredda (come la NATO e il Patto di Varsavia) e ne sviluppa altre (come l’ONU e la CSCE) più adeguate a soddisfare i bisogni di cooperazione e di solidarietà di un mondo sempre più strettamente interdipendente. L’affermazione del nuovo ordine mondiale implica dunque la ridefinizione del ruolo di tutte le organizzazioni internazionali e delle loro relazioni. Per avere un orientamento nella nuova era, bisogna collocare la costruzione dell’unità europea nell’evoluzione della politica mondiale, prendendo in considerazione il ruolo che la Comunità europea può assumere nell’indirizzare la marcia del mondo verso l’unità.
La Comunità europea come modello e polo di attrazione.
La Comunità europea costituisce la punta più avanzata dei processi di integrazione in corso nell’economia mondiale. Attorno al nucleo centrale della Comunità si è formata una costellazione di paesi dell’Est e del Sud, i quali ricercano in questa istituzione la via per entrare nel mercato mondiale. Attraverso diverse forme di aggregazione più o meno serrate a seconda delle necessità, lungo una scala che va dalla cooperazione, all’associazione, all’adesione, la Comunità ha creato delle istituzioni che le hanno permesso di stringere dei legami economici con tutto il mondo. Essa costituisce quindi il nucleo del processo di unificazione dell’economia mondiale. La Comunità si colloca al centro di una serie di cerchi concentrici, rappresentati da varie organizzazioni internazionali: dall’EFTA, al COMECON, al Consiglio d’Europa, alla CSCE, alla Convenzione di Lomé, fino all’ONU. Essa costituisce il cerchio più solido, l’organizzazione internazionale che ha sviluppato tra gli Stati-membri la coesione istituzionale più forte e ha una dinamica che tende a farla evolvere in una federazione. La Comunità è quindi il terreno privilegiato per la sperimentazione del modello federale.
Grazie a questi suoi attributi, la Comunità non è solo un modello per le altre aree regionali che aspirano all’unità e per il mondo (riforma dell’ONU), ma è anche un polo di attrazione nei confronti dei paesi che appartengono alle orbite più ampie. Tutti i paesi che ruotano nelle orbite più prossime alla Comunità (in primo luogo i paesi dell’EFTA e quelli dell’Europa orientale appartenenti al COMECON, più la Jugoslavia) vorrebbero aderirvi. Ma se gli attuali meccanismi istituzionali rimangono invariati e non si avvia un processo di democratizzazione e di rafforzamento della Comunità, la capacità di decisione di quest’ultima tenderà a diminuire con l’aumento del numero degli Stati-membri. E’ del tutto evidente che, raddoppiando il numero degli Stati-membri, ciascuno con il suo fardello di problemi particolari e di vincoli per la politica comune, la Comunità rischierebbe la paralisi totale e dunque la dissoluzione. L’esperienza dell’allargamento della Comunità, soprattutto quello conseguente all’adesione del Regno Unito, mostra chiaramente che questo processo ha rallentato (e continua a rallentare) il cammino sulla via dell’unità politica.
La riforma istituzionale, che permetterebbe di conferire alla Comunità europea i primi strumenti di potere sufficienti a esprimersi efficacemente sul piano internazionale, consiste nella creazione del governo democratico dell’economia europea. Più precisamente si tratta di trasferire a livello europeo i poteri relativi al controllo della moneta e della politica macro-economica, di attribuire al Parlamento europeo il potere legislativo e di controllo nei confronti della Commissione, di conferire il ruolo di governo della Comunità alla Commissione e di trasformare il Consiglio dei Ministri nel Senato della Comunità, che condivide con il Parlamento europeo il potere legislativo, ma è privato del potere esecutivo.
Nella prospettiva del rafforzamento, la politica che la Comunità ha adottato è stata di subordinare l’accoglimento delle domande di adesione all’accettazione senza riserve degli obiettivi della riforma istituzionale, tema che oggi è all’ordine del giorno, in seguito alla convocazione delle conferenze intergovernative sull’Unione economica e monetaria e sull’Unione politica.
Di conseguenza, solo se la Comunità rafforzerà la propria coesione, potrà svolgere un ruolo dirigente nel processo pan-europeo e diventare il nucleo dell’ordine istituzionale della Casa comune europea. Dimostrando che è possibile far vivere un’unione di Stati al di là delle nazioni, la creazione di un primo nucleo federale in Europa permetterà di avviare la ricostruzione di un ordine internazionale alternativo al vecchio e cadente sistema bipolare, ormai indebolito dalla decadenza del ruolo egemonico delle superpotenze ed eroso dalla rinascita del nazionalismo.
La Comunità europea e il nuovo ordine mondiale.
Bisogna considerare che la Comunità europea è un sottosistema nel sistema mondiale degli Stati. Di conseguenza, se è vero che la sua influenza internazionale condiziona gli sviluppi della politica mondiale, è altrettanto vero che ne è condizionata. Infatti, la brusca accelerazione che ha subito l’unificazione europea non è solo il prodotto di una necessità interna (il bisogno di superare la contraddizione dell’unificazione del mercato europeo entro il 1992 senza moneta e senza governo), ma è anche il frutto di un’esigenza esterna (dare una risposta alla disgregazione del blocco comunista, alla rinascita di un forte Stato tedesco al centro dell’Europa e al risveglio del nazionalismo).
D’altra parte, non bisogna dimenticare che la stabilità dei processi di cooperazione e di integrazione economica, e ancor più di quelli di unificazione politica, presuppone che tra gli Stati interessati siano scomparsi gli antagonismi di carattere militare. E’ vero che, secondo il punto di vista federalistico, la pace può essere garantita in modo irreversibile solo con la federazione. Tuttavia, bisogna riconoscere che la tendenziale scomparsa della guerra dal calcolo dei mezzi della politica estera degli Stati rappresenta una condizione di fondo per l’avvio di qualsiasi forma di integrazione.
L’esperienza dell’unificazione europea mostra che la formazione di uno spazio economico unificato è avvenuta nel quadro di ben precise condizioni politiche: la perdita dell’indipendenza degli Stati nazionali, la convergenza della loro politica estera, l’egemonia degli Stati Uniti sull’Europa occidentale.
E’ vero che sul piano mondiale non c’è nessuna egemonia che possa svolgere il ruolo che gli Stati Uniti ebbero nel processo di integrazione europea, ma c’è un fatto nuovo, che deve essere riconosciuto e analizzato in tutta la sua complessità: la crisi dello Stato sovrano, una forma di organizzazione politica che ha perso la sua autosufficienza sul terreno del controllo della sicurezza, della protezione dell’ambiente e della direzione dello sviluppo economico-sociale. E’ un fenomeno che si è manifestato da tempo in Europa e che costituisce la premessa del processo di unificazione del continente. Oggi comincia a interessare le stesse superpotenze e, come era avvenuto in Europa, produce una forte spinta alla cooperazione, che permette di affrontare problemi che i singoli Stati non sono in grado di risolvere da soli.
C’è, in effetti, una sorprendente analogia tra l’inizio della nuova era della politica mondiale, avviata dai primi accordi sul disarmo, e l’inizio del processo di integrazione europea dopo la seconda guerra mondiale: allora la riconciliazione franco-tedesca, ora la collaborazione tra USA e URSS dopo un lungo periodo di forti tensioni.
Alla base del nuovo corso della politica mondiale ci sono profondi cambiamenti nel modo di produzione e nell’organizzazione della sicurezza. Da una parte, la rivoluzione scientifica ha reso il mondo sempre più strettamente interdipendente, con la conseguenza che un numero crescente di problemi ha assunto dimensioni mondiali. Di qui l’esigenza di soluzioni mondiali e di istituzioni mondiali. D’altra parte, le armi nucleari e le altre armi di distruzione di massa hanno messo in crisi la politica di potenza e hanno aperto la via, con l’affermazione dei principi di «sicurezza reciproca» e di «difesa non offensiva», introdotti dalla nuova dottrina strategica sovietica, all’esaurimento della ragion di Stato.
Tutto ciò mostra che il nuovo corso della politica mondiale non è soltanto effetto della buona volontà, ma è soprattutto la conseguenza di un necessità. Per gli Stati Uniti e per l’Unione Sovietica il costo della corsa agli armamenti è diventato intollerabile. Non solo la distruttività, ma lo stesso costo delle armi mettono in crisi la politica di potenza. Quest’ultima infatti ha dei costi così alti che finisce col ritorcersi contro chi la pratica. In altri termini, nell’era dell’interdipendenza globale e delle armi di sterminio di massa, la potenza tende ad autodistruggersi.
In conseguenza di ciò, le superpotenze sono uscite esauste dalla guerra fredda. Hanno deciso quindi di metter fine al confronto militare e di collaborare per sopravvivere. E il loro declino è stato accompagnato dall’ascesa nella gerarchia del potere mondiale della Germania e del Giappone. Proprio perché, dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale, hanno perso il ruolo di potenze militari e non hanno dovuto dissanguarsi nella corsa agli armamenti, esse sono diventate grandi potenze economiche.
Allo stesso modo, la via dell’integrazione europea fu imboccata risolutamente solo quando la Francia e la Germania federale riconobbero l’esistenza di interessi comuni e ne trassero la conseguenza che le ragioni che spingevano alla collaborazione erano più forti di quelle dell’antagonismo. Sfortunatamente però il mondo comincia la sua unificazione in condizioni molto più difficili di quanto non sia accaduto ai paesi della Comunità europea. Questi ultimi infatti poterono fondare il processo di integrazione su condizioni di notevole omogeneità per quanto riguarda sia il grado di sviluppo sia il regime politico (economie industriali e sistemi democratici) e sul protettorato degli Stati Uniti, che eliminò gli antagonismi militari in Europa occidentale.
La conseguenza che si può trarre da tutta questa analisi è che il governo mondiale non è più soltanto un fine prescritto dalla ragione. E’ un evento in marcia. Si tratta di una tendenza che potrà subire dei rallentamenti e delle battute d’arresto (come avviene oggi con la guerra del Golfo), ma che non potrà essere bloccata.
Il problema che si pone a questo punto è quello di prendere in esame le istituzioni nell’ambito delle quali si svolge il processo di unificazione del mondo, partendo dalla Comunità europea. Lo sviluppo e il consolidamento del nuovo ordine mondiale comporta un complesso processo di ristrutturazione delle organizzazioni internazionali che sono state create nel secondo dopoguerra e portano quindi il segno del sistema bipolare e della guerra fredda. Ciò che si può tentare di fare ora che ci troviamo all’inizio del processo è di identificare le linee di tendenza più generali.
L’EFTA.
L’EFTA, che fu creata per iniziativa del Regno Unito come alternativa alla CEE e che oggi raggruppa sei Stati democratici, per lo più neutrali, dell’Europa occidentale, tende a essere assorbita dalla CEE, come è già avvenuto per alcuni degli Stati fondatori (Regno Unito, Danimarca e Portogallo). Per beneficiare dei vantaggi dell’unificazione del mercato europeo, essa aspira a rinegoziare le proprie relazioni commerciali con la Comunità nella prospettiva della creazione di uno «spazio economico europeo».
Due ragioni fanno dei paesi dell’EFTA i primi candidati a diventare membri a pieno titolo della Comunità. La prima è legata alle trasformazioni dell’ordine mondiale, che, con il superamento dei blocchi e la fine della guerra, hanno fatto cadere la funzione dei paesi neutrali. La seconda ragione riguarda l’omogeneità delle istituzioni politiche ed economiche e del livello di sviluppo di questi paesi con la Comunità.
Il Consiglio d’Europa.
Dopo aver rappresentato il quadro politico nell’ambito del quale si è avviato il processo di integrazione europea e dopo aver conosciuto una lunga fase di stagnazione, quando la direzione del processo è stata assunta dalla Comunità europea, il Consiglio d’Europa conosce oggi un nuovo dinamismo. Ha assunto infatti un nuovo ruolo: quello di ponte tra Europa occidentale e orientale, dopo essere stata per lunghi anni una delle istituzioni attraverso le quali si è espressa l’ostilità dell’Europa occidentale per il mondo comunista.
Da una parte, il Consiglio d’Europa raggruppa ormai tutti i ventitrè Stati dell’Europa occidentale, riunisce cioè i dodici Stati-membri della Comunità europea e gli altri undici che non ne fanno parte. D’altra parte, l’azione del Consiglio d’Europa ha promosso lo sviluppo delle relazioni tra Est e Ovest e ha aperto le proprie istituzioni ai paesi dell’Europa orientale e all’Unione Sovietica. L’Assemblea consultiva ha infatti creato lo status di «invitato speciale» per accogliere i rappresentanti dei parlamenti degli Stati europei non membri, che hanno dato avvio, in esecuzione degli impegni sottoscritti nell’ambito della CSCE, alla trasformazione in senso democratico delle loro istituzioni politiche. In questo modo, essa ha stabilito un legame istituzionale transitorio con questi paesi, inteso come tappa sulla via della piena adesione.
La sottoscrizione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo costituisce il coronamento del processo di trasformazione democratica dei regimi comunisti e va nella stessa direzione degli sforzi compiuti in seno alla CSCE a favore del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. L’allargamento verso Est del Consiglio d’Europa permette di offrire una garanzia internazionale alle nuove istituzioni democratiche dei paesi dell’Est e costituisce un mezzo per consolidarle.
Tutto ciò mette in luce l’esigenza di qualche forma di coordinamento organico tra il «terzo cesto» della CSCE, che riguarda i diritti umani, e il Consiglio d’Europa. Completata la transizione alla democrazia nell’Europa dell’Est, la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali dovrebbe essere affidata alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il COMECON.
E’ stato giustamente osservato che le rivoluzioni del 1989 nei paesi dell’Europa orientale non sono state portatrici di idee nuove. Si sono semplicemente ispirate ai principi della democrazia occidentale e del sistema di mercato. Tuttavia, sulla base di questi soli principi non è possibile creare un nuovo ordine internazionale in alternativa al sistema bipolare russo-americano, la cui decadenza apre la strada alla rinascita del nazionalismo, alla dissoluzione dei blocchi e alla disgregazione degli Stati multinazionali, come l’Unione Sovietica o la Jugoslavia.
Se l’Europa orientale e l’Unione Sovietica fossero travolte dai conflitti tra le nazionalità, le frontiere fossero rimesse in discussione e prevalesse di nuovo la tendenza alla frammentazione, l’intero continente ritornerebbe al 1919 con le conseguenze ben note: il ristagno economico, la degenerazione autoritaria delle istituzioni e la guerra. Le nuove democrazie dell’Europa orientale non sarebbero che fiori effimeri, che non annunciano la primavera.
Il federalismo è la nuova idea che può permettere di organizzare una transizione ordinata degli ex-paesi socialisti alla democrazia e all’economia di mercato. L’esempio della Comunità europea, malgrado i suoi gravi limiti istituzionali, mostra già chiaramente che gli Stati-membri possono trovare più libertà e più prosperità nell’unione che nella separazione e nell’isolamento. Infatti, nell’Europa orientale si è largamente affermata l’opinione che la Comunità europea rappresenti un punto di riferimento e un modello per la soluzione dei problemi economici e per la stabilità delle istituzioni democratiche, ma potrebbe esserlo anche per contenere i conflitti etnici.
La vecchia istituzione economica comune, il COMECON, creata nel 1949 per organizzare il commercio tra i paesi socialisti, dovrebbe essere profondamente riformata per adeguarsi ai cambiamenti in corso nei sistemi economici dei singoli paesi, a meno che non prevalga la tendenza alla dissoluzione. E in effetti, le difficoltà dell’Unione Sovietica e la forza di attrazione della Comunità lasciano scarse prospettive al rinnovamento del COMECON.
Invece, l’ingresso della Germania orientale nella Comunità, in conseguenza dell’unificazione tedesca, ha aperto la prospettiva dell’allargamento della Comunità agli altri paesi dell’Europa orientale aderenti al COMECON e alla Jugoslavia. La velocità con la quale è stata creata una Germania unita mostra che l’Ecu e il mercato europeo potrebbero assumere nell’allargamento della Comunità verso est lo stesso ruolo del marco e dell’economia della Germania occidentale nell’unificazione tedesca. L’uso dell’Ecu come mezzo di pagamento, un adeguato periodo transitorio per consentire la convergenza delle economie e l’intervento della BERS (Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo) per finanziare gli investimenti nell’Europa dell’Est, sono i fattori economici indispensabili a mettere in pratica l’allargamento della Comunità.
Naturalmente bisogna che siano soddisfatte le premesse istituzionali di questo processo, cioè la moneta unica, la banca e il sistema di governo democratico. Bisogna dunque accelerare la trasformazione della Comunità nell’embrione di una Federazione europea, per permettere a quest’ultima di favorire la riconversione economica e il consolidamento della democrazia e di arginare la balcanizzazione nell’Europa dell’Est.
Le relazioni Comunità europea - Unione Sovietica.
Il fatto che l’Unione Sovietica sia una grande potenza, dotata di mezzi per sterminare parecchie volte l’umanità, la colloca, anche in un contesto di distensione internazionale, in una categoria diversa dagli Stati nazionali, che ricercano nell’Unione europea la via per costruire un nuovo modello di organizzazione internazionale, orientato verso la costruzione della pace. Per questa ragione, l’ipotesi dell’estensione della Comunità europea all’Unione Sovietica diventerebbe plausibile solo nel caso in cui quest’ultima si disgregasse. In ogni caso, la cooperazione economica tra Comunità europea e Unione Sovietica è destinata a svilupparsi molto intensamente. Basta pensare al fatto che l’area di azione della BERS comprende l’URSS e che la proposta del governo olandese, sostenuta dal Presidente della Commissione della CEE, Jacques Delors, di un’Agenzia europea per l’energia è un’iniziativa destinata a sviluppare la complementarietà e l’integrazione tra le due aree economiche.
Ma l’evoluzione complessiva delle relazioni euro-sovietiche dipenderà dalla direzione che prenderanno i processi federativi in corso nelle due aree. Per usare la terminologia suggerita da Carl J. Friedrich, mentre nella CEE è in corso un «processo di integrazione», in Unione Sovietica si è avviato un «processo di differenziazione». Se i due processi si assesteranno su un equilibrio di carattere federale e saranno quindi imbrigliate le spinte nazionalistiche ed eliminati i pericoli di disgregazione che minacciano l’unità pluralistica, raggiunta per vie opposte, delle due comunità, la cooperazione tra Comunità europea e Unione Sovietica è destinata ad estendersi e ad approfondirsi e a sperimentare nuove forme di federalismo. Ma ciò esige, da una parte, che gli Stati-membri della Comunità varchino la soglia dell’irreversibilità del processo di unificazione con la creazione di istituzioni federali e, dall’altra, che si sviluppi l’indipendenza delle repubbliche e delle entità territoriali minori in Unione Sovietica, senza però giungere fino allo smembramento dello Stato, come invece vogliono le repubbliche situate lungo i confini occidentali.
Per contenere le tendenze secessionistiche, si potrebbe sperimentare una forma più larga di autonomia degli Stati-membri rispetto a quella che è normalmente riconosciuta negli Stati federali. Si tratterebbe, in pratica, di sviluppare un aspetto anomalo della costituzione sovietica: la competenza in politica estera degli Stati-membri. Mentre nelle altre costituzioni federali la politica estera è una competenza esclusiva del governo federale, nella costituzione sovietica è una competenza concorrente. Questo principio, contenuto in un emendamento approvato nel 1944 per giustificare la rivendicazione di un seggio all’ONU da parte della Bielorussia e dell’Ucraina, è rimasto, nella sostanza, inapplicato. Il forte accentramento del potere e la guerra fredda non lasciavano spazio a manifestazioni di indipendenza delle repubbliche sul piano internazionale. Di fatto, la politica estera è rimasta anche in Unione Sovietica una competenza esclusiva del governo federale.
Oggi la situazione è profondamente mutata. Sotto lo stimolo della perestrojka e con la fine della guerra fredda, le repubbliche hanno chiesto di esercitare la loro sovranità e di fondare l’Unione su nuove basi, espandendo i loro poteri in opposizione al governo centrale. E’ quindi giunto il momento di trasferire alla repubbliche alcune competenze, come quelle relative al mantenimento dell’ordine pubblico, con la creazione di forze di polizia sotto il controllo delle singole repubbliche, o quelle relative ad alcuni aspetti non militari della politica estera, riconoscendo alle repubbliche il diritto ad allacciare relazioni diplomatiche con altri Stati e a partecipare a negoziati su questioni internazionali, come il commercio, la cooperazione economica, i trasporti, la protezione dell’ambiente.
Questa autonomia delle repubbliche permetterebbe, da una parte, di controbilanciare la spinta all’accentramento, derivante dalle tensioni internazionali e, dall’altra parte, di liquidare le relazioni quasi coloniali della repubblica russa nei confronti delle repubbliche periferiche. Inoltre, potrebbe essere usata non solo per stipulare accordi bilaterali o multilaterali, ciascuno di contenuto differente, ma anche per stringere dei veri e propri patti federativi con gli Stati confinanti. Infine, le esigenze specifiche delle repubbliche di confine richiedono che si sperimenti un altro aspetto inedito del federalismo. Mentre in tutte le federazioni esistenti gli Stati-membri hanno uguali competenze, si può immaginare che in Unione Sovietica singole repubbliche ottengano (a condizione che ci sia il consenso delle altre) competenze supplementari. Ciò consentirebbe alle repubbliche di confine di partecipare al lavoro delle organizzazioni internazionali che le concernono, di stringere relazioni più strette con gli Stati vicini per risolvere insieme i problemi comuni e di svolgere una funzione di collegamento tra il mercato comune europeo e l’economia sovietica.
Un altro aspetto anomalo del federalismo sovietico è il diritto di secessione, che è riconosciuto alle singole repubbliche. Com’è noto, è un principio enunciato e sostenuto da Lenin. Esso contrasta con quello dell’irrevocabilità del patto federale, che ha lo scopo di assicurare la pace perpetua tra gli Stati che l’hanno sottoscritto e di sostituire la legge alla forza come mezzo per risolvere i conflitti. Tuttavia, poiché in Unione Sovietica non c’è mai stato un vero e proprio patto federale tra le repubbliche, nel momento in cui queste ultime rifondano l’Unione sulla base di un trattato che si ispira ai principi della democrazia federale, il diritto di secessione (subordinato all’osservanza di determinate procedure costituzionali) deve essere considerato un’ulteriore garanzia dell’indipendenza delle repubbliche.
E’ evidente che, se in Europa dovesse prevalere il nazionalismo, che oggi dilaga nell’Europa dell’Est, non ci sarebbe spazio per la soluzione proposta. Ma esaminiamo l’ipotesi che il processo federativo in corso in Europa occidentale coinvolga progressivamente l’Europa dell’Est. In questo caso, l’assetto definitivo che tenderanno ad assumere le comunità situate sulla frangia di confine, in tensione tra spinte alla disgregazione e spinte all’integrazione, potrebbe essere l’appartenenza simultanea alle due federazioni.
Così, i confini tra le due federazioni perderebbero progressivamente il carattere militare di linea che divide due comunità, che sviluppano tra loro rapporti di forza e la cui coesione si fonda sulla necessità e sulla paura, per trasformarsi in luoghi di incontro tra Est e Ovest e di congiunzione tra Federazione europea e Federazione sovietica. Il carattere aperto e flessibile di questa forma di organizzazione federale permetterebbe di frenare l’antagonismo tra gli Stati, fino a eliminarlo, anticipando delle relazioni politiche che prefigurano quelle tra federazioni continentali in seno alla Federazione mondiale.
La NATO e il Patto di Varsavia.
E’ chiaro che, nel contesto del nuovo ciclo della politica mondiale, la NATO e il Patto di Varsavia non possono conservare le strutture e le funzioni che avevano all’epoca della guerra fredda. Il problema del loro cambiamento, del ridimensionamento del peso che ha la componente militare e della loro trasformazione in strutture di coordinamento politico è all’ordine del giorno.
Naturalmente, i tempi di questo processo sono condizionati dall’evoluzione di un altro processo: quello relativo al consolidamento delle strutture pan-europee di sicurezza nel quadro della CSCE. Dopo l’improvviso crollo dei regimi comunisti, seguito dall’accordo sul ritiro delle truppe sovietiche, il Patto di Varsavia appare un’istituzione senza avvenire. Ma c’è da domandarsi quale diventerà il ruolo della NATO dopo lo scioglimento dell’organizzazione militare del Patto di Varsavia. Bisogna ricordare che i capi di Stato e di governo della NATO, e del Patto di Varsavia il 19 novembre 1990 a Parigi hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta, nella quale si afferma che le due alleanze non si considerano più nemiche e si offrono reciproca amicizia.
Se ne può trarre la conclusione che stanno maturando le condizioni per un parallelo ritiro delle truppe americane dall’Europa, anche se è facile prevedere che la NATO sopravviverà al Patto di Varsavia. Del resto, il processo è già avviato. E’ prevedibile infatti che le truppe, spostate in Arabia Saudita per la guerra del Golfo, non rimetteranno più piede in Europa. Ciò non implica una rottura dei legami tra Europa e America, ma piuttosto una evoluzione, che tenderà a diminuire progressivamente il peso degli aspetti militari dell’alleanza a vantaggio di quelli politici. Nello stesso tempo, per ragioni geografiche e in considerazione della forte interdipendenza economica tra l’America del Nord e l’America latina, si può prevedere che si svilupperà un processo federativo pan-americano, di cui il mercato comune tra Stati Uniti, Canada e Messico costituisce un promettente avvio.
L’Unione europea occidentale.
L’Unione europea occidentale (UEO), costituita nel 1954 dopo la caduta del progetto di Comunità europea di difesa con i caratteri tradizionali delle alleanze militari, è ritornata di attualità in relazione al dibattito sulla riforma istituzionale della Comunità europea. E’ stata proposta infatti la fusione tra CEE e UEO, al fine di estendere le competenze comunitarie al settore militare.
La creazione di un sistema difensivo europeo integrato non solo non è nel prossimo futuro possibile, per la resistenza che oppongono le due potenze nucleari (Francia e Regno Unito), ma non sembra essere nemmeno un elemento indispensabile all’esercizio dell’influenza internazionale da parte della Comunità, di cui il mondo oggi ha bisogno.
Innanzitutto, bisogna considerare che l’Unione economica e monetaria consentirebbe di trasferire sul piano europeo ampie competenze in un settore, come quello dell’economia, che ha assunto crescente importanza nelle relazioni internazionali, e ne assumerà sempre più a mano a mano che la difesa perderà il posto centrale che occupava in passato. Queste competenze potranno costituire la base di rilevanti iniziative di politica estera della Comunità. Inoltre, nell’ambito della CSCE si sta sviluppando un sistema di sicurezza comune e c’è la prospettiva che se ne crei un altro nel Mediterraneo, che associ la Comunità al Mondo arabo. In futuro, questi sistemi di sicurezza potrebbero assolvere al compito della difesa della Comunità nel quadro del rafforzamento del ruolo dell’ONU nel mantenimento della pace. La funzione difensiva della Comunità potrebbe quindi continuare a essere affidata alle istituzioni esistenti, in primo luogo alla NATO, ma anche ai singoli Stati, nella prospettiva di una diminuzione progressiva del fattore militare. Di conseguenza, le competenze militari della Comunità potrebbero limitarsi a conferire essenzialmente compiti relativi alla partecipazione dell’Europa alla difesa dell’ordine internazionale nel quadro dell’ONU, per esempio: organizzare la partecipazione, in seno alle Nazioni Unite, delle proprie forze alle operazioni per il mantenimento della pace, elaborare posizioni comuni nei negoziati sul disarmo e sul controllo degli armamenti, partecipare al controllo del commercio di armi.
Infine, bisogna tener conto del fatto che la creazione di un sistema militare europeo non sarebbe motivata dalla minaccia proveniente da Est, in considerazione dello sfacelo del Patto di Varsavia e della tendenza al disarmo, mentre rappresenterebbe un fattore di tensione con l’Unione Sovietica e quindi opererebbe in senso sfavorevole al successo della perestrojka, che esige lo spostamento di risorse dagli armamenti allo sviluppo.
Naturalmente, l’ipotesi di una Federazione europea senza sistema difensivo proprio potrebbe prendere corpo a condizione che l’evoluzione della politica mondiale consolidi le prospettive della distensione. Ma, a sua volta, questo tipo di Federazione europea avrebbe i requisiti per diventare la forza motrice del processo di unificazione mondiale.
La guerra fredda è finita quando si è affermata la consapevolezza del fatto che la politica di potenza non è un mezzo cui possa essere affidata la soluzione dei maggiori problemi dell’umanità. Il futuro del mondo dipenderà infatti dalla capacità di promuovere un ordine pacifico che argini in modo efficace la politica di potenza.
Le istituzioni della Comunità europea, malgrado i loro limiti, rappresentano un importante esperimento nella costruzione di questo ordine. E sono anche l’esempio di un’organizzazione internazionale che fonda la propria influenza nel mondo sulla forza di attrazione del suo sistema di cooperazione economica e non sulla potenza militare.
Una Federazione europea, dotata delle sole competenze economico-monetarie, differirebbe da tutti gli Stati finora esistiti, anche da quelli che hanno competenze limitate, come gli Stati federali, per le maggiori potenzialità di rimanere aperta. Per questa ragione, essa sarebbe la prefigurazione della Federazione mondiale, perché, come quest’ultima, sarebbe priva della competenza militare.
Le relazioni tra Comunità europea e Mondo arabo.
Tra le prospettive più nefaste che la guerra del Golfo ha dischiuso c’è quella di un conflitto tra Mondo arabo e Comunità europea, come mostrano gli atteggiamenti di ostilità e di rivalsa delle masse arabe nei confronti dell’Europa. Per ragioni geografiche e di complementarietà economica, le maggiori responsabilità per la soluzione dei problemi del Mediterraneo e del Medio Oriente incombono sulla Comunità europea. La forza multinazionale ha sconfitto l’Iraq e liberato il Kuwait, ma i problemi esplosivi della regione rimarranno. Per questa ragione, la Comunità europea deve usare il proprio potere di iniziativa per attivare, come è stato proposto dall’Italia e dalla Spagna, un meccanismo negoziale analogo a quello che sta alla base del processo di Helsinki, il quale permetterebbe di affrontare insieme tre questioni interdipendenti: la sicurezza di tutti i paesi dell’area, la cooperazione economica, destinata a ridurre gli squilibri sociali dell’area, e il rispetto dei diritti umani, che aprirebbe la strada allo sviluppo delle istituzioni democratiche.
Tuttavia, il successo di questo piano esige una Comunità più forte, quale potrebbe nascere dalla formazione del primo embrione di un governo federale. L’insufficienza delle attuali strutture è stata messa in evidenza dal fallimento degli sforzi della Comunità volti a trovare una soluzione negoziale del conflitto del Golfo. Di conseguenza, una Comunità europea con una coesione più forte tra gli Stati-membri e con un’adeguata influenza internazionale disporrebbe dell’autorità politica e delle risorse per garantire la sicurezza e per promuovere lo sviluppo nel bacino del Mediterraneo e nel Medio Oriente.
La Comunità europea può svolgere un ruolo analogo, per certi aspetti, a quello di USA e URSS nella CSCE, cioè promuovere la creazione di un sistema di sicurezza comune, che consenta di trasformare gli eserciti in eserciti puramente difensivi, garantire la convivenza pacifica tra Israele e i paesi arabi e spostare risorse dagli armamenti allo sviluppo.
Nello stesso tempo, la Comunità può promuovere un piano di assistenza finanziaria e tecnologica analogo al Piano Marshall, che: a) condizioni gli aiuti all’elaborazione di un piano di sviluppo regionale che orienti la distribuzione delle risorse secondo criteri di giustizia internazionale; b) crei un’istituzione bancaria euro-araba, che permetta di finanziare con capitali europei lo sviluppo dell’intera area e di indirizzare le risorse finanziarie eccedenti dei paesi produttori di petrolio verso l’acquisto in Europa di tecnologie e impianti destinati ai paesi arabi più poveri; c) susciti un processo di sviluppo capace di contenere gli imponenti flussi migratori dai paesi arabi alla Comunità; d) favorisca l’integrazione economica, che costituisce la condizione dello sviluppo e dell’indipendenza del Mondo arabo; e ciò richiede un processo di aggregazione tra le organizzazioni sub-regionali esistenti (l’Unione del Maghreb arabo, il Consiglio di cooperazione arabo, che raggruppa alcuni paesi del Mashrek e lo Yemen, e il Consiglio di cooperazione del Golfo, che raggruppa l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi) nella prospettiva del rafforzamento della Lega araba; e) promuova, su questa base, lo sviluppo delle istituzioni democratiche e dell’unificazione politica dell’intera regione; f) crei, in questo modo, le premesse perché si formi un’organizzazione a carattere federale, aperta alla collaborazione con le comunità regionali confinanti, che permetterebbe di sconfiggere il nazionalismo arabo e il fondamentalismo islamico.
La Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea.
La Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea (CSCE), che raggruppa 34 Stati (oltre a tutti gli Stati europei, l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti e il Canada), fu promossa originariamente dall’URSS per assicurare lo status quo in Europa e quindi per perpetuare la divisione del vecchio continente in due sfere di influenza e in due blocchi antagonistici. Negli ultimi anni, grazie al principio della libera circolazione delle persone, dell’informazione e delle idee, contenuto nell’Atto finale della Conferenza di Helsinki (1975), è diventata il veicolo di una trasformazione in profondità dei regimi politici dei paesi aderenti al Patto di Varsavia e del superamento della divisione dell’Europa.
Infatti, da una parte, il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali è diventato un principio condiviso in tutta l’Europa. D’altra parte, la creazione di un sistema di sicurezza comune e la cooperazione economica hanno gettato le basi per la costruzione di istituzioni permanenti, ciò che Gorbaciov chiama Casa comune europea.
Il nuovo modello di sicurezza, basato sul principio della «difesa non offensiva», dovrà dimostrare la propria efficacia come strumento per superare il conflitto Est-Ovest e per smantellare i blocchi. In effetti, il compito essenziale della CSCE è la creazione di un sistema di sicurezza comune che non ha precedenti nella storia, perché si fonda sul principio della trasparenza delle attività militari, su misure di fiducia reciproca, sul controllo degli armamenti e su un processo di disarmo, la cui efficacia è affidata a ispezioni in loco. Si tratta di prime forme di limitazione reciproca della sovranità, che non poggiano su poteri sovrannazionali. E ciò che è nuovo e straordinario è il fatto che sono state le superpotenze a promuovere questo processo.
La costruzione della Casa comune europea segna l’avvio di un nuovo ordine mondiale e costituisce l’embrione di un «governo mondiale parziale». L’esempio dell’integrazione dell’Europa occidentale mostra che la riconciliazione tra Francia e Germania segnò il punto di avvio del processo di integrazione e che l’asse franco-tedesco fu il motore del processo. USA e URSS sono destinati a svolgere lo stesso ruolo nel processo di unificazione del mondo. Ma c’è un altro elemento di analogia: come l’integrazione europea, cominciata con sei paesi e allargatasi progressivamente fino a comprenderne dodici, oggi, a quarant’anni dall’avvio del processo, è giunta ad affrontare il problema dell’unificazione delle due metà del continente, così l’unificazione mondiale, cominciando nel quadro dei trentaquattro paesi associati nel processo di Helsinki, tenderà progressivamente a coinvolgere le altre parti del mondo, fino a identificarsi con il processo di rafforzamento e di riforma democratica delle Nazioni Unite.
A causa della sua dimensione interregionale, la CSCE sarà minata da una duplice contraddizione. Essa è infatti nello stesso tempo troppo grande e troppo piccola. E’ troppo grande, come si è già visto, per diventare un pilastro regionale della Federazione mondiale. Ma è anche troppo piccola per affrontare i grandi problemi mondiali. Lo stesso processo di disarmo, che pure costituisce una gloria della CSCE, non può raggiungere il traguardo dell’eliminazione delle armi di distruzione di massa, se non si affronta insieme con il Terzo mondo il problema della distruzione contestuale delle armi nucleari e delle armi chimiche. Ma un’infinità di altri fenomeni, come la guerra del Golfo o gl’imponenti flussi migratori, stanno a dimostrare con l’evidenza dei fatti che, in un mondo interdipendente, i paesi del Nord non possono permettersi di ignorare i problemi del Sud, ma vi sono inevitabilmente coinvolti.
Di qui, l’esigenza che la CSCE si presenti come un’associazione di Stati che non è rivolta contro nessuno e che soprattutto si caratterizzi per la sua apertura al Terzo mondo. Che significato avrebbe il disarmo, se le risorse così liberate non fossero utilizzate per finanziare grandi progetti di cooperazione economica con i paesi in via di sviluppo? E’ quindi probabile che le istituzioni della CSCE sprigioneranno una dinamica tendente a rafforzare le iniziative per la pace, il disarmo e la cooperazione internazionale al di là dei confini dell’Europa. E ciò non solo perché la fine della guerra fredda è un evento destinato a produrre benefici effetti sul resto del mondo (in primo luogo facendo uscire l’ONU dalla posizione di stallo nella quale si trovava), ma anche perché i problemi di quest’area sono strettamente intrecciati con quelli degli altri continenti. Non esiste cioè una soluzione regionale di problemi che hanno una dimensione mondiale, siano questi di carattere militare, politico, economico o ambientale.
L’Assemblea della CSCE, sul cui assetto istituzionale è ancora in corso la discussione, potrebbe decidere di avere una struttura aperta alla partecipazione dei rappresentanti dei parlamenti degli Stati democratici esistenti nelle altre parti del mondo (per esempio, l’India, l’Australia, il Messico ecc.). Le condizioni e le procedure per l’ammissione a questa Assemblea potrebbero essere quelle previste dallo statuto del Consiglio d’Europa, che sono state adottate con successo per accogliere le nuove democrazie dell’Europa orientale. Del resto, è stata avanzata la proposta che sia lo stesso Consiglio d’Europa a ospitare l’Assemblea della CSCE.
In sostanza, se in seno alla CSCE si costituisse un’assemblea parlamentare che aprisse le porte alla partecipazione di rappresentanti di tutti i paesi democratici e riconoscesse lo statuto di «invitati speciali» ai delegati dei parlamenti degli Stati impegnati nella trasformazione democratica del loro regime politico, nascerebbe l’embrione di un Parlamento mondiale. Esso diventerebbe la sede del dibattito sui progetti di riforma dell’ONU e sui piani per risolvere i grandi problemi globali di fronte ai quali si trova l’umanità. Ed emergerebbe necessariamente l’esigenza di associare i popoli alla discussione sulle questioni determinanti per il loro avvenire, attraverso l’elezione diretta di questa Assemblea.
L’ONU.
Quando la dinamica dei processi di aggregazione che si sviluppano in seno alla CSCE si sarà assestata, dando vita verosimilmente a una confederazione di tre federazioni (quella nord-americana, quella europea e quella sovietica), anche nel resto del mondo si sarà sviluppato un processo di riorganizzazione su scala regionale. Ho fatto un cenno ai processi federativi nel Mondo arabo e nel continente americano, ma anche in Africa e nel Sud-Est asiatico si manifestano tendenze all’unità.
Il quadro di riferimento generale di questi processi è l’ONU, il cui massimo organo decisionale, il Consiglio di sicurezza, potrebbe diventare più efficiente e più democratico se fosse espressione delle regioni del mondo. E’ questo l’unico modo per superare la disuguaglianza tra micro-Stati e super-Stati, che costituisce una delle disfunzioni più gravi delle istituzioni dell’ONU. Il ruolo del Consiglio di sicurezza, nel quadro della riforma democratica dell’ONU, sembra destinato a essere quello di secondo ramo del potere legislativo, cioè di un Senato.
La Comunità europea, cioè la punta più avanzata nei processi di riorganizzazione in senso regionale delle relazioni internazionali in corso in tutto il mondo, ha i requisiti necessari per avviare la riforma del Consiglio di sicurezza. Sostituendo con un proprio rappresentante quelli della Francia e del Regno Unito, aprirebbe la strada all’ingresso nel Consiglio di sicurezza dell’India (che è uno Stato di dimensioni continentali) e poi progressivamente di altre entità regionali. Basterebbe che in tutte le regioni, dove non si sono ancora costituite delle federazioni, gli Stati decidessero di farsi rappresentare all’ONU dall’organizzazione internazionale alla quale appartengono, assumendone a rotazione la presidenza. Ciò permetterebbe di arrivare in tempi ragionevolmente brevi a superare l’ingiusta distinzione tra membri permanenti e non permanenti nel Consiglio di sicurezza e a sopprimere il diritto di veto, sostituendolo con votazioni a maggioranza qualificata.
Per quanto riguarda l’Assemblea parlamentare, la sua creazione nel quadro delle Nazioni Unite incontra l’ostacolo rappresentato dal fatto che la maggioranza degli Stati-membri non ha ancora strutture democratiche, malgrado la grande avanzata della democrazia negli anni ‘80 in Europa orientale e in America latina. In considerazione di ciò, accanto alla proposta di creare, a fianco dell’Assemblea generale, un’Assemblea parlamentare, va esplorata l’ipotesi che la costituenda Assemblea parlamentare della CSCE possa diventare il primo nucleo di un Parlamento mondiale. Infatti, dopo la caduta dei regimi comunisti, la democrazia è destinata a consolidarsi nel quadro di Helsinki.
Conclusioni.
In conclusione, si può affermare che la Comunità europea può svolgere un ruolo determinante nell’indirizzare il mondo verso l’unità. La condizione indispensabile perché questo ruolo possa essere svolto è il rafforzamento dell’unità europea con il trasferimento alla Comunità dei poteri relativi al governo dell’economia e con la democratizzazione delle procedure di decisione. La sovranità monetaria deve essere infatti considerata molto più efficace di quella militare nell’affermare l’influenza della Comunità nel mondo.
Questa influenza potrà permettere alla Comunità: a) di portare a compimento l’unificazione federale di tutta l’Europa; b) di favorire l’estensione del modello federale ad altre aree, attraverso lo sviluppo di processi di unificazione nelle regioni ancora divise in Stati nazionali, a cominciare dall’area del Mediterraneo e del Medio Oriente, e l’affermazione di nuove forme di federalismo negli Stati che hanno già raggiunto la dimensione continentale, come l’Unione Sovietica; c) di dare l’avvio alla riforma dell’ONU, a partire dalla ristrutturazione su base regionale del Consiglio di sicurezza.