Anno LX, 2018, Numero 2-3, Pagina 102
Le radici della crisi della democrazia a livello mondiale ed europeo*
STEFANO BARTOLINI
La democrazia “responsiva”.
Nella versione che tende a prevalere ai nostri giorni, la crisi della democrazia nazionale ha origine in processi di natura prevalentemente extra-nazionale. In primo luogo, la globalizzazione e l’indebolimento o l’eliminazione dei confini nazionali, siano essi economici, culturali, o politico-amministrativi, impedisce ai governanti di trasferire sui consumatori locali e sui contribuenti i costi della produzione politica nazionale ed impedisce sperimentazioni e soluzioni locali. Allo stesso tempo, potenti istituzioni economiche non-nazionali e i mercati obbligano i governanti nazionali ad imporre ai cittadini misure che altrimenti non avrebbero imposto ed impediscono di fare scelte che altrimenti avrebbero preferito fare. Infine, l’Unione europea e più precisamente tutto il processo di integrazione regionale, ha raggiunto un tale livello e una tale portata da giungere ad impedire agli Stati membri in difficoltà di avere a loro disposizione l’insieme dei maccanismi di controllo della moneta, del bilancio, della politica fiscale ed economica precedentemente a disposizione in tempi di crisi.
Detto diversamente, questa linea di pensiero (e di azione, ovviamente) conclude che la globalizzazione, l’interazione europea e potenti attori internazionali mettono in crisi la democrazia come modello normativo, modello che riposa sulla prevalenza della volontà popolare su ogni altro aspetto. La democrazia così intesa è sospesa e confinata proprio nella misura in cui la volontà popolare che essa esprime attraverso l’interazione tra suffragio universale, competizione partitica e rappresentanza politica è tradita o manipolata. La vera democrazia dovrebbe dunque essere “restaurata”, dovrebbe riconquistare una posizione dominante e dovrebbe genuinamente esprimere ciò che gli elettori e il popolo vogliono senza essere deflessa da quelle maligne influenze esterne prima richiamate, che anzi, vanno strenuamente combattute sul piano nazionale ed internazionale.
In questa versione la democrazia appare nel suo elemento popolare puro, si focalizza sulla triade inclusione (suffragio universale), competizione per il voto dei cittadini, rappresentanza e, infine, risposta simpatetica alle domande ed alle forze che hanno prevalso. Se si combina il desiderio dei politici di essere eletti e rieletti, la competizione politica attraverso elezioni, propaganda e campagne, la regola delle reazioni anticipate che spinge gli eletti ad anticipare quello che gli elettori possono desiderare, alla fine le domande insoddisfatte dovrebbero trovare portavoce. Da questo punto di vista i politici devono dare agli elettori quello che gli elettori vogliono, rispetto al quale, le pastoie, i limiti, i vincoli procedurali e di consultazione appaiono solo come elementi distorsivi del rapporto elettori-eletti. E’ una visione della democrazia che chiamerò, per brevità, “responsiva”, che è tanto più democratica quanto più “risponde” e soddisfa le aspirazioni degli elettori.
Non vi è dubbio che la democrazia responsiva definisca uno degli aspetti normativi della teoria democratica. Una democrazia che “non risponde” diviene alla lunga una non-democrazia. La questione quindi non è se un elemento di democrazia responsiva sia al centro della teoria democratica, ma piuttosto se esso ne sia l’unico incontrastato elemento rispetto al quale ogni altro principio deve inchinarsi. Quest’ultima tesi è incompleta sia storicamente che normativamente.
La democrazia “responsabile”.
Per brevità e semplicità usiamo sempre il termine “democrazia” dimenticando così venticinque secoli di discussioni e dibattiti sui limiti ed i difetti di una visione integralmente popolar-plebiscitaria della democrazia. In realtà, la democrazia che si è sviluppata nel mondo occidentale è più correttamente definibile come una forma di democrazia “liberal-democratica”, che combina i principi di inclusione e sostegno popolare con quelli di governo limitato e responsabile. La pigrizia e il timore di apparire pedanti ci fanno spesso se non sempre dimenticare quella piccola parola – “liberale” – che qualifica il senso dell’esperienza democratica occidentale.
Nella storia del costituzionalismo sui due versanti dell’oceano atlantico il termine “liberale” ha assunto il significato di “governo limitato”; un insieme di principi per delimitare o altrimenti circoscrivere i poteri di chi assume responsabilità di governo, sia esso un monarca assoluto o un presidente eletto. Quei cittadini europei che invocavano una “costituzione” tra gli anni 1830 e 1848 miravano ad ottenere garanzie contro l’uso arbitrario e l’abuso del potere a favore di un governo limitato da qualche principio generale. L’obiettivo era legalizzare il potere, offrendo una protezione speciale a libertà specifiche dei governati attraverso meccanismi che limitavano la cosiddetta sovranità del potere. Questo è il significato fondamentale del termine nella tradizione che fa riferimento ai Federalist Papers (1787-88), alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 ed alla sistematizzazione classica del pensiero costituzionalista da parte di Benjamin Constant nel suo Cours de politique constitutionnelle del 1818-1820.
L’obiettivo della limitazione del potere arbitrario è stato perseguito (più o meno efficientemente) attraverso la combinazione di un insieme di tecniche che includevano dichiarazioni di diritti inviolabili, l’indipendenza del giudiziario e la separazione dei poteri, il controllo costituzionale delle leggi, i controlli reciproci tra poteri autonomi (come, per esempio, Primo ministro e Presidente della repubblica), i controlli sulla copertura della spesa affidati a tecnici, decentramenti ed autonomie federali/regionali incomprimibili. Più recentemente si è aggiunta l’autonomia crescente delle Banche centrali e di altre autorità indipendenti non elettive (e quindi non democratiche in senso elettorale-popolare) cui si delegano compiti e giurisdizioni funzionali talvolta di grande importanza. E infine, appartiene allo stesso genere di limitazioni l’inserimento in Costituzione di alcune esplicite rinunce a quote di sovranità nazionale nei settori di integrazione in entità sovranazionali come la UE.
Nel processo di costituzionalizzazione iniziato a Filadelfia questi principi assunsero una dimensione sia orizzontale (Corti, Congresso, Presidenza) che verticale (Stati e Federazione). Ma il principio strutturante fondamentale rimase quello dei rapporti tra centro e periferia e la distribuzione verticale dei poteri e delle competenze tra il centro federale e gli Stati federati. Al contrario, nell’esperienza europea la preesistenza di un governo centrale e centralizzato e di un forte esecutivo significò che contrappesi e bilanciamenti furono essenzialmente istituzionalizzati nell’equilibrio orizzontale tra istituzioni centrali, mentre la dimensione territoriale dell’equilibrio tra poteri rimaneva meno importante (con l’eccezione particolare della Svizzera).
Ma che si tratti di contropoteri e principi di limitazione di natura prettamente orizzontale o anche verticale, rimane che questo elemento “liberale” della democrazia è essenziale a bilanciare l’elemento popolar-rappresentativo. I vincoli, i limiti, le protezioni di aree che il principio liberale pone a quello della democrazia responsiva non è storicamente da vedersi come una limitazione o una menomazione, come è presentato nella versione che abbiamo delineato all’inizio di questo intervento. Al contrario esso ne è un completamento, un elemento aggiuntivo che sostanzia la responsabilità di chi governa verso i diritti e le procedure inviolabili, verso ciò che in democrazia non si deve e non si può fare anche qualora si disponga dei numeri per farlo. In altre parole, la “democrazia responsabile” bilancia la “democrazia responsiva”, la possibile irresponsabilità delle maggioranze e della volontà popolare.
La combinazione del principio democratico di inclusione, rappresentanza e capacità di rispondere alle domande con quello liberale delle limitazioni alla latitudine dell’azione di governo ha reso la democrazia un sistema “moderato” e talvolta anche “conservatore”, ma anche un sistema di protezione che limita la talvolta pericolosa efficienza della volontà del popolo, della maggioranza, del governo.
Difficoltà di armonizzare le due concezioni di democrazia.
Ovviamente esiste un conflitto implicito e sempre presente tra il principio puramente popolare della responsività (inclusione, rappresentanza, volontà popolare) e quello liberale di governo limitato, di controlli e contrappesi, di limiti e confini all’azione governativa. La democrazia novecentesca è stata comunque in grado si armonizzare democrazia responsiva e democrazia responsabile grazie a tre meccanismi. Da un punto di vista istituzionale, come prima accennato, abbiamo assistito a un progressivo allargamento degli ambiti di protezione costituzionale dei limiti e delle procedure di decisione pubblica. Da un secondo punto di vista, stavolta prevalentemente culturale, bisogna ammettere che la componente responsabile delle nostre democrazie novecentesche ha riposato su una cultura politica ancora prevalentemente elitaria e su processi di selezione della classe dirigenti che ad essa si ispiravano. Pur nella crescente professionalizzazione delle carriere politiche e del loro svincolarsi dai gruppi sociali dominanti si è a lungo mantenuta una regola non scritta che rinviava la difesa dei fondamenti liberali ad élites socio-economiche, culturali e politiche che per livelli di competenza e sensibilità storica risultavano molto sensibili ad essi.
Infine, da un punto di vista politico l’armonizzazione tra democrazia responsiva e democrazia responsabile è stata demandata al nuovo attore politico che nel Novecento domina i processi di governo ed insieme forgia le preferenze ed aggrega le domande di gruppi sociali: il partito politico. In tale periodo furono i partiti di massa a farsi carico di questa composizione con i loro interessi di lungo temine e le loro visioni ideologiche integrate e coerenti. I partiti politici sono emersi sempre più chiaramente dopo la Seconda guerra mondiale come la forma dominante di rappresentanza e insieme di guida politica, ereditando, in molti casi, la bancarotta delle istituzioni politiche prebelliche. L’equilibrio bloccato della Guerra fredda poneva carichi relativamente leggeri ai processi decisionali interni, soprattutto negli affari internazionali. Le economie europee erano ancora prevalentemente nazionali e dipendevano poco dalla competizione ed il commercio sui mercati mondiali. La standardizzazione culturale all’interno degli Stati era alta e stabile e casomai era stata aumentata dalla ridefinizione dei confini seguita alla Seconda guerra mondiale. Identità di gruppo forti e persistenti continuavano ad essere la base di una elevata conformità dei comportamenti politici di tali gruppi. Infine, la ripresa successiva alla guerra apriva un periodo di crescita senza precedenti per le economie nazionali caratterizzate da un accentuato e legittimato “dirigismo” statalistico che garantiva ampi margini di manovra alle élites politiche nazionali.
Questa costellazione favorevole offrì ai partiti politici una eccezionale e forse unica opportunità di guidare le politiche economiche e sociali espansive a livello nazionale. I partiti, in quanto attori collettivi relativamente coesi sul piano ideologico e sociale, divennero gli attori chiave di stabilizzazione politica di società ad alto tasso di cambiamento. La disciplina interna dei partiti ed i modelli di competizione inter-partitica offrirono anche i meccanismi per gestire le tensioni tra il processo elettorale, la rappresentanza di interessi settoriali, le relazioni tra esecutivo e legislativo e la guida delle politiche. I patititi, concretamente riconciliando la funzione di rappresentanza con quella di responsabilità, sono divenuti i pilastri della stabilità democratica, senza i quali la democrazia non era nemmeno pensabile.
Dei tre meccanismi che hanno sostenuto la visione della democrazia responsabile non vi è dubbio che gli ultimi due sono entrati progressivamente in crisi con la fine del Novecento. A livello culturale gli sviluppi recenti hanno accentuato la mobilitazione cognitiva individualista dei cittadini ed il crescente multiculturalismo delle società. Insieme questi due elementi hanno ridotto l’omogeneità culturale nazionale, hanno intaccato profondamente le identità collettive tradizionali ed hanno accentuato il processo di privatizzazione di ogni contesto di vita, incluso il contesto della persuasione politica. Hanno infine accentuato identità culturali nuove o in precedenza latenti, non più storicamente legate ai partiti politici tradizionali. Questi processi sono stati rafforzati dallo sviluppo delle moderne tecnologie di informazione e comunicazione. Non era previsto che i cambiamenti educazionali, della comunicazione e della tecnologia contribuissero enormemente ad erodere il rapporto di delega che esisteva tra élites e masse attraverso i partiti politici.
In conseguenza di questi nuovi processi culturali e politici la tensione tra democrazia responsiva e democrazia responsabile non ha fatto che esacerbarsi ed il loro bilanciamento è rimasto privo di sostegno culturale e politico, anche se rimane ancora fortemente ancorato negli aspetti istituzionali del funzionamento della democrazia. Ma è immaginabile che la componente responsabile della democrazia possa mantenersi e difendersi in chiave puramente istituzionale, senza il substrato culturale e politico che la sosteneva? O non è più facile immaginare che una democrazia intesa sempre più come responsiva non entri in contraddizione crescente con tali assetti istituzionali? I nuovi partiti e movimenti nati negli ultimi anni hanno invocato la bandiera della responsività ed hanno ammainato quella della responsabilità. Spesso identificano gli elementi di governo limitato cui abbiamo fatto riferimento come meri ostacoli, come pastoie o vincoli solamente istituititi al fine di limitare e imbrigliare la volontà popolare nella sua forma pura di mandato elettorale.
Quindi, e contrariamente alla versione della crisi della democrazia posta all’inizio di questo intervento, crisi della democrazia come democrazia tradita da restaurare, la vera crisi che osserviamo acuirsi sotto i nostri occhi è soprattutto la crisi dell’elemento liberale e responsabile; o più precisamente è la crisi del bilanciamento tra democrazia responsiva e democrazia responsabile. E lo squilibrio che tra le due componenti si va consolidando a favore della prima. In effetti, la componente popolare e elettorale non appare oggi in crisi nei suoi presupposti ideali in quanto prevale una visione della democrazia come volontà popolare e maggioranza in opposizione al cosiddetto establishment, alle élites tradizionali di ogni tipo, siamo esse politiche o tecniche, culturali o sociali. Non appare in crisi nemmeno nei suoi presupposti istituzionali in quanto sempre più la democrazia responsiva si definisce in contrapposizione a tutti quei limiti costituzionali, istituzionali e procedurali che sono visti come meri ostacoli o trucchi di difesa del suddetto establishment che ad essi ricorrerebbe al mero fine di conservare privilegi e vantaggi. Qualunque elemento di verità possa esistere in queste critiche, ed in effetti ne esistono, esso rischia di travolgere la democrazia liberale, di gettare il bimbo insieme all’acqua sporca.
Le nuove responsabilità.
Questa situazione appare in qualche modo paradossale perché gli sviluppi degli ultimi decenni, mentre indebolivano la visione responsabile della democrazia, hanno ampliato l’insieme di responsabilità di cui la democrazia deve tener conto. I tradizionali principi liberali del governo limitato erano costituiti contro il governo dispotico, di cui l’Europa aveva fatto ampia esperienza. Questo elemento di responsabilità appare oggi spesso debole e fuori moda. Allo stesso tempo, a tutt’oggi la democrazia responsabile non è riuscita a tematizzare culturalmente le nuove responsabilità che il mondo del 21° secolo genera ed i moderni e nuovi limiti che ne derivano. La teoria democratica prevalente fatica ad incorporare i nuovi problemi di responsabilità che derivano dal mondo interdipendente e interconnesso cui ci avviamo.
Queste nuove responsabilità prendono la forma di responsabilità degli elettorati nazionali verso gli elettori “assenti”, verso quelle platee e circoscrizioni che non sono direttamente rappresentate, ed i cui interessi ed aspettative possono entrare nel meccanismo della democrazia solo grazie a visioni di lungo periodo. La responsabilità politica moderna prende la forma delle garanzie che le scelte politiche “democratiche” non abbiano effetti negativi per gli interessi e le dotazioni di coloro che non hanno la possibilità di partecipare alla democrazia elettorale; garanzie verso domande che non ci sono o che non ci sono ancora. Citerò a titolo esemplificativo tre tipi di nuove responsabilità che la teoria democratica dovrebbe incorporare e rispettare.
In primo luogo sono sempre più evidenti le nuove responsabilità inter-generazionali. La democrazia responsiva è sicuramente poco sensibile verso gli interessi di quei futuri cittadini che ancora non votano, verso le generazioni future: il debito che lasciamo ai figli ed ai nipoti e le pensioni o i servizi che questi potrebbero non avere a causa di scelte dispendiose delle generazioni precedenti non entrano o entrano male nel circuito politico-istituzionale della democrazia responsiva. Non abbiamo mai veramente affrontato culturalmente il tema dell’irresponsabilità inter-generazionale della democrazia come volontà popolare. Questo per due motivi essenziali, uno generale ed uno forse più specificamente italiano. In primo luogo, in epoche precedenti la quantità di risorse su cui il governo decideva era decisamente inferiore e non lasciava intravedere il problema del loro esaurimento futuro. In secondo luogo, poiché nel nostro paese i legami familiari sono rimasti ancora solidi, i diffusi trasferimenti inter-generazionali di risorse all’interno dei nuclei familiari non hanno fatto percepire, o fanno percepire meno che altrove, la potenziale esplosività di una visione della democrazia che premia la responsività a breve.
In un senso ancora più ampio stanno emergendo nuove responsabilità inter-temporali non strettamente inter-generazionali. Si tratta di responsabilità verso misure e politiche che possono non essere richieste da nessuno nella competizione politica al momento attuale o sul breve periodo, ma che potrebbero essere richieste da molti o da tutti sul lungo periodo. Preferenze future adesso non espresse. Si pensi alla sostenibilità del clima, all’inquinamento di mari e delle terre, all’esaurimento delle risorse ed al bisogno di energie rinnovabili, alle infrastrutture di lungo termine; alle preoccupazioni per istruzione, capacità e competenze che potrebbero rivelarsi decisive nel lungo periodo. Non è possibile ignorare queste responsabilità in omaggio al principio che nessuno, o ben pochi, si organizzano e mobilitano per richiederle oggi e qui. E nello stesso tempo è chiaro che assumersi queste responsabilità richiede impegni e risorse da sottrarre al consumo immediato.
Infine, vediamo, di fatto, accrescersi altre e nuove responsabilità inter-comunitarie, responsabilità verso altre comunità. La democrazia responsiva è nazionale, ma le sue decisioni hanno effetti importanti sui membri di altre comunità che non votano e forse non voteranno mai nella nostra. Non si tratta soltanto del caso importante degli immigrati non-cittadini o dei richiedenti asilo, ma anche di tutte le conseguenze dirette e indirette che le nostre decisioni fiscali e di bilancio, commerciali, militari e regionali scaricano sui nostri partners. L’emissione di titoli pubblici sul mercato mondiale genera obblighi verso il risparmio altrui e non solo verso quello dei cittadini votanti. Una moneta comune vincola le nostre scelte al rispetto di preferenze collettive e non solo nazionali. Regole e procedure di concorrenza leale e non discriminatoria limitano la nostra capacità di tassare, contingentare o dirigere il consumo e il prestito.
Queste nuove responsabilità inter-generazionali, inter-temporali e inter-comunitarie dovrebbero trovare difesa costituzionale e talvolta si è proceduto lungo questa strada. Ma rimane che se queste responsabilità non sono tematizzate come elementi costitutivi della democrazia esse non faranno che aumentare il conflitto tra democrazia responsiva e democrazia responsabile.
In effetti, a ben vedere, la concezione della democrazia come inclusione, rappresentanza e volontà popolare non presenta alcun principio di responsabilità garantita rispetto a queste comunità senza diritto di voto. Non vi è alcuna garanzia che la “democrazia” possa rimanere “liberale” cioè “responsabile” in senso moderno ed è anche difficile immaginare nella attuale temperie culturale quali visioni culturali, forze politiche o meccanismi istituzionali possano operare una nuova sintesi tra democrazia come risposta simpatetica verso le domande dei cittadini e la democrazia come risposta responsabile verso i problemi e le compatibilità sistemiche di lungo periodo. Se la visione odierna della “democrazia” è dominata dal tema normativo della risposta alle domande, allora il principio normativo della responsabilità è lasciato a deboli aspetti comportamentali o etici, completamente disincentivati dalla competizione elettorale (si perdono le elezioni).
L’Unione europea nella tempesta perfetta.
Nella prospettiva delineata da questo intervento può essere utile analizzare brevemente la posizione che è venuto assumendo il processo di integrazione europea. L’Unione europea rivendica continuamente la sua natura “democratica”. Tuttavia il modo in cui tale integrazione si è venuta configurando ne ha fatto il modello di una democrazia intesa quasi esclusivamente nella dimensione liberale di responsabilità, proprio l’inverso di quanto prevale a livello nazionale. Ciò non è avvenuto senza ragione.
Per lungo tempo gli Stati membri, i loro partiti e lo loro élites hanno visto i vincoli esterni che i trattati ponevano alle democrazie nazionali come esiti benvenuti. La difficoltà che si riscontrava a livello nazionale nell’imporre disciplina alle lobbies ed agli interessi locali ha fatto loro accettare e percepire positivamente tutte quelle regole vincolanti che si presentavano come provenienti da forze in qualche modo anonime e al di fuori del loro controllo. Era ed è sport diffuso tra gli Stati membri quello di attribuire alla UE la responsabilità per scelte che essi stessi auspicavano, ma per le quali avevano difficoltà ad assumersi la responsabilità politica a livello nazionale. Era facile dire più o meno esplicitamente ai cittadini che non era colpa loro, che qualcun altro stava imponendo scelte impopolari. Piuttosto che assumere responsabilità diretta per le riforme necessarie e per piani elettoralmente costosi, si è preferito esternalizzare la responsabilità per essi.
L’integrazione europea dunque ha proceduto lungo una direzione prevalentemente economica, rimuovendo progressivamente i confini tra gli Stati membri con l’obiettivo di raggiungere una economia di scala sufficiente a superare le loro individuali debolezze. A lungo si è continuato a pensare che gli elementi dello Stato che definivano la sua “nazionalità”, “democraticità” e “ridistribuzione sociale” dovessero e di fatto fossero schermati dal processo di integrazione e che lo Stato avrebbe mantenuto il suo controllo sulle capacità redistributive, sui simboli culturali della nazione e sulla autorità politica. Era però inevitabile che sul lungo periodo il progetto di una rimozione differenziale dei confini avrebbe tracimato con i suoi effetti sulle componenti nazionali, democratiche e di welfare.
In realtà, ancora a metà degli anni Ottanta esistevano soluzioni alternative allo sviluppo della UE. All’inizio del 1984 il Draft Treaty Establishing the European Union promosso da Altiero Spinelli ed i suoi colleghi proponeva una fondazione federalista dell’Unione. Spinelli non usò il termine “costituzione” ma la sua proposta era costituzionale nella misura in cui 1) istituiva una separazione netta tra due camere legislative che votavano a maggioranza (Parlamento e Consiglio) ed un esecutivo, la Commissione; 2) stabiliva chiaramente la responsabilità politica della Commissione di fronte a tali camere; 3) introduceva la differenza cruciale tra leggi organiche (concernenti prevalentemente l’organizzazione ed il funzionamento delle istituzioni) e la legislazione normale sulle politiche; 4) dotava l’Unione di un potere fiscale attraverso legge organica; 5) introduceva il principio della modifica dei trattati con una maggioranza semplice dei paesi che rappresentassero almeno due terzi della popolazione dell’Unione. Il tentativo, come è noto, fu affossato dagli Stati membri.
L’alternativa che all’epoca fu contrapposta alla fondazione federale dell’Unione prevedeva il completamento del mercato unico interno (e la successiva introduzione dell’euro) all’interno di una sostanziale stabilità del quadro istituzionale. Tale soluzione fu preferita dagli Stati membri. Molti sostengono che questa fu una scelta “realistica”. Se si fosse approvato il nuovo trattato di Spinelli, il completamento del mercato interno (e l’introduzione dell’euro) sarebbero stati più complessi e controversi (aggiungo che anche che gli allargamenti all’est lo sarebbero stati). Tuttavia, questa scelta sancì in modo definitivo la natura dell’Unione. Essa con l’Atto unico europeo e le sue direttive concepiva la UE come un regolatore che doveva farsi carico di una serie di compiti tecnici e di “responsabilità” sovranazionali. Un luogo istituzionale ampiamente schermato dalla competizione politica. Il Parlamento, pur aumentando sempre i suoi poteri legislativi su questioni specifiche, è stato privato di ogni funzione di indirizzo politico ed è rimasto un ente di legislazione confinata privo di competenze sulle grandi questioni che agitano l’Unione e gli Stati membri.
In breve, l’UE è stata allora concepita come l’istituzione che meglio di ogni altra istituzione nazionale aveva il compito di occuparsi di quelle responsabilità sulle scelte di lungo periodo peraltro non soggette direttamente a legittimazione popolare nazionale. La Commissione in particolare è l’attore che più esplicitamente rappresenta quei principi di responsabilità inter-generazionale, inter-temporale e inter-comunitaria. L’Unione è democratica nella misura in cui certamente aderisce ai principi liberali ed anzi ne rappresenta forse l’espressione più autentica. Ma implicita in questa visione era l’idea che la democrazia responsiva sarebbe rimasta completamente appannaggio dello Stato nazionale. L’Unione non si è dotata di alcun principio di responsività alle pressioni elettorali e politiche. Queste attenevano e dovevano essere gestite da altri, dagli Stati nazionali e dalle loro competizioni politico-elettorali. In breve l’UE è stata concepita certamente nel rispetto dei principi democratici di stampo liberale, ma è stata privata di ogni capacità di responsività democratica.
Non è sorprendente che un’Unione così costruita diventasse politicamente controversa nei casi e nelle situazioni in cui a livello nazionale prevalessero le componenti responsive e popolari della democrazia, rispetto alle quali ben poco può dire e fare. La sua natura complessa tecnicamente, debole politicamente e socialmente elitaria l’ha quindi esposta come ideale capro espiatorio della fase di riaffermazione della democrazia responsiva successiva alla grande crisi del 2008. A partire da quella data su di essa si è addensata la “tempesta perfetta” dello scontro crescente tra principi liberali e principi popolari sempre intrinseco alla moderna concezione della democrazia. Un ufficio tecnico regolativo sempre teso ad ampliare i suoi spazi di intervento spinto dalle necessità funzionali dell’integrazione che naviga nel mare in tempesta delle politiche nazionali sempre meno disposte ad accettare vincoli che non siano legittimati elettoralmente.
Una non-conclusione.
La conclusione di un intervento di questo tipo non dovrebbe limitarsi all’analisi ma anche affrontare il tema del che cosa si possa fare per migliorare la situazione. Mi è molto difficile addentrarmi in proposte specifiche. Allo stato attuale prevale un pessimismo che si nutre della difficoltà di trovare ancora un modo di coniugare responsività e responsabilità.
Il “populismo” è semplicemente l’etichetta che attribuiamo a partiti e movimenti che hanno deciso, ed hanno trovato remunerativo, impegnarsi sulle politiche di risposta a breve e che hanno deciso – o hanno trovato remunerativo – disinteressarsi delle responsabilità di lungo periodo, delle compatibilità sistemiche, delle potenziali conseguenze negative di lungo termine delle loro posizioni; movimenti che impugnano la bandiera della responsività e disprezzano quella della responsabilità. Al tempo stesso è innegabile che il “populismo” si alimenta del tentativo di alcune élites di proteggere le politiche responsabili dall’eccesso di responsività. Al momento, la prevalenza del principio di responsività popolar-plebiscitario su quello liberale di “responsabilità” sia nella versione classica (governo limitato, protezioni interne) che in quello moderno (protezione delle circoscrizioni assenti) è evidente e sta generando tensioni istituzionali sia a livello nazionale che europeo.
Al tempo stesso è difficile nutrire speranze di soluzioni “istituzionali” che possano riequilibrare i due principi. La soluzione di devolvere ad una serie di istituzioni sovra-nazionali la cura delle compatibilità sistemiche e delle responsabilità di lungo periodo sembra aver fallito, per ora. La soluzione di inserire nell’Unione europea un elemento di responsività democratica attraverso il Parlamento europeo, la competizione tra partiti europei, gli Spitzenkandidaten ed altri meccanismi di presunta politicizzazione mostra anch’essa la corda.
Non rimangono dunque al momento che speranze ideazionali: impegnarsi e battersi per una revisione della teoria democratica che mostri le incongruenze ed i rischi di una applicazione integrale dell’idea di democrazia come responsività nazionale e riproponga una necessaria nuova sintesi tra responsività e vecchie e nuove responsabilità. L’altra possibilità, che una democrazia sempre più responsiva e sempre meno responsabile mostri il suo volto demoniaco (nazionalismo, protezionismo, etc.) ed alla fine, dopo l’ennesima catastrofe, si ricominci a ragionare su basi diverse, appare troppo costosa.
* Relazione presentata alla sessione su La crisi della democrazia europea: le sfide del nazionalismo e del populismo dell’incontro nazionale dell’Ufficio del dibattito del Movimento federalista europeo tenutosi a Firenze il 13-14 ottobre 2018.