Anno XL, 1998, Numero 3, Pagina 194
Dopo l’Unione monetaria nuove sfide per l’Europa
KARL LAMERS
Il cammino che ha portato all’euro è stato un grandissimo successo dell’Europa e dei suoi popoli. Lo stesso euro costituisce il fattore determinante della forma che assumeranno l’equilibrio interno di ciascuno degli Stati europei, i rapporti dell’Europa con il resto del mondo e il suo assetto costituzionale.
La caratteristica distintiva del processo di convergenza che ha portato all’euro è il rafforzamento della politica nazionale. E’ stato questo rafforzamento che ha consentito di realizzare i risparmi, le restrizioni, le riforme e gli adattamenti necessari. La dimostrazione più evidente di questa tesi è l’Italia che, sulla strada dell’euro, ha già realizzato modifiche strutturali del suo sistema politico e che ora a queste modifiche sta per dare un fondamento costituzionale. Il cammino che ha portato all’euro è quindi la più eloquente delle dimostrazioni di come agisce la logica del processo di unificazione europea. I popoli si propongono uno scopo comune, la cui realizzazione rimane una responsabilità nazionale ma può aver luogo effettivamente soltanto se viene perseguita attraverso l’assunzione di impegni sovranazionali, cioè europei. Si può quindi dire che l’Europa rafforza le capacità realizzatrici della politica nazionale, o addirittura che ne costituisce la condizione. L’Europa rafforza, e non indebolisce, gli Stati nazionali — ma soltanto nella misura in cui essi agiscono insieme e accettano una limitazione della loro libertà d’azione: una libertà d’azione che peraltro, di fronte alla realtà sovranazionale, in numerosi settori decisivi è diventata un guscio vuoto.
L’Unione economica e monetaria è un programma di modernizzazione e di risanamento della situazione economica, sociale e politica dell’Europa. Essa ci libera delle colpe di un passato nel quale abbiamo copertole nostre debolezze con danaro preso a prestito e ci indica invece il cammino di riforme dolorose ma necessarie per ridarci vigore.
I mercati finanziari, che costituiscono una sorta di voto quotidiano sull’economia e la politica di tutti i paesi del globo, rispecchiano in modo impressionante un’atmosfera di ritrovata fiducia nei confronti dell’ Europa e dei suoi popoli. Dove starebbero oggi l’Europa ed i suoi popoli senza il processo di Maastricht? L’Asia guarda con invidia al dinamismo dell’Europa, come ho letto recentemente in un titolo di giornale.
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Da un punto di vista istituzionale, l’euro dà luogo ad un sistema federale di tipo nuovo.
Un elemento della politica nazionale, la politica monetaria, assume una dimensione europea. Nella forma che ha assunto attraverso il Trattato di Maastricht, essa diventa l’elemento chiave della politica economica. Alla base di tutto ciò sta una precisa filosofia economica. Resta però il fatto che tutto il resto della politica economica continua a rientrare nella competenza nazionale. A questo proposito bisogna ricordare che la politica economica non abbraccia soltanto l’assetto economico, ma anche quello sociale della convivenza. Essa deve essere complementare rispetto alla politica monetaria della Banca centrale europea. Ciò che è nuovo in questo sistema federale non è soltanto la ripartizione delle competenze tra livello federale e Stati membri, ma anche l’assenza di trasferimenti di una dimensione paragonabile a quella dei trasferimenti che hanno luogo nella Repubblica Federale di Germania attraverso il meccanismo della compensazione finanziaria tra i Länder o per il tramite del bilancio federale. Uguaglianza ed equità non si realizzeranno dunque in Europa in primo luogo attraverso i trasferimenti, ma attraverso la concorrenza (ed è prevedibile che questo sistema darà un forte incoraggiamento in Germania alla richiesta di una riforma del sistema della compensazione finanziaria tra i Länder e, attraverso questa via, dell’intera struttura federale).
Il sistema federale europeo è quindi nuovo perché esso tende a realizzare un nuovo equilibrio tra: a) l’Unione e gli Stati nazionali, b) la libertà e l’uguaglianza, c) l’unità e la diversità e d) la solidarietà e la concorrenza. La prima grande sfida con la quale si deve confrontare l’Unione è proprio quella di realizzare questo equilibrio attraverso un processo di lunga durata.
Gli strumenti per la coordinazione e l’armonizzazione della politica economica sono il Gruppo euro-11 e l’Ecofin. Naturalmente anche il Consiglio europeo entrerà in gioco di tanto in tanto, quando saranno sul tappeto questioni di fondo. I Tedeschi hanno dato talvolta l’impressione di ritenere che interventi di questo tipo non fossero necessari: come se la politica economica procedesse automaticamente sulla base delle decisioni di politica monetaria della Banca centrale europea e del Patto di stabilità. Nello stesso tempo però essi spingono fortemente perché venga combattuta la dannosa concorrenza fiscale («You are the driving force» mi ha detto una volta il Commissario competente per il settore riferendosi all’impegno tedesco per una maggiore armonizzazione). Facendo questo noi insistiamo in ogni circostanza, contro il nostro credo ufficiale, per una armonizzazione delle aliquote e degli standards sui livelli tedeschi, cioè sui livelli più alti. Noi tedeschi dovremmo essere consapevoli di queste contraddizioni, così come dovremmo essere consapevoli che nell’Unione economica e monetaria, anche senza bail-out, ognuno garantisce per tutti gli altri, tutti devono essere solidali, perché tutti di fatto si assumono la responsabilità per gli errori di ognuno dei governi degli Stati membri in quanto ne subiscono le conseguenze – per esempio nella forma di tassi di interesse più elevati. L’Unione monetaria è infatti, come dice Hans Tietmeyer, una comunità di destino. Essa ci obbliga a pensare in modo solidale, cioè a pensare europeo.
Il contenuto del dibattito — necessario, e sicuramente anche controverso — sulla politica economica è il modello europeo. Esso riguarda quindi il compito di coniugare un sistema economico liberale e capace di sostenere la concorrenza globale con un sistema sociale stabile e solidale. E’ questa la seconda sfida, indissolubilmente legata alla prima. A questo riguardo dobbiamo mettere in chiaro che l’economia non è un fine in sé stessa, che gli uomini non vivono per lavorare, ma lavorano per vivere. Nello stesso modo dobbiamo renderci conto che né il modo di lavorare né il modo di vivere che sono stati i nostri fino ad oggi (si faccia l’esempio dei nostri sistemi di sicurezza sociale) possono sottrarsi al cambiamento. Non esistono vie che consentano di evitare le riforme. L’alternativa è: adeguamento o sottomissione. Certo dobbiamo riconoscere che oggi sappiamo meglio che cosa non possiamo più fare che non che cosa dobbiamo fare per realizzare entrambi i fini, cioè per avere un’economia e una società che funzionino in un modo equo. Ma possiamo imparare l’uno dall’altro, soprattutto da quelli che sono più avanti sulla strada delle riforme: dai loro successi e dai loro insuccessi, che si parli degli Olandesi o degli Inglesi, dei Danesi, o anche degli Spagnoli e dei Portoghesi: chi l’avrebbe mai pensato! L’Europa deve diventare una comunità di apprendimento, se vuole diventare qualcosa. Per questo ci dobbiamo aprire gli uni agli altri. L’apertura è la condizione dell’unità. «Bench-marking» è un’espressione tecnocratica per questo processo interno di sviluppo dell’unità europea.
Il successo dell’economia sociale di mercato, del «capitalismo renano» è stato il motivo che ha spinto i nostri partners ad accettare il contenuto del Trattato di Maastricht, ispirato com’era ad una filosofia di orientamento tedesco, sebbene esso confliggesse nettamente con le tradizioni di alcuni paesi. Ora anche questo modello tedesco è in crisi. Esso potrà diventare il modello europeo soltanto se i Tedeschi sapranno adattarlo, cioè perfezionarlo. Soltanto se avrà successo anche in circostanze mutate esso potrà convincere in futuro i nostri partners così come ha fatto in passato. Questo successo è più importante per la legittimità della via tracciata dal Trattato di Maastricht di quanto non lo sia qualsiasi misura di carattere istituzionale. Proprio perché la Germania è servita da modello, perché ha in larga misura fissato le condizioni dello sviluppo dell’Unione economica e monetaria, essa ha una particolare responsabilità per la riuscita di questo vasto progetto di modernizzazione e di risanamento economico, sociale e politico in Europa. La Germania deve essere più consapevole di questo. Per la Germania la politica europea, nell’Unione economica e monetaria, non è soltanto politica istituzionale, ma è anche politica economica, una politica di cui essa porta la responsabilità, sebbene essa produca conseguenze sui suoi partners e sia anche il risultato della loro collaborazione.
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L’Unione economica e monetaria ha conseguenze anche sulla PESC.
La reciproca assunzione di responsabilità alla quale ci costringe l’Unione monetaria significa anche contribuire a far fronte alle conseguenze che dovrebbe subire uno Stato membro che fosse vittima di un’aggressione o che fosse coinvolto in un conflitto militare. Fortunatamente questo è oggi soltanto un pericolo teorico, ma che si potrebbe rapidamente trasformare in un pericolo reale in un’epoca come la nostra nella quale sono in uso sistemi d’arma dotati di un ampio raggio d’azione e sono presenti, in regioni a noi vicine, tensioni esplosive. Ora, chi condivide lo stesso destino economico non può averne uno diverso sotto il profilo della sicurezza.
Al di là di questa considerazione di fondo, vi è una conseguenza concreta dell’Unione monetaria che ci costringe ad un ulteriore passo avanti in un settore particolare della politica estera: quello della politica economica esterna.
Non è pensabile che i membri di un’unione monetaria tengano posizioni diverse nell’ambito del Fondo monetario internazionale; e lo stesso vale naturalmente anche per la Banca mondiale e per gli incontri del G7/G8. Con l’Unione monetaria, l’Unione europea diventa ancora di più un global player, anche se soltanto sul terreno dell’economia. Con questo si accentua l’asimmetria tra le caratteristiche contrastanti dell’Europa, che è nello stesso tempo un gigante economico e un nano politico. Questo squilibrio può produrre soltanto incomprensioni e tensioni, soprattutto nei rapporti con l’America. Per questo l’Europa deve diventare anche un soggetto capace di agire nei settori della politica estera e di sicurezza. La terza grande sfida dell’Europa è proprio quella di superare questa contraddizione tra ambizioni e realtà.
In questo è in gioco la consapevolezza della nostra identità, che noi sviluppiamo sempre nei rapporti con gli altri. E’ in gioco cioè, da un lato, la solidarietà tra loro e noi e, dall’altro, la definizione delle rispettive sfere di responsabilità.
Si tratta inevitabilmente dei nostri rapporti con l’America. Gli Stati Uniti infatti, da qualunque punto di vista li guardiamo, sono, sia all’interno che all’esterno, insieme europei e non europei. Essi siedono, apertamente o come presenza invisibile, ad ogni tavolo europeo, sono insieme partners e potenza egemone, hanno dato un grande aiuto all’Europa e un grande impulso alla sua unità, ma non vogliono perdere il controllo su di essa. L’Europa è una parte del sistema globale americano. Gli Stati Uniti sono parte del sistema europeo.
Il loro rapporto è quindi complesso e difficile e — come è possibile notare quasi ogni giorno — esso deve essere urgentemente ridefinito, perché America ed Europa costituiscono insieme l’Occidente, cioè quella parte del genere umano che fino ad oggi ha determinato l’ordine mondiale, che diventa ogni giorno più piccola e il cui ruolo è messo in questione. La mia convinzione è che Europa ed America debbano rispondere insieme a questa sfida, perché essa le riguarda entrambe, perché i loro interessi vitali sono gli stessi. Peraltro vi sono altri interessi che divergono, così come divergono le loro concezioni dei mezzi per risolvere i problemi. Le loro visioni del futuro ordine mondiale non sono state sufficientemente coordinate. L’Europa può far valere i suoi specifici interessi, le sue concezioni e le sue prospettive soltanto se parla con una sola voce. L’America, senza un partner che si trovi in condizioni di uguaglianza rispetto ad essa, può perdere il suo equilibrio o sentirsi confrontata con un compito troppo gravoso. L’Europa e l’America hanno bisogno oggi di un rapporto di collaborazione più intenso, e non certo del contrario. La NATO deve essere trasformata, sia per quanto riguarda i suoi compiti che per quanto riguarda la sua struttura, in una alleanza tra l’America e un’Europa capace di agire, un’alleanza in grado di affrontare le sfide globali. In questa prospettiva l’unità europea riceve la sua dimensione storica mondiale: quella di essere un elemento portante del futuro ordine mondiale. Gli Stati Uniti chiedono agli Europei con sempre maggiore insistenza di assumersi maggiori responsabilità in questo senso. Ma anche il resto del mondo aspetta con impazienza che emerga un partner con il quale sia possibile una collaborazione priva di qualunque carattere egemonico. Il Vertice del giubileo della NATO nel maggio 1999 a Washington è l’occasione nella quale l’Europa dovrà dare una prima risposta.
L’Unione europea non arriverà mai a concepire sé stessa come un patto indissolubile, come una larga comunità di destino, né i suoi cittadini la potranno mai completamente sentire come legittima fino a che non sarà anche competente per la politica estera in tutti i suoi aspetti. La politica estera è una questione centrale dell’identità dell’Europa.
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L’identità europea e la solidarietà tra gli attuali e i futuri membri dell’Unione sono in gioco anche in occasione dell’allargamento. Questo costituisce un secondo grande compito. Contemporaneamente è in gioco la capacità di convivere dei membri attuali e di quelli futuri nel loro complesso, poiché le differenze tra vecchi e nuovi membri sono più grandi di quanto non lo siano mai state in occasione di un allargamento: dal punto di vista economico, politico e non da ultimo della mentalità. Si tratta quindi di un compito difficile. Si tratta di verificare i limiti della capacità dell’Unione di accogliere nuovi membri, ma anche dei suoi confini geografici e politici; si tratta di definire i rapporti con i nuovi vicini che l’Unione acquisirà con l’allargamento, soprattutto con l’Ucraina: un paese alla cui esistenza l’Unione europea ha un interesse straordinario, ma il cui futuro e la cui collocazione internazionale sono tuttora incerti; si tratta infine dei rapporti con la Russia, con la quale l’Unione europea confinerà in una regione particolarmente delicata dopo che essa avrà accolto i paesi baltici. Per tutti questi motivi l’immagine che l’Unione europea ha di sé è destinata a cambiare; ma ciò accadrà anche perché è in questione il significato etico-politico della sua esistenza così come esso era stato definito dall’impegno storico che l’Europa libera aveva assunto a Roma nel 1958 di fronte ai suoi vicini che vivevano sotto il dominio sovietico.
L’allargamento deve essere realizzato il più rapidamente possibile e senza sottoporre a tensioni eccessive i paesi candidati, gli attuali membri dell’Unione e l’Unione in quanto tale. Ai fini del consolidamento dell’Unione allargata e del superamento delle paure che l’allargamento suscita è di importanza decisiva il processo di modernizzazione messo in moto dall’Unione economica e monetaria. Perché l’Unione rimanga capace di agire dopo l’allargamento è necessario giungere prima alla riforma del peso relativo del voto dei diversi governi in seno al Consiglio, della composizione e della struttura della Commissione e della procedura per la presa delle decisioni. Comunque mi convinco sempre di più che questi problemi si potranno risolvere in modo soddisfacente soltanto se saranno considerati nel quadro di un dibattito più ampio che metta in discussione i principi fondamentali. Si tratta dello stesso quadro nel quale si devono considerare anche i tre temi dei quali ho parlato: quello dell’immagine che noi abbiamo di noi stessi come Europei. Chi siamo, e che cosa vogliamo? Qual è la nostra idea dell’ordinamento interno delle nostre società e dei loro rapporti reciproci? Che ruolo deve giocare l’Europa nel mondo? Infine dove finisce l’Europa? Chiunque non sa quale sia il suo punto di arrivo non sa nemmeno quale sia il suo punto di partenza.
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La discussione su questi punti, che del resto è incominciata da tempo, investe, in questo contesto, gli elementi fondamentali di un dibattito che, nella terminologia tradizionale, si dovrebbe definire come un dibattito costituzionale. Comunque, per evitare inutili controversie sul concetto di costituzione, preferisco dire che l’Europa deve portare avanti un grande dibattito che abbia come oggetto un contratto costituzionale.
Lo sviluppo progressivo dell’Europa, così come esso ha avuto luogo fino ad ora, ha raggiunto con l’Unione economica e monetaria uno stadio che richiede e insieme rende possibile una risposta alla domanda relativa al vero fine del processo di unificazione europea. Soltanto dopo che avremo dato una risposta a questa domanda fondamentale potremo rispondere anche a quella, di natura istituzionale, su chi fa che cosa ai diversi livelli di governo. Fare chiarezza su questo problema costituisce la premessa essenziale alla trasformazione democratica dell’Europa, che ormai è urgentemente necessaria. Un testo chiaro, comprensibile per i cittadini, nel quale siano espressi i valori comuni dell’Europa, e che sia approvato dai cittadini, a conclusione di un pubblico dibattito, con un documento comune, porterebbe come tale la legittimità dell’Europa ad un gradino più elevato.
Anche la discussione, che viene condotta in molte sedi, sul potere della Commissione e sul suo insufficiente controllo democratico, rendono urgente l’adozione di regole fondamentali. Nel dibattito tedesco, che si è sviluppato suprattutto a livello dei Länder, sulla politica delle istituzioni, il problema centrale, a mio avviso, non è quello della sussidiarietà, cioè quello che riguarda la domanda: «Chi fa che cosa?», ma piuttosto quello relativo a che cosa può e che cosa non può essere fatto per non provocare distorsioni nella concorrenza. In ogni caso si dovrà dire a tutti coloro che, in parte a ragione e in parte a torto, lamentano un eccessivo centralismo di Bruxelles, che a questa tendenza ad un’accentuazione del centralismo può essere messo un termine non già dal principio di sussidiarietà in quanto tale, ma soltanto dalla sua traduzione in una chiara ripartizione delle competenze.
Chi sostiene che un «contratto costituzionale» di questo genere darebbe luogo, indipendentemente dalla sua denominazione, ad un «superstato» europeo, dovrebbe prima di tutto rendersi conto che già oggi gli atti giuridici e le decisioni della Corte di giustizia sono giuridicamente vincolanti per ogni cittadino dell’Unione. Noi dobbiamo prima di tutto, invece di usare slogans polemici, mettere in chiaro che cosa significa ancora oggi la statualità, una volta che il principio territoriale del potere e quindi il nocciolo di ogni statualità si deve considerare superato. L’Europa è la risposta degli Europei alla domanda di come oggi il potere politico può essere organizzato in vista della realtà sovranazionale. Da questo punto di vista la soluzione che può salvare la politica non è un superstato, ma un sovrastato, un progetto istituzionale che vada al di là della statualità tradizionale.
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Questo grande dibattito sul problema di che cosa è veramente in gioco con l’Europa è necessario, secondo me, anche perché dobbiamo uscire dalle attuali strettoie del dibattito europeo. Esse mettono in pericolo i tre scopi di cui ho parlato prima, e soprattutto quello dell’allargamento. Attenendomi al sano principio secondo il quale ognuno deve prima di tutto far pulizia davanti alla propria porta, desidero fare alcune osservazioni a proposito del dibattito in corso in Germania.
Nel mio paese è da qualche tempo in uso sostenere che è ormai ora che la Germania faccia valere in Europa i propri interessi. Qualcuno sembra provare soddisfazione nella riscoperta di un concetto che era passato di moda. lo invece non credo alle mie orecchie. Che altro abbiamo fatto fino ad ora se non perseguire i nostri interessi, e non lo abbiamo forse fatto tanto bene che alcuni dei nostri partners hanno talvolta pensato che il nostro successo fosse eccessivo, che noi siamo diventati troppo forti, soprattutto dopo la riunificazione tedesca — che ha rappresentato sicuramente un interesse nazionale, anche se realizzabile soltanto in un quadro europeo? Non sarebbe comprensibile, di fronte a queste affermazioni, che quegli stessi nostri partners incominciassero segretamente a temere che, sotto la copertura di questo concetto, i Tedeschi vogliano in futuro qualcosa di fondamentalmente diverso? Questo naturalmente non è vero, se si fa eccezione per alcune figure marginali della politica tedesca. Si tratta quindi soltanto di discorsi avventati? In gran parte sì: di fatto si vuol dire in generale «soltanto» che alcuni interessi della Germania non vengono difesi con il massimo impegno possibile. E ciò in qualche caso può essere vero: ma nella maggior parte dei casi certamente non lo è. In realtà il modo in cui gli interessi tedeschi sono stati fino ad oggi promossi è stato eccezionalmente efficace, anche se né il concetto di «interesse» né quello di «interesse nazionale» sono stati usati con particolare insistenza. Il metodo nazionale tedesco è stato ed è adeguato al nuovo sistema europeo. Un Americano, eccellente conoscitore e amico della Germania, mi ha detto una volta che per lui il problema decisivo era se la Germania sarebbe stata in grado anche in futuro, così come le è riuscito in modo ammirevole nel passato, a subordinare i propri interessi a breve termine a quelli a lungo termine, come è accaduto per esempio per quanto riguarda i versamenti tedeschi all’Unione europea. Questo è il massimo complimento che si può fare alla politica di un paese. Questo atteggiamento — determinato all’inizio senza dubbio dalla necessità, ma successivamente in un certo modo interiorizzato in quanto rivelatosi di grande utilità — non deve essere abbandonato, nell’interesse della Germania e dell’Europa. Esso ha dato alla Germania non soltanto prestigio, ma anche influenza. Chi avrebbe mai pensato che 50 anni dopo la catastrofe militare, economica, politica e soprattutto morale della Germania l’ordinamento economico e sociale tedesco sarebbe servito da modello per il progetto dell’Unione economica e monetaria europea?
E’ vero che dopo il 1945 tutti i partners della Germania avevano riconosciuto la necessità che i loro interessi non dovessero più essere promossi in un contesto di contrapposizione ma nel quadro di una collaborazione reciproca; ma l’interesse della Germania ad un nuovo sistema europeo integrato, dopo il 1945, non solo era ancora più forte di quello dei suoi partners, perché costituiva l’unica strada per la sua riabilitazione, ma tale doveva anche rimanere, perché la prospettiva della fine della divisione dell’Europa avrebbe ridato alla Germania quella posizione centrale che era stata all’origine di tanti conflitti. Questa prospettiva è diventata realtà nel 1990. Quello che fino ad allora era stato il sistema europeo occidentale deve affrontare oggi la più grande delle sfide alle quali ha dovuto rispondere. La Germania ha il massimo interesse a che esso superi questa prova. Ma il superamento dell’ antagonismo tra gli interessi nazionali non può avvenire attraverso una collaborazione da realizzare caso per caso, bensì soltanto grazie alla creazione di un sistema vincolante di regole, cioè attraverso l’integrazione. Sotto questo profilo l’integrazione non è soltanto un metodo, ma un fine in sé. La politica tedesca non diventa con questo più inglese, ma rimane tedesca, soprattutto in una fase nella quale grazie a Dio la politica inglese sta diventando più europea.
La posizione della Germania deve essere definita a partire da questa considerazione di fondo anche per quanto riguarda la forma futura del finanziamento dell’Unione europea. Esiste un punto di vista dal quale anche a me i contributi tedeschi sembrano troppo elevati rispetto a quelli dei partners della Germania: è il punto di vista dell’equilibrio interno dell’Unione, che sembra compromesso quando un singolo paese su quindici paga un contributo di solidarietà doppio rispetto a quello che gli spetterebbe in ragione del rapporto tra il suo prodotto nazionale e quello complessivo dell’Unione europea. Una sproporzione di questo genere in una comunità legata da vincoli di solidarietà fa nascere subito il sospetto che la struttura delle sue spese non sia bene equilibrata. Questo, secondo la generale convinzione, vale anche per l’Unione europea. Per questo si dovrebbero riconsiderare tutti i capitoli di spesa, anche in considerazione del fatto che la loro utilità, da un punto di vista economico, è spesso controversa — per esprimersi in termini cauti. Ma la legittima richiesta tedesca di uno sgravio di spesa deve essere giustificata in modo coerente. Non risulta molto convincente che si chiedano risparmi soltanto nei settori nei quali la soppressione delle spese danneggerebbe gli altri. Ciò vale tanto più in quanto le prossime spese, così come esse sono programmate nell’Agenda 2000 in vista dell’allargamento dell’Unione, devono essere viste nel loro complesso. La Germania deve rendersi conto che i nostri partners sanno che tutti i paesi candidati — come del resto anche la Russia — intrattengono con essa la metà dei loro rapporti economici con l’estero, e che questi danno luogo ad un saldo netto a suo favore. Anche se i nostri partners capiscono sempre più chiaramente che l’allargamento è nell’interesse di tutti, essi vedono anche che la Germania sarebbe danneggiata più di tutti gli altri, non solo economicamente, ma anche politicamente, se fallisse il tentativo di accogliere i nostri vicini mitteleuropei in un ordine europeo stabile. Questo modo di pensare è sicuramente troppo unilaterale e a breve termine, ma non è del tutto arbitrario, ed è comunque diffuso. L’ampiezza dell’orizzonte di cui l’Americano che ho citato accredita la Germania per il passato deve guidare la nostra politica anche per il futuro nell’interesse sia della Germania stessa che dell’Europa, perché gli interessi vitali di entrambe sono identici. Soltanto se si lascerà guidare da questo spirito la Germania potrà chiedere anche ai suoi partners solidarietà nei confronti dei nuovi membri e, per esempio, alla Spagna di non ispirare la propria politica europea al principio di conservare ciò che ha, qualunque cosa accada.
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Spesso ci si lamenta del fatto che l’Europa non abbia più una visione del futuro. Si tratta di un’ affermazione che non capisco, perché tutto ciò di cui ho parlato è una visione del futuro, anche se, grazie a Dio, si tratta di una visione concreta, che è avviata verso la sua realizzazione. Naturalmente il suo cammino è faticoso, e talvolta anche difficile da comprendere. Per questo talvolta si rischia di perdere di vista il punto d’arrivo:
a) un’Europa che costituisca una forma nuova e aperta verso il futuro di organizzazione del potere politico e di controllo democratico in un quadro sovranazionale;
b) una forma nuova di diversità nell’unità, che sia per ciò stesso un modello per gli altri popoli; un’Europa però che possa servire da modello anche in quanto, nello stesso contesto della globalizzazione, essa sappia fondare un ordine capace di dare una nuova validità ai suoi vecchi ideali di libertà, uguaglianza e fraternità;
c) un’Europa che sia un partner di ugual peso — non di uguale natura — dell’America nel perseguimento dei comuni interessi e valori dell’ Occidente;
d) un partner che sia tale anche per il resto del mondo e che non debba essere temuto, anche se dovrà essere capace di difendersi;
e) un’Unione di popoli che — in quanto rinnovata e rafforzata — possa mantenere l’equilibrio tra apertura e compattezza nei confronti del resto del mondo.
Su questa strada dell’acquisizione e del rafforzamento della consapevolezza della propria identità e della propria autoaffermazione l’Europa ha compiuto negli ultimi decenni incredibili progressi. Ma oggi il suo destino non dipende tanto dalla sua storia quanto dalle sue scelte future.