Anno XL, 1998, Numero 2, Pagina 112
LUCIO LEVI
Più di cento anni fa Ernest Renan, nella famosa conferenza intitolata Che cos’è una nazione, aveva osservato che l’idea di nazione, «chiara in apparenza», è «facile a essere gravemente fraintesa»[2]. Ancora oggi lo stato di confusione esistente nella letteratura sulla nazione non è sostanzialmente mutato.
Ciò che è nuovo è il fatto che la corrente principale della storia sta travolgendo gli Stati nazionali. In un mondo che ogni giorno diviene sempre più strettamente interdipendente nelle sue parti, gli Stati nazionali non sopravvivono che come un vestigio di altri tempi.
Nuove forme di statualità e di legittimità del potere, fondate su principi di convivenza politica multinazionali e federali, stanno emergendo e tendono a prendere il posto del vecchio e cadente ordine degli Stati nazionali.
Se queste tendenze sono reali, è legittimo affermare che i tempi sono maturi per una conoscenza complessiva della realtà nazionale. Infatti, la chiarezza sistematica del pensiero arriva sempre alla fine di un ciclo storico. Hegel aveva ragione a considerare la capacità di comprendere il mondo contemporaneo come un segno premonitore dell’avvicinarsi al tramonto di un’epoca: «La filosofia arriva sempre troppo tardi... Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo»[3]. In altri termini, se è vero che l’ordine nazionale ha percorso l’intero arco della propria parabola, i suoi lineamenti diventano pienamente riconoscibili, perché sono illuminati dalla luce del crepuscolo.
Eppure la letteratura contemporanea sullo Stato nazionale, se ha perso il carattere apologetico di altri tempi a causa dell’esaurimento del suo oggetto, nel complesso non ha compiuto sensibili progressi sul terreno della definizione e della spiegazione della natura della nazione. Emblematico è il caso di Eric Hobsbawm, il quale nel libro Nazioni e nazionalismo, dopo aver affermato che, senza avere qualche cognizione del concetto di nazione, è impossibile capire gli ultimi due secoli di storia, rinuncia a definire la nazione. «Il presente libro», egli scrive «non intende adottare una definizione di tipo aprioristico di ciò che costituirebbe una nazione. Come prima ipotesi di lavoro si considererà pertanto ’nazione’ un nucleo di popolazione sufficientemente ampio i cui appartenenti si ritengono membri della stessa»[4]. Nel corso del libro, Hobsbawm non va al di là di questa prima ipotesi, che è, in verità, ben poco illuminante.
In una intervista, che costituisce la sua ultima riflessione sulla questione nazionale, Albertini ha osservato che «Hobsbawrn simboleggia bene la letteratura sulla nazione, basata su criteri rigorosi, scientifici, ma che in qualche modo ha sempre eluso la domanda: che cosa è la nazione? Si studia la nazione come se fosse una realtà precostituita, conosciuta prima ancora di mettersi a studiarla. Mentre ciò che si tratta di stabilire è proprio che cosa è la nazione, chi la controlla, a che titolo e per quale motivo, oppure chiedersi se la nazione non è che la rappresentazione illusoria di qualche cosa d’altro»[5]. A causa dell’apparente incontestabile evidenza del principio dell’organizzazione del mondo in Stati sovrani, distinti tra di loro sulla base della nazionalità, gli studiosi tendono ad assumere l’esistenza delle nazioni come un dato indiscutibile.
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Nel momento in cui si afferma, un nuovo pensiero politico definisce le proprie determinazioni attraverso la contestazione dell’ordine costituito. Il suo primo compito consiste nell’identificare i caratteri essenziali dell’oggetto che si propone di demolire. Il contributo di Mario Albertini alla comprensione del senso della storia contemporanea ha una stretta relazione con la scelta di valore legata al movimento federativo in corso in Europa, che segna la fine dell’era del nazionalismo, iniziata con la rivoluzione francese. Collocandosi in questo punto di osservazione e partendo dalla motivazione politica a superare i limiti dello Stato nazionale, Albertini ha elaborato un nuovo apparato concettuale che ha consentito di illuminare la parte oscura della realtà nazionale e di dare un fondamento scientifico alla critica dell’idea di nazione.
Il saggio di Albertini su Lo Stato nazionale, che aveva cominciato a circolare nel 1958 e fu pubblicato nel 1960[6], contiene la maggior parte di ciò che conosciamo (o dovremmo conoscere) a questo riguardo. Il problema che si pone Albertini è quello di identificare, all’interno dell’ampia categoria della forma-Stato, gli aspetti tipici dello Stato nazionale. Lo strumento conoscitivo utilizzato da Albertini è il tipo ideale, teorizzato da Max Weber. Esso non riproduce l’intero contenuto della realtà statale-nazionale (il che sarebbe impossibile), ma ne isola, tramite un procedimento comparativo, alcuni aspetti mediante l’accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e «mediante la connessione di una quantità di fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in minore misura, e talvolta anche assenti, corrispondenti a quei punti di vista unilateralmente posti in luce, in un quadro concettuale in sé unitario»[7]. Il tipo ideale costituisce dunque un modello che ha lo scopo di dare ordine al caos dei dati empirici, identificando e spiegando una determinata realtà storico-sociale.
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Il punto di partenza della ricerca di Albertini è rappresentato dalla critica ai criteri oggettivi per definire la nazione, come la razza, la lingua, la religione, e così via, critica che Renan aveva già fatto nella citata conferenza tenuta alla Sorbona nel 1882. Nessuno di questi criteri regge a un’attenta analisi empirica.
Un primo modo di intendere la nazione si fonda sull’ipotesi dell’esistenza di un vincolo naturale, che è riconducibile all’idea di razza. Si tratta di un’ipotesi priva di ogni fondamento scientifico. Il solo scopo per cui è stata (e continua a essere) usata l’idea di razza è giustificare la discriminazione, alimentare l’odio razziale, creare e mantenere l’ostilità tra i gruppi umani. In effetti, i caratteri biologici, trasmessi per via ereditaria, si distribuiscono lungo una linea continua nelle varie parti del mondo, di modo che, in ciascun gruppo umano, si può constatare la prevalenza di determinati caratteri. Tuttavia, i caratteri prevalenti di un gruppo confluiscono gradualmente in quelli dei gruppi contigui, di modo che non è possibile distinguere un determinato gruppo sulla base di caratteri biologici distinti. D’altra parte, la genetica e l’antropologia hanno messo in luce che non esiste un rapporto diretto di determinazione dei caratteri mentali da parte dei caratteri biologici, mentre i caratteri ereditari e l’evoluzione biologica della specie umana sono condizionati in larga misura da fattori di natura storico-sociale, cioè dall’insieme delle norme che regolano la riproduzione e il matrimonio, le quali, a loro volta, dipendono dal sistema produttivo, dalla struttura dell’organizzazione politica e dalla forma della cultura.
Un secondo criterio per definire la nazione si basa sulla supposta esistenza di un «organismo vivente», cioè di un’entità dotata di una vita propria distinta da quella degl’individui che compongono il gruppo nazionale. L’esistenza di caratteristiche comuni ai membri del gruppo (lingua, religione, territorio, ecc.) consentirebbe di identificare la nazione. Innanzitutto, l’identificazione della nazione con la lingua è insostenibile. Infatti, si dà il caso che la stessa lingua sia parlata in più nazioni (si pensi all’inglese o allo spagnolo), mentre popoli che parlano lingue differenti sono cittadini dello stesso Stato e si considerano appartenenti alla stessa nazione, come gli Svizzeri o i Belgi. Analoghe considerazioni valgono per la religione. Esistono infatti nazioni in cui si praticano più religioni, come la Svizzera o la Germania, e religioni, come quella cattolica, che sono professate in più nazioni (Francia, Spagna, Italia, ecc.).
Altrettanto infondata è l’idea che esistano frontiere naturali. Le frontiere hanno un’origine politica, non geografica. Esse sono cambiate continuamente nel corso della storia a seguito di guerre, trattati, matrimoni, cioè di vicende determinate da interessi politico-strategici o dinastici.
Infine il costume e la tradizione non sono elementi uniformi all’interno di una nazione. Entro i confini di una nazione si possono individuare differenze più rilevanti di quelle esistenti tra regioni vicine appartenenti a nazioni diverse. Si considerino, a titolo di esempio, le differenze tra un lombardo e un siciliano e tra un lombardo e un ticinese.
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Ugualmente infondata è la concezione volontaristica o elettiva, proposta da Renan, anche se la ricerca del fondamento della nazione nella coscienza individuale costituisce un progresso nella giusta direzione, che è quella di fondare la definizione della nazione su comportamenti osservabili. Il criterio soggettivo, individuato da Renan, consiste nel «desiderio di vivere insieme» o «plebiscito di tutti i giorni»[8]. Si tratta di una formula brillante che è espressione di una concezione fortemente idealizzata del processo politico. Essa rappresenta la nazione come il terreno delle libere scelte degl’individui e nasconde il fatto che le azioni individuali sono condizionate e a volte determinate dal potere politico.
La storiografia ha messo in luce che la formazione delle nazioni, lungi dall’essere il frutto di una volontà democratica, è piuttosto il risultato dell’imposizione di un potere alla ricerca di un principio unificatore su un territorio, i cui confini sono stati tracciati con la forza. Quando nasciamo, acquisiamo, senza sceglierla, la nazionalità. In nessun momento successivo alla nostra nascita ci viene offerto un biglietto di ingresso con la facoltà di accettarlo o di rifiutarlo. Al contrario, mentre è relativamente facile cambiare religione o partito, il cambiamento di nazionalità è soggetto a gravose condizioni, prima tra tutte la residenza per un determinato numero di anni nello Stato di cui si vuole acquisire la nazionalità.
In definitiva, dato per scontato che l’esistenza degli Stati nazionali si fonda sul consenso e più precisamente sulla credenza della loro legittimità, resta il fatto che, come ha osservato Albertini, la formula di Renan non mette in evidenza «come» si forma «la volontà di vivere insieme... come nazione»[9]. D’altra parte, Renan non spiega che cosa distingua il legame nazionale dal vincolo che unisce altri gruppi che si reggono su un’adesione volontaria (un’associazione di cacciatori o una comunità religiosa).
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Alla formula di Renan (la volontà di vivere insieme) Albertini preferisce quella di «fedeltà», utilizzata da Hans Kohn[10]. Essa include anche atteggiamenti passivi di fronte al potere, in conformità con una visione realistica della vita politica.
Il metodo impiegato da Albertini è quello di definire la nazione in base all’osservazione empirica del comportamento degl’individui, risolvendo le entità collettive nell’insieme degl’individui che le compongono e le azioni collettive nell’insieme dei comportamenti individuali[11]. Ora, il comportamento nazionale è, in prima approssimazione, un comportamento di fedeltà verso un’entità non meglio definita: la nazione. Il concetto di fedeltà consente dunque di identificare il carattere tipico del comportamento nazionale. Albertini sottolinea che, sulla base di questo concetto, Kohn «ha potuto capovolgere la storia del nazionalismo, spostandola dalla visuale dei principi nazionali alla visuale nella quale appare il carattere tipico del nazionalismo: il collegamento di diverse esperienze ad un solo centro di riferimento, la nazione». Di conseguenza, Kohn ha mostrato che il nazionalismo «non dipende dalle tradizioni, dalla lingua, dallo Stato, ma dalla stretta identificazione politica e culturale dell’individuo con la sua nazionalità, che si verificò alla fine del secolo decimottavo ed al principio del decimonono, e si estese al campo economico solo durante l’ultima parte del decimonono»[12]. In altri termini, l’aspetto tipico del comportamento nazionale non consiste nell’aspetto linguistico, culturale, tradizionale dell’azione presa in considerazione, ma nella fedeltà alla nazione, giustificata da una supposta comunità di lingua, di cultura o di tradizioni.
Kohn, utilizzando l’approccio della storia delle idee, ha studiato le formulazioni verbali del comportamento di fedeltà alla nazione. E’ un lavoro prezioso di ricostruzione storica, che gli ha permesso di constatare quando questo comportamento si è manifestato per la prima volta nella storia. Pur essendo stato annunciato dalle molteplici voci dei precursori, Kohn sostiene che il nazionalismo si affermò con la rivoluzione francese. Questa tesi lo distingue da autorevoli storici, come Werner Kaegi o Edward Carr[13], i quali pure hanno dato un contributo importante allo studio dello Stato nazionale e tuttavia fanno cominciare l’esperienza nazionale con la dissoluzione dell’unità medievale e la formazione dello Stato moderno. Il periodo storico compreso tra questo momento e la rivoluzione francese può essere definito come quello dell’incubazione del nazionalismo, nel corso del quale si sono formate le condizioni storico-sociali (la rivoluzione industriale) e istituzionali (lo Stato burocratico) dello Stato nazionale. Solo a partire dalla rivoluzione francese la fedeltà suprema degl’individui, cioè la fedeltà che occupa la posizione di vertice nella gerarchia dei valori collettivi, che prima si indirizzava ai re e alle religioni, si spostò verso le nazioni.
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Per chiarire il senso di questo cambiamento Kohn aveva distinto due forme di nazionalità: quella «naturale» e quella «artificiale». Ciò che è naturale nell’uomo è «la tendenza... ad amare il luogo dove è nato o il luogo dove ha trascorso la sua infanzia, i suoi dintorni, il suo clima, il profilo delle colline e delle vallate, dei fiumi e degli alberi». Altrettanto naturale è «la preferenza ... per la propria lingua, la quale è l’unica lingua che capisce perfettamente». La nazionalità in questo senso è un legame a carattere territoriale o linguistico e corrisponde alla nazione nel senso etimologico del termine (natio è il luogo dove si è nati). Essa va distinta dalla «nazionalità artificiale», nella quale troviamo gli stessi elementi (l’attaccamento per il territorio, la lingua, le origini comuni), ma estesi a un territorio e a una popolazione di dimensioni molto più ampie, che implica l’amore per città e popolazioni che non si sono mai conosciute e alle quali non è associato nessun ricordo. Questa forma di nazionalità, chiarisce Kohn, è «il prodotto artificiale di uno sviluppo storico e intellettuale» [14].
In sintonia con questo punto di vista, Nietzsche ha coniato la distinzione tra Nächstenliebe e Fernstenliebe, cioè tra l’amore per chi sta vicino e l’amore per chi sta lontano[15]. Ma va rilevato che anche il cosmopolitismo è una forma di amore per cose lontane. A questo proposito Albertini ha sottolineato che, accanto alla nazionalità naturale (egli la chiama «nazionalità spontanea»), esiste una «supernazionalità spontanea», che consiste nei valori universali, per esempio «la respublica christiana e la repubblica europea dei letterati, che legavano gli individui oltre le frontiere statali»[16].
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La storia del nazionalismo di Kohn è una storia delle idee, intesa nella sua forma più ingenua. In questa prospettiva, la formazione delle nazioni si presenta come un processo che ha origini, strumenti e obiettivi puramente ideali. I fatti sottostanti, cioè le circostanze storiche, così come sono condizionate dal modo di produzione e dalle strutture del potere e dell’economia, che hanno consentito alle idee nazionali di affermarsi in un determinato paese, in una determinata epoca e in una determinata forma, hanno un ruolo insignificante nella narrazione degli avvenimenti.
In conseguenza di questa scelta di metodo, osserva Albertini, «i fatti hanno dato a Kohn la risposta già contenuta nella domanda; e l’evento in questione [la formazione delle nazioni], precostituito dalla selezione dei fatti, gli è apparso puramente ideale»[17].
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A questo punto della sua ricerca, Albertini prende in esame l’aspetto oggettivo del comportamento nazionale, cioè la storia dei fatti. Sulla scorta del lavoro di Boyd Shafer sul nazionalismo[18], Albertini studia il processo di unificazione dei comportamenti umani, in particolare i comportamenti di dipendenza politica, quelli linguistici e quelli religiosi, all’interno degli Stati che, a partire dalla rivoluzione francese, diventeranno nazionali. Il consolidamento delle monarchie assolute su territori corrispondenti all’incirca con gli attuali Stati nazionali, l’unificazione linguistica di questi territori, la divisione del cristianesimo in religioni nazionali sono processi che portarono alla formazione del moderno Stato burocratico. La progressiva unificazione politica, economica e sociale degli attuali territori nazionali culminò con la rivoluzione industriale,la quale fece cadere le barriere che isolavano gl’individui in tante piccole comunità agricolo-artigianali autosufficienti. Di conseguenza, un numero crescente di comportamenti si collegò allo Stato, perché gl’individui esigevano l’intervento di quest’ultimo per garantire lo svolgimento ordinato delle relazioni sociali sul piano nazionale. Ma, mentre Shafer qualifica questi comportamenti come nazionali, confondendo la formazione dello Stato moderno con quella della nazione, Albertini sottolinea che si tratta di processi distinti. Egli usa l’espressione «premesse del nazionalismo»[19] per definire lo sviluppo di comportamenti unificati su vasti territori estesi quanto le nazioni e il loro collegamento con lo Stato. Ma rileva nello stesso tempo che, fino alla rivoluzione francese, questi comportamenti non assunsero il carattere nazionale, nel senso che solo da quel momento la nazione divenne oggetto di una fedeltà suprema.
Infatti, come aveva messo in evidenza Shafer, mentre nel Medio Evo la scala dei lealismi era ordinata in modo che un individuo si sentiva «prima di tutto un cristiano, secondariamente un borgognone e soltanto in terzo luogo un francese»[20], e tenendo conto che questi sentimenti di appartenenza avevano un significato molto diverso da quello attuale, nella società contemporanea praticamente tutti gli uomini sono uniti e divisi tra di loro dall’attaccamento per un solo oggetto: la loro nazione.
«Il passaggio dalla situazione pre-nazionale a quella nazionale avvenne», secondo Albertini, «quando, cadute le idee relative ad esperienze di gruppo del passato, gli individui poterono rendersi conto dell’avvenuto collegamento di diverse loro azioni sul piano politico, ed espressero tale situazione in termini di fedeltà al gruppo costituito da tale collegamento, la nazione»[21].
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L’avvento dell’era del nazionalismo coincide con un cambiamento nel principio di legittimità del potere. La rivoluzione francese, l’evento che ha contribuito più di ogni altro alla definizione dei significati e dei valori della coscienza contemporanea, ha segnato il trapasso da un’epoca a un’altra con la caduta dell’ancien régime e l’affermazione degli Stati nazionali. Il cambiamento che riassume tutti i significati di questa tappa della storia è il passaggio dal principio di legittimità dinastico di diritto divino a quello basato su nuove ideologie: la democrazia e il nazionalismo.
L’organismo sul quale si innesta il principio nazionale è quello dello Stato sovrano, che si era formato sulle rovine della società feudale e che aveva definito la propria individualità, affermandosi come potere indipendente nel sistema degli Stati e come potere superiore agli altri centri di potere - in primo luogo la Chiesa - che operavano in seno allo Stato.
E’ da ricordare che la concezione dello Stato prevalente nell’epoca dell’ancien régime era qualcosa di ben diverso da quella prevalente nel nostro tempo. Lo Stato aveva struttura autoritaria: la sovranità apparteneva al sovrano assoluto, dalla cui persona dipendevano non solo i possedimenti, ma anche i sudditi; e di questi poteva disporre liberamente. Di conseguenza, interesse dello Stato e interesse del sovrano si identificavano.
Con il principio nazionale, si afferma lo Stato popolare, si afferma, in altri termini, lo Stato che si fonda sulla sovranità popolare. Il movimento nazionale si batte perché venga riconosciuto il diritto di ogni popolo a diventare padrone del proprio destino. In tal modo, esso persegue due finalità, una interna e una internazionale. Sul piano interno, esso lotta per dare ai popoli coscienza della loro unità attraverso l’attribuzione degli stessi diritti democratici a tutti gli individui, i quali acquisiscono così la capacità di partecipare alla determinazione della politica dello Stato. Sul piano internazionale, il principio dell’autodeterminazione dei popoli permette di realizzare l’indipendenza nazionale e di fondare in tal modo la politica estera dello Stato sulla volontà del popolo senza interferenze da parte di altri Stati.
A questo punto è bene però distinguere accuratamente le diverse finalità del principio democratico e di quello nazionale, perché l’evoluzione storica metterà in evidenza in modo sempre più chiaro il carattere livellatore e oppressivo dello Stato nazionale e farà emergere la contraddittorietà tra questa forma di organizzazione politica e i valori della libertà e dell’uguaglianza. Il valore che sta alla base dell’ideologia democratica è l’uguaglianza politica; invece il fine del principio nazionale è quello di mettere lo Stato nelle mani del popolo.
Mentre la democrazia non ha confini, perché il suo fine è l’uguaglianza di tutti gli uomini, il nazionalismo serve a giustificare l’esistenza di comunità politiche distinte e quindi le frontiere tra Stati. Questo carattere dell’ideologia nazionale spiega come quest’ultima sia riuscita a piegare la democrazia, che è un’ideologia a carattere universale, alle esigenze di un mondo diviso in Stati sovrani, indipendenti e in conflitto tra loro. Il fatto è che, dietro la nazione sovrana, ha continuato a operare la ragion di Stato con le vecchie esigenze di sicurezza e di potenza, che richiedeva che si sacrificasse la libertà e l’uguaglianza alla sicurezza, quando la sopravvivenza dello Stato era in pericolo.
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In sostanza, ciò che caratterizza la fedeltà alla nazione, secondo Albertini, è che essa non si presenta semplicemente come fedeltà allo Stato e ai suoi principi costituzionali, ma è nel contempo una fedeltà verso altri valori di natura etnica e culturale e verso un’entità sociale organica, una personalità collettiva, appunto la nazione, cui non corrisponde nessuna comunità definibile in chiari termini concettuali. La più caratteristica innovazione introdotta da Albertini nella teoria della nazione consiste nel ricondurre il concetto di nazione alla nozione di ideologia.
Già Renan, affermando che «l’oblio e... persino l’errore storico costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione» [22] aveva aperto la via a un’interpretazione in questa direzione. Con questa frase egli lasciava intendere che la devozione alla nazione si fonda più sull’oblio che sulla memoria, più sull’errore che sull’obiettività e si potrebbe dire su memorie inventate, cioè su vere e proprie mistificazioni.
Ma è la concezione di ideologia, intesa come falsa coscienza introdotta nella cultura politica da Marx, il punto di riferimento di Albertini, perché essa rivela che le rappresentazioni della realtà sociale subiscono distorsioni o mascheramenti a causa dei rapporti di dominio. Ciò che gli uomini sono e fanno, proprio perché è soggetto ai condizionamenti sociali, non corrisponde pienamente alla coscienza che gli uomini hanno di sé stessi. «Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti»[23], si legge nell’Ideologia tedesca. Questa frase intende sottolineare che la funzione essenziale delle idee dominanti è quella di consolidare il potere delle classi dominanti. Rispetto a questo fine, la funzione di rappresentare obiettivamente la realtà sociale è secondaria.
Tuttavia, l’ideologia non è una rappresentazione completamente fantastica della realtà e non è semplice menzogna. Ogni ideologia, per esplicarsi con efficacia, deve contenere anche elementi descrittivi che la rendano credibile e di conseguenza idonea a produrre il fenomeno del consenso.
Come ha messo in luce Gustav Bergmann, la mistificazione si produce ogniqualvolta un giudizio di valore è scambiato per un’asserzione di fatto[24]. Si tratta di un fenomeno normale nel campo politico, perché il potere politico è una relazione sociale in presenza della quale la mente spesso, invece di rappresentare la realtà, la occulta o la deforma.
Il merito di Albertini è di avere esteso la nozione di ideologia, che Marx aveva collegato alle posizioni di classe, ai rapporti di potere all’interno dello Stato[25]. Albertini definisce la nazione come «l’ideologia dello Stato burocratico accentrato»[26] e il sentimento nazionale come «il riflesso ideologico dei legami del cittadino con il proprio Stato nazionale»[27].
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Mentre le comunità naturali si reggono su legami spontanei che si manifestano indipendentemente dall’intervento del potere, gli Stati nazionali, a causa delle loro dimensioni, hanno creato un legame artificiale tramite l’imposizione dell’unità linguistica e culturale a tutte le popolazioni insediate sul territorio dello Stato (fusione di Stato e nazione). La coscienza nazionale, come fatto diffuso nella popolazione, è dunque la conseguenza (e non la premessa) della formazione dello Stato nazionale e di un preciso programma politico, elaborato per la prima volta dai giacobini durante la rivoluzione francese, che si proponeva di imporre l’unità di lingua, di cultura e di tradizioni a tutte le popolazioni insediate sul territorio dello Stato. Ciò comportò la distruzione di tutti i legami con le comunità più piccole e più grandi dello Stato. Così la fusione di Stato e nazione divenne per i governi nazionali la base per esigere dai cittadini un lealismo esclusivo e per sviluppare una politica estera aggressiva.
Il saggio di Albertini sul Risorgimento costituisce una conferma di questa ipotesi: «La storia della formazione degli Italiani», egli scrive, «è... un capitolo della storia della concentrazione del potere politico in Italia»[28].
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A questo punto occorre domandarsi perché la fusione di Stato e nazione è un fenomeno tipico del continente europeo. Essa ha creato un’integrazione dei cittadini nello Stato tanto forte quanto accentrato è il potere, in modo da sottoporre al controllo diretto del governo centrale le risorse materiali e ideali del paese. Invece, la Gran Bretagna e la Svizzera (una specie di isola sul continente europeo), pur avendo sviluppato lo Stato burocratico, hanno mantenuto una struttura decentrata delle istituzioni politiche e un carattere multinazionale della società, di modo che Stato e nazione non coincidono.
Soprattutto gli storici della scuola rankiana, che hanno utilizzato la categoria della ragion di Stato, hanno mostrato che la forte pressione politico-militare che gli Stati del continente europeo subivano ai loro confini li ha spinti ad accentrare il potere; e questo sistema istituzionale non poteva reggersi senza sviluppare l’immagine di una società tanto omogenea quanto accentrato era il potere[29].
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In conclusione, la definizione di nazione, cui è pervenuto Albertini, consente di raggiungere due importanti risultati.
In primo luogo permette di individuare la natura del comportamento nazionale. «Un gran numero di comportamenti, riguardanti quasi tutte le sfere dell’esperienza umana, presentano, accanto alla loro motivazione specifica, una seconda motivazione, quella del riferimento alla `Francia´, alla `Germania´, all’`Italia´ e così via. ». Per esempio,. «un Tedesco in Germania ... è colpito da un monumento d’arte o da un bel paesaggio e pensa: `Com’è bella la Germania!’. Va da sé che questo o quel bello di natura o d’arte non è una specie del genere estetico `Germania´, che non esiste, bensì del genere gotico, romanico, montuoso, lacustre, ecc. Ciò mostra appunto che alla motivazione specifica del comportamento estetico se ne aggiunge un’altra: quella della fedeltà, o almeno del riferimento, alla `Germania´»[30]. Come si è detto, il comportamento nazionale è un comportamento di fedeltà. Il riferimento oggettivo di questo comportamento è lo Stato, il quale però non è pensato come tale, ma come entità illusoria, alla quale sono collegate esperienze culturali, estetiche, sportive, il cui carattere specifico non è nazionale. Alla base di questo fatto c’è un rapporto di potere. Gl’individui che frequentano scuole nazionali, celebrano feste nazionali, pagano tasse nazionali, fanno il servizio militare nazionale, che li prepara a uccidere e a morire per la nazione, esprimono questi comportamenti in termini di fedeltà a un’entità mitica, la nazione, rappresentazione idealizzata degli Stati burocratici accentrati. Questa idealizzazione della realtà è il riflesso mentale dei rapporti di potere tra gl’individui e lo Stato nazionale e serve a consolidare quest’ultimo.
In secondo luogo, la ricerca di Albertini, individuando il criterio adeguato a distinguere il gruppo statale (l’insieme degl’individui che hanno il requisito giuridico della cittadinanza di uno Stato) dal gruppo nazionale (l’insieme degl’individui che credono nella nazione) è riuscita a dare una definizione scientifica del gruppo nazionale. L’analisi empirica mostra che i due gruppi non coincidono: il gruppo nazionale è, per certi aspetti, più ristretto e, per altri, più ampio di quello statale. Per esempio, entro i confini dello Stato italiano, la comunità sud-tirolese non possiede una coscienza nazionale italiana, mentre al di fuori dei confini dello Stato italiano esistono comunità che hanno una coscienza nazionale italiana, pur non avendo la cittadinanza italiana (per esempio alcune comunità italiane residenti in Istria).
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Come i grandi innovatori, che si sono inoltrati in regioni sconosciute, Albertini ha aperto nuove vie che sarà compito di altri (un’intera scuola di pensiero) esplorare.
Prendiamo in considerazione, per esempio, la nozione di ideologia. Essa ha due significati. Nell’accezione più generale, e in accordo con il linguaggio comune, che usa le espressioni «ideologia liberale», «ideologia socialista» e così via, il termine ideologia significa sistema di idee politiche, visione politica. Accanto a questa nozione ne esiste un’altra più specifica, secondo la quale l’ideologia è il pensiero automistificato. Albertini ha esplorato l’ideologia nazionale in questa seconda prospettiva, mentre si è occupato solo marginalmente della prima.
Se il nazionalismo è un’ideologia e lo Stato nazionale è l’istituzione che genera il nazionalismo, bisogna individuare un metodo di analisi che consenta di studiare insieme la due cose. A questo scopo, può essere utilizzato lo schema proposto da Albertini per definire il federalismo, ma che può essere esteso, come egli stesso ha suggerito[31], all’analisi delle altre ideologie. Secondo questo approccio, in ogni ideologia si possono distinguere tre aspetti: un aspetto di valore, che definisce il fine che l’ideologia persegue, un aspetto di struttura, che definisce le istituzioni politiche, cioè la forma di organizzazione del potere necessaria a perseguire quel fine, e l’aspetto storico-sociale, che definisce le condizioni storico-sociali che permettono a quelle istituzioni e a quei valori di affermarsi. Applicando questo schema al nazionalismo, si può formulare l’ipotesi che l’aspetto di valore sia l’unità e l’indipendenza della nazione, intese come valori superiori sia all’individuo sia all’umanità; l’aspetto di struttura sia lo Stato unitario, burocratico e accentrato; l’aspetto storico-sociale sia una società omogenea dal punto di vista etnico e linguistico, nella quale l’unità prevalga sulle divisioni di classe e di carattere regionale[32].
[*] I tre articoli che seguono costituiscono i contributi al Convegno in onore di Mario Albertini: Nazione, federazione, Europa, organizzato dalla Facoltà di Scienze politiche, Dipartimento di Studi politici e sociali, dell’Università di Pavia (23-24 ottobre 1997).
[2] E. Renan, Che cos’è una nazione?, Roma, Donzelli, 1993, p. 3.
[3] G.W.F. Hegel, Lineamenti difilosofia del diritto, Bari, Laterza, 1974, p. 20.
[4] E. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo, Torino, Einaudi, 1991,
p. 10.
[5] «Nazionalismo e alternativa federalista». Intervista a Mario Albertini, in Il dibattito federalista, X, 1994, n. 4, p. 38.
[6] M. Albertini, Lo Stato nazionale, Milano, Giuffrè, 1960.
[7] M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 1958, p. 108.
[8] E. Renan, op. cit., p. 20.
[9] M. Albertini, Lo Stato nazionale, cit., p. 23.
[10] H. Kohn, L’idea del nazionalismo nel suo sviluppo storico, Firenze, La Nuova Italia, 1956.
[11] M. Albertini, Lo Stato nazionale, cit., pp. 14-25.
[12] Ibidem, p. 50.
[13] W. Kaegi, «L’origine delle nazioni», in Meditazioni storiche, Bari, Laterza, 1960, pp. 91-111; E. H. Carr, Nazionalismo e oltre, Milano, Bompiani, 1946.
[14] H. Kohn, op. cit., pp. 4-9.
[15] F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, in Nietzsche Verke. Kritische Gesamtausgabe, Berlino, Gruyter & Co., 1968, vol. VI, t. I, pp. 73-75.
[16] M. Albertini, Il Risorgimento e l’unità europea,. Napoli., Guida, 1979, p..
18.
[17] M. Albertini, Lo Stato nazionale, cit., p. 61.
[18] B.C. Shafer, Nationalism: Myth and Reality, Londra, Gollancz, 1955.
[19] M. Albertini, Lo Stato nazionale, cit., pp. 100 e segg.
[20] B.C. Shafer, op. cit., p. 61.
[21] M. Albertini, Lo Stato nazionale, cit., p. 126.
[22] E. Renan, op. cit., p. 7.
[23] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 35.
[24] G. Bergmann, The Metaphysics of Logical Positivism, New York, Logmans Green and CO., 1954, p. 310.
[25] Un precedente in questa direzione è rappresentato dal concetto di «formula politica» di Mosca. Cfr. G. Mosca, Elementi di scienza politica, Bari, Laterza, 1953, pp.108 e segg.
[26] M. Albertini, «L’idée de nation», in AA.VV., L’idée de nation, Parigi., P.U.F., 1969, p. 13.
[27] M. Albertini, Lo Stato nazionale, cit., p. 143.
[28] M. Albertini, Il Risorgimento e l’unità europea, cit., p. 62.
[29] Cfr., per esempio, O. Hintze, Staat und Verfassung, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1962, 3 voll.
[30] M. Albertini, L’idée de nation, cit., p. 8.
[31] M. Albertini, Il federalismo, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 91.
[32] Ho sviluppato questa analisi del nazionalismo in L. Levi, Letture su Stato nazionale e nazionalismo, Torino, CELID, 1995.