Anno XXXIX, 1997, Numero 3, Pagina 124
Il governo europeo dell’economia
GUIDO MONTANI
1. L’Unione europea, l’Unione monetaria e la sfida della globalizzazione.
L’avvio dell’Unione monetaria europea nel 1999 e la sua sostenibilità vengono continuamente messi in discussione, perché il futuro dell’Unione politica è incerto. A ciò si aggiunge che l’economia europea è da lungo tempo in crisi, come testimoniano i persistenti alti tassi di disoccupazione. Vi è ovviamente una relazione tra i due fenomeni. La crisi dell’economia mina la credibilità dell’Unione monetaria. E l’incertezza sul futuro politico dell’Unione rende problematico il consolidamento dell’Unione monetaria. Per questo, Unione politica ed Unione monetaria si devono considerare come due aspetti inscindibili di un medesimo processo.
Quando si parla di Unione politica si dovrebbe naturalmente discutere del governo europeo, dei suoi poteri e della sua legittimità democratica. Ma la riluttanza dei governi nazionali ad accettare un governo europeo è tale che nei dibattiti sul futuro dell’economia europea spesso la questione viene del tutto ignorata. E’ un errore, che mina alle fondamenta gran parte dell’analisi economica. Adam Smith ha potuto formulare una teoria del mercato perché nel corso del secolo XVIII, nelle grandi monarchie europee, si stavano delineando con chiarezza i caratteri dello Stato nazionale moderno, fondato sulla distinzione tra potere politico ed economia. E’ in questo contesto, quello del nascente Stato di diritto, che ha potuto sorgere e svilupparsi l’economia come scienza autonoma. Al contrario, per quanto riguarda l’Europa contemporanea, ci troviamo di fronte ad un processo in cui l’economia sopravanza la politica, come dimostra il fatto che gli obiettivi del mercato interno e della moneta unica sono stati formulati senza definire quale Unione politica avrebbe potuto sostenere queste scelte. Si è così provocato, in Europa, un grave deficit di democrazia. La democrazia è in crisi al livello nazionale, dove non è più possibile intervenire con efficacia, e manca al livello europeo, dove sarebbe possibile agire.
Non si vogliono qui affrontare i problemi politici riguardanti la costruzione dell’Unione europea. La questione sulla quale si vuole attirare l’attenzione è solo quella della necessità di completare la costruzione dall’Unione monetaria con un governo federale europeo. Infatti, l’Europa potrà far fronte con efficacia alle sfide del XXI secolo solo se saprà dotarsi di un esecutivo efficace, perché legittimato dalla volontà popolare. Poiché per sua natura un governo sostenuto dal consenso popolare non può essere suddiviso in compartimenti stagni, il «governo europeo dell’economia» va inteso come un aspetto rilevante, ma non esaustivo, di un’Europa federale che, seppure con gradualità, diventi capace di agire anche sul fronte della politica estera e della sicurezza.
La difficoltà maggiore, quando si affronta il problema del governo europeo dell’economia, consiste nella indeterminatezza dei poteri che ad esso devono essere affidati per renderlo capace di agire. Spesso si formulano critiche alla futura Federazione europea senza alcun fondamento. Allo stato dei fatti, sembrano scontrarsi due concezioni opposte del governo europeo. La prima proietta al livello europeo il modello dello Stato nazionale, che concentra tutti i poteri monetari e fiscali necessari al controllo dell’economia. Una variante di questo modello consiste in un governo europeo con una capacità di intervento simile a quella del governo degli Stati Uniti, che sono uno Stato federale, ma uno Stato federale in cui è avvenuto, a partire dagli inizi del secolo, un processo di concentrazione di risorse e di poteri che lo rende simile (specialmente nella gestione dell’economia) ai modelli nazionali europei. Il secondo modello di governo europeo dell’economia è basato su una concezione «internazionalistica» dell’economia europea, nel senso che la moneta europea non sarebbe altro che un sistema di cambi «irreversibilmente» fissi, ma i maggiori poteri di intervento sull’economia continuerebbero a restare saldamente nelle mani dei governi nazionali. In questa prospettiva, ad esempio, la disoccupazione è un problema che non riguarda affatto le autorità europee di politica economica. Sono i governi nazionali che devono risolvere il problema della disoccupazione. La concezione internazionalistica, o confederale, dell’economia europea è difesa particolarmente in Francia: il Presidente Chirac ha paragonato la moneta europea al gold standard, che la Francia ha sempre sostenuto.
L’ipotesi che qui si prenderà in considerazione è che si stia sviluppando un modello europeo di economia le cui caratteristiche salienti sono di tipo federale, e quindi non possono essere ricondotte né al primo modello «nazionale» o «centralistico», né al secondo modello «internazionalista» o «confederale». In sostanza, il modello di economia che sembra prendere forma con l’Unione europea è quello di un «gold standard post-keynesiano». L’espressione forse non è del tutto appropriata, ma in mancanza di meglio può servire ad un primo approccio. Con «gold standard» non si intende certo affermare che la moneta europea rappresenti un ritorno alla base aurea. La moneta europea sarà una moneta fiduciaria il cui riferimento all’oro, se vi sarà, riguarderà solo il suo utilizzo come moneta internazionale. Tuttavia, l’Unione monetaria europea si sta costruendo sulla base di alcune «regole del gioco» che presentano molti aspetti in comune, come la stabilità monetaria e l’ortodossia finanziaria, con quelle che hanno caratterizzato il gold standard classico del secolo XIX. Mettere a confronto la situazione storica del secolo scorso, in cui si sono sviluppate le pratiche monetarie e fiscali dell’ortodossia, con quella attuale, in cui i paesi europei si sono autoimposti alcuni vincoli stringenti con il Trattato di Maastricht, può risultare istruttivo. L’Unione monetaria non esaurisce il programma che si sono assegnati i governi europei. Spesso si dimentica che l’Unione monetaria è solo parte del progetto originario più ambizioso di Unione economica e monetaria. Ed è proprio il contenuto economico dell’Unione che suscita più controversie. Per questo si è suggerito di parlare di gold standard post-keynesiano. Infatti, solo a costo di suscitare gravi reazioni politiche, e forse lo stesso fallimento della moneta unica, l’Unione europea potrà ignorare le politiche per l’occupazione, per lo sviluppo economico e la salvaguardia dell’ambiente. Keynes ha elaborato le sue proposte di politica economica negli anni Trenta, come rimedio alla grande depressione, nel tentativo di trovare una «terza via» tra il sistema comunista della collettivizzazione dei mezzi di produzione e quello liberale, che si illudeva che il mercato fosse capace, con le sue sole forze, di rimediare alla disoccupazione dilagante. Oggi, mentre è necessario mettere in discussione alcune proposte keynesiane di politica economica, non più attuali nell’economia europea contemporanea, sembra lecito sostenere che le sfide della disoccupazione e della competitività internazionale dell’economia potranno essere vinte solo se l’Unione saprà dotarsi di appropriati strumenti «post-keynesiani» di intervento. Si tratta, come risulterà più chiaro in seguito, di strumenti post-keynesiani nel duplice senso che l’accento verrà messo sia sulla necessità di attivare politiche di intervento anche sull’offerta e non solo sulla domanda, come aveva fatto a suo tempo Keynes, sia sull’ambiente in cui occorre agire — il mercato globale — che impone soluzioni diverse da quelle possibili nel mercato nazionale chiuso.
Prima di affrontare la discussione sulle politiche più appropriate per lo sviluppo dell’economia europea è tuttavia necessario descrivere brevemente le tipologie storiche dei due sistemi monetari a cui è necessario fare continuamente riferimento. L’Unione economico-monetaria europea modifica radicalmente il panorama dell’economia mondiale. Il confronto con il gold standard ed il gold-exchange standard è importante per stabilire in che misura la moneta europea si ricollega al passato ed in che misura innova. La comprensione della storia contemporanea è impossibile se non si chiariscono le ragioni della continuità e della discontinuità.
2. Il gold standard.
Come è noto, la prima teorizzazione del gold standard risale a David Hume. Hume, contrariamente a quanto pensavano i mercantilisti, sosteneva che esiste un meccanismo automatico di aggiustamento della bilancia commerciale. Si devono, tuttavia, verificare due condizioni: che l’oro venga utilizzato come moneta naturale dei pagamenti e che le Banche centrali, nel caso in cui a fianco dell’oro si utilizzi anche una moneta fiduciaria, si impegnino a non alterare il rapporto di cambio tra moneta cartacea e oro per conseguire obiettivi nazionali di politica economica.[1] In questo caso, il sistema dei pagamenti internazionali non differisce dal sistema interno dei pagamenti, come nel caso in cui una merce venga scambiata tra abitanti di due province diverse del medesimo Stato. Pertanto, il gold standard, così ci sembra lecito interpretare il pensiero di Hume, è un sistema dei pagamenti che, grazie all’utilizzo di una moneta naturale, tradizionalmente accettata, annulla le differenze tra mercato interno e mercato internazionale: è il sistema dei pagamenti che rende possibile la massima integrazione del mercato mondiale (cfr. Appendice 1).
Storicamente, il gold standard si è affermato, verso la fine del secolo XIX, con caratteristiche diverse dal modello delineato da Hume. I modelli non rappresentano altro che strumenti per la comprensione della realtà. Il modello di Hume può dunque servire come base di un’indagine, ma è necessario cercare di comprendere perché il gold standard classico presenti caratteristiche assai più complesse.
Cominciamo con l’osservare che lo sviluppo del gold standard non sarebbe stato possibile senza l’affermazione, dopo il Congresso di Vienna, di un sistema di equilibrio tra le grandi potenze europee che consentì all’Europa ed al mondo extra-europeo un lunghissimo periodo di pace. Solo nella seconda parte del secolo XIX l’equilibrio di Vienna venne alterato con l’unificazione italiana e quella tedesca. Ma gli effetti negativi di questi avvenimenti, che portarono allo scoppio della prima guerra mondiale, non si manifestarono che lentamente. L’unificazione tedesca, in una prima fase, rappresentò anzi un fattore di espansione del gold standard, perché grazie al pagamento dei debiti di guerra da parte della Francia sconfitta, la Germania trovò conveniente adottare il gold standard, accelerando così la sua diffusione a numerosi altri paesi. Al di fuori dell’Europa, importante fu la decisione degli Stati Uniti, alla fine della guerra di secessione, di tornare di fatto alla convertibilità in oro del dollaro. In quegli anni anche la Russia ed il Giappone adottarono il tallone aureo. Pertanto, nella seconda metà del secolo XIX si formò un vero e proprio mercato mondiale, con intense correnti intercontinentali di traffico commerciale e con una fitta rete di transazioni finanziarie, grazie all’adozione di una comune moneta. Solamente verso la fine del secolo la pace in Europa venne messa in discussione da politiche nazionalistiche sempre più aggressive, che portarono a più elevate tariffe doganali e guerre commerciali. Ciò nonostante, sino allo scoppio della prima guerra mondiale le esportazioni continuarono a crescere senza alcuna flessione, a dimostrazione del fatto che le barriere nazionali non raggiunsero certamente il grado di impermeabilità degli anni della grande depressione.[2] Vanno ora osservate due differenze rilevanti tra il modello di Hume ed il gold standard del XIX secolo. La prima riguarda lo sviluppo, inevitabile e rivoluzionario, del sistema dei pagamenti, fondato sempre più sul ricorso alla moneta cartacea ed ai surrogati della moneta, quali cambiali ed assegni. Si tratta di innovazioni che hanno facilitato e reso possibile la crescita delle transazioni commerciali e dello sviluppo industriale. Per quanto riguarda le relazioni internazionali, questo mutamento ha comportato il superamento del semplice concetto di bilancia commerciale, a cui Hume si riferiva. Una caratteristica dell’economia internazionale del gold standard consiste, in effetti, nel ruolo rilevante dei movimenti di capitale che si aggiungono a quelli delle merci: il quadro di riferimento diventa pertanto la bilancia dei pagamenti e non è più necessariamente vero che l’equilibrio della bilancia commerciale debba essere mantenuto nel lungo periodo. Può avvenire, e questo è il caso della Gran Bretagna, che un paese abbia un surplus nella bilancia commerciale compensato da un deficit nei movimenti di capitali, se il suo ruolo preminente è quello di investitore internazionale. In questa situazione, è ovvio che entra in gioco un elemento estraneo al modello di Hume, vale a dire il tasso di interesse, perché i movimenti di capitale sono sensibilissimi a questa variabile. Il raggiungimento dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti diventa dunque un fattore altamente problematico: uno dei grandi problemi del gold standard classico, sul quale esiste una vastissima letteratura,[3] è proprio quello di comprendere come fu possibile, nei decenni che precedettero la prima guerra mondiale, che i meccanismi di aggiustamento del sistema monetario internazionale garantissero una straordinaria stabilità dei cambi in presenza di una libera circolazione di merci e attività finanziarie.
Il secondo elemento distintivo rispetto al modello di Hume è la comparsa sulla scena, come attore rilevante, della Banca centrale nazionale. In tutti i principali paesi che aderirono al gold standard si assistette al lento, ma inevitabile, consolidamento degli istituti centrali di emissione. Le ragioni di questo processo di centralizzazione dell’attività bancaria sono le seguenti: a) la necessità di garantire al pubblico che utilizza il circolante, specialmente quello cartaceo, l’uniformità e bontà del mezzo di pagamento utilizzato; b) la necessità di controllare le fluttuazioni del credito, per mitigare e controllare il ciclo economico; c) la necessità di garantire al pubblico ed al sistema bancario che esiste un Lender of Last resort, cioè un prestatore di ultima istanza a cui le banche in difficoltà possono ricorrere in caso di gravi crisi di fiducia del pubblico; d) la realizzazione di una politica monetaria con obiettivi definiti, quali il mantenimento della stabilità dei prezzi; e) la possibilità di garantire la cooperazione internazionale, facendo rispettare le «regole del gioco», esplicitamente o implicitamente concordate con le altre Banche centrali nazionali.[4] L’inserimento della Banca centrale nel modello di Hume complica ovviamente il quadro, perché introduce un elemento di discrezionalità nella gestione dei movimenti di capitale, grazie al potere che hanno le Banche centrali di controllare i saggi di interesse e, dunque, di facilitare od ostacolare i movimenti internazionali di capitale. Nel caso in cui la Banca centrale non osservi scrupolosamente le regole del gioco del gold standard, i meccanismi di aggiustamento della bilancia dei pagamenti non sono affatto automatici.
Le due caratteristiche sopra ricordate, vale a dire la formazione di un mercato finanziario moderno e lo sviluppo delle Banche centrali nazionali, condizionarono la nascita e la crescita del sistema monetario internazionale. Gli investitori internazionali non muovono a caso i loro capitali, ma cercano di orientarli sulla base delle aspettative di profitto e dei tassi di interesse. E’ dunque del tutto naturale che nel caso in cui esista un centro finanziario storicamente consolidato, esso si rafforzi ulteriormente e diventi il centro di gravità del nuovo mercato finanziario in formazione. Questo centro fu rappresentato dalla City di Londra, che grazie all’esperienza più che secolare dell’Impero e alla leadership acquisita nelle tecniche di importazione e di esportazione di merci e di capitali con le colonie, cominciò a funzionare anche come stanza di compensazione e come prestatore di ultima istanza per il mercato finanziario internazionale. In questo modo, anche se il ruolo di prestatore non fu giocato solo da Londra, ma anche da altre piazze europee importanti come Parigi o Berlino, fu possibile compensare o finanziare persistenti disavanzi delle partite correnti, senza che diventasse necessario praticare drastiche politiche di aggiustamento. Paesi come gli Stati Uniti, il Canada, l’Argentina, l’Australia e la Russia poterono contare su importanti prestiti di lungo periodo per finanziare i loro persistenti disavanzi nelle partite correnti.
La posizione preminente della City nel gold standard classico ha indotto alcuni economisti a sostenere la tesi che il sistema monetario internazionale del XIX secolo fosse in realtà un gold-sterling standard, cioè un sistema dei pagamenti che utilizzava la sterlina inglese come moneta chiave degli scambi internazionali.[5] L’ipotesi ha in effetti qualche fondamento perché la sterlina mantenne immutato il suo rapporto di cambio con l’oro dal 1821 sino al 1914 e si poteva dunque sostenere comunemente che la sterlina fosse una moneta as good as gold. Tuttavia, questa interpretazione sembra forzata. Solo dopo la seconda guerra mondiale si affermò un sistema dei pagamenti internazionali fondato su una moneta nazionale come moneta di riferimento. Ma questa soluzione, come vedremo meglio in seguito, richiede che esista un paese egemone, non solo sul terreno economico ma anche su quello politico. L’egemonia inglese, nel secolo scorso, presenta caratteri diversi da quella statunitense. Il sistema politico precedente la prima guerra mondiale è un sistema fondato sull’equilibrio tra le grandi potenze europee e non sull’egemonia di una o due grandi potenze mondiali, come è avvenuto dopo il crollo del sistema europeo degli Stati. Francia, Germania ed Italia, non meno della Gran Bretagna, tentarono di crearsi un loro impero, che garantisse la sicurezza dell’approvvigionamento di materie prime e lo sbocco di manufatti. La City di Londra e la sterlina svolsero un limitato ruolo egemonico, ma solo sotto l’aspetto economico, per la convenienza e la praticità che rappresenta un centro finanziario ben organizzato nei confronti degli investitori internazionali. Un ruolo analogo, differente solo per importanza nel volume delle transazioni, e non per la qualità, venne svolto anche dagli altri centri finanziari rilevanti, quali Parigi e Berlino. Eichengreen fa giustamente notare che «il gold standard di anteguerra era un sistema non centralizzato, multipolare, e il suo funzionamento senza scosse non può essere attribuito agli interventi stabilizzanti di una potenza dominante».[6] La Banca d’Inghilterra era in grado di esercitare la funzione di prestatore di ultima istanza nei confronti delle banche commerciali nazionali, ma, a causa dell’esiguità delle sue riserve auree, si trovò in più di una occasione in gravi difficoltà e fu costretta, essa stessa, a ricorrere alla solidarietà delle altre Banche centrali nazionali. Nelle crisi del 1890 e del 1907, fu decisivo l’intervento di salvataggio da parte della Banca di Francia e della Reichsbank tedesca, oltre che di altre Banche centrali europee. Questa fiducia reciproca, grazie alla quale fu possibile una positiva cooperazione tra Banche centrali per mantenere stabile il sistema monetario internazionale, non venne meno nemmeno negli anni che precedettero la prima guerra mondiale. In sostanza, il gold standard venne accettato spontaneamente da un gruppo rilevante di paesi che trovava conveniente aderirvi per le virtù connesse all’utilizzo di una moneta «naturale» internazionale. Aderire al gold standard comportava automaticamente il rilascio di un «certificato di buona condotta»[7] che poteva consentire ai paesi partecipanti di godere di saggi di interesse più bassi nei confronti di altri paesi incapaci di offrire le medesime garanzie di stabilità monetaria.
Affinché la cooperazione monetaria internazionale funzionasse come fatto quasi spontaneo era necessario che le autorità monetarie accettassero alcune regole di comportamento comuni. La principale era che il mantenimento del tasso di cambio fosse una priorità di politica economica alla quale, se necessario, dovevano essere sacrificati altri obiettivi interni. Se una Banca centrale perdeva riserve auree, il mercato internazionale non metteva in dubbio il fatto che prima o poi sarebbero stati presi provvedimenti adeguati e sufficienti per mantenere stabile il cambio, così che si manifestava il fenomeno della «speculazione stabilizzante», cioè di movimenti di capitale che facilitavano il processo di aggiustamento. In breve, il gold standard era un sistema credibile perché fondato su una volontà comune di cooperazione. Il problema di un conflitto tra il perseguimento dell’obiettivo della stabilità del cambio e il raggiungimento di un alto tasso interno di occupazione non si poneva del tutto. «La consapevolezza — fa notare Eichengreen — che difesa del gold standard e riduzione della disoccupazione potevano rappresentare obiettivi in conflitto non era diffusa. La disoccupazione si presentò come un problema sociale ed economico di per sé solo attorno al volgere del secolo. Nella Gran Bretagna vittoriana, i critici della società non parlavano di disoccupazione, ma di miseria, di vagabondaggio e di indigenza».[8] I governi nazionali non si proponevano ancora la realizzazione di costose politiche sociali, come avvenne in seguito. I bilanci pubblici rappresentavano una quota esigua del prodotto nazionale e la regola del pareggio veniva scrupolosamente osservata, senza che questo fatto interferisse con problemi sociali interni di spesa o di carico fiscale.
La situazione cominciò a modificarsi solo agli inizi del secolo XX. Le cause del degrado del sistema internazionale dei pagamenti furono duplici. Da un lato, il crescente nazionalismo economico provocò l’introduzione di dazi doganali e l’inosservanza delle regole del gioco tra Banche centrali, quali le pratiche di sterilizzazione. D’altro lato, le prime rivendicazioni operaie rendevano sempre più difficile l’aggiustamento attraverso la flessibilità al ribasso dei salari monetari e la richiesta delle prime politiche di solidarietà sociale imponeva un carico fiscale crescente sulle classi abbienti oltre che una crescita del bilancio pubblico, che rendeva problematica l’osservanza della regola del pareggio. Queste prime trasgressioni alle regole del gioco del gold standard non furono, tuttavia, così gravi da provocarne il crollo. Il gold standard continuò a funzionare come un «ordine spontaneo»[9] sino alla vigilia della prima guerra mondiale. Solo lo scoppio della guerra ne decretò la morte.
3. Il gold-exchange standard.
Il gold-exchange standard è un sistema dei pagamenti internazionali in cui, a fianco dell’oro, le Banche centrali nazionali possono detenere una o più valute nazionali come moneta di riserva. Le monete di riserva diventano dunque monete chiave (key currencies) per gli scambi internazionali. E’ un sistema che viene sovente considerato come un passo verso il superamento del feticcio aureo, nel senso che il mercato mondiale può cominciare a funzionare sulla base di una o più monete fiduciarie.
Dopo la prima guerra mondiale, a causa degli sconvolgimenti monetari avvenuti nel corso del conflitto e dei persistenti indebitamenti da parte di numerosi governi, il ritorno al gold standard si rivelò problematico. L’incantesimo si era ormai spezzato. Era chiaro che ogni governo nazionale aveva il potere di far funzionare la propria economia sulla base di un semplice paper standard, senza promettere alcun cambio con l’oro, perché all’interno di un sistema nazionale chiuso il pubblico non ha alternative al corso forzoso. Ma, al livello internazionale, un paper standard non è possibile, perché non esiste un potere sovranazionale in grado di imporre un corso forzoso. La Conferenza di Genova del 1922 raccomandò, per la prima volta, il ricorso a valute nazionali, a fianco dell’oro, come strumento di riserva e dei pagamenti internazionali. Si sarebbe così ottenuto il vantaggio di aumentare la liquidità internazionale, altrimenti strettamente dipendente dalla quantità fisica di oro disponibile e dal suo tasso di produzione. In effetti, il sistema dei pagamenti internazionali che si realizzò negli anni Venti fu un gold-exchange standard, anche se formalmente i maggiori paesi, come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e la Francia, decisero un puro e semplice ritorno al gold standard.
Il fragile sistema degli anni Venti cadde in frantumi in occasione della grande depressione. In qualche misura i suoi difetti contribuirono a rendere la depressione ancora più severa. Un sistema di riserve fondato in parte sull’oro e in parte sulle monete fiduciarie nazionali entra rapidamente in crisi se si manifestano tensioni politiche tra i governi, perché viene a mancare la fiducia nella convertibilità delle monete. La liquidità internazionale subisce in questo modo una brutale contrazione, molto maggiore di quanto possa avvenire con il tradizionale gold standard.[10] Ma le cause profonde del collasso dell’economia internazionale vanno ricercate più in profondità. La cooperazione internazionale tra governi e Banche centrali non venne mai del tutto ripristinata nel primo dopoguerra. In particolare i maggiori centri finanziari di Londra, New York e Parigi agirono, nei momenti cruciali, non al fine di mantenere la stabilità dell’economia internazionale, ma per perseguire prioritariamente alcuni specifici obiettivi di politica interna. La mancanza di volontà di cooperazione si manifestò prima della grande depressione e successivamente, quando andò a vuoto il tentativo della Conferenza di Londra del 1933, a causa dell’esplicito rifiuto degli Stati Uniti e della Gran Bretagna di ridiscutere le basi per un ritorno a cambi stabili.
Le ragioni di queste difficoltà devono essere approfondite. Se si mettono a confronto due Rapporti del governo inglese sul funzionamento del gold standard, uno redatto alla fine della prima guerra mondiale ed uno dopo la grande depressione, si nota un’importante differenza. Nel Rapporto Cunliffe (1918) si legge che nel caso in cui si dovessero manifestare squilibri fondamentali nei conti con l’estero, la Banca centrale dovrebbe manovrare opportunamente i tassi di interesse al fine di attirare capitali e ridurre la domanda interna di beni di consumo e di investimento, con il conseguente «indebolimento» dell’occupazione.[11] Nel Rapporto Macmillan (1931), in cui si percepisce chiaramente l’influenza di Keynes, uno dei membri del comitato che contribuì alla sua redazione, si osserva acutamente che il sistema del gold standard in realtà non ha funzionato affatto con l’automatismo che ci si aspetta in teoria, perché da un lato gli afflussi di oro tendono ad essere sterilizzati per prevenire, quando le autorità nazionali lo vogliono, eccessive espansioni del credito e, dall’altro, le restrizioni creditizie vengono impedite se si desiderano evitare effetti deflattivi sui prezzi e sui salari. E’ lecito dunque porsi il problema di sapere se «l’adesione ad uno standard internazionale non comporti il pagamento di un prezzo troppo elevato in termini di stabilità interna».[12] Si afferma così con chiarezza che esiste una alternativa tra perseguimento dell’equilibrio esterno ed interno, e che in alcuni casi occorre scegliere.
E’ questo il dilemma che causò l’abbandono del gold standard negli anni della grande depressione e che era quasi del tutto ignorato dai protagonisti del gold standard classico. Dopo la prima guerra mondiale era infatti venuta a maturazione una svolta sociale importante: la conquista di un maggior potere sociale e politico da parte del movimento dei lavoratori. La politica monetaria e la politica fiscale non potevano più essere manovrate in funzione del solo equilibrio esterno. Una politica monetaria restrittiva causava una diminuzione del potere d’acquisto, disoccupazione ed una crescente pressione sul livello dei salari. Una politica monetaria inflazionistica comportava effetti negativi su chi viveva di rendite finanziarie, ma non aveva necessariamente effetti negativi su profitti e salari, perché i lavoratori riuscivano ormai a difendere efficacemente il loro potere d’acquisto, grazie alla forza contrattuale delle trade unions, e i capitalisti potevano mantenere inalterati i margini di profitto elevando i prezzi. L’inflazione provocava così nel lungo periodo un trasferimento di reddito dalle classi improduttive a quelle produttive. Analoghe considerazioni potevano essere fatte per quanto riguardava il sistema fiscale, che in quegli anni venne riformato radicalmente con un ruolo sempre più rilevante delle imposte dirette e con l’espansione dei bilanci pubblici, che si assunsero l’onere delle prime forme di assistenza e di previdenza. Anche in questo caso la politica di bilancio ebbe un forte effetto redistributivo. Negli anni compresi tra le due guerre mondiali, si assiste pertanto ad una completa nazionalizzazione della politica monetaria e della politica fiscale. Esse diventarono gli strumenti principali dell’azione di governo. Si tratta di un processo di centralizzazione dei poteri di politica economica che assunse forme differenti nei paesi comunisti e in quelli capitalisti. Ma l’aspetto comune era l’accresciuto ruolo del potere nazionale nel governo dell’economia. In effetti, il grado di integrazione dell’economia internazionale tra le due guerre mondiali era tale per cui esistevano ancora notevoli margini di manovra da parte dei governi nazionali per favorire lo sviluppo e l’occupazione interna con provvedimenti autonomi. La fine del gold standard consentì a molti paesi di avviare efficaci piani nazionali per la ripresa economica. E, in effetti, negli anni Trenta si verificò, come reazione alla grande depressione, un aumento della produzione interna rispetto al commercio internazionale.[13] Il nazionalismo economico aveva vinto.
L’utilizzazione di una moneta nazionale come moneta di riserva, tra sistemi economici in cui la politica monetaria non poteva più essere considerata neutrale ai fini interni, poteva dunque riuscire solo in un contesto internazionale altamente stabile, con forti convergenze tra le politiche economiche dei governi nazionali e sulla base di una assoluta fiducia nella moneta nazionale scelta come perno del sistema dei pagamenti. Furono queste le condizioni che si stavano profilando all’orizzonte quando venne progettato dagli Stati Uniti il nuovo ordine economico post-bellico. Il governo Roosevelt, in effetti, non attese la fine del conflitto per definire le regole ed i grandi obiettivi della ricostruzione. Già alla fine del 1941 gli Stati Uniti cominciarono a intavolare trattative con la Gran Bretagna per l’istituzione di un sistema monetario internazionale fondato su cambi fissi. Le resistenze inglesi, rispetto alle pretese americane di «universalità», vale a dire il multilateralismo, che avrebbe minacciato di smantellare il sistema di preferenze imperiali e l’area della sterlina, vennero progressivamente poste in secondo piano dalla forza della potenza mondiale emergente: gli Stati Uniti detenevano circa l’80% delle riserve monetarie d’oro, la loro produzione industriale lorda si avvicinava alla metà della produzione mondiale complessiva e, come si vide nel corso della guerra, e ancor meglio dopo lo scoppio della bomba atomica, la loro supremazia militare era schiacciante. Gli accordi del 1944 di Bretton Woods segnarono dunque l’inizio di un sistema dei pagamenti internazionali fondato formalmente sulle regole del gold-exchange standard, ma, di fatto, sul ruolo egemone della potenza americana. A differenza del gold standard classico, il gold-exchange standard non è per nulla un ordine spontaneo.
Bretton Woods rappresenta il primo tentativo nella storia dell’economia mondiale di fondare un sistema monetario internazionale (e successivamente, con il GATT, un sistema commerciale multilaterale di scambi) su regole scritte. Tuttavia, per comprendere come sono stati possibili il funzionamento ed il successo, seppure limitato nel tempo, di Bretton Woods è necessario fare riferimento non solo alle regole scritte, ma anche a quelle non scritte. La prima delle regole non scritte di rilievo è che il piano redatto a Bretton Woods avrebbe riguardato soltanto l’area economica occidentale. La questione venne del resto subito definita con il rifiuto dell’URSS di ratificare gli accordi e con il divieto posto da Mosca ai paesi del campo socialista di aderire. La seconda regola non scritta riguardava la responsabilità finale del funzionamento degli accordi. Formalmente gli Stati aderenti si impegnavano a rispettare una certa parità della loro moneta (con un margine di flessibilità in più o in meno dell’1%) con il dollaro, mentre il governo statunitense si impegnava al rispetto della parità di 35 dollari per oncia d’oro. Ma questo obiettivo non poteva essere ottenuto senza la collaborazione effettiva non solo delle Banche centrali, ma anche dei governi nazionali. A differenza del gold standard classico, infatti, Bretton Woods riconosceva esplicitamente la possibilità di conflitto tra il raggiungimento degli obiettivi interni (piena occupazione, stabilità dei prezzi) ed obiettivi esterni (equilibrio della bilancia dei pagamenti, stabilità del cambio) e cercava di provvedervi con apposite istituzioni: il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Si riconosceva pertanto che i cambi non si sarebbero mantenuti stabili attraverso meccanismi automatici, ma solo grazie ad appropriate politiche economiche nazionali coordinate tra di loro. Le istituzioni comuni avrebbero dovuto facilitare il raggiungimento di questo obiettivo: il FMI attraverso prestiti di breve periodo ai paesi con difficoltà di bilancia dei pagamenti per superare squilibri momentanei e la Banca mondiale con prestiti di lungo periodo ed a basso tasso di interesse per facilitare lo sviluppo strutturale. Entrambe le istituzioni avevano sede a Washington e nella loro amministrazione la voce del governo americano era preponderante. Ciò nonostante, non appena venne sottoposto alla prova dei fatti, nell’immediato dopoguerra, il sistema di Bretton Woods si dimostrò inadeguato. I paesi europei, a causa della vasta distruzione dell’apparato produttivo avvenuta durante la guerra, non riuscivano a ritrovare la via della ripresa economica e della competitività internazionale, senza la quale non sarebbero riusciti a smantellare l’apparato protezionistico pre-bellico e a rendere convertibili le loro monete. La Gran Bretagna, pressata dagli Stati Uniti, tentò di rendere convertibile la sterlina nel luglio del 1947, ma l’esperimento fallì nel giro di poche settimane. La situazione veniva riassunta efficacemente nel problema della scarsità di dollari (dollar shortage), cioè nel fatto che i paesi europei avevano bisogno di più prodotti americani di quanto gli Stati Uniti avessero bisogno di prodotti europei.[14] La difficoltà venne superata solo grazie al Piano Marshall di aiuti pubblici e privati alla ricostruzione europea. Si calcola che dal 1948 al 1951 gli Stati Uniti riuscirono a garantire all’Europa aiuti pari all’1% del loro prodotto interno lordo, corrispondenti a circa il 2% del prodotto lordo dei paesi beneficiati.[15] Fu questo l’inizio di un processo che consentì progressivamente all’Europa di avviare la ricostruzione e di ripristinare la stabilità monetaria, sino al raggiungimento della convertibilità. In questo caso, come in molte altre occasioni che si sarebbero presentate in seguito, è evidente che fu il governo americano a sostenere ed a far funzionare le istituzioni internazionali e che, se necessario, era il Federal Reserve System, e non il FMI, a funzionare da lender of last resort. In definitiva, il gold-exchange standard non è un sistema simmetrico: alcuni hanno più responsabilità di altri.
Ufficialmente, gli accordi di Bretton Woods cominciarono a funzionare dal 1947. Ma, nei primi anni, la loro esistenza fu puramente nominale. I paesi europei erano ancora imbrigliati nei sistemi protezionistici pre-bellici, gli scambi internazionali avvenivano prevalentemente su base bilaterale, la moneta degli scambi, sino alla metà degli anni Cinquanta, restava la sterlina e le Banche centrali detenevano ancora la maggior parte delle loro riserve in sterline (oltre che in oro).[16] Ciò nonostante, la stabilità politica ed economica garantita dall’egemonia americana sull’intero emisfero occidentale fu determinante per creare condizioni favorevoli alla cooperazione tra i paesi europei che, una volta avviata, rappresentò a sua volta uno dei pilastri dell’ordine monetario internazionale post-bellico. Infatti, grazie all’impulso fornito dal Piano Marshall venne istituita l’Unione europea dei pagamenti (EPU) che attraverso un sistema di clearing incentivò gli scambi multilaterali tra i paesi europei. Più tardi, con i Trattati di Roma, si crearono le condizioni per la piena convertibilità (1958) delle monete europee. Il Giappone decise di rendere lo yen convertibile nel 1964. Con la convertibilità delle monete inizia la fase che potrebbe essere definita del gold-dollar standard, perché il dollaro diventa la moneta principe degli scambi internazionali e delle riserve delle Banche centrali.
In senso stretto, il sistema di Bretton Woods funzionò per poco più di un decennio, dal 1959 al 1971, quando il governo statunitense fu costretto a dichiarare l’inconvertibilità del dollaro con l’oro. Tuttavia, il suo successo fu considerevole. I paesi industrializzati dell’area occidentale si svilupparono a tassi quasi doppi (4,9% dal 1950 al 1970) rispetto al periodo del gold standard classico.[17] Nel complesso, le necessità di riallineamento delle parità concordate, a causa dell’impossibilità di alcuni paesi di mantenere l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti, risultarono limitate, a dimostrazione del fatto che i governi partecipanti all’accordo rispettarono la disciplina di politica economica necessaria a mantenere i cambi concordati. Il sistema di Bretton Woods crollò nel 1971 per tre ragioni, tra di loro strettamente correlate.
La prima di queste ragioni è stata formulata con grande lucidità da Robert Triffin[18] sin dal 1959, anno in cui si avviava l’esperimento della piena convertibilità delle monete europee. Triffin faceva notare una intrinseca contraddizione nel sistema del gold-exchange standard, perché il crescente volume del commercio internazionale avrebbe richiesto, data l’impossibilità di far aumentare in modo adeguato le riserve in oro, un volume crescente di liquidità internazionale che solo la valuta chiave avrebbe potuto fornire. Il paese a valuta chiave, gli Stati Uniti, si sarebbe dunque trovato nella condizione di dover fornire liquidità al resto del mondo, cosa che poteva avvenire solo attraverso un deficit della bilancia dei pagamenti statunitense (in effetti, il surplus delle partite correnti veniva compensato dal deficit nei movimenti di capitale). In una prima fase, le fuoriuscite di capitali dagli Stati Uniti erano dovute agli aiuti pubblici e privati. In una seconda fase, si trattava di investimenti diretti all’estero, specialmente in Europa. Questa situazione, sosteneva con ragione Triffin, nel lungo periodo sarebbe divenuta insostenibile, perché avrebbe generato una crescente sfiducia nella capacità degli Stati Uniti di mantenere la convertibilità del dollaro con l’oro. Gli avvenimenti della seconda metà degli anni Sessanta hanno pienamente confermato l’analisi di Triffin. Anche a causa della guerra nel Vietnam, divenne ad un certo punto evidente che il deficit americano aumentava non solo per fornire la necessaria liquidità al sistema internazionale dei pagamenti, ma per altre finalità di politica estera statunitensi. Si era così passati dal decennio in cui si lamentava la scarsità di dollari ad un decennio in cui ci si doveva lamentare per la ragione opposta: un eccesso di dollari, che si trasformava in un tasso indesiderato di inflazione al di fuori degli Stati Uniti.
La seconda ragione di crisi del sistema di Bretton Woods riguardava la crescente mobilità dei capitali, un fenomeno che ha assunto dimensioni imponenti nell’epoca della globalizzazione finanziaria. Gli accordi di Bretton Woods prevedevano la convertibilità delle monete solo per quanto riguardava i pagamenti in conto corrente, cioè lo scambio di merci e servizi. L’esperienza degli anni Trenta aveva mostrato quanto fossero destabilizzanti i movimenti speculativi di capitale. Tuttavia, con l’inizio della fase di convertibilità monetaria divenne sempre più difficile, specialmente per il governo americano, impedire che capitali privati cercassero alti rendimenti all’estero. In particolare, la City di Londra divenne una piazza particolarmente attrezzata per investimenti in dollari. Nacque così il mercato dell’Eurodollaro, grazie al fatto che un mercato apolide, non dovendo sottostare ai vincoli imposti dalle regolamentazioni nazionali, poteva consentire tassi debitori più convenienti di quelli dei mercati nazionali. Così, in quegli anni, si è messo in moto un processo inarrestabile verso la liberalizzazione dei movimenti di capitale che è diventato ancora più impetuoso negli anni Ottanta quando, dopo il crollo di Bretton Woods, la flessibilità dei cambi ha reso più facile una ulteriore liberalizzazione dei movimenti internazionali ed interni di capitale.[19]
La terza ragione del collasso del sistema di Bretton Woods va ricercata nel mutamento dei rapporti di forza economici tra Stati Uniti e Comunità europea. Alla fine degli anni Sessanta la Comunità si affermava come prima potenza commerciale mondiale, superando gli Stati Uniti. La supremazia commerciale europea, inoltre, comportava un mutamento nei rapporti monetari. Le riserve auree statunitensi sono continuamente diminuite nel corso del dopoguerra, mentre sono aumentate quelle dei poli commerciali rivali, quali la Comunità europea ed il Giappone.[20] La forza relativa dell’Europa non si è tradotta, tuttavia, nella capacità di creare un polo monetario europeo alternativo al dollaro. De Gaulle, sin dal 1965, ha contestato l’esorbitante privilegio degli Stati Uniti di non dover riportare in equilibrio la propria bilancia dei pagamenti. Secondo Jacques Rueff, il gold-exchange standard aveva «prodotto l’immensa rivoluzione di fornire ai paesi con moneta dotata di prestigio internazionale il meraviglioso segreto dei deficit senza lacrime, che permettono di dare senza prendere, di prestare senza indebitarsi e di comprare senza pagare».[21] In effetti, secondo Rueff, il sistema di Bretton Woods consentiva agli Stati Uniti non solo di creare base monetaria inflazionistica senza nessun obbligo di rispettare l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, ma, grazie al fatto che i paesi del sistema trovavano conveniente tenere riserve denominate in dollari che potevano, in parte, reinvestire con profitto sul mercato statunitense, la base monetaria mondiale finiva necessariamente per espandersi a dismisura. Il gold-exchange standard generava inflazione. Il rimedio, per Rueff e De Gaulle, era il ritorno al gold standard. La situazione divenne insostenibile quando anche la Germania si rifiutò di accettare la politica inflazionistica degli Stati Uniti. Nel maggio del 1971, la Germania tentò di convincere gli altri paesi della Comunità europea ad avviare una fluttuazione comune nei confronti del dollaro, ma a causa della resistenza francese la proposta tedesca non venne accettata.[22] Iniziò così una fase di disordinate fluttuazioni monetarie, che non solo minarono i rapporti tra Europa e Stati Uniti, ma tra gli stessi paesi della Comunità europea.
In conclusione, la fine di Bretton Woods non rappresentò il collasso dell’economia internazionale come era avvenuto nell’epoca della grande depressione. Ma alla stabilità monetaria internazionale è subentrata una fase di inflazione in tutti i paesi industrializzati. Il crollo di Bretton Woods significò la fine dell’egemonia economica americana o, come sostengono alcuni, la transizione dall’egemonia alla leadership, perché gli Stati Uniti non erano più in grado di chiedere ai governi partecipanti all’accordo il rispetto delle regole del gioco. La cooperazione economica internazionale tra i paesi dell’area occidentale poteva continuare, ma solo su nuove basi: un sistema di cambi flessibili, ma la cui flessibilità non avrebbe dovuto superare alcuni limiti concordati anticipatamente tra i maggiori paesi industrializzati. Per questo prese sempre più rilievo il G7 come strumento informale di coordinamento delle politiche economiche. Fu anche grazie a questi accorgimenti che il commercio internazionale continuò a crescere ininterrottamente anche nell’epoca dei cambi fluttuanti. Allo stesso modo, si sviluppò con forza inarrestabile il mercato mondiale dei capitali, perché grazie ai cambi fluttuanti, i governi non avevano più serie ragioni per impedirne la circolazione internazionale. Tuttavia, questi movimenti commerciali e finanziari, seppure benefici, hanno creato una situazione di progressiva anarchia. I governi nazionali, compreso quello statunitense, hanno perso sempre più il potere di controllare i cambi. Il dollar standard è un non-sistema, perché il dollaro svolge ormai solo la funzione di lingua franca, cioè di unità di misura convenzionale degli scambi. Ma non esiste più un responsabile di ultima istanza a cui ricorrere in caso di gravi perturbazioni finanziarie, anche a causa dell’enorme importanza assunta dalla finanza apolide. L’economia mondiale è fuori controllo.
4. L’Unione monetaria europea come nuovo gold standard.
Il processo di unificazione monetaria europea ha fatto i suoi primi passi nella fase di agonia del sistema di Bretton Woods. Si tratta di un processo di dimensioni regionali, dunque della formazione di un sub-sistema monetario internazionale che, tuttavia, possiede potenzialità mondiali per l’importanza economica dell’area interessata. Esso non può essere compreso senza tener presente che le soluzioni tecniche via via adottate dai governi europei si sono fondate sulla necessità di assumere misure politiche che non mettessero in discussione il patto di fondazione della Comunità europea. La Comunità europea, infatti, è stata fondata nel 1950, come les premières assises de la Fédération européenne (Jean Monnet). E’ vero che questo obiettivo politico viene raramente ricordato e non viene perseguito esplicitamente, ma è anche vero che nelle fasi di crisi, in cui si è imposta la scelta tra unità e divisione, si è sempre scelta, anche se in modo ambiguo, la via dell’unità. Il Trattato di Maastricht (1991), che crea la moneta unica, ma con istituzioni politiche comuni del tutto insufficienti, è un ulteriore esempio della natura profondamente contraddittoria del processo di unificazione europea.
Per questo, gli avvenimenti europei generano interpretazioni disparate, non solo tra i commentatori ma tra gli stessi protagonisti. L’ipotesi qui discussa è che il processo di unificazione europea comporti, come altro lato della medaglia, la denazionalizzazione della politica economica, per quanto riguarda sia la politica monetaria che la politica fiscale. Tra le due guerre mondiali, come si è visto, le maggiori potenze si sono orientate verso forme di autarchia più o meno accentuate. Nel secondo dopoguerra, con il sistema di Bretton Woods e delle altre principali organizzazioni economiche internazionali, si è accettato che la politica economica perseguisse anche l’obiettivo della costruzione di un libero mercato mondiale (almeno nell’area occidentale), ma senza mettere in discussione le sovranità nazionali. Con il progetto della moneta europea, ci si propone di trasformare un mercato internazionale (anche se di dimensioni regionali) in un vero mercato interno. Il Trattato di Maastricht, in effetti, comporta l’istituzione di una Banca centrale sovranazionale e di una moneta unica su un’area plurinazionale. Per quanto riguarda il sistema dei cambi, è in sostanza un gold standard, anche se, nell’epoca della moneta fiduciaria, non è certamente più l’oro a fungere da circolante, ma l’euro.
Per esaminare come ciò sia stato possibile, consideriamo tre tappe intermedie che la Comunità ha attraversato prima che fosse presa la decisione di fondare l’Unione monetaria. La prima è consistita nella semplice individuazione da parte dei governi dell’obiettivo, con il Piano Werner (1970), ma nella sostanziale mancanza di volontà di metterlo in atto. La seconda e la terza fase coincidono con la creazione (1979) ed evoluzione del Sistema monetario europeo (Sme), che ha assunto in un primo tempo le sembianze di un gold standard ed in un secondo tempo quelle di un gold-exchange standard, ad egemonia tedesca.
I Trattati di Roma (1957) avevano reso possibile la realizzazione di una unione doganale, con una tariffa esterna comune, ma non avevano affatto individuato nella istituzione di una moneta unica la condizione necessaria per la realizzazione di un vero Mercato comune. Tacitamente, i Trattati di Roma avevano considerato il dollaro come la moneta europea. Tuttavia, quando nella seconda metà degli anni Sessanta il sistema di Bretton Woods cominciò a manifestare evidenti segni di cedimento, i governi europei al vertice dell’Aja del 1969 decisero di istituire una Unione economica e monetaria. Il Rapporto Werner, approvato nel 1970, individuò con precisione l’obiettivo da raggiungere e le sue fondamentali conseguenze per la politica monetaria e di bilancio. «Un’unione monetaria — così era scritto nel Piano Werner — implica all’interno la convertibilità totale e irreversibile delle monete, l’eliminazione dei margini di fluttuazione dei cambi, la fissazione irrevocabile dei rapporti di parità e la liberalizzazione totale dei movimenti di capitale». Questo traguardo avrebbe dovuto essere raggiunto nel corso del decennio, dunque entro il 1980. Inoltre, si sosteneva nel Rapporto, «è indispensabile che le principali decisioni di politica monetaria siano centralizzate, che si tratti della liquidità, dei tassi di interesse, degli interventi sul mercato dei cambi, della gestione delle riserve o della fissazione delle parità delle monete nei confronti del resto del mondo… La politica di bilancio assume un grande significato per guidare lo sviluppo generale dell’economia. Il bilancio della Comunità all’inizio della fase finale sarà, senza alcun dubbio, più importante di quanto lo sia oggi, ma la sua importanza, dal punto di vista congiunturale, resterà minore di quella dei bilanci nazionali la cui gestione armonizzata costituirà un fattore essenziale di coesione dell’Unione». Nel Rapporto si diceva infine che la creazione dell’Unione monetaria avrebbe comportato un «trasferimento di responsabilità» politiche dal livello nazionale a quello europeo, rendendo necessario un «centro di decisione» (dunque un governo) responsabile della politica economica complessiva di fronte ad un Parlamento europeo riformato.[23]
Il vero difetto del Piano Werner è consistito nella presunzione che bastasse avviare una fase transitoria fondata sulla buona volontà di cooperazione tra i governi europei, per avvicinare progressivamente la Comunità all’obiettivo finale. Nessuna nuova istituzione, rispetto a quelle già previste dai Trattati di Roma, era inizialmente ritenuta necessaria. Le monete europee avrebbero dovuto restringere progressivamente i loro margini di fluttuazione nei confronti del dollaro (che dunque continuava a fungere da moneta di riferimento) sino a che sarebbe stato istituito un Fondo europeo di cooperazione monetaria, embrione della futura Banca centrale europea.
In effetti, alcune delle indicazioni del Piano Werner vennero messe in atto dopo la decisione americana di rendere inconvertibile il dollaro e lo Smithsonian Agreement del 1971 che portava i margini di fluttuazione rispetto al dollaro al 2,25%. Di conseguenza, le monete europee avrebbero potuto fluttuare una nei confronti dell’altra del 9%, un margine considerato eccessivamente elevato per il Mercato comune, specialmente quello agricolo, che si fondava sull’unicità del prezzo dei prodotti. I sei paesi della Comunità decisero pertanto di restringere i margini bilaterali di fluttuazione al 2,25% in più o in meno, così da limitare la fluttuazione massima tra le monete europee al 4,5%. Nel contempo, veniva istituito il Fondo europeo di cooperazione monetaria (Fecom), come stanza di compensazione tra Banche centrali. Il serpente — the snake in the (dollar) tunnel — ebbe vita breve. Cominciò a funzionare nel 1972 tra i sei paesi, il Regno Unito e la Danimarca. Ma questi ultimi Stati abbandonarono subito l’esperimento. Nel 1973 uscì l’Italia e si rivalutarono il marco e il fiorino olandese. Nel 1975 uscì la Francia, che vi ritornò nello stesso anno, ma si ritirò di nuovo nel 1976. Il serpente si ridusse così ad una semplice zona del marco.[24] Nel frattempo, la prima e la seconda crisi petrolifera (1973 e 1979) aggravarono ulteriormente i problemi dei paesi europei, che furono costretti a reagire in ordine sparso all’aumento dei prezzi delle materie prime ed alle difficoltà di bilancia dei pagamenti. In questi anni cominciò a crescere l’indebitamento pubblico, che divenne cronico nei decenni successivi. Il rapporto tra debito pubblico e PIL era, nel 1973, prossimo al 60% in Italia, Belgio ed Irlanda, al 70% nel Regno Unito, al 40% in Francia e nei Paesi Bassi e al 20% nella RFT. Nel 1982 lo stesso rapporto passò ad oltre il 100% in Belgio e in Irlanda, al 66% in Italia, al 40% in Germania. Solo la Francia riuscì a conservare il suo indebitamento al 40%.[25] Contemporaneamente, l’inflazione raggiunse in alcuni paesi livelli drammatici. Sino al 1973, il tasso differenziale di inflazione di Italia, Francia e Regno Unito si era contenuto al di sotto del 5% rispetto a quello della Germania. Nel 1980, il differenziale di inflazione di Italia e Regno Unito salì al 15% nei confronti di quello tedesco.[26]
La situazione di disordine monetario e finanziario in cui versava la Comunità europea minacciava la sua stessa esistenza. Per la prima volta dalla sua fondazione, il commercio intracomunitario cessava di crescere. I primi impulsi per un rilancio politico del processo di unificazione vennero dai federalisti europei che, insieme alla ormai prossima elezione diretta del Parlamento europeo, richiesero l’istituzione di una moneta europea che avrebbe consentito di avviare la trasformazione della Comunità in una vera Unione federale.[27] I governi europei, fedeli al metodo dei piccoli passi, presero decisioni meno impegnative, ma comunque significative. Nel 1979 entrava in funzione, tra otto paesi della Comunità (il Regno Unito decideva di non partecipare), il Sistema monetario europeo (Sme) le cui caratteristiche essenziali erano le seguenti: a) veniva istituita una moneta di conto, denominata ecu, composta da un paniere delle monete nazionali, ponderate sulla base dei rispettivi PIL e del commercio intraeuropeo; b) i tassi di cambio delle monete nazionali venivano definiti in termini di ecu (il dollaro perdeva così definitivamente il ruolo di moneta di riferimento); c) il margine di fluttuazione di ogni valuta era fissato al 2,25% in più o in meno rispetto al tasso di riferimento; d) si definiva una soglia di divergenza pari al 75% del margine di fluttuazione, al fine di obbligare le Banche centrali e le autorità di politica economica a prendere provvedimenti prima che venisse raggiunto il margine estremo di fluttuazione; e) veniva concordata una procedura comune per modificare le parità monetarie, a cui era associata la Commissione; f) avrebbe dovuto essere istituito entro due anni un Fondo monetario europeo; ma quest’ultimo impegno venne in seguito completamente ignorato dai governi europei.
Vi sono alcune caratteristiche dello Sme che ricordano da vicino le regole del gioco del gold standard: a) lo Sme viene istituito allo scopo di creare «una zona di stabilità monetaria» in Europa, mettendola così al riparo dalle pericolose fluttuazioni del dollaro. Per stabilità monetaria si deve intendere sia la stabilità dei tassi di cambio che una politica economica di ciascun paese rivolta prevalentemente alla lotta contro l’inflazione; b) non si utilizza alcuna moneta nazionale come standard di valore, ma si crea una moneta artificiale, l’ecu, che funge da moneta di riferimento (come l’oro) per le Banche centrali, le quali si impegnano a mantenere costante il valore della moneta nazionale in termini di ecu; c) grazie alla creazione dell’ecu, lo Sme può funzionare come un sistema «non egemonico», ovvero come un sistema «simmetrico», nel senso che nessuna politica economica nazionale prevale sulle altre; in effetti, ciascun paese ha il dovere di intervenire quando il proprio tasso di cambio si avvicina alla «soglia di divergenza» tollerata, sia verso l’alto che verso il basso; d) la tacita cooperazione tra le Banche centrali del gold standard viene istituzionalizzata nello Sme con precise regole di condotta riguardanti i mutamenti delle parità monetarie e l’assistenza reciproca tra valute.
La fase iniziale dello Sme, riguardante gli anni 1979-83, in cui erano ancora elevati i differenziali di inflazione tra i paesi europei a causa del recente shock petrolifero e delle turbolenze del dollaro, è caratterizzata da ben sette riallineamenti delle parità monetarie. Ma, a partire dalla metà degli anni Ottanta, si realizza una maggiore convergenza tra le economie europee, grazie alla riduzione dei differenziali di inflazione. I riallineamenti delle parità si fanno meno frequenti. Diventa così possibile il progetto «mercato interno entro il 1992» (Atto Unico, 1986), che rilancia la crescita e l’occupazione. A partire dal 1981, inoltre, comincia a formarsi un mercato privato dell’ecu, che si afferma come moneta di riferimento per le attività finanziarie, dando così visibilità alla «domanda» di moneta europea. La crescita del mercato privato dell’ecu è sufficientemente costante nel tempo: 5% del mercato internazionale nel 1985, 6% nel 1989 e oltre il 10% nel 1991. L’ecu non viene, tuttavia, utilizzato in misura rilevante né nelle transazioni ufficiali tra Banche centrali, né nelle transazioni commerciali per la fatturazione di merci e servizi.[28]
La seconda fase dello Sme, quella che termina con la crisi dell’agosto del 1993, quando i margini di fluttuazione vengono portati al 15% in più o in meno della parità centrale, inizia dopo la decisione presa dal governo francese e dal presidente Mitterrand, di rinunciare ad una politica di sviluppo dell’economia francese fondata sul rilancio della domanda interna, che avrebbe accresciuto il deficit di bilancio e l’inflazione. La Francia optò esplicitamente, in questa circostanza, per una politica di convergenza europea. Lo standard di riferimento divenne, pertanto, la politica monetaria tedesca della Bundesbank che, con maggiore successo rispetto agli altri membri dello Sme, era riuscita a combattere l’inflazione. Lo Sme cessò così di essere, se mai lo era stato, un sistema simmetrico perché, nella misura in cui l’aspetto centrale della politica economica divenne il perseguimento di un basso tasso di inflazione, non poteva più venir chiesto alla Germania di aumentare il suo tasso di inflazione per convergere verso la media comunitaria. Il marco, e non più l’ecu, divenne la moneta di riferimento sul mercato dei cambi.[29] Si può pertanto sostenere che, in questa seconda fase, lo Sme divenne più simile ad un gold-exchange standard che ad un gold standard. Rispetto al sistema di Bretton Woods va tuttavia notato che il ruolo della Germania e del marco è stato molto differente rispetto a quello degli USA e del dollaro. Gli USA potevano contare su di una egemonia politica, militare ed economica sul mondo occidentale. Lo Sme divenne area del marco solo in via transitoria, perché gli altri paesi europei accettarono il modello tedesco di stabilità monetaria come premessa per la creazione dell’Unione economica e monetaria, in cui l’egemonia della Germania e del marco sarebbero scomparse.
Se non si tiene presente l’aspetto politico del processo di integrazione monetaria europea non si possono comprendere gli avvenimenti del 1992-93, che portarono di fatto alla fine dello Sme, perché un margine di fluttuazione del 15% è una pura finzione: se fosse stato completamente utilizzato avrebbe rappresentato di fatto un sistema di cambi fluttuanti. La crisi dello Sme del 1992 presentava caratteristiche molto simili a quella che condusse alla fine del sistema di Bretton Woods. L’unificazione tedesca aveva costretto il governo di Bonn a sostenere, con una eccezionale emissione di debito pubblico, ingenti investimenti nei Länder dell’Est e la Bundesbank a far aumentare i tassi di interesse, per contenere l’inflazione e far affluire capitali dall’estero. Gli altri paesi dello Sme si trovarono dunque di fronte alla necessità o di richiudere le frontiere ai movimenti di capitale (ma questo avrebbe significato rifiutare la prima tappa dell’Unione monetaria, già approvata), oppure di aumentare considerevolmente i tassi di interesse o, infine, di svalutare la propria moneta rispetto al marco ed abbandonare lo Sme. E’ questa terza alternativa la strada che seguirono Italia e Gran Bretagna. Ma la crisi dello Sme non comportò affatto la fine del progetto di Unione monetaria, come implicitamente sosteneva chi, sulla base della pura logica economica, avrebbe voluto che i paesi europei adottassero un sistema di cambi fluttuanti, per rendere possibili piani nazionali di sviluppo.[30] Per questo, seppure con crescenti difficoltà, il processo di convergenza tra le economie europee, ormai definito con precisione nel Trattato di Maastricht, riprese.
Gli anni drammatici che videro la disgregazione dell’impero sovietico e la riunificazione tedesca, imposero agli Europei la scelta tra una Germania europea o un’Europa tedesca. Il Trattato di Maastricht (1991) sancì il progressivo abbandono delle sovranità monetarie nazionali e l’istituzione dell’Unione monetaria, come architrave della futura Unione politica. Il Trattato di Maastricht può dunque venire interpretato come l’istituzionalizzazione delle regole del gold standard. L’accettazione di una moneta comune comporta la rinuncia all’utilizzazione del tasso di cambio per manovre del tipo beggar-my-neighbour e la definitiva trasformazione del mercato europeo in mercato interno. Inoltre, i paesi europei non si sono limitati ad accettare una unione monetaria qualsiasi, ma una unione in cui la politica monetaria persegue l’obiettivo primario della stabilità dei prezzi. Per questo, la transizione alla moneta unica ha richiesto un periodo «di prova», in cui i paesi che, al contrario della Germania, non hanno accettato nel passato la cosiddetta cultura della stabilità monetaria, hanno dovuto dar prova di mutare radicalmente alcuni comportamenti sia al livello istituzionale che delle parti sociali. Infine, nel Trattato di Maastricht viene riconosciuta la necessità che anche le politiche fiscali debbano rispettare alcuni vincoli comuni. Nel Rapporto Delors, in cui si sono delineati gli obiettivi e le fasi della costruzione dell’Unione monetaria, si dice con chiarezza che la politica di bilancio nazionale può generare squilibri nell’intera Unione a causa di deficit eccessivi e che va pertanto sottoposta a regole comuni.[31] La nuova regola è quella del bilancio in pareggio. Il limite massimo di deficit, il 3% del PIL, individuato dal Trattato di Maastricht come parametro per l’avvio dell’Unione monetaria è stato riconfermato nel Patto di stabilità (Amsterdam, 1997) come limite invalicabile anche per la fase di funzionamento dell’Unione, salvo ammende e procedure speciali di controllo da parte della Commissione. In breve, il Trattato di Maastricht istituisce un sistema monetario simmetrico, in cui i paesi partecipanti hanno eguali poteri e responsabilità; sono eliminati i rischi di cambio grazie all’introduzione di una moneta unica e i tassi di interesse sono tendenzialmente uniformi (salvo differenziali di rischio) in tutta l’Unione. Dunque, i paesi europei ritornano ad osservare alcune importanti regole del gioco dell’ortodossia finanziaria e monetaria tipiche dell’epoca del gold standard. Naturalmente, essendo ora la moneta comune non più l’oro, ma una moneta fiduciaria, è necessario fissare le regole del gioco in un Trattato perché, senza la fiducia incondizionata e sacrale nell’oro, solo un patto solenne e delle istituzioni comuni possono raggiungere lo scopo di mantenere l’unità e la coesione tra numerosi paesi. Un ordine monetario spontaneo nel mondo contemporaneo non è più possibile. Ma si apre a questo punto il problema di sapere se una Unione monetaria, fondata sulle regole del gold standard, rappresenti una risposta adeguata alle complesse esigenze della società e dell’economia europea.
5. Occupazione, sviluppo e sussidiarietà.
L’Unione monetaria europea, seppur simile al gold standard, avrà un importante elemento di differenziazione: la Banca centrale europea, responsabile dell’emissione della moneta unica. Per questo è giusto definirla un gold standard post-keynesiano, perché Keynes aveva criticato, tra l’altro, il gold standard a causa della sua rigidità: in effetti, la quantità di moneta (l’oro e la moneta cartacea convertibile ad un tasso predeterminato con l’oro) non poteva essere adattata alle esigenze di sviluppo dell’economia e del ciclo economico. Il Trattato di Maastricht indica, al contrario, precise priorità alla politica monetaria.
Ma vi è un secondo senso secondo il quale l’Unione monetaria europea potrebbe essere definita come post-keynesiana. L’Unione monetaria viene istituita tra paesi in cui si è ormai affermata la prassi dell’intervento dello Stato nell’economia per favorire lo sviluppo e l’occupazione. In tutti i paesi dell’Unione europea si è sviluppato, a partire dal secolo scorso, un sistema di Welfare State che fa dell’Europa un sistema economico con una propria identità economico-sociale, in cui lo Stato si assume il compito di lottare contro la povertà e la responsabilità di assicurare ad ogni individuo un minimo di assistenza e di istruzione. Ma il sistema di Welfare State è per ora circoscritto al livello nazionale. Il problema che si pone è quello di sapere in che misura, con l’istituzione dell’Unione monetaria, alcune funzioni che prima erano svolte al livello nazionale debbano ora essere affidate al livello europeo. La questione centrale è quella dell’occupazione. Deve il livello europeo occuparsi anche del problema della lotta alla disoccupazione? E, nel caso in cui se ne debba occupare, quali sono i mezzi (cioè i poteri) che dovrà avere a disposizione?
La risposta a queste domande comporta evidenti implicazioni politiche. Si sostiene che l’Unione europea non debba diventare un nuovo Stato del benessere, che finirebbe col centralizzare le risorse ed i poteri ora detenuti al livello nazionale. L’Unione monetaria, in questa concezione, non sarebbe altro che un’area di libero scambio con una moneta comune. Al contrario, si vuole qui difendere il punto di vista che le nazioni europee, se vorranno conservare gli standard di benessere e di ricchezza che hanno goduto nel passato, devono affidare al livello europeo alcune responsabilità specifiche per la realizzazione di un piano europeo per lo sviluppo e l’occupazione. Il principio di sussidiarietà, secondo il quale le funzioni che non possono essere svolte ad un certo livello di governo devono essere affidate al livello superiore, deve essere applicato anche al problema dello sviluppo e dell’occupazione. Si tratta, dunque, di comprendere ciò che gli Stati nazionali possono assicurare ai loro cittadini con efficacia e ciò che, invece, non possono più assicurare senza l’intervento di una istanza superiore, cioè il governo europeo.
Quando si discute di un piano per lo sviluppo e l’occupazione è del tutto naturale prendere come punto di riferimento la teoria keynesiana. Tuttavia, va tenuto presente che il pensiero keynesiano si è sviluppato nei lontani anni Trenta, in un contesto storico del tutto differente da quello attuale. La teoria keynesiana dell’occupazione è stata concepita come la politica economica dello Stato nazionale chiuso.[32] Oggi, lo Stato nazionale deve agire in un contesto internazionale aperto, altamente interdipendente. L’Unione europea, con una moneta unica, mentre obbliga gli Stati nazionali ad aprirsi ulteriormente all’economia mondiale, fornisce anche i mezzi per affrontare le sfide della globalizzazione. Per comprendere quale sia il ruolo specifico del governo europeo, è necessario precisare che l’ambiente economico in cui deve agire presenta alcune caratteristiche che possono essere definite come post-keynesiane, nel senso che alcuni fatti o dati che determinavano il contesto in cui sono state concepite le politiche keynesiane negli anni Trenta oggi non esistono più. Le questioni da esaminare, tutte in relazione al processo di globalizzazione, sono almeno tre: il rapporto tra politica monetaria e fiscale; la relazione tra i salari monetari e i prezzi; la relazione tra produzione e occupazione.
Il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità impongono una stretta relazione tra politica monetaria e politica fiscale. La politica monetaria deve perseguire l’obiettivo primario del mantenimento della stabilità dei prezzi e la politica fiscale deve osservare l’obbligo di non generare deficit eccessivi di bilancio. Questo duplice obiettivo (in breve: no inflation, no deficit) che l’Unione europea ha reso trasparente con il Trattato di Maastricht è in verità una regola generale che la globalizzazione del mercato finanziario sta imponendo a tutti i paesi. Gli Stati Uniti non sono obbligati al rispetto del Trattato di Maastricht, ma un accordo bipartisan, dunque accettato da entrambi i partiti americani nel superiore interesse nazionale, va nella medesima direzione di favorire il pareggio del bilancio federale agli inizi del prossimo secolo, mentre il Federal Reserve System già da tempo persegue una oculata politica antinflazionistica, molto simile a quella richiesta dal Trattato di Maastricht. Osservazioni analoghe si potrebbero fare per il Giappone e per altri paesi. Questa connessione tra politica monetaria e politica fiscale è imposta dal mercato finanziario mondiale che considera ciascun paese alla stregua di una grande impresa multinazionale: se l’indebitamento di un governo diventa eccessivo, oppure il deficit di bilancio eccede una certa soglia, allora i prestatori esigono un premio sul tasso di interesse che normalmente viene richiesto ai debitori. Ciò comporta oneri crescenti al paese indebitato. Altro fattore di rischio è considerata l’inflazione, che può essere generata da una politica monetaria lassista della Banca centrale oppure da un deficit di bilancio eccessivo. Tutto ciò significa che il mercato mondiale impone alcuni vincoli alla politica economica nazionale che non esistevano ai tempi di Keynes. Keynes poteva pensare ad una politica monetaria relativamente indipendente, in cui la Banca centrale si proponesse l’obiettivo di ridurre il tasso di interesse sino a raggiungere un livello sufficiente a stimolare gli investimenti. E se lo stimolo della politica monetaria non fosse stato sufficiente, si poteva pensare ad una più energica manovra fiscale, per accrescere la domanda effettiva grazie ad un piano di investimenti finanziato con un deficit del bilancio pubblico. Questa libertà di manovra non esiste più. La sovranità monetaria e la sovranità fiscale sono diventate per gli Stati nazionali un guscio vuoto, tanto più prive di contenuto quanto più piccolo è il paese (cfr. Appendice 2). Solo le economie di dimensioni continentali possono ambire ad una relativa autonomia in una economia mondiale sempre più interdipendente. Ciò non significa che la politica monetaria e la politica di bilancio siano totalmente inefficaci o inutili. Esistono margini di manovra, spesso importanti.[33] Ma vanno ormai riconosciuti esplicitamente i limiti di alcuni strumenti di politica economica tipicamente keynesiani. Un piano per lo sviluppo e l’occupazione che dovesse puntare su politiche monetarie inflazionistiche oppure su politiche di deficit spending è un ricordo del passato. Sarebbe come versare acqua nel serbatoio di un motore a benzina. Non solo non si fornirebbe nessun impulso, ma si danneggerebbero gravemente i meccanismi.
Il secondo mutamento post-keynesiano che occorre prendere in considerazione riguarda il rapporto tra i salari monetari e i prezzi. Negli anni Trenta, in uno Stato nazionale chiuso si poteva assumere, senza timore che la realtà si discostasse significativamente dall’ipotesi, che l’area della moneta nazionale coincidesse con l’area di organizzazione del sindacato. La contrattazione sindacale assumeva pertanto una dimensione nazionale e, poiché i costi salariali rappresentano una componente essenziale dei costi di produzione, il livello dei salari monetari finiva per determinare in modo decisivo il livello generale dei prezzi monetari. In uno Stato nazionale chiuso il potere sindacale è dunque considerevole: esso può persino influenzare il comportamento della Banca centrale, che deve adeguare i flussi monetari alle richieste del mondo del lavoro. Il potere sindacale si è manifestato in modo particolarmente evidente in alcuni paesi europei negli anni di inflazione, successivi al crollo del sistema di Bretton Woods, quando le fluttuazioni monetarie hanno consentito una fase di relativo isolamento delle economie nazionali. Si è allora manifestata una perversa rincorsa tra salari monetari e prezzi che sembrava inarrestabile, perché i sindacati (ma il loro comportamento era tollerato ed assecondato da imprenditori e autorità monetarie) tentavano di anticipare l’inflazione con richieste di aumenti annuali sempre crescenti. E’ difficile, e forse impossibile, in queste circostanze calcolare quale salario reale corrisponda ad un certo salario nominale, con conseguenze disastrose non solo per i lavoratori, ma anche per le imprese e per l’intero sistema economico. In una Unione monetaria, formata da numerosi Stati nazionali, ed aperta al mercato mondiale, deve necessariamente mutare il rapporto tra salari monetari e prezzi. In condizioni di mercato aperto, il sistema dei prezzi reali (cioè la quantità di un bene in termini di un altro bene) è decisa dal sistema della concorrenza mondiale. La Banca centrale dell’Unione monetaria, sia per ragioni statutarie, sia per ragioni di prudenza, deve perseguire l’obiettivo della stabilità dei prezzi, dunque mantenere l’inflazione al più basso livello possibile. Ciò consente alle imprese ed ai sindacati di concordare una politica dei redditi che si fondi sulla definizione di parametri reali: la produttività e il salario reale (scompare la keynesiana illusione monetaria). Nell’Unione europea, la nuova «cultura della stabilità monetaria», consentendo la stabilità dei prezzi monetari e l’adeguamento dei salari reali alla produttività, favorisce una maggiore flessibilità del mercato del lavoro ed un progressivo ridimensionamento dell’importanza del livello nazionale di contrattazione. Da un lato diventerà necessario organizzare il mercato del lavoro al livello europeo, specialmente dove la dimensione europea delle imprese è dominante e dove la natura del problema — ad esempio, la riduzione dell’orario di lavoro — rende necessario un coordinamento ed un quadro legislativo europeo. Dall’altro, una più trasparente relazione tra produttività e costo del lavoro favorisce una regionalizzazione e differenziazione territoriale dei livelli salariali minimi. Una politica dell’occupazione, oggi, deve dunque fondarsi non solo sulla domanda, ma anche sull’offerta. Tuttavia, se la politica di flessibilizzazione dei salari venisse spinta sino alle sue estreme conseguenze, anche in Europa, come è avvenuto negli USA, si potrebbe generare il fenomeno dei working poors, cioè la formazione di uno strato sociale che pur lavorando vive al di sotto della soglia di povertà. Per questo è all’ordine del giorno della politica europea la riforma del Welfare State. La questione è complicata dal fatto che al problema della riforma del mercato del lavoro se ne sovrappongono altri, come ad esempio la crisi del sistema pensionistico, causata dall’invecchiamento della popolazione. E’ certo che i vecchi strumenti keynesiani di lotta alla disoccupazione, come gli ammortizzatori sociali che garantivano, un tempo, la stabilità del posto di lavoro, ma rappresentavano un grave intralcio al rinnovamento tecnologico, non sono più adatti alle nuove circostanze. La sfida della globalizzazione impone un mercato del lavoro flessibile. Ciò non significa, tuttavia, che la vita ed il benessere degli individui non debbano venire protetti. Il Welfare State va riformato, non abbandonato. Al livello nazionale, vanno ricercate nuove forme di solidarietà, come il reddito di cittadinanza (che si articola in una serie di misure complementari, quali il contratto di apprendistato, prestiti a giovani imprenditori, ecc.), che dovrebbe consentire a tutti di entrare nel mondo del lavoro e di usufruire di un minimo di servizi sociali.
La terza situazione post-keynesiana riguarda il mutamento tecnologico. E’ in corso la transizione dal modo di produzione industriale a quello post-industriale (o post-fordista)[34] e si sta affermando la società dell’informazione. Keynes poteva ipotizzare una relazione stabile e costante, nel breve periodo, tra domanda effettiva ed occupazione. Oggi, la trasformazione tecnologica in corso è talmente rapida che, anche nelle prime fasi di ripresa, dopo un periodo di stagnazione dell’economia, è probabile che si manifesti un aumento della produzione senza che si verifichi alcun aumento di occupazione, perché le imprese hanno interesse a sostituire appena possibile i vecchi metodi con metodi automatizzati, che risparmiano lavoro in modo considerevole. Una politica dell’occupazione, oggi, deve necessariamente riguardare il lungo periodo ed assecondare le modificazioni strutturali necessarie all’affermazione del nuovo modo di produzione, come le nuove tecnologie informatiche, i nuovi rapporti tra capitale e lavoro nell’impresa, la ricerca scientifica, l’istruzione e la formazione permanente. La sfida tecnologica riguarda tutti i paesi industrializzati e non risparmia neppure quelli in via di industrializzazione, perché non è possibile inserirsi nel mercato mondiale con metodi produttivi antiquati. Politiche dell’occupazione fondate unicamente sulla espansione della domanda effettiva mancherebbero del tutto l’obiettivo. La crescita economica, senza riforme adeguate del mercato, crea disoccupazione. L’Europa, negli ultimi decenni, ha dimostrato di non saper sfruttare le occasioni generate dagli aumenti di produttività. Cresce la ricchezza collettiva, ma essa viene sempre più distribuita disegualmente tra chi ha la fortuna di avere un posto di lavoro e chi, specialmente i giovani, non ce l’ha.
Se ora ritorniamo alla questione principale, cioè se esista una politica che può essere adeguatamente affrontata solo al livello europeo, e non al livello nazionale, la risposta è decisamente positiva. In breve, la lotta contro la disoccupazione deve essere fatta a tutti i livelli di governo, compresi i livelli locali, ma è efficace solo nel contesto di un piano europeo. Le cause della disoccupazione in Europa sono state indagate da numerosi studi, i quali convergono su alcuni punti decisivi: la disoccupazione è un fenomeno strutturale, che assume una dimensione preoccupante a partire dagli anni Settanta, quando supera di gran lunga quella degli USA, dove si era mantenuta sempre maggiore rispetto a quella europea. Sotto certi aspetti, è una crisi più profonda e persistente della grande depressione degli anni Trenta. Non esiste un’unica causa del fenomeno, ma una serie di cause, tra le quali la rigidità del mercato del lavoro, i carichi fiscali eccessivi ed alcune normative che favoriscono l’esclusione dei giovani dal mercato del lavoro.[35] Il rimedio a questi problemi consiste in una miscela di riforme che devono essere realizzate sia al livello nazionale — ed alcuni governi si sono già mossi in questa direzione — sia al livello dei poteri locali, che devono essere messi in condizione di svolgere, in collaborazione con il governo nazionale e l’Unione europea, una politica attiva dell’occupazione. In effetti, alcuni servizi sociali possono essere offerti più efficacemente dai governi più vicini ai cittadini e più sensibili ai loro bisogni (anche in questo caso va applicato il principio di sussidiarietà).
Il livello europeo di governo è tuttavia essenziale per quanto riguarda la determinazione di quello che Keynes definiva lo stato di fiducia degli imprenditori. Gli investimenti rappresentano la parte più dinamica della domanda effettiva e sono essenziali per garantire la competitività dell’economia nel contesto del mercato mondiale. Ai tempi di Keynes e in uno Stato nazionale chiuso, per creare uno stato di fiducia nella ripresa economica poteva bastare un vasto piano di investimenti pubblici (il modello è il New Deal di Roosevelt). Oggi, in una situazione in cui ogni governo si deve confrontare con il mercato mondiale e, dunque, con quanto fanno gli altri governi per mettere le proprie imprese in situazione di vantaggio, un piano di investimenti pubblici, specialmente se realizzati solo al livello nazionale, è del tutto insufficiente se non è inserito in una strategia più complessa. Quella che Keynes definiva «efficienza marginale del capitale», vale a dire la profittabilità degli investimenti, è ormai una funzione che dipende, per alcuni settori strategici come l’informatica, la telefonia, l’aeronautica, ecc., dalla possibilità di affermazione sul mercato mondiale. La politica di incentivazione degli investimenti è dunque diventata una componente della politica estera di un governo. Il successo di alcune aree di libero scambio, come il NAFTA, il Mercosur e la stessa Unione europea si spiega proprio con il fatto che i governi nazionali riescono in questi ambiti ad assicurare alle proprie imprese un’area più vasta del mercato nazionale come piattaforma per competere nel mercato mondiale. La neutralità del governo nei confronti del mercato è un mito liberale senza fondamento. Anche i governi, come quello degli USA, che vengono spesso citati come modelli di liberismo puro, sono attivissimi nella promozione di politiche che possano favorire le proprie imprese.
L’Unione europea sino ad ora non è riuscita a sviluppare una politica economica altrettanto efficace di quella dei governi di USA e Giappone. Per metterne in luce le ragioni vediamo in quali circostanze l’Europa è riuscita a creare uno stato di fiducia sufficiente per alimentare una fase persistente di sviluppo del reddito e dell’occupazione. Queste fasi sono solamente due. La prima è consistita nel progetto del Mercato comune, reso possibile dai Trattati di Roma del 1957. Sebbene si trattasse di un semplice progetto di unione doganale, nel contesto di un mercato mondiale sempre più aperto e stabile, grazie all’egemonia americana, l’abolizione delle barriere doganali ha creato una fase altamente dinamica di scambi intracomunitari e di investimenti. Va solo ricordato che nel periodo 1960-73 il tasso medio di crescita del PIL europeo è stato del 4,8% all’anno ed il tasso di disoccupazione si è mantenuto al livello del 2,6%, circa la metà di quello degli USA. La seconda fase di crescita, dopo la fase turbolenta degli anni Settanta, è coincisa con il progetto del mercato interno europeo. Nonostante il fatto che nella prima metà degli anni Ottanta le economie dei paesi europei fossero afflitte da gravi problemi di inflazione e di disoccupazione, l’istituzione del Sistema monetario europeo e la rinnovata fiducia intorno ad un progetto comune — l’obiettivo «mercato interno entro il 1992», grazie alla abolizione delle barriere alla libera circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone — crearono un clima di euro-ottimismo che consentì di invertire, almeno temporaneamente, la tendenza al declino dell’economia europea. Una stima realizzata per conto della Commissione europea prevedeva che la realizzazione del mercato interno avrebbe comportato complessivamente un aumento del tasso di crescita del 4,5% medio del PIL comunitario e la creazione di 1,8 milioni di nuovi posti di lavoro.[36] I risultati non furono pari alle attese, ma dal 1986 al 1990 si è in effetti registrata una crescita annua del 3,2% e una riduzione del tasso di disoccupazione all’8,3% nel 1990, dopo che era giunto al 10,8% nel 1985.
Da allora, le condizioni dell’economia europea non hanno fatto che peggiorare. Alla fase di euro-ottimismo è subentrata quella dell’euroscetticismo. L’ondata di euroscetticismo è stata scatenata dalla lotta per la moneta europea. Le sue origini non vanno ricercate nell’economia, anche se la crisi drammatica dello Sme del 1992 ne ha segnato l’inizio. Le cause dell’euroscetticismo sono eminentemente politiche e riguardano la lotta tra le forze del nazionalismo, contrarie al progetto della moneta europea, e quelle europeistiche. E’, tuttavia, in questo contesto e come parte integrante del progetto dell’Unione economica e monetaria che è stato concepito e varato il «Piano Delors» per lo sviluppo dell’economia europea e la lotta alla disoccupazione. Il Piano, elaborato dalla Commissione europea e contenuto nel Libro bianco Crescita, competitività, occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo,[37] è stato approvato dal Consiglio europeo di Bruxelles del 1993. Esso rappresenta, dopo il progetto del Parlamento europeo del 1983,[38] rimasto allo stadio di proposta, il secondo tentativo di definire un piano organico di sviluppo dell’economia europea. Ma, a differenza del progetto del Parlamento europeo, il Piano Delors aveva già raggiunto una formulazione operativa, con l’indicazione di un preciso programma di investimenti europei, delle fonti di finanziamento e delle responsabilità che avrebbero dovuto assumersi, a fianco della Commissione europea, i governi nazionali e gli enti locali. Il Piano Delors conteneva una risposta europea efficace alla sfida della mondializzazione. La costruzione di una rete europea per lo sfruttamento delle tecnologie dell’informazione avrebbe consentito di accrescere considerevolmente la produttività delle imprese e delle amministrazioni pubbliche. Il finanziamento delle reti ferroviarie ad alta velocità e di nuovi tronchi autostradali (particolarmente rilevanti quelli che prevedevano il collegamento tra Europa occidentale e paesi dell’Est europeo, sino a Mosca) avrebbe dato tangibilmente agli operatori economici la dimensione del nuovo mercato europeo e delle sue enormi potenzialità. Infine, alcune proposte innovative per quanto riguarda la politica dell’occupazione, come la riduzione del costo del lavoro associata a interventi a favore della salvaguardia dell’ambiente, la riforma del sistema educativo e la riduzione dell’orario di lavoro, avrebbero consentito di mettere l’Europa all’avanguardia nella sperimentazione di un nuovo modello di sviluppo sostenibile. In breve, con il Piano Delors, l’Europa sarebbe riuscita a tenere il passo con gli Stati Uniti ed il Giappone, i cui governi hanno già promosso, in alcuni casi con efficacia, misure di politica industriale (informatica, aeronautica, istruzione, ecc.) che vanno nella medesima direzione.
Il Piano Delors, tuttavia, è stato sinora realizzato solo in minima parte e non certo nella misura sufficiente a determinare uno stato di fiducia favorevole alla ripresa dell’economia europea. I governi europei attendono passivamente che l’economia europea si riprenda grazie a stimoli provenienti dallo sviluppo dell’economia mondiale. Ma in questo modo, se ripresa vi sarà, non potrà essere che un nuovo fuoco fatuo. Lo stato di fiducia non va confuso con una euforia congiunturale. Il problema di fondo, al quale l’Europa non si potrà sottrarre, è se esiste la volontà politica di affrontare la sfida della globalizzazione. Il Piano Delors non è stato realizzato, si potrebbe sostenere, perché l’euroscetticismo dilagante ha creato ostacoli in continuazione al progetto monetario ed a qualsiasi altro avanzamento nella costruzione europea, compreso il Piano Delors stesso. Questa analisi è corretta, ma parziale. Il vero problema è quello di comprendere perché la volontà di superare questa impasse non si è manifestata.
Le ragioni del fallimento del Piano Delors si trovano nell’ideologia del «coordinamento delle politiche nazionali», alimentata da Delors stesso.[39] Secondo questo punto di vista sarebbe bastata, senza alcuna modifica sostanziale delle istituzioni dell’Unione, l’approvazione di un Piano europeo di sviluppo in cui venivano specificati i compiti che avrebbero dovuto essere svolti al livello europeo, al livello nazionale e locale per ottenere gli impegni necessari. Ma, come l’esperienza ha dimostrato, ciò non è vero. Un piano europeo di sviluppo non si può realizzare se non è sostenuto da una precisa volontà politica. Ciò significa un governo europeo. Il Piano Delors è fallito perché la Commissione europea non è ancora un vero esecutivo sostenuto da una maggioranza nel Parlamento europeo e perché nel Consiglio dei Ministri, che accumula antidemocraticamente poteri esecutivi e legislativi, si prendono decisioni rilevanti all’unanimità. In breve, il Piano Delors è un piano di governo dell’economia europea, ma non ha potuto essere realizzato perché manca un governo europeo. Il governo europeo è il presupposto del coordinamento delle politiche nazionali. Senza un governo europeo, i governi nazionali non possono fare a meno di tentare di risolvere — ma senza successo — anche quelle questioni che dovrebbero essere affrontate al livello europeo.
La vera sfida che dovrà essere vinta in Europa è dunque quella della istituzione di un governo federale europeo. L’Unione monetaria, senza un piano di sviluppo, è un corpo senza testa. Per quanto imponente, rischia di sfasciarsi a causa delle tensioni interne ed esterne all’Unione. I poteri necessari per consentire ad un governo europeo di orientare con efficacia l’economia europea richiedono non solo un ridimensionamento dei governi nazionali, che non possono più pretendere di avere l’ultima parola, nei confronti dei loro cittadini, in fatto di sviluppo e di occupazione, ma anche un rafforzamento dei poteri di bilancio (v. Appendice 3) al livello europeo. In effetti, tra le ragioni dell’insuccesso del Piano Delors vi sono i veti posti da alcuni governi nazionali al reperimento delle risorse di bilancio necessarie al suo finanziamento.
6. L’euro e la riforma del sistema monetario internazionale.
Robert Triffin ha denunciato con coraggio e lucidità la grave distorsione nella distribuzione della ricchezza mondiale generata dall’egemonia monetaria statunitense dopo il crollo del sistema di Bretton Woods. Nel periodo 1969-79, dopo la decisione di rendere il dollaro inconvertibile, le riserve monetarie mondiali sono decuplicate, provocando così un’ondata inflazionistica su scala mondiale. Ma, e in questo fatto risiedono le maggiori ragioni dello scandalo monetario mondiale, il Terzo mondo, a causa della sua posizione debitoria, è stato costretto a finanziare i paesi industriali (di 270 miliardi di dollari, alla fine del 1990), e in particolare gli Stati Uniti, che grazie all’«esorbitante privilegio» di poter pagare i loro debiti internazionali con la moneta nazionale, non hanno l’obbligo di eliminare il deficit esterno. Per questo, Triffin indicava nel Sistema monetario europeo e nella creazione di una moneta europea la via per avviare una radicale riforma del sistema monetario internazionale.[40]
Si tratta ora di vedere come la creazione della moneta europea possa contribuire a trasformare l’attuale IMS (secondo Triffin, International Monetary Scandal) in un vero sistema monetario internazionale, che consenta il perseguimento di alcune priorità politiche, come lo sviluppo dell’economia mondiale e una più ragionevole distribuzione della ricchezza. La creazione della moneta europea rappresenta de facto una riforma del sistema monetario internazionale, perché, per la prima volta nel dopoguerra, il dollaro è costretto a confrontarsi con una moneta di pari importanza. Gli Stati Uniti generano il 27% della produzione mondiale e il 18% del commercio mondiale. L’Unione europea (a 15) genera il 31% della produzione mondiale e il 20% del commercio mondiale. Nel 1996, il peso relativo tra i paesi industrializzati (cioè l’area OECD) è stato del 38,3% della produzione complessiva per l’Unione europea e del 32,5% per gli USA (del 20,5% per il Giappone). Si calcola che il mercato finanziario mondiale verrà, alla fine di un processo di assestamento, suddiviso in questo modo: 40% all’euro, 40% al dollaro e il rimanente 20% allo yen, al franco svizzero e ad altre valute minori.[41]
La semplice esistenza dell’euro sul mercato mondiale può dunque creare problemi al dollaro. Se si tiene presente che l’euro potrà essere utilizzato come moneta di riserva, si vede subito che occorrerà gestire con prudenza la transizione dalla situazione attuale — in cui dal 1973 al 1995 la quota dello yen nelle riserve ufficiali è cresciuta dallo 0,1% al 7,4%, quella del marco dal 7% al 14,2% e quella del dollaro è scesa dal 76% al 61,5%. Si tratta di una situazione in cui l’utilizzazione del dollaro come moneta di riserva, anche se ridimensionata rispetto al passato, è eccessiva in relazione all’importanza dell’economia americana nell’economia mondiale. Se a questo fatto si aggiunge che gli Stati Uniti mantengono un forte e persistente passivo nella loro bilancia commerciale, mentre l’Unione europea può contare su un saldo in equilibrio, si può sostenere che il processo di aggiustamento tra le due monete potrebbe generare pericolose tensioni.
Per quanto rilevanti siano i problemi della internazionalizzazione della moneta europea, essi potranno essere adeguatamente affrontati solo se si avrà chiaro il punto di arrivo. Per ora, si afferma molto genericamente che il sistema attuale monopolare, fondato sul dollaro, potrebbe diventare un sistema bipolare o multipolare, fondato oltre che sul dollaro, sulla moneta europea, sullo yen, ecc. Si tratta di un approccio al problema ancora insufficiente. E’ vero che i sistemi monetari e finanziari internazionali, corrispondendo ad abitudini radicate nel mercato, hanno una capacità di sopravvivere ai mutamenti dell’economia reale spesso sorprendente, facilitando così le fasi di transizione. Ad esempio, la sterlina ha continuato ad essere utilizzata come moneta di riserva quando ormai gli Stati Uniti, con il loro intervento nella prima guerra mondiale, si erano affermati come prima potenza mondiale. Ed è stata ancora utilizzata per anni dopo la ratifica degli accordi di Bretton Woods. Ma ciò che si manifesta alla superficie non sempre rivela la forza profonda delle correnti della storia mondiale. La moneta europea, questo è il suo potenziale rivoluzionario, potrebbe ambire a divenire la prima moneta mondiale, soppiantando il dollaro come moneta egemone. Basta riflettere sul fatto che, mentre l’area di utilizzazione del dollaro è in via di restringimento, l’area della moneta europea è destinata ad accrescersi considerevolmente. I paesi dell’Est europeo sono ormai candidati a divenire membri dell’Unione agli inizi del prossimo secolo. Altri paesi del Mediterraneo potrebbero seguirli, compresa la Turchia. I paesi africani che attualmente utilizzano il franco CFA, adotteranno quasi certamente la moneta europea come moneta di riserva, e indirettamente anche come propria moneta, ponendo così le premesse perché tutti i paesi della Convenzione di Lomé li seguano. Alcuni paesi dell’America latina e dell’Asia sono certamente interessati a facilitare il loro interscambio con l’Europa grazie all’utilizzo della moneta europea. Il problema del primato monetario mondiale è inscritto nei fatti. L’euro potrebbe aspirare a soppiantare il dollaro come moneta dominante su scala mondiale.
L’ipotesi di un euro egemonico su scala mondiale, tuttavia, non poggia su solide basi. Gli Stati Uniti sono diventati una superpotenza nel corso della seconda guerra mondiale, con un generoso impegno militare nella lotta antinazista, che ha giustificato agli occhi dei loro alleati il primato statunitense nelle nuove istituzioni economiche internazionali.
Ben diversa è la situazione dell’Unione europea che si propone come nuovo polo della politica mondiale. Anche ammesso che l’Europa si doti in breve tempo di una propria difesa, premessa indispensabile per una efficace politica estera e della sicurezza comune, non esistono certamente oggi le condizioni internazionali per una egemonia europea (l’egemonia non è mai un fatto puramente economico) che soppianti quella americana. Tutt’al più si potrà parlare di un sistema politico mondiale pluripolare, in cui non solo l’Europa, ma anche la Russia, la Cina, il Giappone, l’India, ecc. svolgono una politica estera relativamente indipendente rispetto a quella degli USA, che dovrebbero dunque sempre di più accettare un ruolo regionale, rinunciando definitivamente all’ambiziosa, ma irritante, pretesa di essere il «numero uno» del sistema politico internazionale. Non è dunque ragionevole prevedere una nuova Bretton Woods (nel senso in cui Bretton Woods ha significato il passaggio dello scettro monetario dalla Gran Bretagna agli USA), in cui venga delineata, da cima a fondo, l’architettura di un nuovo ordine monetario ed economico internazionale. L’ipotesi di un nuovo gold-exchange standard fondato sull’euro non sembra all’ordine del giorno della politica mondiale.
La sfida dell’euro al dollaro pone, tuttavia, un problema che non va sottovalutato. Se da un lato si formeranno delle aree geografiche di utilizzazione dell’euro e del dollaro (oltre che, eventualmente, dello yen), dall’altro si deve manifestare anche la tendenza ad utilizzare una sola moneta nelle transazioni di specifici prodotti. Il gold standard ha mostrato che il mercato mondiale, tendenzialmente, cerca di utilizzare una sola moneta. Vi è in questa tendenza una precisa ragione economica. Consideriamo il mercato delle più importanti materie prime mondiali come, ad esempio, il petrolio. Oggi il prezzo del petrolio è espresso in dollari. Ma poiché una parte consistente della domanda mondiale di petrolio potrà provenire dai paesi che utilizzano l’euro, potrebbe porsi prima o poi per gli operatori economici il dilemma se utilizzare il dollaro oppure l’euro. Mutamenti di questa natura, sui mercati delle materie prime, possono generare fasi di grande incertezza e movimenti speculativi di enormi proporzioni. Altri mercati sensibili all’incertezza sulla utilizzazione del segno monetario sono senza dubbio quelli finanziari. Oggi la moneta dominante le maggiori borse mondiali è il dollaro. Ma, nella misura in cui si accrescerà il volume delle transazioni finanziarie in euro e si ridimensioneranno parallelamente quelle in dollari, diventerà più facile speculare sulle prospettive di cambio euro/dollaro (con la conseguenza che, se le due maggiori valute mondiali hanno un cambio instabile, tutto il mercato valutario mondiale sarà instabile). Sino a che esisteranno monete fluttuanti esisteranno possibilità di sfruttare le fluttuazioni per fini speculativi privati, che non necessariamente contribuiscono ad una maggiore stabilità monetaria mondiale. L’instabilità monetaria produce enormi distorsioni nella distribuzione della ricchezza, non solo perché consente profitti speculativi, ma anche perché induce gli imprenditori ad impiegare i loro fondi in attività che possono rivelarsi entro breve tempo illusorie. «Molti dei maggiori mali economici del nostro tempo — scriveva Keynes — sono una conseguenza del rischio, dell’incertezza e dell’ignoranza. Cioè le grandi sperequazioni di ricchezza si verificano perché particolari individui, godendo di posizioni o abilità particolari, riescono a trarre vantaggio dall’incertezza e dall’ignoranza…».[42] Infine, l’instabilità monetaria e le divisioni nazionali rendono difficile, ed in alcuni casi impossibile, la tassazione di attività altamente volatili, facendo gravare in questo modo gli oneri fiscali sui redditi poco mobili.
Per far uscire il sistema monetario internazionale da questa situazione di instabilità, dopo la creazione dell’euro, non vi è che una via: l’istituzione di un sistema di cooperazione monetaria su basi simmetriche, dunque del tipo gold standard, in cui si dia la netta percezione ai mercati che i governi intendono perseguire un progetto di sempre maggiore stabilità monetaria. La stabilità della moneta è il fondamento stesso del calcolo economico; è indispensabile allo sviluppo del capitalismo che, a sua volta, genera uno sviluppo socialmente accettabile solo in contesti di stabilità. La riforma monetaria internazionale è essenziale per «migliorare la tecnica del capitalismo moderno attraverso l’operazione dell’azione pubblica»,[43] come proponeva Keynes. Tuttavia, in questa prospettiva, il maggiore ostacolo che oggi deve essere superato riguarda il processo di liberalizzazione dei movimenti dei capitali, che non può essere arrestato senza mettere in discussione la formazione di un mercato mondiale sempre più integrato ed efficiente. Per quanto riguarda l’economia mondiale contemporanea, come osserva giustamente Eichengreen, «l’ovvia conclusione è che la tendenza verso una maggiore flessibilità dei cambi è una inevitabile conseguenza della crescente mobilità internazionale del capitale».[44] La grande mobilità dei capitali al tempo del gold standard classico era compatibile con cambi stabili, grazie al fatto che non si ponevano alle Banche centrali ed ai governi problemi drammatici di compatibilità tra equilibrio esterno ed interno. «In un certo senso, i limiti all’estensione della democrazia sostituivano i limiti alla mobilità dei capitali come fonte di isolamento. Con l’estensione del suffragio e il declino di controlli efficaci, l’isolamento è scomparso, rendendo i cambi fissi più costosi e difficili da mantenere».[45] Questa osservazione di Eichengreen è corretta ma va completata con una seconda osservazione: i cambi flessibili sono un male necessario solo sino a che gli Stati sovrani non accetteranno opportune regole di condotta.
Nel fissare le regole del gioco del nuovo sistema monetario internazionale si dovrà dunque fare tesoro dell’esperienza dell’integrazione europea, nel corso della quale il problema della stabilità dei cambi si è posto esattamente nei termini enunciati da Eichengreen per l’economia mondiale. I paesi dell’Unione europea hanno dato una prima risposta al problema con il Trattato di Maastricht. In altri termini, la stabilità monetaria internazionale non potrà venir conseguita disgiuntamente dalla stabilità monetaria interna e da una sana politica fiscale. I cambi stabili sono il sottoprodotto, almeno in una fase transitoria, sino a che non si prenderà la decisione di procedere alla istituzione di una moneta unica, della convergenza delle politiche economiche. Su questa base, si può allora osservare che Unione europea e Stati Uniti non stanno affatto praticando politiche economiche radicalmente divergenti. Per quanto riguarda tassi di inflazione e politiche di bilancio, gli orientamenti sono comuni. La vera differenza riguarda ancora il deficit esterno statunitense e il drammatico tasso di disoccupazione europeo. Pertanto, gli obiettivi comuni di un possibile accordo per una riforma monetaria potrebbero essere i seguenti: a) l’adozione, come suggerito da Robert Triffin,[46] di un sistema di clearing union presso il Fondo monetario internazionale, unitamente ad uno strumento di riserva comune che possa sostituire le monete nazionali nei regolamenti tra Banche centrali dei deficit e dei surplus delle bilance dei pagamenti; in questo modo si eliminerebbe l’onere, ed i connessi privilegi, delle monete nazionali di fungere da strumento di riserva internazionale e diventerebbe possibile lo sviluppo di un mercato parallelo privato, che utilizzi la nuova moneta mondiale come unità di conto, come è avvenuto per l’ecu dopo l’istituzione dello Sme; b) l’individuazione di parità centrali tra le monete partecipanti all’accordo, con margini di fluttuazione abbastanza ampi per scoraggiare la speculazione internazionale, ma con la definizione di severe procedure collettive per la modifica delle parità, al fine di scoraggiare pericolose iniziative unilaterali del tipo beggar-my-neighbour; c) l’individuazione di regole comuni per evitare indebitamenti eccessivi.
Queste regole del gioco potrebbero inizialmente essere adottate da un piccolo numero di paesi — ad esempio, Stati Uniti, Unione europea e Giappone — ma la clearing union iniziale dovrebbe naturalmente essere aperta a tutti i paesi che vorranno aderirvi e che potrebbero diventare numerosi in breve tempo, perché l’esigenza di partecipare ad una zona di stabilità monetaria mondiale rappresenta ormai una priorità, non solo per i paesi industrializzati, ma anche per quelli emergenti del Terzo mondo (anzi, forse ancora di più per questi ultimi che da decenni reclamano un nuovo ordine economico mondiale, di cui l’ordine monetario rappresenta la necessaria premessa). Questa clearing union potrebbe avere un successo più consistente e duraturo dello stesso Sme, perché quanto più è elevato il numero dei paesi partecipanti, e dunque quanto più consistente è il volume delle transazioni coperte dall’accordo, tanto maggiore è la possibilità di resistere alla forza dell’economia globale. l paesi dello Sme, in effetti, hanno rappresentato una porzione relativamente piccola del mercato mondiale, in una fase in cui lo scetticismo del mercato nei confronti della volontà dei governi di mantenere salde le istituzioni comuni era giustificato. Naturalmente, vi sarà un limite alla capacità dei provvedimenti transitori proposti di far fronte alle esigenze di un mercato globale sempre più integrato ed interdipendente. Ogni provvedimento transitorio è per definizione un palliativo. La vera soluzione, quella a cui aspira lo stesso mercato mondiale, come ha dimostrato l’esperienza fondamentale del gold standard, è un’unica moneta mondiale. E’ naturalmente impossibile prevedere quando matureranno le condizioni economiche e politiche per questo passo decisivo. Ma l’esperienza europea e la teoria economica dimostrano che il mercato interno è più efficiente del mercato internazionale. E’ dunque comprensibile che gli attori che operano sul mercato mondiale, di giorno in giorno, contribuiscano consapevolmente o inconsapevolmente alla progressiva eliminazione di tutte le barriere che gli Stati nazionali hanno artificialmente elevato.
Prima di concludere, va solo osservato che l’Unione europea si trova in una posizione cruciale per orientare la politica che potrebbe condurre alla moneta mondiale. Tra Unione europea e Stati Uniti può attivarsi un processo dinamico simile a quello che, nel secondo dopoguerra, si è manifestato tra Germania e Francia e che ha rappresentato il vero motore del processo di integrazione. Gli Stati Uniti hanno vinto la guerra fredda e rappresentano un punto di riferimento essenziale per quanto riguarda i problemi della sicurezza mondiale. Similmente, la Francia si è trovata tra le potenze vincitrici alla fine della guerra ed ha potuto svolgere un ruolo di potenza militare europea, con la costruzione della force de frappe, che alla Germania sconfitta non è stato concesso. Tuttavia, la Germania è riuscita a conquistare col tempo un ruolo preponderante sul fronte economico. Allo stesso modo, l’Unione europea è nelle condizioni di assumere, con l’unificazione monetaria, un ruolo di primo piano nel panorama mondiale. E’ dunque dall’Europa, in accordo con gli Stati Uniti, che deve provenire la prima iniziativa per la riforma del sistema monetario internazionale. Ma, per svolgere fino in fondo questo compito, l’Unione europea non può limitarsi ad affidare la sua politica estera a un Consiglio dei Ministri. L’ideologia della cooperazione intergovernativa è non solo insensata, ma pericolosa. Se gli Stati Uniti volessero affidare le maggiori questioni di politica mondiale ad un Consiglio composto dai 50 governatori degli States, che per di più decidesse all’unanimità, ben presto si genererebbe una paralisi del processo decisionale che metterebbe in pericolo la stessa unione americana. Ma gli Stati Uniti, nel 1787, grazie alla saggia decisione delle originarie tredici colonie, si sono dati un governo federale. Oggi spetta agli Europei fornire una eguale prova di saggezza.
Appendice 1
Il mondo come area monetaria ottimale
Sin dall’inizio, il processo di integrazione europea ha stimolato il dibattito tra economisti sui rapporti tra dimensione del mercato e dimensione dell’area monetaria. Il riferimento essenziale di questo dibattito è il concetto di area monetaria ottimale, elaborato da R. Mundell nel 1961. Considerando il problema della scelta che un paese o un gruppo di paesi deve compiere rispetto al miglior regime di cambi — fissi o flessibili — Mundel sostiene che «il problema può porsi in modo generale e più chiaro definendo un’area valutaria come una sfera territoriale entro la quale i cambi sono fissi e quindi chiedendosi: qual è la sfera territoriale giusta per un’area valutaria?». Se consideriamo due paesi A e B, entrambi dotati di una propria moneta e con la bilancia dei pagamenti in equilibrio, uno spostamento di domanda dai prodotti di B ai prodotti di A provocherà un aumento di produzione e di occupazione in A ed una diminuzione di produzione ed occupazione in B. Il ripristino dell’equilibrio può avvenire: a) se i lavoratori licenziati da B emigrano in A, dove vengono assunti; b) se i salari in B scenderanno tanto da far scendere anche i prezzi dei prodotti sino al punto in cui diventa di nuovo conveniente aumentare la produzione e l’occupazione, mentre nel paese A la mancanza di manodopera farà aumentare i salari e i prezzi così da ridurre l’eccesso di domanda. Se non si manifesta una sufficiente mobilità del lavoro o una sufficiente flessibilità del salario, in presenza di cambi fissi tra le due monete l’equilibrio non può essere ripristinato. La scelta ottimale è dunque quella dei cambi flessibili: un deprezzamento della moneta di B nei confronti di quella di A renderebbe i beni di A più cari e quelli di B meno cari, riportando così i due paesi in una situazione di equilibrio.
Se i due paesi A e B appartenessero ad un’unica area monetaria, con una sola Banca centrale, il problema si porrebbe nei seguenti termini: se la Banca centrale vuole evitare la disoccupazione che si è manifestata in B deve favorire una politica inflazionistica. Se vuole ridurre l’eccesso inflazionistico di domanda che si è manifestato in A, deve al contrario contrarre l’offerta di moneta, provocando così maggiore disoccupazione in B. Le conclusioni di Mundell sono che «un’area valutaria di uno dei due tipi indicati [cambi fissi e moneta unica] non può evitare ai suoi membri e la disoccupazione e l’inflazione. Il difetto non sta nel tipo di area valutaria, ma nella estensione territoriale dell’area valutaria. L’ottima area valutaria non è il mondo». Ma non può essere ottima nemmeno l’area monetaria nazionale, se al suo interno si manifestano squilibri economici regionali. Pertanto, portando il ragionamento alle sue estreme conseguenze, Mundell conclude che «chi vuol sostenere i cambi flessibili, deve riferirsi, in linea logica, ad un sistema di cambi flessibili fondati su monete regionali e non su monete nazionali. L’ottima area valutaria è la regione».
Questo approccio teorico ha stimolato una vastissima letteratura che si è concentrata prevalentemente sul confronto tra Europa e Stati Uniti. Entro certi limiti è possibile misurare i vantaggi e i costi di un’area monetaria.[48] Sebbene questi studi abbiano contribuito a chiarire alcune differenze sostanziali tra il caso americano e quello europeo (ad esempio, le conseguenze della forte mobilità del lavoro negli USA e della scarsa mobilità interstatale e interregionale nell’Unione europea), il dibattito sulla moneta europea, nella misura in cui si sono posti i problemi decisivi del passaggio alla moneta unica, ha costretto gli economisti ad allargare considerevolmente il campo di indagine.
La maggiore difficoltà insita nella definizione di Mundell consiste nella implicita adozione di un aspetto politico della moneta, che viene adottato come unità di misura dell’ottimalità, ma in modo arbitrario. Per Mundell è infatti cruciale la possibilità che la moneta possa venire usata per stimolare o meno l’occupazione. Ma questo uso della politica monetaria si è fatto strada, come si è cercato di argomentare nel testo discutendo del passaggio dal gold standard al gold-exchange standard, solo dopo la prima guerra mondiale e con l’affermazione del pensiero keynesiano. Per utilizzare la moneta come strumento di politica economica, in ogni caso, occorre un governo. E se si vuole che questo governo possa scegliere tra un sistema di cambi fissi e flessibili occorre che questo governo sia sovrano. E’ a questo punto che compaiono alcune contraddizioni insanabili nel pensiero di Mundell. La questione era già stata sollevata, almeno parzialmente, da P. Kenen nel 1969. Kenen aveva fatto osservare che, se il governo di un certo Stato si proponesse, al suo interno, di riscuotere tasse in regioni dotate del potere di fissare il valore della moneta regionale e mutarlo a loro piacere, il valore delle imposte raccolte dal Tesoro muterebbe a discrezione del governo regionale. «Come potrebbe esercitarsi il prelievo fiscale si chiede Kenen — se un sistema fiscale unico dovesse coprire più aree valutarie, ciascuna delle quali con la facoltà di alterare il proprio cambio?... In quale moneta, inoltre, il governo centrale pagherebbe i beni e i servizi? Quale userebbe per pagare i suoi dipendenti?».[50] Questa ipotesi non è irreale. Negli Stati Uniti, un laboratorio esemplare per la storia dell’unificazione monetaria, nel 1819, il giudice della Corte Suprema Marshall dovette intervenire per costringere lo Stato del Maryland a togliere una imposta sulle banconote non emesse al suo interno, che avrebbe fatto del Maryland un’area monetaria sovrana. La sentenza del giudice Marshall, in cui si sosteneva che «il potere di tassare implica il potere di distruggere», è stata decisiva per fare degli Stati Uniti un’area monetaria unica.[51] In definitiva, l’area monetaria regionale è una pura illusione. L’area monetaria coincide sempre — almeno nell’epoca contemporanea — con lo Stato, cioè con un potere sovrano. Solo quando gli Stati si disfano, come è successo recentemente con l’URSS e la Jugoslavia, si formano aree monetarie «regionali». Ma in questo caso l’uso del termine è improprio. In verità si sono solo formati degli Stati più piccoli. Affermare che «l’ottima area valutaria è la regione» significa dunque sostenere che Stati piccoli sono migliori (sotto l’aspetto monetario) di Stati grandi. Il criterio di Mundell porta a conclusioni assurde, perché è sempre possibile suddividere uno Stato, per piccolo che sia (come il Lussemburgo), in Stati ancora più piccoli, con specifiche caratteristiche economiche.
Tuttavia, se si prendono in considerazione gli aspetti di potere della moneta, occorre allargare l’analisi. Lo ha fatto, negli anni Trenta, Lionel Robbins.[52] Secondo Robbins, la causa del disordine economico internazionale consiste nella sovranità assoluta degli Stati nazionali, che hanno il potere di ostacolare gli scambi commerciali e monetari internazionali, sino a provocare la forma estrema di chiusura, cioè l’autarchia. Il problema del regime di cambio deve essere discusso sempre in relazione al regime politico internazionale. Se prevale una situazione di nazionalismo e di lotta per l’egemonia (è quanto è avvenuto negli anni Trenta), si avrà una situazione di anarchia internazionale e la progressiva disgregazione dell’ordine economico internazionale. Se prevale una situazione di convergenza tra gli interessi degli Stati (come è avvenuto nel dopoguerra nel mondo occidentale, sia a livello atlantico che a livello europeo) allora è possibile concordare un regime di cambi fissi o aggiustabili. Se, in una situazione di convergenza, prevale la volontà di alcuni paesi di realizzare una moneta comune, si fonderà un nuovo Stato, uno Stato federale. In sostanza, un’area monetaria che scaturisca da una unificazione di più monete non è mai la semplice somma delle situazioni precedenti (e in questo fatto risiede il limite maggiore dell’approccio delle aree monetarie ottimali), ma una situazione nuova, perché occorre un potere politico sovranazionale per consentire alla nuova area monetaria di formarsi e di sopravvivere. L’esempio sopra citato del Maryland è significativo. Un governo tende sempre a massimizzare il proprio potere, a meno che sia limitato da un potere superiore. Nella situazione di confusione monetaria e costituzionale in cui si trovavano gli Stati Uniti agli inizi dell’Ottocento, è sembrato possibile ad uno Stato membro della Federazione cercare di appropriarsi della sovranità monetaria. Se non vi fosse stata una comune costituzione (ed un saggio giudice) oggi gli Stati Uniti avrebbero cinquanta monete, e non il dollaro. Il fatto che, in Europa, si stia costruendo una Unione monetaria europea senza che emerga ancora con chiarezza il fatto che in verità si sta costruendo uno Stato federale non deve stupire più di tanto. Dipende dalle circostanze storiche in cui è sorto e si è sviluppato il processo di unificazione europea. Gli Stati Uniti si sono dati nel 1787 una costituzione e solo 147 anni dopo una moneta unica.[53] L’Europa sta seguendo un sentiero in direzione opposta, molto più tortuoso ed incoerente. L’Unione monetaria europea sta prendendo forma prima ancora che sia risolto il problema del potere democratico europeo che dovrebbe governarla. Ma ciò significa solo che vi è un deficit di democrazia in Europa, non che la moneta europea non sia un aspetto essenziale della statualità europea.
Queste critiche a Mundell non ci devono impedire di tentare una riformulazione più ragionevole del concetto di area monetaria ottimale. Oggi si è più disposti che nel passato a rinunciare ad una concezione che si fonda sulle capacità di una politica inflazionistica di risolvere problemi di disoccupazione. I paesi dell’Unione monetaria europea hanno ormai accettato la cosiddetta cultura della stabilità monetaria, avendo l’esperienza dimostrato che l’inflazione nel lungo periodo non conduce a tassi più elevati di sviluppo e di occupazione. Il criterio più semplice e ragionevole per definire un’area monetaria ottimale potrebbe dunque essere quello di concentrarsi sulla proprietà essenziale della moneta, cioè sulla sua capacità di servire come strumento degli scambi. Questa proprietà include normalmente anche le due ulteriori funzioni della moneta, quella di servire come unità di conto e come riserva di valore. Nello sviluppo della civiltà, queste proprietà della moneta si sono manifestate molto presto ed in ogni caso, nell’epoca moderna, possiamo constatare che anche quando non interviene il potere pubblico, il mercato riesce a crearsi la propria moneta spontaneamente. E’ il caso, appunto, dell’utilizzo di monete rudimentali, come le conchiglie, presso i popoli primitivi, o dei metalli preziosi, oro e argento in prevalenza, nell’epoca più recente. Nella misura in cui il mercato riesce a crearsi una propria moneta, si può affermare che l’area monetaria ottimale coincide con l’area degli scambi effettuati con un unico mezzo monetario. Dunque, in un’epoca in cui i mercati erano geograficamente limitati al borgo o alla contea (come nel medioevo in Europa) si è affermata una moltitudine di monete locali. Ma nella misura in cui gli scambi si sono intensificati al di là dei piccoli mercati locali, si sono affermate monete nazionali o addirittura mondiali. Questo è il caso dell’oro che è diventato progressivamente la moneta degli scambi mondiali, con il gold standard del secolo XIX. Il mondo è dunque stato nell’Ottocento un’area monetaria ottimale, grazie al fatto che i governi e le Banche centrali, seppure per un brevissimo periodo, hanno osservato alcune «regole del gioco» che hanno perpetuato la funzione storica dell’oro di servire come mezzo di pagamento, come era avvenuto in un’epoca in cui le Banche centrali non esistevano ancora ed i governi non imponevano l’uso esclusivo di una moneta nazionale. Successivamente, gli Stati nazionali hanno preteso di dividere il mercato mondiale in tanti mercati locali, delimitati dai confini nazionali. Questa pretesa alla sovranità monetaria ed economica dei governi, essendosi manifestata in una fase in cui lo sviluppo industriale era ormai in corso, ha coinciso con la necessità del mercato di adottare una moneta fiduciaria (o cartacea), per ragioni di praticità e per adeguare più facilmente la quantità di moneta in circolazione al volume delle transazioni. In questa nuova situazione, pertanto, la rete degli scambi internazionali non ha più potuto fondarsi su una sola moneta. Ma, nella misura in cui si sviluppa di nuovo l’interdipendenza su scala mondiale del mercato, l’esigenza di una moneta mondiale ritorna imperiosamente a farsi valere. Per questo si è qui adottato come criterio per la riforma del sistema monetario internazionale il modello del gold standard, naturalmente rinnovato, perché nel mondo della globalizzazione finanziaria la moneta mondiale non può più essere l’oro, ma una moneta fiduciaria, il cui valore è garantito da una Banca centrale. E sino a che non esisterà una moneta mondiale, a parità di altre condizioni, la moneta fiduciaria più ambita (come l’oro, nel passato) sarà quella emessa da quella Banca centrale che riuscirà a garantire il minor tasso di inflazione.
Appendice 2
Il costo della sovranità monetaria
Dopo il gold standard classico, l’esigenza di stabilità dell’economia ha spinto gli Stati nazionali a ripristinare, quando possibile, il sistema di cambi fissi (o fissi, ma aggiustabili). Un sistema di cambi fissi, in effetti, è possibile quando esiste una convergenza di interessi (o, meglio, delle ragion di Stato) sufficientemente consistente da far accettare ai paesi partecipanti una comune disciplina. Il sistema dei cambi fissi è, dunque, l’espediente che più avvicina il sistema internazionale dei pagamenti all’ideale della moneta mondiale, anche se gli Stati nazionali conservano formalmente la loro sovranità monetaria.
L’esperienza della storia ha tuttavia mostrato che un sistema di cambi fissi ben difficilmente si può formare in assenza di un paese egemone. E’ questo il caso del sistema di Bretton Woods, di cui si è ampiamente discusso nel testo. Va ora osservato che, in linea di principio, un sistema di cambi fissi genera un effetto deflattivo sull’economia internazionale. Se i paesi con surplus di bilancia dei pagamenti non prenderanno le misure adeguate per ristabilire l’equilibrio (accettando un aumento di inflazione interna, così che progressivamente diventi più conveniente acquistare prodotti esteri), continueranno ad accumulare riserve. Al contrario, i paesi con deficit di bilancia dei pagamenti, perdendo riserve, saranno prima o poi costretti a prendere misure deflattive, riducendo il potere d’acquisto interno per riportare in equilibrio la bilancia dei pagamenti. Il problema è stato messo a fuoco lucidamente da Joan Robinson: «Per quanto grande possa essere l’offerta di liquidità, ci sarà sempre una tendenza deflazionistica in un sistema finanziario in cui ogni paese desidera guadagnare riserve e detesta perderle. Questa critica si era soliti farla al vecchio sistema aureo; ma i nostri raffinati accorgimenti ne sono ancora suscettibili».[54] In breve, il sistema delle parità fisse non impedisce che si manifestino differenze tra paesi a valuta forte e paesi a valuta debole, e che l’effetto globale sia deflattivo a causa della posizione asimmetrica esistente.
Il riferimento, fatto da Joan Robinson, al gold standard, realizzatosi tra le due guerre mondiali, è d’obbligo. Tuttavia, va osservato che le accuse rivolte da molti economisti al gold standard degli anni Venti di essere stato la causa principale della grande depressione sono infondate. Occorre distinguere tra cause economiche e cause politiche. E’ indiscutibile il fatto che la grande depressione si sia manifestata prima negli Stati Uniti e, anche grazie al meccanismo di cambio, si sia poi trasmessa agli altri paesi europei. Ma ciò non significa che la responsabilità della grande depressione debba ricadere interamente sulle spalle del sistema dei pagamenti adottato. I paesi europei hanno affrontato problemi simili, anche se meno drammatici, negli anni in cui il gold standard classico ha funzionato. Il vero problema è consistito nel fatto che, negli anni Trenta, i governi dei paesi in surplus, di fronte alle misure che si sarebbero dovute adottare per consentire l’aggiustamento esterno e che avrebbero potuto provocare risentimenti interni, in una situazione internazionale in cui prevalevano atteggiamenti nazionalistici, hanno ceduto alle pressioni interne. I paesi in deficit, e privi di riserve sufficienti, non hanno avuto altra scelta che abbandonare la parità concordata della propria moneta e iniziare la politica delle svalutazioni competitive, mettendo così in moto un processo inarrestabile, nella misura in cui ciascun paese ha cercato di «rubare» domanda effettiva agli altri paesi. La diffusione a macchia d’olio della grande depressione non va dunque imputata al gold standard, ma alla mancata collaborazione tra governi e Banche centrali, che hanno adottato i principi del nazionalismo economico al posto di quelli della solidarietà internazionale.
Il problema è di nuovo attuale oggi, con l’unificazione monetaria europea, perché alcuni economisti affermano che, con il Sistema monetario europeo (dunque un sistema a cambi fissi, ma aggiustabili), i paesi europei hanno messo in moto un sistema di deflazioni competitive,[55] anche se i meccanismi di trasmissione della deflazione sono differenti da quelli del gold standard degli anni Venti. Alcuni paesi, come la Germania, perseguono una politica di rigore finanziario, privilegiando la stabilità dei prezzi rispetto all’occupazione. Per mantenere i tassi di cambio concordati, gli altri paesi sono costretti a fare una politica altrettanto restrittiva, provocando così una situazione di deflazione e di disoccupazione in tutta l’area dello Sme. Per gli economisti euroscettici, il rimedio consisterebbe nel passare da un sistema di cambi fissi ad un sistema di cambi flessibili, rinunciando all’unificazione monetaria. Per gli economisti europeisti, occorrerebbe migliorare la cooperazione tra Banche centrali, in attesa che si faccia la moneta europea.
In verità, la cooperazione tra Banche centrali europee esiste, ma è resa tremendamente difficile dalla forza del mercato finanziario mondiale e dall’andamento dell’economia americana, il cui governo e la cui Banca centrale non sono affatto tenuti a concordare le loro mosse con le autorità europee. Il rimedio a questo stato di cose non può che essere la moneta europea. Con la moneta europea, non solo si realizzerebbe un coordinamento automatico delle politiche monetarie (vi sarebbe un solo tasso di interesse in tutti i paesi dell’Unione), ma si libererebbe anche quella parte di domanda effettiva che oggi non si può manifestare per la necessità di tenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti di ciascun paese europeo. In breve, per le considerazioni già fatte, ogni moneta nazionale è tanto più debole quanto più piccolo è il paese e dunque quanto più è ricattabile dalla finanza internazionale. I costi più evidenti della sovranità monetaria sono almeno due: i tassi di interesse più elevati e una «deflazione» causata dalla necessità di mantenere un volume elevato di riserve nazionali. I tassi di interesse nazionali sono mediamente più elevati del tasso europeo perché maggiore è il «rischio-paese», se il paese è relativamente piccolo rispetto al mercato finanziario mondiale. Per quanto riguarda le riserve si calcola[56] che con l’istituzione della moneta europea i paesi dell’Unione possano risparmiare oltre la metà del totale delle riserve monetarie attualmente possedute. Ciò significa circa il 4% del prodotto lordo comunitario. Sebbene grossolana, questa potrebbe essere la misura della domanda effettiva che verrà «liberata» con l’istituzione della moneta europea.
Queste considerazioni mostrano anche quale via avrebbe dovuto essere percorsa per eliminare il fenomeno della deflazione competitiva in Europa. Una volta constatato che lo Sme non poteva funzionare come un sistema simmetrico, ma egemonico, i governi europei avrebbero dovuto non solo decidere di istituire una unione monetaria, come in effetti hanno fatto a Maastricht, ma di farla nel più breve tempo possibile. Infatti, la Commissione europea aveva osservato, sin dal 1990, che «poiché la maggior parte dei costi provocati dalla realizzazione dell’UEM appaiono già nelle fasi preparatorie del processo,… mentre molti dei maggiori vantaggi (soppressione dell’incertezza del cambio e del costo delle transazioni) si manifestano solo nella fase finale con la moneta unica, vi è un interesse economico evidente a far sì che il periodo transitorio sia relativamente breve».[57] Ma i governi europei, a Maastricht, hanno deciso di allungare il periodo transitorio, la cui scadenza era inizialmente prevista per il 1994, sino al 1997 e, comunque, di porre la scadenza limite del 1999. Se la fase transitoria si è trasformata in un lungo e penoso calvario, la responsabilità non è dello Sme o del Trattato di Maastricht, ma di chi ha fatto il possibile per ritardare la nascita della moneta europea.
Appendice 3
Il federalismo fiscale e il bilancio europeo
Come per il problema delle aree monetarie ottimali, l’integrazione europea ha stimolato una vasta letteratura sul federalismo fiscale,[58] che si è concentrata prevalentemente sul confronto tra Europa e Stati Uniti. Tuttavia, il confronto con l’esperienza americana non è del tutto appropriato. La struttura del bilancio federale degli Stati Uniti si è formata, negli anni del New Deal, in circostanze del tutto differenti da quelle che stanno caratterizzando il bilancio europeo. Le spese complessive civili (dunque, di tutti i livelli di governo, escluse le spese per la difesa) sono passate dal 5% del PIL nel 1890, al 15,5% nel 1940. Nel dopoguerra si sono stabilizzate a questo livello sino al nuovo balzo in avanti degli anni Settanta. In termini relativi, la percentuale della quota federale è salita dal 21,2 nel 1902, al 47,3 nel 1940, al 49,8 nel 1972 (è di conseguenza diminuita la quota spettante ai governi degli Stati e degli altri enti locali).[59] E’ dunque evidente che gli anni cruciali per la formazione ed il consolidamento del bilancio federale statunitense sono stati quelli inclusi tra le due guerre mondiali, in cui il governo Roosevelt ha dovuto combattere contro gli effetti disastrosi della grande depressione. Non solo è aumentata considerevolmente la dimensione assoluta della spesa pubblica, ma le risorse si sono concentrate nelle mani del governo federale, a scapito di quelli locali.
Per queste ragioni, la teoria tradizionale del federalismo fiscale, nella misura in cui si riferisce all’esperienza statunitense, non è immediatamente applicabile al caso europeo. Il modello elaborato da Musgrave-Oates,[60] ad esempio, prevede che il governo federale, oltre a fornire alcuni beni pubblici di utilità generale (come la difesa), debba svolgere anche la funzione di stabilizzazione dell’economia, cioè una politica anticiclica con un appropriato uso della politica monetaria e fiscale, e la funzione redistributiva, per garantire un’equa distribuzione del reddito. In entrambi i casi, è evidente l’eredità del New Deal. La funzione di stabilizzazione, infatti, richiede un bilancio di dimensioni considerevoli, al fine di poter condizionare l’andamento dell’economia, e la funzione redistributiva, affinché sia efficace, comporta che alcuni capitoli importanti del Welfare State (come il sistema pensionistico e quello dell’assistenza medica, nel caso degli USA) siano gestiti direttamente dal governo federale.
La fiscalità europea si sta organizzando in modo assai differente da quella statunitense. L’area della solidarietà redistributiva, in Europa, è quella dello Stato nazionale. Il Welfare State si è, infatti, formato prima che il processo di integrazione europea si avviasse e si consolidasse. E’ oggi del tutto improbabile che si trasferiscano al livello europeo alcuni importanti capitoli del Welfare State, come l’assistenza pensionistica e quella ospedaliera. Sembra dunque possibile affermare che il compito di garantire la solidarietà interindividuale spetti al livello nazionale (ed eventualmente agli enti territoriali minori). Poiché questi capitoli di spesa occupano una parte rilevante dei bilanci nazionali (in media il 48% del PIL), ciò spiega, in parte, come il bilancio europeo sinora abbia una dimensione modesta: l’1,3% del PIL comunitario. Le voci più consistenti del bilancio europeo riguardano la politica agricola comunitaria (che impegna ancora la metà delle erogazioni complessive) ed i fondi strutturali (il 33%). La politica agricola, come è noto, è stata voluta in particolare dalla Francia agli inizi degli anni Sessanta ed ha rappresentato per lungo tempo praticamente l’unica politica realizzata al livello europeo. Le politiche strutturali, cioè le politiche di riequilibrio territoriale e di coesione sociale, sono invece il risultato della pressione dei paesi della Comunità con squilibri regionali e rappresentano attualmente un modello di solidarietà territoriale che in alcuni casi (ad esempio per l’Irlanda, la Spagna, il Portogallo e numerose regioni dell’Unione) hanno contribuito con successo allo sviluppo economico locale.
Il problema della dimensione adeguata del bilancio europeo va dunque discusso in relazione al tipo di politiche che il governo europeo dovrebbe sviluppare. In questo senso, il Rapporto MacDougall,[61] redatto nel 1977 per conto della Commissione europea, prendendo principalmente a modello l’esperienza statunitense, prevedeva che il bilancio europeo dovesse raggiungere la dimensione del 5-7% circa del prodotto lordo (7,5-10% inclusa la difesa) nella fase federale, mentre nella fase pre-federale sarebbe stato sufficiente un bilancio del 2-2,5% del prodotto lordo. Più recentemente, un gruppo di studio[62] ha ridimensionato le previsioni del Rapporto MacDougall proponendo un bilancio della dimensione del 2% del prodotto lordo europeo come sufficiente per sostenere il progetto di Unione economica e monetaria.
Sulla base di questi studi e delle considerazioni fatte nel testo sul ruolo del governo europeo, sembra ragionevole concludere che il futuro sviluppo del bilancio europeo dipenderà dalla realizzazione dei seguenti orientamenti di politica economica: a) sebbene il Piano Delors non prevedesse alcun specifico aumento del bilancio comunitario, ma la possibilità di attingere fondi con prestiti comunitari sul mercato europeo dei capitali, una seria politica di investimenti europei per favorire lo sviluppo e l’occupazione dovrebbe godere di un finanziamento adeguato. Lo scopo, come si è detto, non è quello di generare con un piano europeo direttamente occupazione (anche se questo effetto benefico, ovviamente, va tenuto in conto), ma di incidere sullo stato di fiducia degli imprenditori, che devono essere messi nella condizione di competere con successo nel mercato globale. L’Unione europea, in questa prospettiva, dovrebbe sostenere con molta maggiore convinzione di quanto sia fatto nel Piano Delors le politiche per la ricerca scientifica e tecnologica. Un fondo specifico per l’occupazione, sul modello statunitense,[63] potrebbe inoltre consentire di aiutare quei paesi colpiti più gravemente da problemi di disoccupazione. In ogni caso, è escluso che con il bilancio europeo, sia a causa delle sue modeste proporzioni, sia per i nuovi orientamenti assunti dalla politica contro la disoccupazione, debbano essere fatte manovre di bilancio anticicliche; b) maggiori risorse dovrebbero inoltre essere dedicate alle politiche strutturali, in primo luogo perché con l’allargamento ai paesi dell’Est europeo (sebbene si tenterà per un primo gruppo di paesi di lasciare immutato il bilancio) si dovranno reperire nuovi fondi, se non si vogliono diminuire i contributi ai paesi ed alle regioni dell’Unione che già li utilizzano, in secondo luogo perché le politiche europee per il sostegno dell’occupazione e per la realizzazione del nuovo Welfare State si svilupperanno sempre più al livello regionale e locale; c) infine, un incremento del bilancio comunitario deriverà dalla decisione di rendere operativa la politica estera e della sicurezza. La creazione di una difesa europea renderebbe possibile anche l’istituzione di una agenzia europea degli armamenti, indispensabile per la standardizzazione dell’industria europea degli armamenti. In questa prospettiva, al livello europeo dovrebbe confluire gran parte delle risorse oggi utilizzate dai singoli paesi come aiuti allo sviluppo e per la diplomazia.
A questi nuovi impegni del bilancio europeo si dovrebbe far fronte con nuove entrate. Le nuove fonti di entrata potrebbero provenire dal mercato interno che, rendendo possibile la completa liberalizzazione del mercato dei capitali, ha anche causato una forte sperequazione nella imposizione fiscale, che grava sempre di più sul lavoro dipendente e sempre meno sugli altri fattori della produzione (capitale, lavoro autonomo, energia, risorse naturali).[64] Il rimedio naturale a questa distorsione causata dalla concorrenza fiscale, che aggrava il problema della disoccupazione, rendendo sempre più caro il fattore lavoro, consiste in una imposta europea sui capitali e sugli altri fattori produttivi che si sottraggono alla tassazione nazionale.
La resistenza accanita dei governi nazionali ad un aumento delle risorse da destinare al bilancio europeo è, tuttavia, un ostacolo che sinora si è rivelato insuperabile. La via che preferibilmente viene tentata è quella dell’armonizzazione, al fine di lasciare ai cittadini l’illusione che siano ancora i governi nazionali a prendere le decisioni più rilevanti. La questione, dunque, della dimensione del bilancio europeo richiede la definizione di una costituzione, non solo fiscale, ma anche politica per l’Unione europea. Il problema di fondo è quello della responsabilità democratica dell’autorità di bilancio. Oggi le decisioni in materia di spesa e di entrate sono prese in larghissima parte da un organo (il Consiglio dei Ministri) che decide all’unanimità e che non è responsabile verso il popolo europeo, come lo è il Parlamento europeo, ma solo verso il proprio elettorato nazionale. Quando la questione della responsabilità democratica verrà affrontata, diventerà allora pensabile assegnare al livello europeo anche quote delle imposte personali.[65] In effetti, in un sistema democratico, ogni livello di governo deve assumersi di fronte ai suoi elettori la responsabilità di realizzare alcune politiche e di chiedere, a questo fine, le risorse necessarie. Come ha osservato Alexander Hamilton, a proposito della Costituzione americana, in un sistema federale il potere di tassazione deve essere considerato «un potere concorrente». Sarà il dibattito politico ed elettorale a stabilire quante delle risorse disponibili per la spesa pubblica devono essere assegnate ai vari livelli di governo.
[1] Su questa interpretazione del pensiero di Hume cfr. G. Montani, L’economia politica e il mercato mondiale, Bari, Laterza, 1996.
[2] Cfr. R. Cameron, A Concise Economic History of the World from Paleolithic Times to the Present, Oxford, Oxford University Press, 1989, cap. XI; trad. it. Storia economica del mondo, Bologna, Il Mulino, 1993; e A.G. Kenwood e A.L. Loughed, The Growth of the International Economy, 1820-1980, Londra, George Allen & Unwin, 1983, capp. 6 e 7.
[3] Su questa questione si veda l’Introduzione al volume: B. Eichengreen (a cura di), The Gold Standard in Theory and History, New York e Londra, Metheun, 1985. A proposito dei mutamenti intervenuti nel secolo XIX, in relazione al secolo di Hume, Robert Triffin osserva: «Il termine gold standard può difficilmente applicarsi all’intero periodo, a causa del ruolo predominante dell’argento nei primi decenni e della moneta bancaria negli ultimi. Nel suo complesso, il diciannovesimo secolo può essere descritto in modo molto più preciso come il secolo caratterizzato dall’apparizione e dallo sviluppo di un sistema monetario basato sulla moneta fiduciaria (credit-money standard) e dall’eutanasia delle monete di oro e di argento, piuttosto che come il secolo del gold standard» (cfr. R. Triffin, «The Myth and Realities of the So-called Gold Standard», in Our International Monetary System: Yesterday, Today and Tomorrow, New York, Random House, 1968, cap. 1; trad. it. Il sistema monetario internazionale. Ieri, oggi e domani, Torino, Einaudi, 1973, p. 39).
[4] Le funzioni qui elencate della Banca centrale sono quelle illustrate da V.C. Smith, The Rationale of Central Banking (1936), Indianapolis, Liberty Press, 1990, cap. XII.
[5] Cfr. A. Walter, World Power and World Money, Londra, Harvester Wheatsheaf, 1993, cap. 4.
[6] B. Eichengreen, Golden Fetters, New York e Oxford, Oxford University Press, 1992; trad. it. Gabbie d’oro. Il gold standard e la grande depressione, 1919-1939, Bari, Laterza, 1994, p. 9.
[7] Questa tesi è persuasivamente discussa in M.D. Bordo e H. Rockoff, «The Gold Standard as a ‘Good Housekeeping Seal of Approval’ », in The Journal of Economic History, vol. 56, n. 2, giugno 1996.
[8] B. Eichengreen, Gabbie d’oro, cit., p. 10.
[9] L’idea di ordine spontaneo è stata elaborata da F.A. Hayek (specialmente in Law, Legislation and Liberty, Londra, Routledge & Kegan Paul, 1982), ma Hayek ne riserva il campo di riferimento all’ordine interno (dunque, allo Stato nazionale) e non lo estende mai all’ordine internazionale.
[10] Cfr. in proposito R. Nurkse, «The Gold-exchange Standard» (1944), ora in B. Eichengreen (a cura di), The Gold Standard in Theory and History, cit., pp. 201-25.
[11] Cfr. B. Eichengreen (a cura di), The Gold Standard in Theory and History, cit., p. 171.
[13] Osserva B. Eichengreen: «La svalutazione fu la chiave di crescita dell’economia. Quando fu sperimentata, la svalutazione stimolò la ripresa dell’economia quasi in ogni caso. I prezzi si stabilizzarono nei paesi che abbandonarono il gold standard. La produzione, l’occupazione, gli investimenti e le esportazioni aumentarono più rapidamente che non nei paesi che conservavano una parità aurea» (B. Eichengreen, Gabbie d’oro, cit., pp. 289). Inoltre Kenwood e Loughed (The Growth of the International Economy, cit., p. 221) fanno osservare che nel periodo 1913-37 la produzione dei paesi sviluppati aumentò del 22%, il prodotto pro-capite aumentò del 13%, mentre il commercio internazionale aumentò solo dell’11% in totale, ma diminuì del 3% in termini di prodotto pro-capite.
[14] Su queste vicende, cfr. H. James, International Monetary Cooperation since Bretton Woods, New York e Oxford, Oxford University Press, 1996, capp. 2 e 3.
[15] Queste informazioni sono tratte da B. Eichengreen e M. Uzan, The Marshall Plan: Economic Effects and Implications for Eastern Europe and the Former USSR, Londra, CEPR, Discussion Paper n. 638, 1992.
[16] Cfr. M.D. Bordo, «The Bretton Woods International Monetary System: A Historical Overview», in M.D. Bordo e B. Eichengreen, A Retrospective on the Bretton Woods System. Lessons for International Monetary Reform, Chicago e Londra, The University of Chicago Press, 1993, pp. 47-9.
[17] Cfr. A.G. Kenwood e A.L. Loughed, The Growth of the International Economy, cit., p. 306.
[18] R. Triffin, Gold and the Dollar Crisis, New Haven, Yale University Press, 1960.
[19] Sul processo di liberalizzazione dei capitali e sulle sue conseguenze di politica economica, cfr. J.R. Shafer, «Experience with Controls on International Capital Movements in OECD Countries: Solution or Problem for Monetary Policy?», in S. Edwards (a cura di), Capital Controls, Exchange Rates, and Monetary Policy in the World Economy, Cambridge, Cambridge University Press, 1995.
[20] Sulle riserve statunitensi cfr. M.D. Bordo, The Bretton Woods International Monetary System, cit., p. 39, fig. 1.10.
[21] J. Rueff, «Le problème monétaire de l’Occident» (1961), in L’age de l’inflation, Parigi, Payot, 1963, p. 134.
[22] Cfr. H. James, International Monetary Cooperation since Bretton Woods, cit., pp. 214-16.
[24] Su questi aspetti cfr. D. Gros e N. Thygesen, European Monetary Integration, Londra, Longman, 1992, pp. 16-7.
[25] Questi dati sono tratti da J-M. Daniel, A. Gubian, H. Harasty, «Finances publiques en Europe. Un blocage généralisé?», in J-P. Fitoussi (a cura di), Entre convergences et intérêts nationaux: l’Europe, Parigi, Références OFCE, 1994, pp. 334-5.
[26] Cfr. D. Gros e N. Thygesen, European Monetary Integration, cit., p. 31.
[27] L’iniziativa federalista è documentata nel volume (a cura del Movimento Europeo e del Movimento Federalista Europeo) L’unione economica e il problema della moneta europea. La moneta come elemento di divisione o di unità dell’Europa, Milano, Franco Angeli, 1978.
[28] Sul funzionamento dello Sme e sul mercato dell’ecu cfr. D. Gros e N. Thygesen, European Monetary Integration, cit., capp. 3 e 6.
[29] Sul ruolo della Germania nello Sme cfr. M. Artis e N.M. Healy, «The European Monetary System», in N.M. Healey (a cura di), The Economics of the New Europe. From Community to Union, Londra e New York, Routledge, 1995.
[30] Questa opinione è molto popolare tra gli economisti anglosassoni. Si veda, ad esempio, P. Minford, «The Lessons of European Monetary and Exchange Rate Experience», in S. Edwards (a cura di), Capital Controls, Exchange Rates, and Monetary Policy in the World Economy, cit.
[31] Report on Economic and Monetary Union in the European Community, Lussemburgo, 1989, §§ 16, 27, 30.
[32] Ho discusso dei limiti storici e culturali della teoria keynesiana in L’economia politica e il mercato mondiale, cit.
[33] Si vedano in proposito le considerazioni sugli effetti positivi della politica keynesiana in P. Kruglnan, Peddling Prosperity, New York, W.W. Norton and Company, 1994.
[34] Per una discussione più approfondita di questo problema cfr. G. Montani, L’economia post-industriale e il mercato mondiale, Torino, Giappichelli, 1989; per una visione pessimistica del processo di automazione cfr. J. Rifkin, The End of Work. The Decline of the Global Labor Force and the Dawn of the Post-market Era, Berkeley, Putnam’s Sons, 1995; trad. it. La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Milano, Baldini & Castoldi, 1995.
[35] Su questi problemi si veda, ad esempio, A. Lindbeck, «The West Employment Problem», Weltwirtschaftliches Archiv, 1996, Vol. 132 (4); G. Alogoskofis, C.R. Bean, G. Bertola, D. Coehn, J. Dolado e G. Saint-Paul, Unemployment: Choices for Europe, Londra, CEPR, 1995; e J. Michie e J.G. Smith, Unemployment in Europe, Londra, Academic Press, 1994.
[36] Commission of the European Communities, The European Challenge 1992. The Benefits of a Single Market, Lussemburgo, 1988.
[37] Commissione delle Comunità europee, Lussemburgo, 1993.
[38] Cfr. M. Albert, Un pari pour l’Europe. Vers le redressement de l’économie européenne dans les années 80, Parigi, Editions du Seuil, 1983; trad. it. Una sfida per l’Europa, Bologna, Il Mulino, 1984.
[39] Si veda in proposito J. Delors, L’unité d’un homme, Parigi, Editions Odile Jacob, 1994, pp. 292-7; e, più recentemente, il documento Riflessioni e proposte per un nuovo modello di sviluppo, presentato da J. Delors al Congresso dei Socialisti europei di Malmö, 1997.
[40] R. Triffin, «The IMS (lnternational Monetary System… or Scandal?) and the EMS (European Monetary System… or Success?)», in BNL Quarterly Review, n. 179, 1991.
[41] Cfr. C.F. Bergsten, «The Dollar and the Euro», in Foreign Affairs, luglio/agosto 1997. Le altre informazioni statistiche citate sono state attinte dal Rapporto della Commissione europea, External Aspects of Economic and Monetary Union, Bruxelles, febbraio 1997.
[42] J.M. Keynes, «The End of Laissez-faire», in Essays in Persuasion, Londra, Macmillan, 1931; ristampato in The Collected Writings of J.M. Keynes, Cambridge, The Royal Economic Society, 1972, vol. IX.
[43] J.M. Keynes, ibidem.
[44] B. Eichengreen, Globalizing Capital. A History of the International Monetary System, Princeton, Princeton University Press, 1996, p. 191.
[45] B. Eichengreen, ibidem.
[46] R. Triffin, «The IMS (lnternational Monetary System… or Scandal?) and the EMS (European Monetary System… or Success?)», cit.
[47] R.A. Mundell, «A Theory of Optimum Currency Areas», in The American Economic Review, 1961.
[48] Degli studi e delle rassegne in proposito mi limito a citare: L. Bini-Smaghi e S. Vori, Rating the EC as an Optimal Currency Area: Is it Worse than the US?, Banca d’Italia discussion paper, 1993; P. Bofinger, «Is Europe an Optimum Currency Area?» in A. Steiherr (a cura di), 30 years of European Monetare Integration. From the Werner Pian to EMU, Londra e New York, Longman, 1994; D. Gros, A Reconsideration of the Optimum Currency Area Approach. The Role of External Shocks and Labour Mobility, Bruxelles, Center for European policy studies, 1996.
[49] Cfr. ad esempio il cap. 1 di M. Emerson e Ch. Huhne, The ECU Report, Londra, Pan Book, 1991, in cui viene esplicitamente respinto l’approccio delle aree monetarie ottimali (M. Emerson è l’economista che ha coordinato il gruppo di lavoro che ha redatto il rapporto One Market, One Money per la Commissione europea).
[50] P.B. Kenen, «The Theory of Optimum Currency Areas: An Eclectic View», in R.A. Mundell e A.K. Swoboda, Monetary Problems of the International Economy, Chicago, The University of Chicago Press, 1969.
[51] Sull’episodio citato e, in generale, sull’esperienza statunitense come modello a cui ispirare la costruzione monetaria europea, si veda l’intelligente rassegna di L.B. Lindsey, membro del Board of Governors del Federal Reserve System, in Auszuge aus Presseartikel, Deutsche Bundesbank, maggio 1996.
[52] Per una esposizione del pensiero di L. Robbins rimando al mio saggio L’economia politica e il mercato mondiale, cit.
[53] Come sostiene L.B. Lindsday, op. cit., solo nel 1934 il Federal Reserve System ha potuto disporre dei pieni poteri di una Banca centrale.
[54] J.V. Robinson, The New Mercantilism, Cambridge, Cambridge University Press, 1966; trad. it. in J. Robinson, L’economia a una svolta difficile, Torino, Einaudi, 1967, pp. 107-8.
[55] Si veda, ad esempio, J. Michie e M. Kitson, «Fixed Exchange Rates and Deflation. The European Monetary System and the Gold Standard», in N.M. Healey, The Economics of the New Europe, Londra e New York, Routledge, 1995; e J-P. Fitoussi, Le débat interdit. Monnaie, Europe, Pauvreté, Parigi, Arléa, 1995.
[56] European Commission, One market, one money, Bruxelles, 1990; il dato citato è tratto dalla edizione francese Marché unique, monnaie unique, Parigi, Economica, 1991, p. 199.
[57] Commission Européenne, Marché unique, monnaie unique, cit., p. 12.
[58] Per recenti rassegne sull’argomento cfr. P.B. Kenen, Economic and Monetary Union in Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, cap. 4; X. Sala-I-Martin e J. Sachs, «Fiscal Federalism and Optimum Currency Areas: Evidence for Europe from the United States», in M.B. Canzonieri, V. Grilli e P.R. Masson (a cura di), Establishing a Central Bank: Issues in Europe and Lessons from the US, Cambridge, Cambridge University Press, 1992; B. Eichengreen, «Fiscal Policy and EMU», in B. Eichengreen e J. Frieden (a cura di), The Political Economy of European Monetary Unification, San Francisco, Westview Press, 1994, cap. 9; C.A.E. Goodhart, «The Political Economy of Monetary Union», in P.B. Kenen (a cura di), Understanding Interdependence. The Macroeconomics of the Open Economy, Princeton, Princeton University Press, 1995.
[59] Questi dati sono tratti da R.A. Musgrave e P.B. Musgrave, Public Finance in Theory and Practice, Tokyo, McGraw-Hill Kogakusha, 1976, p. 133 e p. 640.
[60] Cfr. W.E. Oates, Fiscal Federalism, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1972, cap. 1.
[61] D. MacDougall., Report of the Study Group on the Role of Public Finance in European Integration, Lussemburgo, European Community, 1977.
[62] «Stable Money, Sound Finances. Community Public Finance in the Perspective of EMU», in European Economy, n. 53, 1993.
[63] Secondo il Rapporto «Stable Money, Sound Finances», cit., sarebbe sufficiente un fondo pari allo 0,2% del prodotto lordo europeo.
[64] Commissione europea, La politica tributaria nell’Unione europea. Relazione sullo sviluppo dei sistemi tributari, Bruxelles, 1996.
[65] Alcuni economisti constatano in effetti che il bilancio europeo è squilibrato rispetto ai bilanci nazionali, che sono finanziati per metà circa da imposte indirette e per metà da imposte dirette. Cfr. D. Biehl, «Fiscal Transfers and Taxation?» in H. Cowie (a cura di), Towards Fiscal Federalism, Londra, Federal Trust for Education and Research, 1992; e P.B. Spahan, The Community Budget for an Economic and Monetary Union, Londra, Macmillan, 1993.