IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXIX, 1997, Numero 2, Pagina 55

 

 

Il patrimonio costituzionale europeo
condizione di un diritto costituzionale europeo
 
DOMINIQUE ROUSSEAU
 
 
Il patrimonio costituzionale europeo, non rientrando direttamente nelle categorie precostituite del diritto, suscita gli stessi interrogativi che, in passato, aveva suscitato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789: si tratta di una guida morale per la condotta politica degli Stati, di un trattato filosofico su che cosa sia un buon regime politico, di un testo in cui vengono enunciati gli obblighi giuridici suscettibili di produrre delle sanzioni in caso di inadempienza, di una Carta costituzionale, o meglio, sovra-costituzionale? I giuristi troppo spesso amano pensare in termini di alternativa, nella convinzione che la scelta di una risposta escluda necessariamente la possibilità di considerare valide anche le altre. Bisogna forse imparare a concepire le questioni nella loro complessità, ivi comprese quelle di natura giuridica, ed a scorgere nella contraddittorietà delle loro caratteristiche non un difetto di costruzione, bensì l’esito del loro dinamismo. Questo vale per il patrimonio costituzionale europeo che si colloca sia in ambito filosofico, sia in quello giuridico: nel primo perché definisce una cultura democratica entro la quale si costruisce l’identità europea; nel secondo perché favorisce l’emergere di un diritto costituzionale europeo. Queste caratteristiche sono compresenti ed interdipendenti.
 
 
Il patrimonio costituzionale europeo
crogiolo dell’identità europea
 
Le società, i popoli e gli individui hanno bisogno di un modo per rappresentarsi, di avere una identità. Questa non è un dato naturale, ma si costruisce attraverso il gioco delle interazioni sociali nelle quali l’individuo e i gruppi sono coinvolti. Se il bisogno di identità è una costante, la forma nella quale un individuo e dei gruppi si rappresentano varia necessariamente con il tempo e le circostanze. E’ quanto avviene oggi: l’identità nazionale è in crisi, soprattutto a causa del processo di mondializzazione, ma la storia continua e il patrimonio costituzionale europeo, per il fatto di «funzionare» come una cultura politica comune ai popoli europei, contribuisce a ridefinire la loro identità.
 
1. La disintegrazione dell’identità nazionale.
 
Sarebbe evidentemente azzardato sostenere, qui e ora, che lo Stato-nazione è morto. Va comunque sottolineato che esso non rappresenta la forma naturale dell’organizzazione politica delle società e neppure esprime, in una prospettiva hegeliana, la fine della storia. Al contrario, lo Stato-nazione è il prodotto di una lunga storia, iniziata nei secoli XIIIXIV, proseguita nel Rinascimento, sviluppatasi con la rivoluzione francese e che ha conosciuto il suo apogeo al termine della prima guerra mondiale, quando il Presidente americano Wilson impose all’Europa, come politica di pace, il principio secondo il quale ogni nazione ha il diritto di costituire uno Stato. Essendo un prodotto della storia, lo Stato-nazione può quindi scomparire.
Questo non è così scontato oggi. Ovunque, in Europa, i popoli sembrano esprimere il loro attaccamento a questa forma di organizzazione politica: la dissoluzione dell’impero sovietico ha provocato il risveglio del sentimento nazionale e ha scatenato, nel Caucaso come nei Balcani, una miriade di conflitti per ridisegnare la mappa degli Stati sulla base delle nazionalità; nell’Europa occidentale, i partiti nazionalisti raccolgono un consenso crescente fra gli elettori e, indipendentemente da questo fatto, i discorsi anti-europei od euroscettici fanno leva soprattutto sulla difesa dello Stato-nazione e delle identità nazionali.
Ciononostante, lo Stato-nazione è in crisi. Nel suo ultimo libro, L’Horreur économique,[1] Viviane Forrester descrive con efficacia l’emergere di un nuovo ordine sociale in cui il potere reale appartiene alle «reti economiche private transnazionali che stanno assumendo un progressivo dominio sui poteri statuali e che, al di là di qualunque territorio, di qualunque istituzione governativa, formano una sorta di nazione che esercita un’influenza sempre più forte sulle istituzioni e sulle politiche dei paesi». Tutte le prerogative dello Stato-nazione vengono così a disintegrarsi. La sovranità, che significa indipendenza della nazione, non-sottomissione ad alcuna autorità esterna, capacità del popolo di determinare autonomamente il suo destino, viene messa in questione quando le «reti» transnazionali economiche, ma anche culturali, impongono le loro leggi e le loro immagini agli Stati, senza che questi possano opporvisi. Anche la territorialità, che significa monopolio della competenza dello Stato su uno spazio geografico delimitato da frontiere, viene messa in crisi quando l’economia si sviluppa secondo una logica spaziale che supera e ignora il territorio dello Stato-nazione. Allo stesso modo, la legittimità dei poteri pubblici nazionali, che significa riconoscimento da parte dei cittadini della necessità di una istituzionalizzazione del potere per garantire il contratto sociale, è indebolita quando il popolo percepisce l’incapacità dello Stato di imporre l’ordine sul proprio territorio.
In breve, le componenti politica, la sovranità, materiale, il territorio, e organica, l’istituzionalizzazione del potere, che tradizionalmente contribuivano a definire lo Stato, sono in via di dissoluzione. A partire da tutto ciò, anche l’elemento personale, la nazione, si sta decomponendo. Gli individui, in effetti, non possono più riconoscersi in una comunità che, perdendo il suo territorio e la sua autorità politica, perde gli strumenti della propria identificazione in quanto comunità nazionale. Il senso di appartenere ad una nazione nasce progressivamente, man mano che ciascuno viene convinto, dalla ragione o dalla forza, dell’interesse di far prevalere, per la sua sicurezza ed il suo benessere, il «livello» nazionale su quello di altri gruppi di appartenenza, quali la famiglia, la regione, il contesto sociale, la religione, ecc. Il legame nazionale, se non appare più agli individui come produttore di senso e di interesse, si disfa, come testimonia oggi la riproposizione della domanda esistenziale: che cosa significa essere francese, belga, spagnolo, tedesco, italiano? Inoltre, il senso di appartenenza ad una nazione dipende da una rappresentazione dello spazio che oppone l’interno all’esterno: appartenere ad una nazione significa essere all’interno di un insieme chiuso e separato dalle altre entità nazionali. Ora, la scomparsa delle frontiere dissolve questa rappresentazione, facendo precipitare ulteriormente la crisi dello Stato-nazione.
In questa congiuntura fluida e incerta, prospera evidentemente ogni sorta di proposte identitarie, che si offrono come altrettante identità di sostituzione rispetto a quella nazionale. Taluni sostengono che la ricostruzione del legame sociale debba avvenire attraverso la rivitalizzazione dei contesti di solidarietà di base, quali la famiglia, la città, la regione; altri privilegiano l’appartenenza ad una comunità religiosa — il «popolo» cattolico, il «popolo» protestante, il «popolo» ortodosso… — o linguistica o sessuale, come mezzo per rifondare una identità collettiva e individuale; vi è anche chi non ha abbandonato l’idea che lo Stato-nazione possa tornare ad essere operativo, qualora le frontiere fossero ristabilite e venisse abbandonata la logica integratrice o federale della costruzione europea.
Così, come avviene sul resto del pianeta, gli Stati europei sono stretti fra un processo di mondializzazione che disintegra la loro legittimità, da un lato, e un fiorire di particolarismi identitari che dissolve il senso di appartenenza nazionale, dall’altro. Comunque, la conclusione logica o inevitabile di questi due movimenti contraddittori, ma convergenti nei loro effetti distruttori, non è necessariamente la scomparsa dei valori democratici. In questo contesto di crisi, il patrimonio costituzionale europeo può aprire la strada ad una ricostruzione dell’identità dei popoli europei.
 
2. La costruzione dell’identità europea.
 
Alcuni osserveranno subito, e non senza malizia, che proporre il patrimonio costituzionale europeo come lo strumento per una ricostruzione identitaria significa soltanto aggiungere una «offerta» di sostituzione identitaria a quelle già esistenti. In un certo senso questo è vero. Tuttavia, il problema non risiede nella sostituzione di un principio identitario con un altro: se il bisogno di identità è comune a tutti i singoli e a tutti i gruppi, esso si organizza in forme che si differenziano, evolvono e cambiano col tempo e sulla base delle esperienze tipiche di ciascuna formazione sociale. In altri termini, i cittadini del vecchio continente non sono affatto condannati a rappresentarsi in eterno entro la forma nazionale. Il vero problema, o comunque il più interessante, riguarda il principio sul quale si ricostruisce oggi l’identità. Rispetto a quelli illustrati in precedenza, il principio del patrimonio costituzionale europeo si distingue per tre peculiarità.
In primo luogo, esso coglie la modernità, mentre gli altri esprimono forme di fedeltà corrispondenti a fasi che oggi sono superate. La nazione stessa, in effetti, è un principio di riconoscimento identitario che si è sostituito o che ha sottomesso alla sua logica i gruppi tradizionali — la famiglia, la regione, la religione… — entro i quali gli individui trovavano le loro modalità di pensiero e di comportamento; e il legame nazionale si è imposto solo in ragione del fatto che, ad un certo punto, esso ha coinciso con lo spazio adeguato allo sviluppo economico. Far rivivere i gruppi di riferimento pre-nazionali o preservare forzatamente l’appartenenza nazionale non ha più senso nell’era della mondializzazione. Al contrario, il patrimonio costituzionale europeo, per il fatto di sposare questo processo, offre il quadro di riferimento adeguato sia per il suo sviluppo, sia per il suo controllo, rendendolo intelligibile. Inoltre, il principio del patrimonio non ha come principale fondamento una territorialità precisa e propone, sotto questo profilo, una ricostruzione identitaria conforme alla attuale scomparsa delle frontiere. Senza dubbio, è limitato allo spazio europeo, tuttavia, invece di essere il territorio a fondare l’identità, è l’identificazione con il patrimonio che costruisce lo spazio europeo, poiché le sue frontiere si spostano secondo il grado di adesione che i popoli offrono, rifiutano o revocano a questo patrimonio. Infine, l’identità che esso costruisce è potenzialmente universale. Questo non significa che essa sarà priva di sostanza o staccata dalla vita, dalle tradizioni, dalle storie particolari degli Europei. In effetti, il patrimonio è pieno di queste vite, tradizioni, storie, che, in un certo senso, esso riunisce sotto la forma di un racconto fondatore dell’identità europea. Il punto è piuttosto che, poiché tale patrimonio si costruisce continuamente con un processo che riflette questo racconto, anche l’identità che esso produce si forgia entro e grazie alla natura critica del suo contenuto, restando, di conseguenza, sempre sospesa, perennemente aperta all’altro.
In questo modo, alle identità radicate nel sangue, nel suolo, nell’etnia, nella tradizione o nel territorio, si sostituisce l’identità derivante dall’adesione e dal sostegno ad un insieme di principi condivisi, entro i quali si riconoscono e si pensano i popoli europei. Sinteticamente, si può dire che alle identità di tipo comunitario succede l’identità costituzionale. Il suo interesse, se non la sua superiorità, consiste nel fatto che essa integra, superandoli, i molteplici tratti identitari costituitisi in precedenza. Il patrimonio costituzionale europeo può, in effetti, essere presentato come un «concetto interstiziale», un principio che si colloca tra i particolarismi concreti e l’universale astratto. Lungi dall’essere un insieme freddo di affermazioni razionali che distruggerebbe i sentimenti di solidarietà in seno alle comunità affettive, esso si compone di principi che non solo derivano dai valori riconosciuti dai popoli europei, ma anche li riflettono, vale a dire, li trasformano, generalizzano e rinviano agli Stati. Così, a differenza soprattutto dell’identità nazionale, che si è costruita distruggendo o sottomettendo i legami «particolaristici», l’identità costituzionale, articolando i diversi modi di concepirsi degli individui e dei gruppi sulla base di principi universali o universalizzabili del patrimonio, permette lo sviluppo non conflittuale delle altre appartenenze identitarie.
Come è possibile questo «prodigio»? Senza dubbio, si tratta del sogno di un giurista idealista. Va comunque detto che la logica è molto semplice. In uno spazio europeo, composto da società con storie politiche, culturali, linguistiche e religiose differenti, ciò che accomuna — il patrimonio — non può che consistere in principi, soprattutto in principi che siano, contemporaneamente, condivisi e rispettosi delle differenze. L’identità del patrimonio, a differenza di quella della nazione, non produce quindi unità o uniformità: essa produce armonia, nel senso che il patrimonio europeo «funziona» come una cultura costituzionale comune che garantisce una socializzazione dei cittadini sufficiente a permettere loro di vivere insieme le loro storie particolari e di trasformarle, proprio mettendole in relazione. Il patrimonio può fare di più? Può produrre anche un diritto costituzionale europeo?
 
 
Il patrimonio costituzionale europeo
crogiolo di un diritto costituzionale europeo?
 
La distinzione fra patrimonio costituzionale europeo e diritto costituzionale europeo potrebbe sembrare bizantina. In realtà non lo è, anzi serve a identificare momenti e ambiti giuridici differenti. Tuttavia, benché i due concetti siano distinti, essi sono interdipendenti, in quanto il patrimonio favorisce l’emergere, se non del diritto costituzionale europeo, almeno di un diritto costituzionale europeo.
 
1. La distinzione fra patrimonio costituzionale europeo e diritto costituzionale europeo.
 
Ci sono almeno due modi di intendere l’espressione «diritto costituzionale europeo». Essa può designare sia l’insieme di regole, principi e istituzioni posti in essere dai Trattati europei, quelli dell’Unione europea e/o del Consiglio d’Europa, sia le regole, i principi e le istituzioni che le costituzioni nazionali degli Stati europei hanno in comune. In entrambi i casi, queste accezioni esistono solo in senso metaforico. In effetti, i Trattati europei non possono aspirare a qualificarsi come una «costituzione europea» perché non sono stati sottoposti all’approvazione popolare, non organizzano chiaramente la separazione dei poteri legislativo ed esecutivo, non sono riuniti in un unico testo facilmente identificabile dai cittadini e, ancora, non prevedono un controllo di conformità ai diritti fondamentali per le decisioni dei poteri pubblici europei. Indubbiamente, esistono in taluni Trattati degli elementi più o meno sviluppati che attengono alla disciplina costituzionale; non vi è parimenti alcun dubbio sul fatto che nulla impedisce di pensare di redigere un giorno una vera e propria costituzione europea che si sostituisca a tutti i testi, accordi, protocolli e alle altre disposizioni definite a livello europeo. Tuttavia, affermare oggi, come ha fatto la Corte di Strasburgo, che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo è «lo strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo nella sfera dei diritti dell’uomo»,[2] o sostenere, come ha fatto la Corte di Lussemburgo, che i Trattati comunitari «benché definiti sotto forma di Trattati internazionali non costituiscono nulla di diverso dalla Carta costituzionale di una comunità di diritto»,[3] sembra più l’espressione di un volontarismo politico e strategico che la constatazione di quella che è la realtà del sistema istituzionale dell’Europa.
Il secondo modo di intendere l’espressione «diritto costituzionale europeo» sembra, al contrario, più difficile da confutare per le forti somiglianze che esso presenta con la definizione di patrimonio costituzionale europeo data in questo saggio. E’ perciò necessario precisare i rapporti tra i due concetti, che, del resto, sono semplici: il termine «patrimonio» rinvia ad un insieme di principi, mentre quello di «diritto» si riferisce alla loro applicazione in specifici regimi giuridici. Il principio delle elezioni libere e periodiche si ritrova nell’insieme delle costituzioni nazionali e, in questo senso, rappresenta uno degli elementi del patrimonio costituzionale dell’Europa; tuttavia, l’applicazione di questo principio varia da Stato a Stato: in alcuni il rinnovo dei deputati è previsto ogni quattro anni, in altri ogni cinque; in alcuni i deputati sono eletti con il sistema proporzionale, in altri con quello maggioritario; in alcuni solo il potere legislativo si basa sul suffragio universale, in altri il popolo elegge anche il titolare del potere esecutivo… Analogamente, per il fatto di essere unanimemente condiviso, il principio del controllo di costituzionalità delle leggi fa parte del patrimonio costituzionale europeo, tuttavia esso si realizza secondo modalità differenti da un paese all’altro: in maniera dispersa o concentrata, a posteriori o solo a priori… Questo vale per tutti i principi che costituiscono il patrimonio.
Se l’idea di convergenza caratterizza naturalmente la nozione di patrimonio, quella di divergenza contraddistingue altrettanto naturalmente la nozione di diritto costituzionale europeo. Usata al singolare, questa espressione è persino impropria; sarebbe più corretto parlare di diritti costituzionali europei. Non è escluso che taluni, a cui è familiare la propensione dei giuristi a giocare con le categorie, saranno indotti ad analizzare questa distinzione come una nuova fattispecie, senza alcuna conseguenza sulla questione di fondo: ciò che gli uni chiamano patrimonio costituzionale europeo viene denominato da altri diritto costituzionale europeo. Sarebbe quindi sufficiente intendersi sulle parole. Ma intendersi sulle parole implica che esse non siano affatto intercambiabili e che ciascuna di esse serva a identificare una situazione particolare. Nel nostro caso, ricondurre tutti i principi costituzionali comuni ai differenti Stati europei al termine patrimonio, piuttosto che al termine diritto, è giustificato dalla preoccupazione di evitare confusioni nella comprensione del complesso processo di costruzione europea. Il termine «diritto», in effetti, rinvia all’idea di regole precise di organizzazione della società e, di conseguenza, non può servire a designare i principi costituzionali che i diversi Stati hanno in comune, se non a rischio di lasciare intendere che tali Stati li organizzano nello stesso modo.
Per essere più espliciti, il patrimonio costituzionale europeo e il diritto costituzionale europeo si collocano in differenti spazi di riferimento. Il primo designa lo spazio meta-nazionale ed esprime la cultura costituzionale comune agli Stati europei; il secondo designa lo spazio nazionale ed esprime il modo in cui ogni Stato interpreta, traduce e adatta questi principi alla sua storia politica particolare. Evidentemente, questi due spazi non si ignorano, tuttavia occorre prima di tutto identificare ognuno di essi correttamente per potere poi concepire la loro relazione, e in particolare la possibile influenza del patrimonio sulla costruzione di un diritto costituzionale europeo.
 
2. La relazione tra patrimonio costituzionale europeo e diritto costituzionale europeo.
 
La relazione fra patrimonio e diritto costituzionale europeo deve essere concepita in termini dialettici. Il patrimonio, in effetti, si alimenta dei diritti costituzionali europei; i principi che lo compongono sono estratti dalle differenti costituzioni nazionali in seguito ad un’operazione intellettuale di comparazione e di sintesi che mette in primo piano gli elementi generali o universali di disposizioni comuni, redatte in modi diversi secondo i paesi. Questa operazione, in verità, non è un semplice lavoro di riscrittura; o, più correttamente, con l’astrazione imposta dalla riduzione dei differenti dettati costituzionali alla forma unificata di un principio, quest’ultimo assume, necessariamente, un contenuto proprio e relativamente autonomo. Resta comunque vero che la disciplina costituzionale degli Stati europei è la fonte dei principi del patrimonio. Questa articolazione fra patrimonio e diritti costituzionali europei, del resto, è sancita sia dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sia dal Trattato di Maastricht che, all’articolo F, stabilisce che «L’Unione rispetta i diritti fondamentali così come essi risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario».
A loro volta, i principi del patrimonio agiscono sui diritti costituzionali europei e possono comportare delle trasformazioni che ne favoriscono la convergenza. Questo processo caratterizza le particolari modalità della «acculturazione costituzionale». In effetti, il patrimonio funziona da cultura costituzionale comune entro la quale si socializzano i cittadini europei. Di conseguenza, questi ultimi sono progressivamente indotti non solo a condividere e assimilare dei principi comuni, ma anche a condividere e assimilare un modo comune di applicarli giuridicamente. In altri termini, le differenze rispetto alla traduzione nazionale dei principi del patrimonio possono ridursi per effetto della socializzazione costituzionale che essi producono. I principi del rispetto della vita privata, del diritto di asilo, del diritto ad un processo equo hanno già prodotto nei diversi Stati europei delle modifiche costituzionali e/o legislative che rendono ormai convergente la loro concreta applicazione. Allo stesso modo, il principio del primato della costituzione non solo spinge i paesi tradizionalmente recalcitranti ad accettare l’idea di un controllo di costituzionalità delle leggi, ma, mettendo a confronto i diversi sistemi, favorisce anche una armonizzazione progressiva delle modalità di organizzare la giustizia costituzionale. Così, l’estensione agli imputati del diritto di adire al Consiglio costituzionale sembra ineluttabile al suo ex-Presidente Robert Badinter, nella misura in cui questo tipo di ricorso è la regola «in tutte le grandi democrazie in cui esistono delle giurisdizioni costituzionali».
Quindi, lentamente — troppo per alcuni, non abbastanza per coloro che cercano di frenare o di invertire il processo — il patrimonio produce una convergenza fra i diritti costituzionali europei. Tuttavia, la progressione non è omogenea; essa si realizza secondo dei ritmi ed una intensità che differiscono in funzione delle materie o dei temi costituzionali. Oggi, in effetti, tutte le costituzioni nazionali comportano due grandi categorie di disposizioni: quelle che organizzano la separazione dei poteri, ripartiscono la legittimità e le competenze fra le istituzioni e ne regolano le relazioni — ciò che Maurice Hauriou chiamava la costituzione politica — e le disposizioni relative ai diritti fondamentali e alla loro protezione contro gli atti dei poteri pubblici e gli attentati, fisici o morali, dei singoli individui — ciò che lo stesso Maurice Hauriou chiamava la costituzione sociale.[4] Ora, a seconda che si tratti dell’una o dell’altra costituzione, la tendenza alla convergenza dei diritti non è la stessa. Se ci si riferisce alla «costituzione politica», è chiaro che, malgrado alcuni avvicinamenti, le divergenze continuano ad avere la meglio: alcuni Stati sono delle monarchie, altri delle repubbliche; alcuni fanno eleggere il Presidente della Repubblica dal popolo, altri dal parlamento; alcuni hanno due assemblee, altri una sola Camera; alcuni hanno una struttura federale che riconosce una competenza normativa «regionale», altri una struttura unitaria che riserva il monopolio della competenza normativa al centro; alcuni hanno un potere giudiziario organicamente indipendente, altri soltanto una autorità giudiziaria, alcuni membri della quale, i magistrati della Procura, sono sottoposti al potere gerarchico del Ministro della Giustizia… Gli ostacoli alla formazione di un diritto costituzionale europeo, nel senso di diritto istituzionale, restano quindi importanti e lo resteranno ancora a lungo poiché è proprio nelle istituzioni, nelle strutture statuali, nelle forme di governo, che si esprimono le tradizioni nazionali e le storie particolari.
In compenso, prendendo in considerazione la «costituzione sociale», si vede altrettanto chiaramente che le convergenze sono nettamente superiori alle divergenze. Questo fenomeno non si spiega solo con il fatto che nelle costituzioni europee sono enunciati gli stessi diritti fondamentali; esso deriva soprattutto dal fatto che i giudici nazionali, in particolare i giudici costituzionali, interpretano questi diritti in modo convergente e ne deducono conseguenze giuridiche simili. Dal confronto fra le differenti giurisprudenze costituzionali si deduce, in effetti, una doppia convergenza. Innanzitutto, le Corti utilizzano gli stessi metodi nello svolgimento del loro ruolo di garanti dei diritti costituzionali: esse valutano il carattere ragionevole, logico, oppure eccessivo e sproporzionato delle violazioni a tale o talaltra libertà. In secondo luogo, in merito alle grandi sfere di libertà, danno interpretazioni e soluzioni di fondo quasi sempre simili.
La Cour d’arbitrage belga, ad esempio, in una sentenza del 21 dicembre 1990, ammette la costituzionalità della legge relativa alla limitazione e al controllo delle spese elettorali, nonché al finanziamento pubblico dei partiti politici con gli stessi termini usati dal Consiglio costituzionale francese nella sua sentenza dell’11 gennaio 1990: «La legge non lede il principio di uguaglianza, dichiarano i giudici belgi, qualora il finanziamento sia finalizzato al buon funzionamento delle istituzioni democratiche, nel rispetto della pluralità di opinioni e tenga conto dell’equilibrio fra le forze politiche risultante dal voto, la qual cosa implica che esso non debba avere l’effetto di avvantaggiare i partiti dominanti o svantaggiare i piccoli partiti». Il Tribunale costituzionale spagnolo, per esempio, ha stabilito, alla stessa stregua del Consiglio francese, che gli insegnanti degli istituti privati, se da un lato possono essere obbligati al riserbo, nel rispetto del carattere specifico di questi istituti, dall’altro continuano a beneficiare della loro libertà di opinione; e, in occasione di un ricorso d’amparo, ha annullato un provvedimento di licenziamento di un docente fondato sull’unica motivazione che egli aveva ammesso di non praticare la religione dell’istituto cattolico in cui lavorava.
L’uguaglianza, che è sicuramente il principio più spesso invocato per motivare il ricorso davanti alle Corti costituzionali, subisce un trattamento giurisprudenziale simile, indipendentemente dal fatto che il controllo sia a posteriori o a priori. In entrambi i casi, i giudici costituzionali ritengono che il principio di uguaglianza debba essere valutato in maniera concreta, «situandolo», e che esso non sia violato dal fatto che il legislatore tratti in modo differenziato situazioni differenti.
In Belgio, la Cour d’arbitrage ha definito la sua dottrina con le sentenze del 13 luglio 1989, 28 settembre 1989 e 13 ottobre 1989: «Le regole costituzionali in materia di uguaglianza dei Belgi e di non discriminazione non escludono che si stabilisca una differenza di trattamento per alcune categorie di persone qualora il criterio di differenziazione sia suscettibile di giustificazione oggettiva e ragionevole; l’esistenza di una simile giustificazione deve essere valutata con riferimento all’obiettivo ed agli effetti della norma considerata; il principio di uguaglianza è violato quando si accerta che non esiste un ragionevole rapporto di proporzionalità fra i mezzi e lo scopo prefisso». In Spagna, il Tribunale costituzionale segue lo stesso ragionamento: le deroghe al principio di uguaglianza possono essere ammesse costituzionalmente solo se riposano «su una giustificazione oggettiva e ragionevole, conformemente a criteri e giudizi di valore generalmente accettati», se la giustificazione è, come in Belgio, in rapporto con la finalità e gli effetti della norma da considerare e se esiste «un rapporto ragionevole e proporzionato fra i mezzi utilizzati ed i fini perseguiti».
Così, in modo empirico, attraverso il lavoro delle Corti costituzionali, si costruisce un diritto costituzionale europeo nel senso, questa volta, di diritto comune dei diritti fondamentali. Questa costruzione non manca né di originalità né di interesse storico e teorico perché mostra un diritto costituzionale europeo che, a differenza dei diritti costituzionali nazionali, si crea senza riferimento ad un potere sovrano — la nazione o il popolo —, senza l’intervento di una Assemblea costituente, persino senza, formalmente, una costituzione; questo diritto costituzionale è soprattutto un diritto forgiato dai giudici costituzionali. Indubbiamente, esso si iscrive così in una tendenza che, analogamente, interessa le norme costituzionali nazionali, profondamente modificate dall’aumentata importanza delle giurisdizioni costituzionali; e, altrettanto indubbiamente, esso offre, per riprendere lo spirito dell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, una effettiva tutela dei diritti delle persone e dei gruppi in tutte le società europee. Tuttavia, non si reca offesa al lavoro di questi giudici se si osserva che un diritto costituzionale europeo esisterà in quanto tale ed assumerà un significato veramente democratico solo quando i popoli d’Europa avranno espresso, con l’adozione di un testo solenne, la loro volontà di dotarsi di una autorità politica comune per vivere e realizzare insieme un progetto condiviso di società. Questo testo solenne sarà la costituzione europea. Il patrimonio costituzionale europeo non può sostituirla, ma esso ne rappresenta certamente il crogiolo, vale a dire, il luogo che consente alla famiglia europea di riunirsi, progressivamente, sotto uno stesso tetto.


[1] Cfr. Viviane Forrester, L’horreur économique, Fayard, 1996.
[2] Commissione europea dei diritti dell’uomo, 4 marzo 1995, R.U.D.H., 1991, p. 201.
[3] Parere 1/91, R.U.D.H., 1991, p. 91.
[4] Maurice Hauriou, Précis de droit constitutionnel, Sirey, 1929.

 

 

 

 

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