Anno XXVI, 1984, Numero 2, Pagina 103
LORD LOTHIAN
Immagino che nel corso della storia umana non ci sia mai stata una discussione così intensa e diffusa riguardo al problema della pace come quella che si è avuta nel mondo a partire dallo scoppio della guerra mondiale nell’agosto del 1914. Ciò, senza dubbio, è essenzialmente dovuto al fatto che la maggior parte dell’umanità è stata trascinata, direttamente o indirettamente, nel vortice della guerra, che la guerra moderna, come viene descritta dalla stampa, dal cinema e dalla radio, è più impressionante e più drammaticamente violenta di quanto non lo fosse nelle epoche precedenti, e che essa colpisce i civili e soprattutto le donne e i bambini più duramente di quanto non facesse prima dell’epoca dei bombardamenti aerei. Io dubito che, di fatto, la guerra moderna sia veramente più terribile di quella antica – la guerra dei tempi in cui non c’era Croce Rossa, in cui gli eserciti occupavano le campagne spesso distruggendo ogni cosa al loro passaggio, in cui le carestie e le pestilenze si sommavano alle carneficine più orribili perpetrate con la spada o il fucile. La quantità di vittime e di feriti che la guerra moderna comporta in particolari momenti è certamente maggiore. Ma io mi chiedo se, alla resa dei conti, la sofferenza che implica sia maggiore, per esempio, di quella della guerra dei Trent’anni, durante la quale la popolazione della Germania si è ridotta da 30.000.000 a 5.000.000, o anche di alcune fasi della guerra civile americana.
La vera differenza tra le discussioni circa la guerra e la pace che si fanno oggi e quelle dei secoli precedenti riguarda la ragione dell’esistenza della guerra. A parte periodi relativamente brevi, nel corso della storia gli uomini hanno pensato alla guerra nello stesso modo in cui hanno pensato al terremoto, alla peste, alle tempeste e alle inondazioni: come a una calamità che si può riuscire a evitare per fortuna, per posizione geografica o per abilità, e da cui si può uscire vincitori piuttosto che vinti; ma essa è sempre stata comunque ritenuta un aspetto dell’inevitabile destino della natura e dell’uomo. A partire dal 1914, invece, l’atteggiamento nei suoi confronti è profondamente cambiato. L’opinione pubblica, spaventata innanzitutto dalle dimensioni della catastrofe e poi dall’evidente discrepanza tra il prezzo pagato per la vittoria e i vantaggi ottenuti, ha chiesto, almeno in gran parte del mondo, che la guerra, come istituzione, fosse abolita dalla terra. La guerra non è più vista come un fatto inevitabile o come il volere di Dio. Si riconosce che essa è la conseguenza dei difetti della natura umana, o del comportamento, o di un certo tipo di organizzazione politica, e come tale essenzialmente rimediabile. Si tratta di un progresso immenso.
In qualche misura questo mutamento può essere imputato alla religione. Il Cristianesimo ha sempre condannato la guerra e il fatto che gli uomini si uccidano a vicenda come essenzialmente contrari allo spirito del suo Fondatore. Ma alcune chiese si sono troppo spesso identificate con quei veementi patriottismi nazionali che nell’epoca moderna sono stati la più ostinata causa della bellicosità e della guerra. Ricordo, quando alcuni anni fa camminavo per il tetro museo di Leningrado dedicato alle testimonianze contro la religione, di aver visto esposte, a dimostrazione della tesi marxista che la religione è l’oppio dei popoli, fotografie su fotografie, provenienti da molti paesi, di ecclesiastici di diverse denominazioni che benedivano navi, aerei e altri strumenti di guerra. Tutto ciò non deve essere preso troppo sul serio. Ma non c’è dubbio che una delle ragioni del declino dell’autorità di gran parte della religione organizzata è dovuta al fatto che finora, in ogni caso, le chiese non hanno proposto soluzioni convincenti riguardo al pressante problema della guerra. Credo, e cercherò di dimostrarlo, che esse potrebbero fare di più di quanto non abbiano fatto recentemente per trovare la risposta a questo imperativo.
Un fattore più importante che ha contribuito a cambiare l’atteggiamento nei confronti della guerra è stato, credo, lo sviluppo del pensiero scientifico. L’umanità si è talmente abituata al fatto che l’uomo domina la Natura, a leggere delle stupefacenti scoperte delle scienze della natura, a vedere meraviglie come l’aeroplano e la radio e ad assistere ai progressi della medicina nella cura delle malattie, che ha incominciato a credere che nessun problema è insolubile e nessun male è invincibile se ci si impegna veramente a risolvere l’uno o a curare l’altro. Lo shock della catastrofe del 1914 ha fatto dire agli uomini: « Questo è il prossimo nemico da sconfiggere ».
Ma se siamo onesti con noi stessi dobbiamo ammettere che sinora non abbiamo fatto molti progressi verso questa meta. La Società delle Nazioni è stata l’espressione dell’amara e profonda speranza dell’umanità che l’ultima guerra fosse quella che avrebbe posto fine alla guerra, che in futuro la guerra potesse essere evitata e che le dispute internazionali sarebbero state risolte con mezzi pacifici. Ma ormai è chiaro per tutti che queste speranze non sono state realizzate. Chiarirò questo punto più avanti. Per il momento basta rilevare il fatto che stiamo attraversando il periodo di maggiore riarmo che il mondo abbia mai conosciuto e che due o tre guerre, dichiarate o non dichiarate, sono in atto in diverse parti del mondo. Tutto ciò è dovuto agli errori e alla pusillanimità degli uomini di Stato, al fatto che non sono stati capaci di usare gli strumenti a loro disposizione, o piuttosto al fatto che le nostre proposte per affrontare il problema della guerra erano fondamentalmente inadeguate? Questo è il punto che voglio discutere stasera, poiché non faremo alcun progresso finché non affrontiamo i fatti e non troviamo una risposta per questa domanda.
Essendo costretto ad assumere responsabilità politiche, sono particolarmente lieto di discutere oggi questo argomento di fronte all’Edinburgh Philosophical Institution. I protagonisti della vita politica sono quasi sempre costretti ad affrontare problemi pressanti e generalmente imprevisti e imprevedibili che si riversano su di loro di ora in ora per essere risolti. In pratica la politica è in gran parte una questione di abile improvvisazione. Una nave è affondata o minacciata nel Mediterraneo, oppure un ministro straniero dice qualcosa in un discorso che rivela un piano insospettato della politica estera di un’altra nazione o indigna furiosamente la pubblica opinione. Oppure da qualche parte esplode una disputa sindacale, o c’è un crollo in Borsa o un’impennata o una caduta dei prezzi o del tasso di sconto ufficiale. Queste cose succedono continuamente e nessuno può prevedere da dove e quando arriverà la prossima crisi. È stato detto talvolta, io credo giustamente, che i governi sono fatti o disfatti non in base alle politiche generali che perseguono o per le quali vengono eletti, ma a seconda del fatto che ispirino fiducia per il modo con cui affrontano i moltissimi problemi pratici che ogni giorno richiedono soluzioni immediate. Nessun governo in un sistema parlamentare può durare, qualunque sia la popolarità della sua politica generale, se si rivela un evidente fallimento nell’amministrazione ordinaria e c’è un partito alternativo che può sostituirlo al potere.
Ma questa è solo una faccia della verità. Ciò che controlla la politica, alla lunga, sono due cose. Innanzitutto i fatti, e non le illusioni o gli ideali o ciò che gli psicologi chiamano « fuga dalla realtà ». In secondo luogo il giudizio morale dell’elettorato e l’opinione che questo si è fatta circa la direzione nella quale vuole che la società si muova. E, in ogni caso, in una democrazia questo determinato giudizio e questa opinione sono in gran parte elaborati da coloro che sono capaci di studiare e riflettere e che posseggono una convinzione morale forte e indipendente. Da molto tempo credo che l’unico meccanismo sulla base del quale la democrazia può funzionare con successo è lo stesso che sta alla base del sistema della giuria. Alla giuria si pone solo una semplice domanda. Non le si chiede di vagliare le testimonianze o di stabilire i fatti o la legge da applicare. Queste cose sono fatte per lei innanzitutto dall’avvocato competente che, sotto il controllo del giudice, porta alla luce i fatti in base alla legge dell’evidenza, e poi dal giudice che raccoglie le testimonianze dell’intero caso e proclama la legge relativa ad esso. Allora e solo allora si chiede alla giuria di decidere se l’accusato è colpevole o innocente. L’esperienza dimostra che la giustizia si consegue meglio combinando questa gestione della legge e delle testimonianze da parte di esperti con il giudizio dato in base al buon senso di dodici uomini e donne comuni, cui si richiede solo un verdetto: colpevole o innocente. Così, in politica, ciò che un elettorato democratico è veramente qualificato a fare è di decidere quale dei due partiti e capi, con i rispettivi programmi, vuole che amministri il potere dello Stato, in base alla costituzione, per i successivi quattro o cinque anni. I partiti sono il corrispondente dell’avvocato competente e dei giudici mentre l’elettorato corrisponde alla giuria, il cui verdetto è pronunciato, dopo aver ascoltato tutte le parti, alla elezione generale. Quando si cerca di chiedere all’elettorato, necessariamente composto di persone che sono impegnate nella loro vita quotidiana e che non hanno una conoscenza diretta dei problemi, di decidere riguardo a complicate questioni politiche, si finisce sempre nei guai. Credo che il famoso Peace Ballot del 1935 costituisca un importante esempio a questo proposito. Si è trattato di un tentativo di coinvolgere l’elettorato in una scelta politica con una specie di plebiscito. Ma il plebiscito non è previsto dalla nostra costituzione, che chiede all’elettorato di scegliere tra i partiti, gli uomini e i programmi. Ritengo che il Peace Ballot abbia provocato dei disastri da cui sia noi che le altre nazioni non ci siamo ancora ripresi, e che la democrazia stessa crollerà se cerchiamo di costruirla sul plebiscito.
La verità è che l’iniziativa e la guida politica devono venire dai partiti e dai capi politici, ma che i limiti entro i quali i partiti e i capi si possono muovere sono fissati dall’opinione che l’elettorato si è formato riguardo ai principi fondamentali. Questa opinione è in parte imputabile ai partiti stessi e alla stampa che è loro legata, ma è influenzata anche, e in alcuni casi in modo molto determinante, da pensatori e poeti, da studiosi e uomini di religione, che non sono affatto impegnati direttamente nella politica. Alcuni di loro studiano i fatti molto più a fondo di quanto non possano fare i politici attivi e così riconoscono forze che si manifestano poco in superficie ma che agiscono in profondità. Altri si preoccupano della verità e della menzogna, del bene e del male, e tengono vivo il senso morale della comunità. I migliori di loro spesso non appartengono né ad una classe, né ad una setta o ad una professione, ma hanno una caratteristica che i politici di professione spesso disprezzano: sono indipendenti. E per quanto riguarda il compito di porre le fondamenta su cui si baserà l’opinione pubblica non vi è nessuno più importante dei filosofi o degli studiosi del pensiero politico e religioso. Essi infatti cercano di stabilire, analizzare ed interpretare i fatti per scoprire le correnti più profonde nell’oceano degli eventi e per segnare sulle carte gli scogli e le secche da evitare e i canali agevoli lungo i quali la nave dello Stato possa procedere senza pericoli.
Questo è il motivo per cui sono particolarmente lieto di poter discutere stasera il problema della pace con questo pubblico dell’Edinburgh Philosophical Institution. Io credo infatti che ci sia stato qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel nostro modo di pensare la pace a partire dal 1918 e che non faremo mai alcun progresso finché non capiremo di che cosa si tratta.
Come ho detto all’inizio, l’intera umanità desidera la pace. Le associazioni pacifiste hanno approvato infinite risoluzioni in favore della pace. Non c’è nessuna assemblea politica o pubblicazione di giornale che non chieda la pace. Il più importante tentativo, nel corso della storia, di instaurare un ordine pacifico è stato la creazione della Società delle Nazioni. Eppure oggi sembra che noi ci allontaniamo dalla pace più che avvicinarci.
Perché accade questo? Non credo che si possa trovare la risposta a questa domanda semplicemente elencando gli errori e i fallimenti degli ultimi vent’anni. Si dice talvolta che la Società delle Nazioni è stata fatta naufragare dal Trattato di Versailles. In un certo senso questo è vero. Tuttavia le speranze di pace furono profondamente minate non solo dal Trattato di Versailles ma ancor di più da quello che seguì. Ecco un riassunto di quegli avvenimenti fatali. Innanzitutto ci fu il rifiuto di aderire alla Società delle Nazioni da parte degli Stati Uniti, poi l’incapacità di dar vita a una Commissione per le riparazioni ragionevolmente imparziale, poi il ripudio del Trattato anglo-francese di garanzia alla Francia, una nazione di 40.000.000 di abitanti, nei confronti di un attacco non provocato da parte della Germania, che conta 65.000.000 di abitanti. Da tutto ciò sono derivate conseguenze inevitabili: il sorgere del sistema di alleanza francese contro la Germania nell’ambito della Società delle Nazioni e l’invasione della Ruhr, al fine di costringere la Germania a rimanere debole e disarmata, con una frontiera smilitarizzata, che ha provocato la nascita del movimento nazional-socialista sollevando la classe media tedesca. Tutti questi fatti hanno generato le nostre attuali discordie e i trattati di Locarno non sono riusciti a risolverle perché hanno cercato di perpetuare la discriminazione militare contro la Germania. Ma questa diagnosi storica non va alla radice del problema. Non spiega perché questi errori sono stati fatti, né perché la Società delle Nazioni è stata incapace di porvi rimedio. E non spiega neppure perché l’accordo di Washington per l’Estremo Oriente del 1922, di gran lunga il più saggio e il più giusto degli accordi fatti dopo la guerra, è crollato fatalmente, come era già successo per l’accordo di Parigi riguardo all’Europa.
Le stesse considerazioni valgono per una opinione molto diffusa in questi ultimi tempi, e cioè che se il governo britannico o qualche altro governo avessero agito risolutamente e con decisione in Manciuria, in Abissinia, in Spagna, in Palestina, in Cina, e così via, tutto sarebbe stato risolto per il meglio.
Non c’è dubbio che se avessimo agito in modo diverso non saremmo al punto in cui ci troviamo ora. Potremmo trovarci in una situazione migliore o peggiore. Ma, come cercherò di dimostrare, la ragione fondamentale di questi fallimenti è più profonda del Trattato di Versailles o della politica dei ministri, sia in patria che all’estero. In base alla mia esperienza sia di studioso di storia, sia di persona che per molti anni è stata direttamente coinvolta in eventi pubblici, io credo che le decisioni degli uomini pubblici sono molto spesso le sole praticabili in date circostanze. Nessun ministro, neppure il Primo Ministro, può fare ciò che vuole. Può solo agire da un lato entro i limiti posti dai fatti e dall’altro in base al consenso che riesce ad ottenere dai suoi colleghi o dall’opinione pubblica o dai suoi alleati. Mentre il fattore personale è immensamente importante nell’immediato e c’è un’enorme differenza se una persona valida e decisa oppure una incapace e debole occupa un particolare ufficio, il corso della storia in definitiva è dominato spietatamente dai fatti e da profondi e radicati principi e sentimenti che un ministro da solo, per quanto potente, è incapace di alterare.
Nessuna delle spiegazioni del fallimento del grande movimento pacifista post-bellico e dell’attuale pericolo di essere trascinati verso la guerra arriva, a mio parere, alla radice del problema. Se vogliamo fare progressi nel più grande compito della nostra epoca, la sconfitta della guerra, sono convinto che dobbiamo riflettere in modo molto più approfondito e meno emotivo sul problema della pace, su che cosa significa veramente pace nel senso politico della parola e su quali sono le condizioni necessarie perché sia instaurata tra gli uomini. Perché se riusciamo a trovare la verità fondamentale o scientifica, questa verità inizierà a diffondersi fino a permeare l’opinione pubblica e diventerà parte di quella convinzione pubblica consolidata con cui chi fa politica deve fare i conti.
Che cos’è la pace? La pace è ciò che segue l’instaurazione dell’istituzione conosciuta come Stato. Lo Stato è lo strumento che instaura il regno del diritto, il sistema per mezzo del quale il ricorso alla violenza è proibito e prevenuto perché ci sono un’autorità legislativa che emana e emenda la legge, una magistratura che l’adegua alle particolari circostanze e che decide nelle controversie, e un potere esecutivo che fa rispettare la legge per mezzo della polizia e dell’esercito e che si occupa della pubblica amministrazione. La pace, nel senso politico della parola, esiste solo entro i confini dello Stato, e la funzione primaria ed essenziale dello Stato è proprio quella di instaurare e mantenere la pace. È essenziale prendere consapevolezza di questo fatto se vogliamo riflettere con lucidità sul problema della pace internazionale. Non c’è mai stata pace in nessun angolo della terra e in nessun periodo della storia umana senza l’intervento dello Stato. Sia che si guardi all’autorità del capo tribale, o al dispotismo monarchico o feudale, ad una vasta repubblica federale democratica come gli Stati Uniti, o a Stati ancora più vasti come la Repubblica Socialista Sovietica o l’Impero indiano, la pace interna dipende dall’esistenza dello Stato. Il progresso non influenza la natura fondamentale dello Stato. Esso modifica semplicemente il processo mediante il quale coloro che detengono il potere dello Stato, cioè il potere di fare leggi, di giudicare e di fare rispettare la legge, vengono nominati. In condizioni primitive il potere è ereditario oppure viene conquistato con la forza. In condizioni più progredite è il risultato di un processo elettorale mediante il quale la maggioranza dell’elettorato, votando liberamente alle elezioni generali, dà il potere ad un partito o ad un gruppo di partiti, con l’obbligo di agire nel rispetto della legge, e non in modo arbitrario, e tenendo nella giusta considerazione i diritti e gli interessi delle minoranze.
Questa è la pace. Ed è soltanto quando incominciamo a pensare alla pace internazionale da questo punto di vista che riusciamo a capire con chiarezza perché non siamo riusciti, nonostante tutti i nostri sforzi, a instaurare la pace sin dal 1918 e quali sono le condizioni fondamentali che, sole, possono porre fine alla guerra. Il motivo essenziale per cui non siamo ancora riusciti ad instaurare la pace è che nell’ambito internazionale non esiste lo Stato. Ogni nazione ha voluto mantenere la sua piena sovranità, pretendendo di essere responsabile solo verso se stessa. Inoltre, nonostante la Società delle Nazioni, la situazione è diventata più difficile a partire dalla Grande Guerra perché questa ha determinato un aumento degli Stati sovrani. Per esempio, il numero di Stati sovrani in Europa è cresciuto da diciassette a ventisei, e l’Impero britannico si è trasformato da Impero sostanzialmente governato da un centro in un’associazione di Stati quasi indipendenti.
Il motivo fondamentale per cui la Società delle Nazioni è fallita consiste nel fatto che si trattava di una Società di Stati sovrani e che essa stessa non aveva nessun attributo proprio dello Stato. Sebbene la Società delle Nazioni sia un’ammirevole congegno per gli Stati che vogliono cooperare o trovare modi pacifici di appianare i contrasti, il suo compito, in realtà, si risolve in una finzione, dato che i suoi membri, mantenendo la loro sovranità, vivono ancora praticamente in condizione di anarchia e, come l’intera storia dimostra, la guerra è endemica dove vi è anarchia.
Consideriamo un attimo cosa significa in pratica la sovranità nazionale e l’anarchia che ne consegue. Essa implica in primo luogo che ogni nazione tende a guardare ogni problema dal punto di vista del proprio interesse e soprattutto della propria sicurezza. Essa può, e qualche volta cerca di guardare le cose da un punto di vista più generale, ma le è quasi impossibile farlo perché anche in una democrazia i cittadini non hanno una vera conoscenza del resto del mondo e il governo è esclusivamente responsabile verso di loro e controllato da loro. Non c’è nessun governo o autorità che può parlare a nome dell’umanità intera. Inoltre la lingua, la geografia, la cultura, impongono ad ogni nazione un punto di vista nazionale, ben diverso da quello che sarebbe il punto di vista di un governo che rappresentasse tutte le nazioni, le razze, le lingue e i colori.
In secondo luogo, la sovranità implica che gli eventuali conflitti fra le nazioni, quando non venga raggiunto spontaneamente un accordo, non possono essere risolti se non attraverso un atto di forza, sia esso la resa della parte più debole, o una prova di forza attraverso gli strumenti della diplomazia, o, infine, la guerra. Finché ogni nazione si accontenta dello status quo possono non esserci serie difficoltà, e le conferenze attorno a un tavolo o il ricorso all’arbitrato su punti concordati possono bastare a risolvere le controversie. Ma se, come sta accadendo ora, c’è un grave malcontento nei confronti dello status quo, e questa è la condizione abituale del mondo, e le discussioni e la diplomazia si dimostrano incapaci di trovare soluzioni su cui tutti siano d’accordo, le nazioni più scontente, specialmente se sono nazioni potenzialmente forti, incominciano ad armarsi per attirare l’attenzione sulle loro richieste o, come estremo rimedio, cercano di assicurarsi ciò che ritengono spetti loro di diritto minacciando il ricorso alle armi o con la guerra. Questo è ciò che sta accadendo oggi in tutta Europa, nell’Africa del Nord e nell’Estremo Oriente. Dovunque inizi un processo di riarmo, immediatamente le nazioni vicine seguono l’esempio, per cercare di porsi al sicuro in caso di guerra. Si arriva così a quella corsa al riarmo che è una conseguenza inevitabile dell’anarchia. E una volta che la competizione prende piede qualsiasi accordo diventa sempre più difficile, perché il fattore strategico diventa rapidamente predominante rispetto a considerazioni morali, come la giustizia. Per esempio, il timore che le colonie restituite possano essere usate come base aerea o navale sta assumendo oggi la più grande importanza nella questione coloniale tedesca. Ancora, è stato il timore di accrescere il potere strategico della Germania che ha indotto la Conferenza della Pace a proibire arbitrariamente l’unione dei tedeschi austriaci con i tedeschi della Germania, anche se essi la volevano. La conseguenza ultima dell’anarchia, che deriva dal fatto di voler mantenere la sovranità nazionale, è che le nazioni iniziano ad allearsi tra loro, alcune per alterare, altre per difendere lo status quo, finché il mondo non viene organizzato in due o più strette alleanze militari. Non è esattamente quello che sta accadendo oggi con il Patto anti-Comintern da un lato e il trattato russo-francese di mutua assistenza dall’altro, proprio come è successo prima del 1914? E quando le alleanze militari si consolidano, questo timetable militare basato sulla velocità di mobilitazione diventa decisivo e un pazzo, una notizia infondata o un incidente possono far scoppiare una guerra mondiale.
Ma c’è un’ulteriore conseguenza della sovranità nazionale, in un certo senso quella più rilevante. Ogni Stato sovrano, sotto la pressione sia dei datori di lavoro che dei lavoratori, incomincia a sviluppare una politica protezionistica per mezzo di tariffe doganali, e tende ad includere entro il suo sistema economico tutte le aree coloniali che può controllare. Quando la competizione negli armamenti si accentua, agli argomenti abituali in favore del nazionalismo economico si aggiunge quello che la massima autosufficienza è necessaria alla sicurezza nazionale in caso di guerra, e così, oltre ai soliti dazi, vengono introdotti altre tariffe, embarghi, contingentamenti e così via, in base al principio della autarchia. Ma l’inevitabile restrizione del commercio estero che il nazionalismo economico produce comporta la rovina delle aree industriali fondate sul commercio di esportazione o sul traffico marittimo, mentre i paesi fornitori di materie prime e quelli ad economia agricola perdono i loro vecchi mercati, cosicché disoccupazione e povertà si diffondono in tutto il mondo. Quando la disoccupazione si aggrava, l’ordine sociale diventa instabile ed emerge la tendenza a chiedere un sempre maggiore intervento da parte del governo perché fornisca dei rimedi, o mantenga l’ordine, fino a che la democrazia è sopraffatta da qualche forma di totalitarismo o si trasforma in un governo assistenziale e paternalistico, che non discende dalla teoria socialista ma consegue alle necessità create dal nazionalismo economico.
Qualcuno dei presenti stasera può forse negare che ciò che ho appena descritto rappresenta esattamente il processo fondamentale cui abbiamo assistito negli ultimi dieci anni? Sebbene gli uomini di Stato e le nazioni abbiano fatto errori in abbondanza, non è evidente che la forza inesorabile che ha determinato in profondità il corso degli avvenimenti e che ha sconfitto le migliori intenzioni degli statisti e degli uomini di buona volontà è stata la forza dell’anarchia, risultato della sovranità nazionale di tutti gli Stati?
Questa è la forza che ha fatto sì che gli interessi nazionali prevalessero su quelli umani, che ha portato al fallimento di una tempestiva revisione dei trattati nell’interesse della giustizia, al riarmo, all’impotenza di fronte all’aggressione, al nazionalismo economico e alle attuali alleanze. Ogni studioso di storia o di scienza della politica, concorderà sul fatto che tutto ciò deriva dall’anarchia e che scompare solo dove c’è un grande Stato, come il vecchio Impero romano, il vecchio Impero britannico, o il governo indiano, o la federazione degli Stati Uniti o il governo federale del Canada e dell’Australia, che riesce a mantenere la pace in quanto può legiferare e imporre in vaste aree l’ordine tra la popolazione insediata. Le nazioni oggi stanno veramente vivendo nelle stesse condizioni in cui vivevano gli individui nel West selvaggio dei tempi dei pionieri. Allora ogni uomo portava una pistola e la sua sicurezza, e quella della sua proprietà e della sua famiglia, dipendevano dalla reputazione che si faceva nell’estrarre velocemente la pistola e sparare con precisione. La civiltà e lo sviluppo economico erano impossibili in quelle condizioni e infatti non cominciarono a comparire finché lo sceriffo, cioè l’agente dello Stato, non arrivò a instaurare il regno del diritto.
È stata soprattutto questa forza funesta che ha indebolito le originarie speranze che si concentravano sulla Lega delle Nazioni. Poiché ogni membro ha mantenuto la propria sovranità, gli interessi nazionali hanno sempre avuto la priorità, impedendo di attribuire alla Lega il potere di fare giustizia, di rivedere i trattati, di limitare il nazionalismo economico e di opporsi alle aggressioni. In ogni crisi troverete che la sovranità nazionale è stata ciò che gli Americani chiamano the nigger in the wood pile. Ciò è dovuto essenzialmente al fatto che in ultima istanza ogni individuo deve lealtà alla propria nazione e non alla Lega, cosicché, in caso di necessità, deve combattere contro questa. Se davvero si vogliono studiare le ragioni fondamentali per cui un sistema di cooperazione fra Stati sovrani non può assolutamente vincere le forze dell’anarchia o mantenere la pace e la giustizia, si leggano le pagine di The Federalist, il famoso periodico americano in cui Alexander Hamilton, James Madison, e John Jay esposero l’amara lezione del periodo dal 1781 al 1787, quando le colonie americane in rivolta stavano cercando di amministrare i loro affari come una sorta di Lega di Stati, e sostennero con successo che niente, tranne la messa in comune di parte delle sovranità statali in una costituzione federale, poteva dare la pace all’America o impedirle di essere travagliata da continue guerre come l’Europa. Il solo fondamento su cui è possibile costruire una pace duratura è il principio dello Stato nella forma federale. Questa è la lezione sia della storia che della scienza politica. Non ci fu pace in Britannia, né interruzione delle alleanze tra la Scozia e la Francia contro l’Inghilterra, fino a che non si ebbe prima l’unione dei troni e poi dei Parlamenti. Canada, Australia e Sud Africa non riuscirono a risolvere i loro problemi interni finché non formarono una federazione o una unione. Lo stesso accadde per la Germania, l’India, e la confederazione americana. E le stesse considerazioni valgono per l’Europa attuale, la quale non potrà raggiungere la pace finché sarà composta da ventisei Stati sovrani, così come valgono per il mondo intero, perché le invenzioni lo hanno reso più piccolo, sia in termini spaziali che temporali, di quanto lo fossero le isole britanniche da sole 150 anni fa.
Non è mio proposito affermare che questa soluzione è raggiungibile oggi, o che può essere attuata domani, o che possiamo cominciare con il mondo intero, o che le difficoltà di percorso, legate alle differenze di razza, di colore, di cultura e di civiltà, non sono immense. Ciò che mi interessa è convincere voi, signore e signori della Edinburgh Philosophical Institution, che il problema più impellente del nostro tempo, porre fine alla guerra e instaurare la pace a livello internazionale, è risolvibile solo nei termini di un governo costituzionale federale. Possiamo essere costretti a convivere, per un po’ e come meglio possiamo, con espedienti, ad esempio con nuove varianti della Lega delle Nazioni. Oppure potremmo accettare una tregua precaria imposta dalle maggiori potenze militari, la cui supremazia nessuno oserebbe sfidare. O ancora potremmo riporre la nostra fiducia nei sistemi usati dalla flotta britannica, il cui predominio sui mari impedì una guerra mondiale per un secolo dal 1815 al 1914, ma non riuscì a impedire guerre locali (considerando però che oggi tali sistemi potrebbero funzionare solo mediante l’intervento comune delle flotte britannica e statunitense). Ma anche se questi espedienti potessero essere messi in atto e funzionare per un po’, essi sarebbero solo espedienti.
L’elemento di primaria importanza che i pensatori presenti fra noi devono afferrare è la verità fondamentale che la pace internazionale e la possibilità di un mondo governato dalla moralità possono essere instaurati soltanto con il principio dello Stato federale e in nessun altro modo. Allora e solo allora la nostra riflessione su questo problema incomincerà ad essere costruttiva e fruttuosa e non imboccheremo più un vicolo cieco dopo l’altro, verso il fallimento, la frustrazione e la catastrofe, nella persuasione che esista una via più breve e più facile verso la pace, mentre in realtà non c’è. Sul principio dello Stato federale e solo su questo può essere permanentemente eretto il tempio di una pace durevole.
Per quanto concerne questo punto centrale, vogliate soffermare la vostra attenzione sull’argomentazione esposta da Lionel Curtis in un libro degno di nota, il terzo volume di Civitas Dei. L’argomentazione di Curtis è che la funzione della religione non è soltanto quella di assicurare la redenzione ad ogni individuo: la salvezza del singolo richiede che egli si comporti come un buon cittadino e pertanto fa parte della funzione della religione contribuire a dar vita a una società in cui sia possibile ad ogni individuo amare Dio amando il prossimo suo come sé stesso. Egli sostiene che l’umanità progredisce nella misura in cui sia in grado di diffondere il principio della lealtà fra gli uomini, attraverso la creazione di una comunità sempre più ampia. Nelle società primitive la lealtà e l’amore sono dovuti solo ai membri della tribù, mentre tutti gli altri sono nemici. Gli antichi imperi si formarono mediante la conquista e mantennero l’unità e la potenza fino a che vennero accordati al sovrano e ai suoi discendenti gli attributi della divinità. Ma quando questi scomparvero, per atrofia o conquista, l’impero crollò. Poi gli Israeliti e i Greci fecero due scoperte: la prima fu quella dell’importanza dell’esperienza religiosa e del principio morale come fondamento della società, la seconda fu quella del principio della comunità democratica responsabile, come esemplificato dalla città Stato greca.
Questi principi si fusero per la prima volta nella storia in Inghilterra, sotto i Plantageneti, quando l’idea della rappresentanza rese possibile la creazione di una comunità democratica estesa a tutta la nazione. E poche centinaia d’anni dopo gli Americani, trovandosi sull’orlo della catastrofe, come ho descritto, fin tanto che non vollero rinunciare a parte della sovranità dei tredici Stati originari, scoprirono il principio federativo, mediante il quale, mentre i singoli Stati erano lasciati pienamente autonomi nei loro affari locali, la comunità democratica federale veniva estesa fino ad includere quarantotto Stati, un’area grande quando la intera Europa, e con una popolazione di 130.000.000 di persone.
Ora citerò alcuni passi dal libro di Curtis che costituiscono l’essenza della sua argomentazione: « Considerare la pace », egli dice, « come lo scopo e l’obiettivo della politica nelle relazioni internazionali è, credo, un errore tanto grande quanto considerare come scopo ed obiettivo della politica interna il mantenimento dell’ordine. La guerra fra gli Stati e il disordine fra loro sono i sintomi visibili di una malattia più profonda delle sofferenze che essi stessi infliggono... La malattia vera e propria consiste nell’incapacità di trovare il modo adeguato per sviluppare negli uomini il senso del reciproco dovere ». « Le istituzioni di una comunità nazionale, per quanto grande ed altamente sviluppata, non sono sufficienti a mostrare ai suoi cittadini gli interessi della società umana considerata nella sua interezza. Né possono chiaramente rivelare al popolo di una nazione quanto i suoi interessi siano indissolubilmente collegati a quelli della società umana considerata nella sua totalità ». « La natura umana non può cominciare a rendersi pienamente conto delle proprie possibilità fino a che non avremo realizzato una comunità che abbracci l’intera umanità e sottometta tutti gli uomini a leggi comuni relative ai problemi comuni ». « La virtù negli esseri umani crescerà nella misura in cui la struttura della società sarà progettata per la sua educazione ed emancipazione. In un mondo diviso in Stati nazionali la crescita della virtù negli uomini, sebbene sviluppata all’interno dei singoli Stati, deve necessariamente arrestarsi ad un certo punto ». « In verità ho fornito le ragioni per pensare che l’anarchia non soltanto non sviluppa la virtù morale nelle nazioni, ma la distrugge. La gente considera la comunità nazionale racchiusa entro una frontiera come l’ultimo stadio dello sviluppo dell’umanità. L’idea dello Stato nazionale imprigiona la sua mente. Essa non riesce a concepire un’autentica comunità di nazioni più di quanto un Greco del tempo di Aristotele potesse concepire una comunità nazionale che comprendesse tutte le città della Grecia »; e fu appunto perché non poteva concepire una simile idea, ora familiare a tutti noi, che la civiltà greca fu distrutta. « La profonda fiducia nella comunità nazionale come ultimo stadio della costruzione politica è un ostacolo nelle menti degli uomini che deve essere superato per poter avanzare verso un livello di civiltà superiore all’attuale ». Curtis termina il suo libro con un appello a filosofi e religiosi perché comincino ad abbattere questa inibizione quasi universale a pensare al di là dei termini nazionali e ad elevare il pensiero all’imperativa necessità di vedere in tutti gli uomini della terra dei concittadini, membri di una comunità mondiale, prima che l’attuale anarchia distrugga la nostra civiltà come ha distrutto civiltà dopo civiltà nel corso della storia.
Permettetemi di perorare questa causa. Curtis ha posto un interrogativo essenziale cui dobbiamo rispondere: « Può il progresso della civiltà avanzare o mantenere davvero il livello oggi raggiunto, senza che o fino a che la lealtà di tutti gli esseri umani non sia rivolta in ultima istanza ad una sola sovranità? ». La mia risposta è chiara. O si riesce a raggiungere questo obiettivo, o la civiltà correrà nuovamente il catastrofico pericolo di un’altra guerra mondiale.
Probabilmente vi aspettate che dica qualcosa circa gli aspetti più pratici del problema, e vi chiederete: « Sebbene questo sia vero in linea di principio, cosa possiamo fare in pratica? ». Ovviamente non posso, questa sera, trattare il problema nei suoi dettagli. Ma per stimolare la riflessione vi esporrò brevemente alcune idee fondamentali. In primo luogo non riusciremo a bandire la guerra, o a fondare il regno della moralità in campo internazionale, o ad acquisire la capacità di controllare sia gli affari interni che quelli mondiali, finché non venga istituita un’autorità che consideri i problemi del mondo non nel loro aspetto di conflitti tra Stati nazionali, ma dal punto di vista del benessere dell’umanità nella sua totalità.
In secondo luogo quell’autorità deve derivare non dagli Stati nazionali, come nel caso della Lega delle Nazioni, ma da tutti gli individui che cadono sotto la sua giurisdizione, deve, in qualche modo, essere responsabile nei loro confronti, e deve essere in grado di far rispettare le sue leggi a ciascun individuo; nell’ambito di un potere federale mondiale e non contro lo Stato nazionale. Poiché, come disse James Madison alla convenzione di Filadelfia, quando si redasse la costituzione americana, « il solo modo in cui uno Stato può essere coartato è con la guerra, ma l’ordine e la libertà non possono basarsi sul potere del governo federale di fare la guerra ad uno Stato ».
Ciò è molto simile al commento di Edward Grey sulla Lega delle Nazioni. « Non mi piace l’idea di ricorrere alla guerra per impedirla ». La libertà, non la pace, può essere preservata con la guerra.
In terzo luogo l’autorità federale deve essere la sola ad avere il potere di allestire eserciti professionali, forze navali o aeree, sebbene gli Stati possano essere liberi di allestire guardie nazionali per mantenere l’ordine interno, e deve avere poteri di tassazione autonomi sufficienti per metterla in condizione di finanziare i propri servizi senza dover ricorrere alle sovvenzioni votate dagli Stati costituenti.
È lecito chiedersi come si potrà mai far sì che le nazioni della terra divise per razza, lingua, colore della pelle, livelli di civiltà e sviluppo economico e separate dallo stesso veemente nazionalismo, cooperino o affidino il proprio destino a dirigenti di altre razze?
La mia prima risposta è questa. Chi viaggia frequentemente per il mondo, come ho fatto io, noterà che la caratteristica più evidente della nostra epoca è la rapidità con cui la vita quotidiana della gente sta assumendo aspetti simili in tutte le aree industriali del mondo. Noi tutti tendiamo a mangiare lo stesso cibo, a indossare lo stesso genere di abiti, a svolgere lo stesso tipo di lavoro, a leggere le stesse notizie o gli stessi libri, od ascoltare la stessa musica e a parlare delle stesse cose. Non siamo proprio così differenti come pensiamo, ma in una situazione di anarchia ogni differenza risulta esasperata, mentre in una situazione di unità, pur restando le particolarità, tenderebbero a sparire le differenze artificiali. Considerate anche il problema apparentemente insormontabile del linguaggio. Le persone più istruite apprendono due lingue. Perché non dovrebbero apprendere tutti la medesima seconda lingua?
La mia seconda risposta è che l’integrazione della comunità mondiale non inizierà, come avvenne per la Lega delle Nazioni, con un tentativo di integrare il mondo intero in un solo momento. Essa inizierà con un gruppo di nazioni che sono giunte alla conclusione che non possono risolvere i loro problemi interni o ottenere una stabile prosperità o la pace senza mettere in comune le loro sovranità, abolendo gradualmente le restrizioni al commercio tra loro, e creando un governo comune per gli affari sovrannazionali. Una volta che un gruppo di nazioni civili, con la stessa cultura, faccia questo, per esempio i paesi di lingua inglese o le democrazie o qualche altro gruppo di nazioni indipendenti, e abbia trovato il sistema di rappresentanza che permetta all’autorità federale di essere responsabile verso e di trattare direttamente con tutti i cittadini della nuova federazione, l’aumento di forza, la crescita di libertà, lo sviluppo della prosperità saranno tali che le altre nazioni vorranno associarsi e queste dovrebbero essere ammesse a patto che accettino i principi basilari su cui la federazione si fonda.
In realtà non sono così pessimista, come lo è probabilmente la maggior parte di voi, circa la possibilità di raggiungere un tale obiettivo. È sorprendente quali risultati la verità possa raggiungere una volta proclamata e una volta che i disastri che seguono al suo rifiuto iniziano a ricadere su di noi.
Considerate le inimmaginabili rivoluzioni che hanno sorpreso il mondo in questi ultimi venti anni. La Russia zarista è diventata un tipo di Stato completamente nuovo. L’antico sultanato di Turchia è scomparso. Fascismo e comunismo hanno stretto milioni di giovani nella morsa di una cieca obbedienza. L’Impero britannico è divenuto un’istituzione chiamata Commonwealth, che presto riunirà più di venti Stati sovrani che hanno come unico debole legame una corona ereditaria. Sia la saggezza che la catastrofe possono rapidamente spingerci in una direzione opposta a quella in cui ci siamo mossi in questi ultimi venti anni, quella della sempre crescente autodeterminazione e anarchia. Ma la condizione necessaria è che un gruppo sufficiente di persone incominci a proclamare la verità: che il mettere in comune una parte della sovranità nazionale in una unione federale è l’unico rimedio contro la guerra. Ma probabilmente, questa sera, qualcuno fra il pubblico sta già pensando che, tra le cause della guerra, io abbia ignorato quella più importante, la causa economica, la tesi socialista secondo cui il capitalismo, con il suo sistema di competizione e di profitto e le sue profonde contraddizioni, sta alla radice di tutti i nostri guai. Non ho dimenticato la famosa diagnosi di Karl Marx esposta nel Manifesto del Partito Comunista del 1848 e la vasta marea di letteratura che essa ha prodotto da allora. Ma questa sera non ho intenzione di discutere questa tesi, se non molto brevemente, perché sono convinto che non sia vera. Il socialismo, come io lo vedo, è una mezza verità. Il sentimento umanitario ed idealista che ne sta alla base è certamente profondo, ed è proprio il fatto che i teorici del laissez faire hanno scartato quelle considerazioni la ragione per cui il socialismo è diventato così popolare nell’ultima metà del secolo. Ma la diagnosi marxista secondo cui quasi tutti i mali della società sono dovuti alla proprietà privata dei mezzi di produzione, di distribuzione e di scambio, è, credo, una gigantesca illusione che ci ha distratti dal male di gran lunga più fondamentale della sovranità nazionale e sta conducendo molte persone alla disastrosa credenza che la nazionalizzazione generale sia un fondamento per la nostra vita economica preferibile alla libertà d’iniziativa e imprenditoriale regolata dalla legge. Il fatto davvero centrale della nostra moderna civiltà industriale non è la proprietà privata dei mezzi di produzione, di distribuzione e di scambio, ma sono la divisione e specializzazione del lavoro in quanto risultato delle scoperte delle scienze naturali e dell’uso della macchina.
Questo è ciò che ha reso possibile l’enorme crescita del livello e della varietà della vita dell’ultimo secolo.
Ma il solo mezzo con cui domanda e offerta possono essere mantenute in reciproca relazione in una società basata sulla divisione del lavoro, con cui capitale e lavoro si possono trasferire dove sono necessari e il consumatore può decidere cosa deve essere prodotto, è il libero mercato. Questo è il fondamentale bilanciere della moderna civiltà industriale e il marxismo continua a basarsi sull’assunto che si può sopprimerlo completamente e sostituirlo con la dittatura di un comitato per la pianificazione centralizzata. Ma un tale sistema richiede capacità sovrumane nei pianificatori ed anche se così fosse esso può sopravvivere solo mediante il più drastico e dittatoriale controllo sulla vita dei singoli individui, perché l’inevitabile conseguenza di una pianificazione centralizzata è che tutta l’iniziativa privata deve essere soppressa, altrimenti essa distruggerebbe il piano. In pratica non si fa che sostituire lo sfruttamento da parte di una rigida dittatura burocratica allo sfruttamento molto meno dittatoriale del capitalismo competitivo, specialmente se il capitalismo è regolato da leggi democratiche. Sono convinto che tale sistema fallirà nella pratica, poiché va al di là sia della sopportazione che delle capacità umane e i recenti fatti in Russia sembrano segnare l’inizio di quel fallimento.
Questa sera non andrò oltre nel parlarvi di questo vitale ed affascinante argomento se non per riferirvi di un altro libro molto significativo, che è già stato pubblicato negli Stati Uniti e che sarà pubblicato anche in questo paese entro breve tempo, il libro di Walter Lippmann The Good Society. Esso ben ripagherà la vostra attenzione. È uno dei libri più chiarificatori fra quelli pubblicati recentemente in relazione ai problemi del capitalismo e del socialismo.
La causa fondamentale delle difficoltà economiche del mondo moderno non è il capitalismo, ma la sovranità nazionale che ha reso quasi impossibile il funzionamento del sistema capitalistico anche nelle sue forme più controllate e benevole e che è anche la causa prima della guerra. Fu la sovranità nazionale la causa prima della guerra mondiale del 1914, che mise talmente in crisi il vecchio ordine economico da portarlo quasi alla rovina. È stata la sovranità nazionale il principale ostacolo alla ricostruzione postbellica in quanto, mediante i dazi, gli embarghi, i contingentamenti, le restrizioni agli scambi, i debiti e le riparazioni di guerra, ha prodotto disoccupazione e ha aperto la via alla rivoluzione e alla dittatura.
Essa è dunque la vera nemica, non il capitalismo, che in sé unifica il mondo, e non si cura delle differenze razziali e linguistiche. Se non fosse per la sovranità statale, i commerci sarebbero liberi, l’emigrazione di gran lunga più facile, improvvise crisi economiche molto meno frequenti e la crescita dei livelli di vita decisamente più rapida. Una volta che le forze funeste generate dall’anarchia e dalla sovranità nazionale saranno esorcizzate da qualche forma di federazione internazionale, sarà nella combinazione delle fondamentali istituzioni del capitalismo (che genera un gigantesco flusso di energie, iniziative e invenzioni) con la democrazia (che redistribuisce la ricchezza tramite le imposte ed emana, nell’interesse di tutto il popolo, le leggi entro cui il capitalismo deve funzionare e che protegge l’individuo dagli effetti della competizione di mercato tramite le assicurazioni, le pensioni per la vecchiaia, e l’intero imponente edificio delle riforme sociali) che la speranza di pace, di libertà e di prosperità economica per tutti dovrà essere ricercata.
Vorrei terminare perciò con una nota, non di pessimismo ma di speranza. Viviamo in un’epoca difficile, pericolosa e in verità dolorosa. Da un lato ci stanno di fronte grandi disastri; dall’altro lato non siamo lontani da sorprendenti realizzazioni se abbiamo occhi per vedere e coraggio per agire. L’umanità, quale risultato dello scompiglio degli ultimi venticinque anni, ha a portata di mano un progresso più grande di quello del Rinascimento o della Riforma poiché, se riuscirà a superare l’anarchia internazionale tramite il principio federale, potrà aggiungere alla libertà tramandataci da quell’epoca, l’unità, la legge e la pace, senza le quali la libertà non può essere assicurata. E voi, pensatori dell’Edinburgh Philosophical Institution, potete portare il vostro contributo a questa causa se vi impegnate a liberarvi dalle illusioni degli ultimi venti anni, e a riflettere organicamente ancora una volta su quale possa essere il vero fondamento della pace internazionale. In verità, oggi mi sento come Sir Owen Seaman quando scrisse quei memorabili versi allo scoppio della guerra mondiale.
Citazione.[1]
*Il presente saggio è il testo di una conferenza tenuta da Philip H. Kerr, Marquess of Lothian, alla Edinburgh Philosophical Institution, nel marzo del ‘38. Si tratta di un inedito, come risulta dalla corrispondenza intercorsa fra Lothian e il segretario della Edinburgh Philosophical Institution, che si dichiara nell’impossibilità di pubblicare il saggio per mancanza di fondi (Cfr. Archivio di Stato di Edimburgo, Lothian Papers, GD40/17/353/165).
L’intensa attività politica svolta da Lothian in quell’anno, volta a dar vita a Federal Union, il primo movimento federalista organizzato su base popolare, e l’imminente partenza per Washington quale ambasciatore britannico, gli impedirono di interessarsi personalmente della pubblicazione, e lo scritto rimase fra le carte del suo archivio.
Questo saggio, che segue Pacifism is not enough del ‘35 (trad. it. parziale L’anarchia internazionale, in Il Federalismo. Antologia e definizione, a cura di Mario Albertini, Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 167-91) e The demonic influence of national sovereignty del ‘37, precede The ending of Armageddon del ‘39 (trad. it. « La fine di Armageddon », in Comuni d’Europa, dic. 1983). Il motivo per cui Lothian decise di lasciarlo inedito, pur avendo avuto l’incarico, nel maggio del ‘39, da Federal Union di stendere il primo pamphlet del movimento (che sarà, appunto, The ending of Armageddon), non è stato chiarito. Valga qui l’ipotesi che Lothian considerasse National sovereignty and peace un saggio teorico, di ampio respiro filosofico, poco adatto dunque per un momento storico drammatico, in cui si doveva passare dal pensiero all’azione.
The ending of Armageddon contiene appunto un appello accorato, con il quale Lothian si faceva interprete della tesi sostenuta dall’americano Clarence Streit per la creazione immediata di una federazione fra le quindici democrazie (Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Svizzera, Danimarca, Belgio, Olanda, Norvegia, Svezia, Canada, Sud Africa, Nuova Zelanda, Australia, Finlandia e Irlanda) allora esistenti nel mondo.
[1] Manca la citazione (N.d.T.).