Anno LIX, 2017, Numero 3, Pagina 230
Albertini e la demistificazione
dello Stato nazionale e dell’idea di nazione*
FRANCESCO BATTEGAZZORRE
Questo intervento si differenzia da quello che l’ha preceduto, e da quelli che lo seguiranno, nessuno escluso, per un aspetto che val la pena sottolineare. Si tratta infatti di una relazione che non interviene sugli sviluppi della riflessione di Albertini in positivo: sull’elaborazione della dottrina federalista e sulla sua applicazione nella prassi politica. Il tema che mi è stato affidato riguarda invece la riflessione che Albertini conduce sullo Stato nazionale,[1] cioè sulla forma di organizzazione politica la quale, segmentando l’umanità in comunità separate e reciprocamente ostili, costituisce l’ostacolo che si frappone al conseguimento dei fini che egli aveva riconosciuto come validi nel pensiero, e fatto propri nell’azione: il fine prossimo dell’unione federale dell’Europa, e il fine remoto dell’unificazione del genere umano sotto l’ombrello di una federazione democratica mondiale. Chiarire la natura dello Stato e del pensiero nazionale significa dunque, dal suo punto di vista, fare i conti con la propria bête noire, con una realtà associata al segno negativo di un disvalore.
Sarebbe pertanto ingenuo ritenere che Albertini accosti il proprio oggetto senza disporre preventivamente di uno schema mentale già solidamente orientato. L’accozzaglia variegata e confusa di idee, sentimenti, giudizi e pregiudizi che trovano espressione nella nazione e nel nazionalismo manifesta ai suoi occhi, anche a un’analisi superficiale, tutti i caratteri propri del pensiero mitico. Ora, ci sono due modi per provare a sbarazzarsi di un mito. Il primo consiste nell’opporgli un contro-mito di pari o superiore plausibilità ed efficacia; il secondo consiste invece nel sottoporlo al vaglio critico, alla luce della ragione. Per Albertini, intellettuale weberiano, la scelta non può che cadere sulla seconda alternativa: si tratta cioè di radunare il vasto materiale messo a disposizione da secoli di elaborazione delle idee nazionali, di proiettarlo sullo sfondo dei fatti noti, e di giungere — sulla base di una paziente opera di scomposizione e ricomposizione concettuale — a una conclusione soddisfacente di natura integralmente conoscitiva: che cos’è la nazione?
Lo studio sullo Stato nazionale e sul nazionalismo va dunque innanzitutto considerato nella sua componente metodologica: esso si configura come un esercizio sistematico di applicazione del metodo analitico.[2] Albertini è un pensatore profondo e raffinato; lo stile di scrittura che predilige esime il lettore dall’esigenza di andare egli alla ricerca dei presupposti epistemologici e metodologici su cui si regge l’indagine, poiché è l’autore stesso che si premura di segnalarglieli ad ogni passo dell’analisi. Per questo, chiunque abbia preso in mano lo scritto sullo Stato nazionale sa che questo testo esibisce a un livello di sistematicità esemplare quello che si può chiamare il “lavoro sui due tavoli”. La metafora si riferisce alla necessità, per lo studioso, di tenere contemporaneamente sotto controllo non solo la materia — l’oggetto — di cui si sta occupando, ma anche il metodo con cui quell’oggetto viene esaminato; in sostanza, il secondo tavolo consiste nella vigilanza costante esercitata sullo statuto logico e sulla “tenuta” metodologica delle proposizioni che vengono progressivamente avanzate lavorando al primo tavolo. Albertini era convinto che l’immaturità degli strumenti analitici disponibili nelle scienze sociali — scienze deboli — obbligasse lo studioso a farsi carico di questo, diciamo così, supplemento di lavoro. E per parte sua non se lo risparmiò mai, nemmeno negli scritti più militanti.
Questa condizione particolare in cui viene a trovarsi lo studioso dei fatti umani — forse con l’eccezione parziale dell’economia — può essere considerata infelice o felice, a seconda dei punti di vista. Albertini tendeva a reputarla infelice, perché in essa coglieva il riflesso dell’arretratezza del settore della conoscenza in cui aveva scelto di impegnare i suoi talenti, e ne auspicava il superamento. Si può discutere se, a distanza di sessant’anni, le cose siano cambiate, quanto alla capacità di produrre conoscenze affidabili. Qualcosa è invece certamente cambiato: ed è la consapevolezza dello stato precario, sotto il profilo epistemologico e teorico, delle nostre discipline (mi riferisco naturalmente in primo luogo alla mia, alla scienza politica) che sembra largamente venuta meno, e che si riverbera nell’attuale stato di sostanziale anarchia epistemologica e di vuoto teorico, surrogati da un inesauribile dibattito sulle “metodologie” (da intendersi per quello che realmente sono, ossia tecniche di ricerca). Non fosse che per questo, per reinstaurare e coltivare quella consapevolezza, la rilettura o la lettura del libro di Albertini — e in generale di tutti i suoi lavori più teoricamente orientati — è salutare, acquisisce valore in sé, e andrebbe caldamente raccomandata a coloro che si avvicinano al mestiere dello studioso dei fatti sociali.
Detto sinteticamente, e un po’ liberamente, del metodo che Albertini impiega nella sua analisi, possiamo passare alla sostanza. L’obiettivo è dichiarato fin dall’incipit del libro: è trovare la risposta appropriata alla domanda “che cos’è lo Stato nazionale”, e quindi che cos’è la nazione, l’aggettivo che colora di sé il sostantivo e lo qualifica. Nella Premessa che Albertini scrive per la riedizione del libro, nel 1980, il quesito viene posto nella prospettiva di un’esperienza storica collettiva — l’Italia, il fascismo, la guerra — e di un’esperienza individuale — quella dell’autore — che conferisce al problema portata esistenziale. Albertini fa parte di coloro che, come afferma lui stesso, “avevano aperto gli occhi” per tempo, prima che il regime piombasse il paese nel disastro della guerra. Ma la precoce consapevolezza di essere dalla parte sbagliata della barricata, o della storia, va inquadrata nella luce appropriata, se vogliamo comprendere il progetto intellettuale che Albertini concepisce, e la sua esecuzione nelle pagine de Lo Stato nazionale. Il problema è quello dello Stato e del suo sostegno ideologico — il nazionalismo — considerati in rapporto alla loro aderenza al tempo storico. Come ogni forma di organizzazione politica, anche lo Stato moderno è sorto in corrispondenza a determinate ‘pressioni’ ambientali, e a queste ha fornito la sua risposta. Ma le organizzazioni tendono a persistere anche quando sono venuti meno i bisogni che ne hanno stimolato l’insorgenza, e tale persistenza talvolta diventa un freno e un ostacolo sulla strada dello sviluppo storico.
Questa diagnosi si trasforma pertanto in una sfida teorica: si tratta di comprendere una situazione di potere — lo Stato nazionale — e le strutture oggettive e soggettive che la conservano, come premessa per l’individuazione delle condizioni e dei mezzi che possono consentirne il superamento. In questa prospettiva, l’investimento sul progetto federalista,[3] che dalla sfera intellettuale si estende sino all’impegno politico diretto, si presenta come soluzione e punto di approdo di un quesito teorico e, insieme, come espressione del riscatto di un’esperienza esistenziale: riscatto dell’Italia, della patria come luogo della vita e della memoria, non più nazione esclusiva ma libera e indipendente nel raccordo con le altre nazioni, anch’esse libere e indipendenti.
L’obiettivo del libro è dunque espressamente formulato sin dalle prime righe: chiarire ciò che è o appare oscuro, portare sotto il dominio della ragione ciò che l’opinione comune accetta come dato di realtà, senza sottoporlo alla riflessione e alla critica.[4] E qui devo dare per forza un taglio più analitico alla mia esposizione. Nella speranza di non risultare troppo pesante, ho provato a riassumere il modo di procedere di Albertini in un grappolo di proposizioni concatenate, necessariamente astratte perché scandiscono passaggi teorici:
1) la nazione, come entità di cui non si capisce lo statuto, perché la declinazione che ne danno le varie dottrine nazionaliste (in termini di etnia, lingua, cultura, retaggio storico, ecc.) non trova mai una corrispondenza effettiva nei confini in cui si viene storicamente a incarnare, viene riportata a un dato di esperienza, ossia al comportamento nazionale: un’azione effettiva o in potenza (un atteggiamento) che viene riferito o imputato a questa misteriosa entità;
2) per questa ragione, tale comportamento non può essere identificato e spiegato in base solo all’orientamento di senso che lo inquadra in una determinata sfera (economica, religiosa, culturale e via dicendo), giacché quell’orientamento di senso viene “piegato” per dir così nel riferimento alla nazione e in esso assorbito;
3) l’estensione a una molteplicità di soggetti individuali e collettivi di questo riferimento fa sì che una congerie variegata di condotte diverse — diverse non solo perché tenute concretamente da soggetti diversi, ma in quanto aventi contenuti diversi (economico, culturale, ecc.) — venga unificata, apparendo ciascuna come la manifestazione di un singolo orientamento dell’agire: quello appunto nazionale;
4) il collegamento tra una condotta in sé non nazionale e la nazione presuppone che questa entità esista, cioè che essa sia stata pensata come qualcosa di già acquisito o almeno come futuribile, come progetto che aspira a essere realizzato: occorre cioè che sia presente l’idea di nazione;
5) a sua volta l’idea di nazione, cioè la rappresentazione in termini di nazione di uno stato di cose (attuale o potenziale), esige che sia determinabile lo stato di cose che, sia pure in modo oscuro e imperfetto, viene riflesso nell’idea nazionale: e questo stato di cose Albertini lo identifica nell’unificazione e stardardizzazione dei comportamenti intervenute sotto l’egida dello Stato burocratico accentrato;
6) infine, l’idea di nazione, intesa come mera rappresentazione, non è sufficiente ad agire come forza motivante dei comportamenti, se e finché essa non riesce ad attribuire alla nazione lo status di valore — ed eventualmente di valore supremo —, cioè lo status necessario a stimolare adesione, dedizione e anche qualche grado di investimento emotivo: nella misura in cui questa operazione riesce, l’idea di nazione si converte in una vera e propria ideologia.
Non entro nei dettagli di ciascun passaggio, cosa che richiederebbe un dispendio di tempo e soprattutto un abuso della pazienza dell’uditorio che non sarebbe scusabile. Mi servo di questi passaggi esclusivamente per individuare i termini del problema che Albertini deve affrontare, e che si riducono ai rapporti tra i seguenti tre elementi: a) la formazione di un peculiare assetto di potere, cioè l’emergere dello Stato burocratico come forma politica tipica della modernità; b) l’affermarsi dell’idea di nazione quale rappresentazione, ideale, appunto, e quindi descrittivamente inadeguata, ma “realistica” (o non irrealistica) perché incorpora dati che trovano corrispondenza sul piano dei fatti, del nuovo assetto di potere; c) l’infusione di valore che attira sull’idea di nazione gli impegni di lealtà e le disponibilità al sacrificio di individui e gruppi che si trovano ad operare nello spazio “nazionale”.
La messa in luce dei rapporti tra questi tre termini — Stato, idea di nazione, ideologia nazionale — comporta così due passaggi teorici essenziali: il passaggio dal fatto dello Stato alla sua idea o immagine, e poi il passaggio dall’idea all’ideologia.
Quanto al primo, tra lo Stato e la sua rappresentazione in termini di nazione non vi è un rapporto di dipendenza, ma di vera e propria interdipendenza. Certamente, l’affermazione di una forma di organizzazione politica che concentra il potere, scompagina la compartimentalizzazione sociale di tipo cetuale unificando l’universo dei governati in veste prima di sudditi, e poi progressivamente di cittadini, obbedisce a una logica sua propria, innervata da giganteschi sommovimenti sul piano della produzione e distribuzione delle risorse materiali e, sul versante politico, dalla formazione o trasformazione degli apparati specializzati strumentali al dominio. Ma l’interscambio con la sfera culturale resta essenziale, per cui, anche laddove la statualità affiora precocemente, i riflessi sul terreno delle idee non tardano a manifestarsi. Perciò, scrive Albertini, “l’idea di nazione emerge come rappresentazione a metà reale e a metà fantastica di ciò che accade, ma ciò che accade non accadrebbe senza tali rappresentazioni, e le rappresentazioni non sarebbero possibili senza ciò che accade”.[5]
Il primo passaggio, dunque, che adegua per dir così la sfera delle idee correnti al mutare dell’ordine dei fatti, trova il suo compimento con l’affermarsi dell’idea di nazione. Questo passaggio è necessario — senza l’idea di nazione non può sorgere il nazionalismo — ma non è sufficiente. Albertini è un realista politico. Non è minimamente disposto a sottoscrivere la tesi secondo cui il nazionalismo — come realtà operante nelle menti e quindi nelle azioni degli individui — costituisca l’effetto diretto delle formulazioni dottrinarie dei filosofi, dei letterati, degli scrittori di cose politiche, ecc. La nazione — l’idea di nazione — si può creare a tavolino; il nazionalismo — l’ideologia nazionale — no. Scrive ancora Albertini, riferendosi a Rousseau e a Herder e al loro presunto ruolo di attivatori di comportamenti nazionali: “Come potrebbero delle formulazioni esclusivamente ideali trasformare a breve termine la situazione di potere?”.[6]
Dunque, il fatto dello Stato, se e finché si riverbera in una rappresentazione, per quanto trasfigurata e idealizzata, della nuova configurazione del potere, non arriva a far presa sui comportamenti — specialmente a livello di massa — orientandoli in senso nazionale. Perché accada questo occorre il secondo passaggio: occorre cioè che l’idea di nazione si insedi nelle menti in forma di valore — e di valore supremo —: l’assunzione di qualcosa in chiave di valore, infatti, porta con sé l’impegno ad agire perché il valore venga inverato, cioè può svolgere una effettiva funzione motivazionale.
In questo passaggio, dice Albertini, l’idea di nazione subisce una trasformazione: diventa un’ideologia. Per spiegarlo, egli ricorre a due argomenti diversi. Uno riguarda quel che potremmo definire uno spostamento della fonte di propagazione dell’idea: dagli intellettuali si passa ai detentori del potere, che colgono nell’idea la funzionalità ai propri scopi di potere, in termini di giustificazione o di legittimazione. Ma questa linea argomentativa non è sufficiente: e non lo è perché ci dice come l’idea di nazione possa essere predicata come valore da qualcuno che controlla strumenti molto potenti per divulgarla (l’istruzione, la ritualità pubblica ecc.), ma non ci dice quale sia il meccanismo che la rende accettata dal grande pubblico. Il passaggio di mano dagli intellettuali ai potenti porta l’idea fuori dal circolo dei dotti e la proietta sulla comunità intera: ma perché quest’ultima sia portata a crederla e ad agire in modo conforme alla credenza non lo sappiamo ancora. Di qui l’altra strada che Albertini percorre per portare sotto il dominio della teoria il passaggio dalla rappresentazione della nazione al valore della nazione: ed è a questo che serve l’introduzione del concetto di ideologia.
In sintesi, Albertini utilizza questa nozione nel senso in cui l’ha declinata Gustav Bergmann, per il quale il carattere ideologico consiste nella automistificazione in cui si incorre quando i valori in cui si crede vengono scambiati per fatti, per dati di realtà. È un’operazione che coinvolge gli usi appropriati del linguaggio: ci sono asserti che servono a descrivere il mondo, e altri che servono a esprimere giudizi soggettivi che, essendo tali, sfuggono all’applicazione del criterio di verità. L’ideologia usa gli enunciati che nella loro forma logica servono per descrivere i fatti, ma i contenuti veicolati sono invece giudizi di valore. In questo consiste la loro falsità. Dunque, l’impiego di questa versione del concetto di ideologia aiuterebbe a interpretare il passaggio dalla rappresentazione della nazione — l’idea — al valore della nazione — l’ideologia, e alla sua efficacia nel motivare l’azione umana.
La soluzione è ingegnosa, anche se si possono nutrire dubbi sulla sua efficacia. La versione del concetto di ideologia proposta da Bergmann riguarda il passaggio, sul piano linguistico-simbolico, dai giudizi di valore alle asserzioni fattuali, connesso alla tendenza tipicamente umana ad assegnare uno status “oggettivo” alle convinzioni soggettive. Il problema che Albertini ha di fronte è opposto: non è di mostrare il passaggio dai valori ai fatti, ma quello che parte dai fatti — da un certo fatto: la statualità rappresentata nell’idea di nazione — al valore, e in particolare all’insediamento di questo valore in una posizione tale da suscitare la massima lealtà: la nazione esclusiva.
Ma questo limite non intacca più di tanto il significato complessivo dello sforzo di Albertini: se anche la definizione in positivo di che cosa sia la nazione come ideologia esclusiva non sembra giungere a un approdo del tutto convincente, l’opera sistematica di demolizione del mito della nazione — di demistificazione, come si dice nel titolo di questa relazione — è da considerarsi pienamente riuscita.
A testimoniare della raffinatezza dell’indagine e soprattutto della solidità dei suoi risultati c’è la prova regina, quella che conta davvero nella valutazione dei prodotti intellettuali, ed è il riscontro della comunità scientifica. Se si prendono in considerazione gli studi più importanti in tema di nazionalismo usciti dopo, e anche molto dopo, la pubblicazione de Lo Stato nazionale, penso specialmente ai lavori di Benedict Anderson e di John Breuilly,[7] non si può non restare colpiti dalla convergenza delle conclusioni raggiunte in questi studi con quelle avanzate a suo tempo da Mario Albertini. E il fatto che questi lavori non rechino traccia dello scritto di Albertini nelle loro bibliografie, se da una parte suscita l’amarezza di un riconoscimento meritato, dovuto e mancato, dall’altra suona come una ancor più piena valorizzazione del suo lavoro, perché lo colloca nel popperiano terzo mondo della conoscenza oggettiva. Albertini, che ignorava cosa fosse la gloria e la vanagloria accademica, si sarebbe certamente considerato soddisfatto di registrare questa sostanziale concordanza di visioni.
* Si tratta del testo rivisto della relazione presentata al Convegno su “Il federalismo europeo e la politica del XXI secolo: l’attualità del pensiero di Mario Albertini”, Pavia, 16 novembre 2017. In vista della pubblicazione, si è mantenuto lo stile del discorso orale, limitando gli interventi a qualche riferimento bibliografico.
[1] La prima edizione de Lo Stato nazionale venne pubblicata dall’editore Giuffrè di Milano, e reca la data 1960. La seconda edizione, che è quella di cui mi sono servito, è uscita da Guida, Napoli, nel 1980.
[2] Ciò comporta un’avvertenza per il lettore del presente scritto. Il metodo di lavoro di Albertini è tale per cui pretendere di affrontarlo, anche soltanto in chiave puramente descrittiva, prescindendo dall’approccio analitico, significherebbe non soltanto renderne incomprensibili i risultati conseguiti, ma anche banalizzarlo. D’altra parte, l’esposizione analitica diventa presto faticosa per l’uditorio, quando avviene in sede di discorso orale. Si è dunque scelto la via di quello che sembra un accettabile compromesso. Contando sul fatto che il tema di questo contributo è conosciuto, almeno nelle sue linee essenziali, si è cercato di svolgere un intervento che limita al massimo la ricostruzione dei passaggi di un’opera di scavo molto sofisticata qual è quella che Albertini compie nel suo libro. Ma non si è potuto farne a meno del tutto. Per una magistrale ricostruzione e valutazione comparativa della teoria albertiniana della nazione segnalo il saggio di Franco Goio, Teorie della nazione, Quaderni di scienza politica, 1, n. 2 (1994), pp. 181-255, specialmente alle pp. 209-13.
[3] Il federalismo si presenta come la soluzione politico-istituzionale adeguata rispetto all’ideale etico-politico che coniuga il valore della democrazia con quello della pace. Su quest’ultimo tema, sviluppato nell’ottica kantiana della pace perpetua, cfr. specialmente Mario Albertini, Cultura della pace e cultura della guerra, Il Federalista, 26, n. 1 (1984), pp. 10-32.
[4] Una critica che non sottace gli aspetti positivi che l’avvento dello Stato nazionale ha portato con sé: “nell’idea di nazione v’è un contenuto chiaro, un rapporto effettivo con una tappa essenziale della storia: la prima attribuzione dello Stato al popolo, qualcosa che può davvero essere pensato come la prima affermazione della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità”: Lo Stato nazionale, op. cit., p. 13.
[5] Ibid., p. 147.
[6] Ibid., p. 142.
[7] Benedict Anderson, Imagined Communities, London, Verso, 1983; John Breuilly, Nationalism and the State, Manchester, Manchester University Press, 1985.