Anno LVIII, 2016, Numero 1, Pagina 7
Realismo politico, federalismo
e crisi dell’ordine mondiale*
SERGIO PISTONE
Il sistema internazionale in cui viviamo si trova in una situazione estremamente critica che si manifesta nella presenza di sfide esistenziali sul piano della sicurezza, sul piano economico-sociale e su quello ecologico. La questione della costruzione di un ordine internazionale più progressivo è il quadro in cui deve essere visto il problema della piena federalizzazione dell’Unione europea, la cui sollecita realizzazione è all’ordine del giorno. La federazione europea costituisce infatti la colonna portante del processo costruttivo di un ordine internazionale più progressivo.
Obiettivo di questa relazione è proprio quello di ricordare il paradigma teorico sulla base del quale il Movimento federalista si sforza di comprendere la realtà dei rapporti internazionali e quindi di stabilire il suo orientamento pratico nei confronti di tale realtà. A questo proposito un aspetto fondamentale della concezione del federalismo propria del MFE è costituito dal suo legame con la teoria politica realista, in particolare per quanto riguarda la sua visione delle relazioni internazionali;[1] anche se è necessario chiarire subito il fatto che il paradigma federalista parte dal realismo, ma per superarlo.
Il paradigma realista.
L’assunto fondamentale del paradigma realista si basa sulla tesi della differenza strutturale fra le relazioni interne agli Stati e le relazioni internazionali, che rimanda alla dicotomia sovranità-anarchia internazionale. Nel primo caso abbiamo, nella misura in cui si è affermato lo Stato sovrano, fondato cioè sul monopolio della violenza legittima nelle mani dell’autorità statale, relazioni regolate su basi giuridiche: lo Stato instaura la pace al proprio interno imponendo il diritto come strumento regolatore dei rapporti interni, permettendo di regolare i conflitti senza il ricorso alla forza e rendendo quest’ultimo strutturalmente impossibile. Va, ovviamente, precisato che questa situazione è compromessa nei casi di rivoluzioni violente, di guerre civili, di Stati falliti e di Stati mai nati (società tribali). In questi casi si ritorna (o si rimane) allo stato di guerra di tutti contro tutti proprio delle relazioni internazionali.
Occorre aggiungere che, instaurando il monopolio della forza legittima, lo Stato moderno ha creato anche le condizioni per una grande opera di incivilimento della popolazione, attraverso un lungo processo che in parte è ancora in corso. Gli aspetti fondamentali di tale processo sono il progresso morale, connesso con l’educazione alla rinuncia alla violenza privata nella tutela dei propri interessi (e quindi con la progressiva interiorizzazione di tale principio), e il progresso economico-sociale reso possibile dalla certezza del diritto. In questo quadro sono state possibili le grandi trasformazioni dello Stato promosse dalle ideologie emancipatrici che hanno il loro fondamento nell’Illuminismo, ossia il liberalismo, la democrazia e il socialismo. A questo riguardo va sottolineato che la funzione pacificatrice dello Stato, se ha il suo fondamento basilare nel monopolio della forza legittima, è stata d’altra parte consolidata nel mondo occidentale dall’integrazione progressiva di questa funzione strutturale con lo Stato di diritto e la separazione dei poteri (liberalismo), con il suffragio universale (democrazia) e con la solidarietà sociale strutturale o Stato sociale (socialismo).
Queste conquiste politiche e sociali (rispetto alle quali, storicamente, negli Stati occidentali si è realizzata una sintesi) tendono ad evitare che lo Stato venga percepito come un potere che persegue l’interesse di una parte della società invece che l’interesse generale, il che favorisce il consenso e frena le tendenze al ricorso alla violenza.
Nel caso, invece, delle relazioni internazionali, l’assunto fondamentale del paradigma realista è che esse, al contrario delle relazioni interne agli Stati, sono regolate sulla base dei rapporti di forza fra le parti; l’elemento strutturale è rappresentato, infatti, non dalla sovranità, ma dalla anarchia internazionale. Concretamente, l’anarchia internazionale significa la mancanza di un governo, vale a dire di una autorità suprema in possesso del monopolio della violenza legittima e, quindi, capace di imporre un ordinamento giuridico valido ed efficace. Poiché manca nella società degli Stati la condizione indispensabile per imporre efficacemente le norme necessarie alla pacifica convivenza degli Stati e alla regolamentazione pacifica, cioè giuridica, delle controversie internazionali, il criterio ultimo della loro soluzione non può che essere la prova di forza fra le parti che il diritto internazionale non può far altro che sanzionare. La guerra è pertanto sempre all’ordine del giorno ed è presente anche nei momenti di pace (Kant li definisce più propriamente tregue fra una guerra e l’altra e Raymond Aron dice sostanzialmente la stessa cosa osservando che i rapporti fra gli Stati si svolgono sempre all’ombra della guerra) perché in questi momenti gli Stati devono tener conto della possibilità permanente della guerra e prepararsi per questa eventualità. In questa situazione ogni Stato (anche il più piccolo) è costretto ad attuare una “politica di potenza”, la quale non significa in senso rigoroso una politica estera particolarmente violenta e aggressiva, bensì una politica che tiene conto della possibilità permanente delle prove di forza (sia dell’uso che della semplice minaccia) e che di conseguenza appresta e usa nei casi estremi i mezzi di potenza indispensabili (armamenti, alleanze, ricerca della protezione da parte delle maggiori potenze, occupazione di vuoti di potere prima che altri lo facciano), o ricorre all’astuzia e alla frode. Nel contesto dell’anarchia internazionale si afferma il primato della sicurezza esterna rispetto ad ogni altro valore, il che, concretamente, ha implicazioni autoritarie e centralistiche che variano a seconda della posizione dello Stato nel sistema internazionale. Come ha affermato John Robert Seeley, “la libertà interna di uno Stato è inversamente proporzionale alla pressione su di esso esercitata dall’esterno”.[2]
La tesi relativa alla differenza strutturale fra le relazioni interne agli Stati e le relazioni internazionali, che rimanda alla dicotomia sovranità statale-anarchia internazionale, è integrata da un fondamentale chiarimento. Essa non significa ritenere che la realtà internazionale sia semplicemente caotica, dominata dallo scontro continuo, irrazionale e imprevedibile fra gli Stati e, quindi, che sia una situazione caratterizzata dall’assenza di qualsiasi ordine. In realtà il paradigma realista mette in luce l’esistenza nel contesto internazionale di ulteriori elementi strutturali, al di là di quello fondamentale costituito dall’anarchia internazionale, che rendono meno caotica e quindi relativamente più prevedibile nei suoi concreti sviluppi la situazione internazionale.
Il primo fondamentale elemento strutturale che introduce nel quadro dell’anarchia internazionale un fattore molto generale di ordine è l’esistenza di una gerarchia fra gli Stati che discrimina le grandi potenze, cioè gli Stati capaci realmente di tutelare in modo autonomo (cioè con la propria forza) la propria sicurezza e i propri interessi, dalle medie e piccole potenze, le quali devono invece ricercare la protezione di una delle grandi potenze o l’accettazione concorde da parte di queste della loro neutralità. Questa situazione comporta automaticamente che le decisioni fondamentali da cui dipende l’evoluzione del sistema internazionale siano prese dalle grandi potenze e, quindi, da un numero molto limitato di Stati sovrani. Questi esercitano in sostanza il governo del mondo, ovviamente sulla base di un compromesso tra i loro interessi nazionali più o meno lungimiranti e più o meno condivisi e condivisibili da parte dei loro alleati. Nel sistema europeo degli Stati le grandi potenze furono normalmente 5 o 6 (sistema pluripolare), mentre il sistema mondiale emerso a conclusione delle guerre mondiali è stato dominato fino alla fine del conflitto Est-Ovest dalle superpotenze USA e URSS (sistema bipolare). Oggi, in conseguenza del declino della potenza degli USA e dell’ascesa – peraltro ancora problematica – dei BRICS, ci troviamo in una situazione di transizione verso un incerto pluripolarismo.
Un secondo fondamentale elemento strutturale nel quadro dell’anarchia internazionale è l’equilibrio, cioè una situazione che non ha impedito i rapporti e gli scontri di forza, ma li ha limitati e soprattutto ha reso possibile il mantenimento dell’autonomia delle grandi potenze e quindi un sistema pluralistico di Stati sovrani, il quale ha tra l’altro anche permesso di garantire una limitata autonomia alle medie e piccole potenze. Il discorso sull’equilibrio delle potenze va completato con le considerazioni dei realisti sui cambiamenti epocali introdotti dalle armi di distruzione di massa (soprattutto quelle atomiche e nucleari). Questi cambiamenti hanno portato all’affermarsi del sistema della deterrenza, detto anche equilibrio del terrore, cioè ad una situazione in cui una guerra generale fra le grandi potenze è diventata inconcepibile (perché porterebbe all’autodistruzione del pianeta). Questa situazione radicalmente nuova non ha eliminato i rapporti di forza fra gli Stati e le guerre limitate (o per interposta persona), o locali (o civili), ma ha indotto a spostare l’accento, nelle politiche di sicurezza, dalla difesa al controllo degli armamenti e alla prevenzione della guerra.
Sempre nel contesto del discorso sui fattori che limitano le implicazioni violente dell’anarchia internazionale viene anche richiamata l’attenzione sul fatto che, a differenza degli Stati con regimi autoritari o totalitari, quelli con regimi liberaldemocratici, con effettiva separazione dei poteri e consistente decentramento del potere, hanno più difficoltà ad attuare una politica estera bellicosa, in quanto l’equilibrio fra i poteri dello Stato ostacola la rapidità di decisione e di intervento sul piano internazionale. Il che non comporta l’esistenza di un nesso automatico fra l’affermarsi della democrazia all’interno e il superamento dei rapporti di forza fra gli Stati, come ritiene l’internazionalismo democratico.[3]
Va infine ricordato che secondo il paradigma realista la gerarchia fra gli Stati e l’equilibrio delle potenze sono le condizioni fattuali che hanno indotto gli Stati a riconoscersi reciprocamente anche in modo formale come Stati sovrani e che ha reso possibile l’affermarsi e il progressivo estendersi del diritto internazionale, garantendone una certa efficacia nonostante che esso non promani da un potere sovrano. Data l’impossibilità fattuale di eliminare la sovranità degli altri Stati, gli attori fondamentali del sistema internazionale hanno dovuto riconoscere la necessità della reciproca convivenza. Pur non rinunciando alla politica di potenza e alla guerra come extrema ratio, si sono acconciati a regolare in qualche modo i rapporti reciproci dando vita ad un diritto sui generis, nel senso che legittima l’uso normale della violenza ed è subordinato ai rapporti di forza e gerarchici fra gli Stati. In questo quadro si sono formate delle strutture dell’organizzazione internazionale (l’ONU è l’esempio fondamentale) che dopo la seconda guerra mondiale, in connessione con la crescente distruttività della guerra e con l’aumento dell’interdipendenza economico-sociale ed ecologica (con i connessi rischi globali) fra tutti gli Stati del mondo, hanno avuto uno sviluppo incomparabile rispetto alle epoche precedenti e sono state accompagnate anche dal progressivo emergere di un grandissimo numero di organizzazioni internazionali non governative.
Il paradigma federalista.
La teoria federalista[4] è caratterizzata da una ampia convergenza con la teoria realista per quanto riguarda il suo contenuto conoscitivo. Va sottolineato che l’aspetto fondamentale di questa convergenza riguarda la tesi della statualità come base insostituibile della pacificazione della società e del suo progresso e, conseguentemente, della assenza di statualità a livello internazionale come causa strutturale dell’anarchia internazionale e dei rapporti di forza che dominano le relazioni internazionali. Allo stesso tempo il paradigma federalista si distingue nettamente dal paradigma realista sul piano valutativo, il che comporta anche una rilevante differenziazione sul piano conoscitivo. Il valore-guida dei realisti è la sicurezza e quindi la potenza del proprio Stato, dal momento che essi ritengono inconcepibile il superamento dell’anarchia internazionale. In sostanza essi tendono a vedere nella pluralità degli Stati sovrani non una fase dello sviluppo storico, ma un punto di arrivo insuperabile. Il che riflette un pregiudizio ideologico di tipo nazionalistico che induce a vedere nella pluralità degli Stati sovrani e, quindi, nella strutturale conflittualità che ne deriva, un fattore insostituibile di progresso. Per contro il valore guida dei federalisti è la pace e, quindi, la convinzione che lo Stato nazionale sia una tappa del processo di evoluzione storica dello Stato, e che pertanto la prospettiva della nascita di uno Stato federale mondiale sia realistica, anche se ancora non matura. Inoltre, per i federalisti, nella fase storica avviatasi con l’attuale crescente interdipendenza economica fra gli Stati, legata alla rivoluzione industriale avanzata, e a quella scientifica e tecnologica, l’impegno a favore del progresso dell’umanità sia diventato indissociabile dall’impegno a favore del superamento della violenza nelle relazioni internazionali. Alla base di questo orientamento ci sono le illuminanti riflessioni sulla pace sviluppate da Kant che occorre qui brevemente puntualizzare.[5]
Anzitutto Kant, partendo da una visione realistica dei rapporti internazionali e quindi dalla dicotomia statualità-anarchia internazionale, ha chiarito in modo rigoroso che la pace è l’organizzazione di potere che supera l’anarchia internazionale trasformando i rapporti di forza fra gli Stati in rapporti giuridici veri e propri, rendendo quindi strutturalmente impossibile la guerra attraverso l’estensione della statualità (tramite il sistema federale) su scala universale. In secondo luogo Kant ha stabilito un legame organico fra il superamento dell’anarchia internazionale e la piena attuazione all’interno degli Stati del regime liberal-democratico (il quale ha come indispensabile complemento, anche se Kant non ne parla, l’istituzionalizzazione della solidarietà sociale). Da una parte, l’esistenza dei rapporti di forza fra gli Stati, che implica il primato della sicurezza esterna, è un ostacolo alla piena realizzazione del sistema liberaldemocratico; dall’altra parte, il progresso (pur ostacolato dall’anarchia internazionale) in direzione liberaldemocratica introduce una spinta strutturale verso l’eliminazione della guerra, le cui conseguenze negative ricadono soprattutto sui cittadini.
Queste tesi, va ricordato, si inquadrano in una riflessione più ampia di Kant che ravvisa nella pace la condizione necessaria per permettere il pieno sviluppo delle facoltà morali e razionali dell’uomo. Finché sussiste il sistema internazionale fondato sulla guerra, la necessità oggettiva per tutti gli individui di adattare la propria condotta a una struttura sociale modellata sui bisogni autoritari e bellicosi dello Stato e la loro coscienza all’etica del combattimento, che tale struttura produce, determina uno sviluppo limitato e unilaterale delle loro capacità creative e ostacola il loro progresso morale. Una volta creata invece una struttura di potere in grado di incanalare entro gli argini del diritto tutti i comportamenti sociali, verrebbe meno la legittimazione della violenza dell’uomo nei confronti dei suoi simili derivante dalla guerra. In questa situazione gli uomini potrebbero realizzare pienamente la loro natura razionale e la loro condotta potrebbe conformarsi interamente al principio dell’autonomia del volere. Si porrebbero cioè le premesse di una trasformazione radicale dei rapporti fra l’individuo e la società; si aprirebbe in sostanza la strada al raggiungimento di una condizione nella quale sarà possibile trattare gli uomini sempre come fini e mai come mezzi in tutte le relazioni sociali.
Il progetto della pace perpetua elaborato da Kant alla fine del Settecento – va precisato – non può essere considerato una semplice espressione del pensiero utopistico, in quanto è fondato sulla chiara consapevolezza che la sua realizzazione richiederà una lunghissima maturazione da parte dell’umanità. Questa ha però delle reali possibilità di svilupparsi. Da una parte, c’è l’esperienza storica che ha visto il superamento dell’anarchia all’interno degli Stati attraverso la creazione di una autorità statuale capace di imporre il rispetto del diritto interno. La realtà di questo progresso storico impedisce di escludere a priori – e qui emerge il superamento kantiano del pessimismo antropologico di Hobbes – che si produca un ulteriore progresso in grado di condurre al superamento dell’anarchia internazionale. Dall’altra parte, un simile progresso sarà favorito – e qui emerge una eccezionale capacità di antivedere le grandi sfide che nel Novecento saranno alla base dell’avvio dell’integrazione sopranazionale – dalla spinta combinata di due potenti forze storiche. Una è rappresentata dallo sviluppo del commercio, che renderà l’umanità sempre più interdipendente e in tal modo moltiplicherà le occasioni di conflitto, ma porrà allo stesso tempo sempre più fortemente l’esigenza di apprestare gli strumenti della soluzione pacifica dei conflitti (per non compromettere i vantaggi connessi con l’interdipendenza), cioè di realizzare l’allargamento della statualità. L’altra è individuata nella crescente distruttività delle guerre indotta dal progresso scientifico e tecnico, la quale richiederà in modo imperativo di affrontare concretamente la necessità di superare il sistema della guerra per sfuggire a un destino di autodistruzione collettiva.[6]
Chiarito che il paradigma federalista si distacca da quello realista sul terreno valutativo, riconoscendo – sulla base degli insegnamenti di Kant – come valore supremo la pace, va ora sottolineato che il superamento del paradigma realista si manifesta altresì nel discorso sull’attualità storica della lotta per la pace. Alla base di questo discorso c’è fondamentalmente una percezione piena delle conseguenze sull’evoluzione degli Stati e delle relazioni fra essi, dei cambiamenti epocali indotti dalla rivoluzione industriale avanzata, che si è poi sviluppata in rivoluzione tecnico-scientifica. I realisti colgono i fenomeni di importanza cruciale costituiti dalla crescente interdipendenza economica fra gli Stati (che si è poi sviluppata nel fenomeno della globalizzazione), dall’avvento delle armi di distruzione di massa, dall’interdipendenza ecologica e dalla crisi degli equilibri ecologici globali. Ma, poiché il loro orientamento valutativo li induce a concepire come insuperabile la pluralità degli Stati sovrani, non riescono a percepire che questi sviluppi hanno introdotto nel sistema delle relazioni internazionali un fattore nuovo di enorme portata: la crisi storica del sistema degli Stati sovrani (detto anche sistema westfaliano con riferimento alla pace che ha concluso nel 1648 la guerra dei Trent’anni e rappresentato un momento fondamentale della statuizione del principio della sovranità statale assoluta); una situazione che rende non solo imperativo sul piano etico, ma anche fondato su basi politiche reali l’impegno a favore del superamento dell’anarchia internazionale.
Questo aspetto del paradigma federalista si fonda sulla rielaborazione da parte di Mario Albertini degli insegnamenti fondamentali proposti dalla teoria del materialismo storico,[7] dalla quale i federalisti hanno recepito la tesi secondo cui l’evoluzione del modo di produrre – cioè il processo attraverso il quale gli esseri umani trasformano continuamente la qualità della loro vita attraverso l’innovazione tecnologica, la creazione di nuovi modi di strutturare la divisione del lavoro, la conseguente organizzazione della società e i relativi processi culturali – condiziona lo sviluppo potenziale dello Stato, in senso istituzionale e anche territoriale. Grazie a questo paradigma, hanno saputo vedere che, come il passaggio dal modo di produzione agricolo a quello industriale (che ha tratto una potente spinta dallo sviluppo dei commerci fra la fine del Medio Evo e i primi due secoli dell’Età Moderna) ha reso possibile l’affermarsi dello Stato sovrano moderno e, quindi, creato le condizioni per le sue possibili trasformazioni interne in direzione del liberalismo, della democrazia e dello stato sociale, così l’avanzamento della rivoluzione industriale e l’avvio verso la rivoluzione tecnico-scientifica hanno mutato la base economico-sociale degli Stati e fatto diventare centrale il problema della dimensione territoriale. Il processo è stato immediatamente visibile in Europa, ma ormai è esteso al mondo. In una società globale uno Stato sovrano pur grande come gli USA ha un controllo molto minore della realtà rispetto alle potenze del passato.
Ciò ricordato, il discorso relativo a questa problematica può essere riassunto riportando schematicamente tre argomentazioni cruciali.
La prima argomentazione riguarda la portata dell’interdipendenza economica che si è venuta sviluppando con l’avanzamento della rivoluzione industriale e postindustriale. Essa ha fatto emergere l’esigenza di creare Stati di dimensioni continentali per evitare la decadenza economico-sociale e quindi l’arresto del progresso politico-democratico. Nello stesso tempo ha avviato un processo che tende, in prospettiva, a rendere obsoleti anche gli Stati di dimensioni continentali e a porre di conseguenza all’ordine del giorno, per non bloccare il progresso, il progetto dell’unificazione politica dell’intera umanità. La presa di coscienza delle implicazioni politiche dell’interdipendenza economica è la chiave indispensabile per capire gli sviluppi fondamentali del XX secolo: dapprima la decadenza degli Stati nazionali europei, che ha prodotto i tentativi di costruire attraverso una soluzione egemonico-imperiale uno Stato europeo di dimensioni continentali e, in connessione con questi tentativi, sviluppi in direzione autoritaria e totalitaria (accompagnati da crimini spaventosi); quindi il crollo della potenza degli Stati nazionali europei, assorbita nel sistema mondiale USA-URSS, che ha aperto la strada allo smantellamento degli imperi coloniali europei e soprattutto al processo di unificazione europea su base pacifica e democratica, cambiando radicalmente la situazione dell’Europa nel senso dello sviluppo economico-sociale, del progresso democratico e della pacificazione e stimolando processi analoghi, ancorché assai meno profondi, in altre aree del mondo (le integrazioni regionali); infine la formazione, accelerata dopo la fine della guerra fredda, di un sistema economico mondiale (la globalizzazione) sempre più integrato, dominato – anche se con un trend decrescente – dagli USA e caratterizzato sia da aspetti di forte crescita economica sia da ricorrenti, e sempre più gravi, crisi economico-finanziarie accompagnate dal persistere di gravi squilibri sociali e territoriali (con i connessi fenomeni di distruttiva instabilità di intere aree regionali e di emigrazioni di dimensioni “bibliche”). Va, a quest’ultimo proposito, osservato che l’interdipendenza economica mondiale ha stimolato la formazione di organizzazioni economiche internazionali (FMI, Banca mondiale, GATT-WTO, OCSE, ILO, FAO, G7, G8 G20) che non hanno prodotto un livello di integrazione avanzato come quello europeo, ma che segnalano il problema della necessità di creare un ordine cooperativo a livello mondiale e che quindi rendono il progetto dell’unificazione mondiale una prospettiva non più utopica, per quanto lontana.
La seconda argomentazione individua come fattore della crisi storica del sistema degli Stati sovrani l’emergere delle sfide non solo al progresso ma addirittura alla stessa sopravvivenza dell’umanità derivanti dallo sviluppo delle armi di distruzione di massa e dal degrado degli equilibri ecologici globali. Se la distruttività delle guerre mondiali, insieme alla decadenza economica, ha fatto nascere per gli Stati europei l’alternativa “unirsi o perire”[8] che è alla base dell’integrazione europea, lo sviluppo delle armi di distruzione di massa ha avviato la mondializzazione di questa alternativa ponendo quindi all'ordine del giorno il problema del superamento della guerra come strumento per risolvere i conflitti fra gli Stati, dal momento che una guerra generale implicante l’impiego su larga scala delle armi di distruzione di massa significherebbe non la continuazione della politica con altri mezzi, bensì la fine della politica come conseguenza di un suicidio collettivo. E va qui sottolineato che è assai poco realistico pensare che l’inconcepibilità di una guerra generale fra le grandi potenze costituisca un rimedio duraturo contro il rischio dell’olocausto nucleare. Non solo non c’è una garanzia assoluta che la deterrenza non fallisca, ma l’inevitabile proliferazione delle armi di distruzione di massa è anche destinata – in un contesto caratterizzato dalla cronica instabilità del mondo arretrato – a metterle in mano di Stati privi di meccanismi democratici e guidati da classi dirigenti estremiste e fanatiche o addirittura di gruppi terroristici che non hanno un territorio in grado di fungere da ostaggio della deterrenza. In realtà la deterrenza e le stesse politiche di sicurezza dirette al controllo e alla riduzione degli armamenti e a bloccare la proliferazione delle armi di distruzione di massa non possono che avere un valore provvisorio e rappresentare il contesto in cui si deve, se si vuole essere davvero realisti, perseguire il disegno difficilissimo e a lunghissimo termine, ma privo di valide alternative, dell’eliminazione strutturale della guerra con la costruzione della statualità democratica mondiale. Analogo discorso si deve fare per quanto riguarda il pericolo dell’olocausto ecologico. La cooperazione internazionale non può essere considerata altro che un rimedio transitorio che deve trovare il suo coerente sviluppo nella costruzione progressiva della statualità mondiale.
La terza argomentazione riguarda infine in modo specifico i fattori oggettivi che, nel contesto storico caratterizzato dall’interdipendenza economica e dalle sfide esistenziali che abbiamo or ora visto, hanno permesso che l’impegno federalista per la pace diventasse politicamente operativo. Fondamentalmente, la crisi storica strutturale del sistema degli Stati sovrani ha prodotto una crisi di legittimità, che investe tutte le istituzioni e che alimenta sia l’aspirazione diffusa allo sviluppo della cooperazione al di là delle frontiere statali (un aspetto molto significativo è lo straordinario moltiplicarsi delle organizzazioni sopranazionali non governative) e al connesso superamento della sovranità assoluta; sia la crescita del populismo, che è direttamente legata allo svuotamento di potere delle istituzioni esistenti e all’assenza di alternative efficaci sovranazionali, che creano un vuoto che il populismo tende ad occupare. In questo quadro, i federalisti hanno identificato una duplice strategia: da un lato il perseguimento delle integrazioni regionali (a partire dall’Europa, che è caratterizzata dalla situazione particolarmente avanzata della crisi degli Stati sovrani e che costituisce il laboratorio per lo sviluppo dei processi di unificazione nelle altre aree del mondo); in questa prospettiva vanno inquadrati anche la stabilizzazione e il progresso economico-sociale e politico-democratico delle aree regionali arretrate. E’ evidente infatti che le unificazioni regionali dovranno costituire, assieme agli Stati che già hanno una dimensione continentale o subcontinentale, i pilastri fondamentali di una futura funzionale federazione mondiale, che non potrà certo essere costituita da centinaia di Stati e staterelli. Dall’altro lato, si tratta di portare avanti nello stesso tempo il rafforzamento in una prospettiva federale dell’organizzazione internazionale globale, in modo da poter cominciare a dare una efficace risposta alle sfide globali.[9] Un aspetto cruciale del disegno che orienta l’impegno federalista per la pace è la convinzione che il completamento federale del processo di unificazione europea ha un’importanza strategica determinante in quanto modello e fattore trainante.
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Se l’impegno federalista per la pace è diventato politicamente operativo, bisogna al tempo stesso prendere atto del fatto che esso si scontra con ostacoli formidabili, il più importante dei quali è costituito dal fatto che se, da una parte, la situazione storica di crisi degli Stati sovrani spinge i governi nazionali a politiche di cooperazione sopranazionale e, nei casi più avanzati, di integrazione sopranazionale, dall’altra parte, essi manifestano una resistenza strutturale alla limitazione della sovranità. Questo atteggiamento ha il suo fondamento nella legge, già chiarita da Machiavelli, dell’autoconservazione del potere e rimanda alla necessità che la lotta federalista per la pace si fondi sull’esistenza di movimenti autonomi dai governi e dai partiti nazionali.[10] A questo, che è l’ostacolo fondamentale, si aggiunge l’opposizione dei movimenti nazionalpopulisti che si sono affermati nei paesi democratici in una situazione di crisi strutturale della politica democratica dovuta in ultima analisi al fatto che gli Stati non sono più adeguati per affrontare i problemi di fondo (che hanno dimensioni sopranazionali), ma in cui è in forte ritardo il processo di costruzione di una statualità sopranazionale efficace e democratica.[11] Va detto che la lentezza esasperante di questo processo è anche legata alla oggettiva difficoltà di costruire una nuova forma di statualità post-nazionale che non ha precedenti nella storia e che deve avere come guida un federalismo innovativo rispetto a quello proprio delle federazioni esistenti.
La crisi dell’ordine mondiale.
Il paradigma federalista, che ho cercato di chiarire nei suoi aspetti essenziali (sottolineando in particolare il rapporto di convergenza e di superamento rispetto al paradigma realista) ci indica la strada da percorrere per affrontare in modo adeguato l’attuale situazione estremamente critica dell’ordine internazionale. Va anzitutto stabilito in cosa consiste questa crisi. Fondamentalmente essa è caratterizzata dall’esistenza di un insieme di sfide che nel loro effetto combinato configurano una minaccia esistenziale per l’umanità. La situazione può essere riassunta in tre punti.
C’è una sfida sul terreno della sicurezza che si articola nei seguenti aspetti: una ripresa (dopo l’attenuazione in coincidenza della fine della guerra fredda) della corsa agli armamenti, in particolare (ma non solo) fra le grandi potenze, accompagnata da una proliferazione delle armi di distruzione di massa che non si riesce a invertire in modo sostanziale; il dilagare delle guerre (soprattutto civili, ma anche internazionali) connesse con l’arretratezza e instabilità cronica di intere regioni (in particolare il Medio Oriente e l’Africa) e con il fenomeno degli Stati falliti; il terrorismo internazionale, che nel cosiddetto Stato islamico trova un decisivo fattore propulsivo.
Esiste un forte nesso fra questa situazione di disordine generalizzato e estremamente pericoloso e la fine del sistema bipolare cui ha fatto seguito la transizione verso un sistema pluripolare in cui mancano potenze in grado di esercitare una leadership stabilizzatrice. Il sistema bipolare garantiva una relativa stabilità dal momento che si fondava su un’egemonia delle due superpotenze sulla maggior parte del mondo, la quale era anche integrata da una forte componente ideologica nella forma di un conflitto universale fra democrazia e comunismo. Questa situazione comportava una limitazione della conflittualità etnica, religiosa e tribale, la quale per contro si è scatenata, assieme al terrorismo internazionale, con la fine degli “imperi ideologici”, mettendo in grave pericolo la sicurezza del mondo. Al tempo stesso, la fine del sistema bipolare (e del connesso conflitto ideologico globale) ha un legame oggettivo con i cambiamenti epocali dovuti al progresso dell’interdipendenza economica e dei costi degli armamenti. In effetti l’implosione del blocco sovietico ha un’evidente connessione, oltre che con il peso della corsa agli armamenti, con lo sviluppo dell’interdipendenza economica, che ha reso viepiù insostenibile, man mano che le informazioni circolavano, l’arretratezza economica derivante dalla chiusura autarchica. E anche gli USA, il secondo pilastro del sistema bipolare, dopo una apparente fase unipolare sono stati caratterizzati da un decisivo arretramento del loro potere mondiale, come dimostra anche la situazione di caos in cui si trovano le regioni situate ai confini orientali e meridionali dell’Europa.
Alla sfida sul piano della sicurezza si aggiunge quella sul terreno economico-sociale che è costituita dalla ormai cronica crisi economico-finanziaria globale accompagnata da crescenti tensioni sociali in tutte le zone del mondo. Ad essa si aggiunge il fatto che i divari territoriali si approfondiscono e – assieme alle situazioni di cronica instabilità e agli squilibri ecologici – producono i fenomeni di emigrazione di massa, che stanno tra l’altro mettendo in una crisi gravissima l’integrazione europea. Il terzo elemento da sommare è il disordine monetario che, con il diffondersi delle svalutazioni competitive, produce un arretramento dell’integrazione del mercato mondiale. Su questo terreno, il fattore fondamentale è rappresentato dalla globalizzazione non governata. Si è creato un sistema economico mondiale fortemente integrato che ha prodotto un grandioso progresso (miliardi di persone stanno evolvendo verso standard di vita di tipo occidentale – si pensi in particolare alla Cina e all’India), ma che è caratterizzato anche dalle sopraddette gravissime contraddizioni. In sostanza l’economia e la società stanno assumendo dimensioni sopranazionali globali mentre le istituzioni politiche hanno ancora dimensioni prevalentemente nazionali, data l’incompletezza dell’integrazione europea e la grave debolezza delle organizzazioni economiche globali.
La terza sfida, la più grave delle tre, è quella sul piano ecologico, ed è rappresentata dal riscaldamento climatico che, in mancanza di scelte rapide e radicali in direzione di un modo di produrre e di vivere ecologicamente sostenibile, apre prospettive catastrofiche per l’umanità. Anche qui il problema cruciale è chiaramente l’interdipendenza non governata.
Ciò detto, credo si debba riconoscere che c’è solo una risposta adeguata alla crisi dell’ordine internazionale che si manifesta con questo insieme di sfide esistenziali: quella della costruzione di un nuovo ordine internazionale che costituisca un sostanziale progresso in direzione dell’unificazione mondiale – progetto che è estremamente arduo, ma che la inaudita gravità delle minacce con cui si confronta l’umanità rende perseguibile. Concretamente, in termini molto generali e sintetici si tratta di imboccare, sul terreno della sicurezza in senso stretto (ma che è strettamente collegata alla sicurezza economico-sociale ed a quella ecologica) la via maestra della costruzione di un accordo organico fra gli attori politici di dimensioni continentali o subcontinentali. Si tratta in sostanza di passare dall’attuale pluripolarismo conflittuale, che sta facendo seguito alla fine del bipolarismo e al declino dell’egemonia americana, ad un sistema pluripolare strutturalmente cooperativo. Questa evoluzione dovrebbe avere come fondamentale base di partenza la realizzazione del disegno, immaginato da Gorbaciov nella seconda metà degli anni Ottanta, della Casa comune europea,[12] cioè una organizzazione internazionale di cooperazione e di graduale integrazione fra America, Russia ed Europa, di cui l’OSCE è solo un’ embrionale prefigurazione. Questo sistema dovrebbe essere esteso agli altri attori globali. La cornice istituzionale più generale in cui si dovrebbe inserire il pluripolarismo cooperativo dovrebbe essere un decisivo rafforzamento dell’ONU, implicante una riforma su base regionale e in direzione democratica. Il suo organo direttivo fondamentale dovrebbe essere un Consiglio di sicurezza in cui siedano e decidano gradualmente a maggioranza non i vincitori della seconda guerra mondiale (forniti per di più del diritto di veto), bensì i raggruppamenti regionali di Stati (man mano che si stabilizzino e si consolidino) accanto agli attori che hanno già raggiunto una dimensione macroregionale, in modo che tutti gli Stati siano coinvolti, attraverso le loro unioni regionali, nel governo del mondo. Al Consiglio di sicurezza si dovrebbe affiancare un’assemblea parlamentare universale (che in una prima fase dovrebbe essere espressa dai parlamenti delle unioni regionali), in modo da coinvolgere tutti i popoli nel governo del mondo.
Solo sulla base di questo difficilissimo – ma necessario – sviluppo, sarà possibile affrontare seriamente le sfide ricordate per rilanciare sia la politica di controllo degli armamenti e di disarmo che era stata avviata nella fase finale della guerra fredda (una politica che deve comprendere la progressiva eliminazione delle armi di distruzione di massa che dovranno essere poste sotto il controllo di una ONU rafforzata e democratizzata nel senso sopraindicato); sia un grande piano di stabilizzazione e pacificazione del Medio Oriente e dell’Africa (che, al di là della distruzione del cosiddetto Stato islamico, deve perseguire, attraverso il superamento degli Stati falliti e dei conflitti etnico-religiosi, e i processi di integrazione regionale, l’estirpazione delle radici che producono l’arretratezza, le guerre endemiche e il terrorismo[13]); sia la guerra contro il terrorismo internazionale (che implica una organica e approfondita collaborazione sul piano militare e soprattutto su quello della polizia e dell’intelligence); sia la graduale, ma effettiva, costruzione di una polizia internazionale sotto l’autorità dell’ONU.
Per quanto riguarda la sfida sul piano economico-sociale il pluripolarismo cooperativo permetterebbe un decisivo rafforzamento delle organizzazioni economiche globali in modo da renderle in grado di governare la globalizzazione. In questo contesto diventerebbero possibili: una nuova Bretton Woods che avvii il processo di unificazione monetaria mondiale incominciando dalla trasformazione del sistema dei diritti speciali di prelievo in un sistema mondiale di limitazione delle fluttuazioni monetarie (sul modello del sistema monetario europeo che ha aperto la strada all’unione monetaria europea) collegato al superamento dell’egemonia del dollaro;[14] un avanzamento dell’integrazione economica mondiale che alla eliminazione degli ostacoli al libero movimento dei fattori della produzione (integrazione negativa) accompagni strumenti di integrazione positiva, cioè diretti a governare l’economia mondiale (caratterizzata da crisi continue e sempre più gravi) e, in particolare, ad affrontare seriamente i divari territoriali di sviluppo che sono una causa primaria della instabilità politica e sociale di vaste regioni del mondo e, quindi, dei flussi emigratori fuori controllo e anche del terrorismo internazionale; la creazione di un consiglio di sicurezza economico dell’ONU che coordini e rafforzi la capacità di azione delle organizzazioni economiche globali.
Per quanto riguarda la sfida ecologica, la strada da percorrere diventerebbe quella della costituzione di una Agenzia o di un’Organizzazione mondiale per l’ambiente sotto l’egida dell’ONU e sovraordinata rispetto agli Stati della COP. Si tratterebbe di un’organizzazione che dovrebbe essere dotata di poteri reali e di autonomia finanziaria, gestita da un’Autorità indipendente (sul modello della CECA), con il compito di realizzare un piano mondiale di riduzione equilibrata delle emissioni di CO2 nell’atmosfera, nonché il compito di adattare gli obiettivi secondo l’evolversi della situazione. Tra le sue funzioni dovrebbe esserci anche quella di aiutare finanziariamente i paesi più sfavoriti e di realizzare interventi organici di contrasto delle emergenze ambientali globali, di sviluppo delle nuove tecnologie nel settore energetico e del loro trasferimento ai paesi in fase di industrializzazione. Si potrebbe ipotizzare anche una carbon tax introdotta nei principali paesi inquinatori, quali Cina, India, Stati Uniti, Unione europea, Giappone e Russia, per accelerare il passaggio dalle fonti energetiche fossili a quelle rinnovabili e per garantire direttamente, con una parte dei proventi della tassazione, il finanziamento dell’Organizzazione mondiale per l’ambiente.[15]
Occorre tuttavia sottolineare il fatto che la realizzazione in tempi brevi della federazione europea è una condizione necessaria perché il nuovo quadro mondiale possa svilupparsi nella direzione sopra auspicata. Occorre infatti ricordare che lo stallo in cui si trova il processo di integrazione europea (che apre la prospettiva di un catastrofico sviluppo disgregativo) sta favorendo lo stallo degli altri processi di integrazione regionale che da quello europeo sono stati stimolati in termini di esemplarità e di spinte concrete. Per contro il completamento in senso federale dell’integrazione europea (che non solo è urgentemente necessario, ma anche effettivamente possibile proprio perché scongiurerebbe un’inversione fatale) ridarebbe un nuovo impulso alle integrazioni regionali che sono altrettanti mattoni fondamentali della costruzione della pace. Inoltre, il progresso dei movimenti nazional-populisti, che ostacolano le politiche dirette alla condivisione della sovranità statale ha, come si è detto, il suo fondamento più generale nella situazione di crisi degli Stati sovrani da cui però non si è ancora sviluppata una efficiente e democratica statualità sopranazionale. In questo contesto l’Europa ha importanza centrale, dal momento che qui la contraddizione è particolarmente forte, dato l’avanzamento del processo di integrazione che però è ancora in mezzo al guado. La sconfitta dei movimenti nazional-populisti in Europa, come effetto della sua piena federalizzazione farebbe arretrare automaticamente le analoghe tendenze diffuse nel resto del mondo. Infine, un’Europa che diventi finalmente capace di agire sul piano internazionale e quindi un attore globale fornirebbe chiaramente un contributo decisivo al piano di stabilizzazione-pacificazione del Medio Oriente e dell’Africa che richiederà – sul modello del Piano Marshall – un impegno enorme e a lungo raggio in termini di aiuto sul terreno della sicurezza e su quello economico e della costruzione di moderne strutture statali. Anche l’impegno in direzione della Casa comune europea (allargata nel senso sopraddetto) potrà svilupparsi solo con un’Europa che si emancipi dalla protezione americana e sia in grado di condizionare in modo significativo la condotta degli USA e quella della Federazione Russa, oltre che degli altri attori globali.[16]
Al di là di queste indicazioni specifiche occorre anche sottolineare che l’Europa ha una vocazione strutturale ad operare a favore di un mondo più pacifico, più giusto ed ecologicamente sostenibile (che in un sistema di pluripolarismo cooperativo avrebbe la sua struttura portante). In sostanza l’Europa ha una radicata tendenza ad operare come “potenza civile”, una potenza cioè che persegue il superamento della politica di potenza. Essendo l’integrazione europea nata dalla catastrofe delle guerre mondiali, come prima rilevante risposta alla crisi storica del sistema di Westfalia, l’Unione europea ha nel proprio DNA l’impegno ad esportare la propria esperienza, la European Way of Life (democrazia liberale, stato sociale, diritti umani, sensibilità ecologica, bassa spesa militare) e lo stesso processo di unificazione europea. E’ un dato di fatto che nell’indicazione programmatica del proprio ruolo internazionale (nei Trattati e nella dottrina strategica) l’UE non faccia riferimento solo agli interessi e alla sicurezza europea, ma anche alla pace nel mondo da realizzare attraverso la solidarietà, lo Stato di diritto, il sistema liberaldemocratico, la globalizzazione dei diritti umani, le integrazioni regionali, il multilateralismo contrapposto all’unilateralismo. L’orientamento, programmatico, ha un risvolto concreto nel primato dell’UE, nonostante l’incompleta unificazione, per quanto riguarda l’aiuto allo sviluppo e quello alimentare, le missioni di pace e il perseguimento dei diritti umani, il ruolo fondamentale rispetto ad iniziative quali il Tribunale penale internazionale e gli accordi diretti a contrastare il riscaldamento globale.
E’ evidente che questa vocazione strutturale dell’Europa potrà manifestarsi in modo efficace se alla sua potenza economica si sommerà, con una politica estera, di sicurezza e di difesa unica, il fatto di diventare un attore pienamente globale. Un esempio per tutti: con la partecipazione dell’UE come soggetto unitario al Consiglio di sicurezza dell’ONU, si avvierebbe concretamente la regionalizzazione dell’ONU, cioè il percorso strategico verso il suo rafforzamento e la sua democratizzazione.[17]
[1] Il realismo politico si riallaccia alla tradizione di pensiero fondata sulla teoria della ragion di Stato, che parte da Machiavelli e Hobbes, ha un grande sviluppo nella cultura tedesca dell’Ottocento e della prima metà del Novecento (in particolare, Hegel, Ranke, Treitschke, Hintze, Meinecke, Weber, Ritter) ed ha la più recente espressione nella corrente realista della teoria delle relazioni internazionali (in particolare, Niebuhr, Carr, Morghentau, Kennan, Osgood, Kissinger, Kaplan, Aron, Hoffman, Waltz, Gilpin, Buzan), a cui si fa qui riferimento. Rimando a J.J. Roche, Le relazioni internazionali, Bologna, Il Mulino, 2000 e M. Albertini e S. Pistone, Il federalismo, la ragion di stato e la pace, I Quaderni di Ventotene, 2001, n. 4.
[2] Cfr. J.R. Seeley, Introduction to Political Science, London, MacMillan, 1902. Si veda anche L.V. Majocchi, John Robert Seeley, Il Federalista, 31, n. 2 (1989). Occorre ricordare che nella corrente realista tedesca dell’Ottocento e della prima metà del Novecento (dottrina dello Stato-potenza), che ha approfondito la distinzione fra Stati insulari (più liberali in quanto più sicuri) e Stati continentali (più autoritari per l’esigenza di difendere confini terrestri meno sicuri) chiarita nel saggio ottavo del Federalist di Alexander Hamilton, è prevalsa la tendenza a giustificare l’autoritarismo affermatosi nell’esperienza prussiano-tedesca. Cfr. S. Pistone, F. Meinecke e la crisi dello stato nazionale tedesco, Torino, Giappichelli, 1969.
[3] Per un buon inquadramento da un punto di vista realistico di questa corrente cfr. A. Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Bologna, Il Mulino, 1997. In generale sui limiti dell’internazionalismo proprio delle ideologie liberale, democratica e socialista – esse concordano nel vedere la pace come conseguenza automatica dell’affermazione all’interno dei loro principi – si veda L. Levi, Internazionalismo, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1996.
[4] Rimando qui ai fondamentali scritti di M. Albertini e in particolare a Il federalismo, Bologna, Il Mulino, 1993 e Nazionalismo e federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999. Ricordo anche: gli scritti di F. Rossolillo raccolti in Senso della storia e azione politica, a cura di G. Vigo, Bologna, Il Mulino, 2009; S. Pistone, Ludwig Dehio, Napoli, Guida, 1997 e Id., L’unificazione europea e la pace nel mondo, in L’Unione Europea e le sfide del XXI secolo, a cura di U. Morelli, Torino, Celid, 2000; L. Levi, Crisi dello Stato e governo del mondo, Torino, Giappichelli, 2000 e Id., La crisi del paradigma realistico e il paradigma federalistico, Il Ponte, 63 (2012), n. 2-3; R. Castaldi, Federalism and material interdependence, Milano, Giuffré, 2008, e Id. (a cura di), Immannuel Kant and Alexander Hamilton, the Founders of Federalism, Bruxelles, Peter Lang, 2013.
[5] Cfr. I. Kant, La pace, la ragione e la storia, a cura di M. Albertini, Bologna, Il Mulino, 1985.
[6] E’ utile ricordare a questo riguardo che Kant, proprio perché non era un ingenuo pacifista, ha saputo vedere come la guerra è stata anche un fattore decisivo di progresso storico nella misura in cui ha spinto i governanti a migliorare le condizioni di vita dei sudditi, onde rafforzare il loro consenso nei confronti della politica di potenza del proprio Stato. Nello stesso tempo ha saputo prevedere che il progresso continuo dell’efficacia degli armamenti avrebbe finito per far prevalere gli aspetti puramente distruttivi delle guerre e porre l’esigenza vitale del loro superamento.
[7] Si veda L. Trumellini, Le riflessioni di Mario Albertini per una rielaborazione del materialismo storico, Il Federalista, 50, n. 1 (2008) e Id., Le riflessioni di Mario Albertini sulla filosofia della storia di Kant e la sua integrazione con il materialismo storico, Il Federalista, 51, n. 2 (2009).
[8] L’alternativa “unirsi o perire” era stata posta dal ministro degli esteri francese Aristide Briand alla base della sua proposta di unità europea del 1929. Cfr. S. Minardi, Origini e vicende del progetto di Unione europea di Briand, Caltanissetta, Salvatore Sciascia, 1994.
[9] Sulla struttura dello Stato mondiale fondata su un federalismo a tutti i livelli e sul principio di sussidiarietà si veda l’ottimo testo di O. Hoeffe, La democrazia nell’era della globalizzazione, Bologna, Il Mulino, 2007.
[10] Si veda S. Pistone, Movimento Federalista Europeo: storia e prospettive di una strategia di azione politica, Il Ponte, 68, n. 2-3 (2012).
[11] Si veda A. Martinelli, Mal di nazione. Contro la deriva populista, Milano, Università Bocconi Editore, 2013.
[12] Cfr. S. Pistone, Considerazioni orientative sul tema della Casa comune europea, in Governo europeo, costituzione europea, federazione europea, Atti del XXIV Congresso nazionale del Movimento federalista europeo (Catania 27-29 marzo 2009), Pavia, 2009.
[13] Cfr. L. Levi, Una Helsinki 2 nel Mediterraneo, Policy Paper n. 12, Centro Studi sul Federalismo, 2015 e S. Pistone, L’Europa e la sfida dello stato islamico, in Una Unione federale a partire dall’eurozona, Atti del XXVII Congresso nazionale del MFE (Ancona 20-22 marzo 2015), Pavia, 2015.
[14] Cfr.: R. Triffin, Dollaro, Euro e moneta mondiale, prefazione di A. Iozzo, Bologna, Il Mulino, 1998; Id., The International Monetary Scene Today and Tomorrow, The International Spectator, n. 4 (2015); A. Iozzo, Rejoinder, 45 Years Later, to “The International Monetary Scene Today and Tomorrow”, ibid.; A. Mosconi, Stati Uniti ed Europa. Politiche inadeguate alle loro responsabilità nel mondo pluripolare, The Federalist Debate, 25, n. 2 (2012).
[15] Cfr. R. Palea, Un Accordo “storico” sul clima a Parigi: ma saprà l’umanità salvarsi in tempo?, Policy Paper n. 14, Centro Studi sul Federalismo, 2016.
[16] Cfr. A. Sabatino, Ucraina: l’assenza di una politica europea, Il Federalista, 56, n. 1-2 (2014) e S. Pistone, L’Unione politica e le sfide della sicurezza, Paradoxa, 8, n. 3 (2015). Per quanto riguarda la Russia il problema fondamentale consiste nel favorire il superamento della schiacciante dipendenza dall’esportazione dei combustibili e un deciso progresso nell’integrazione con le economie dell’Europa e in generale dei paesi occidentali. Il progresso economico-sociale e politico-democratico che ne deriverebbe è la via per sradicare le tendenze neoimperiali russe che sono chiaramente connesse con l’arretratezza economico-sociale e con il regime autoritario. Lo strumento è la Casa comune europea che un’Europa capace di agire potrà perseguire in modo determinante.
[17] Cfr.: S. Pistone, The European Union As Global Player, in U. Morelli (Ed.) A Constitution For The European Union. Sovereignty, Representation, Competencies, Constituent Process, Milano, Giuffrè, 2005; R. Castaldi, La scelta per la civiltà europea moderna: unirsi o perire, Paradoxa, 8, n. 3 (2015).
* Si tratta della rielaborazione della relazione svolta in occasione della riunione dell’Ufficio del dibattito tenutasi a Genova il 5-6 marzo 2016.