Anno LVII, 2015, Numero 3, Pagina 183
Le richieste di Cameron:
opportunità o regresso per il progetto europeo?
PAOLO PONZANO
La lettera indirizzata il 10 Novembre scorso dal Primo ministro Cameron al Presidente del Consiglio europeo e contenente le richieste britanniche ai paesi membri dell’Unione europea affinché il governo britannico faccia campagna a favore della permanenza del Regno Unito in seno all’Unione europea in occasione del referendum promesso da Cameron entro il 2017 ha aperto formalmente le trattative relative ad un nuovo status del Regno Unito in seno all’Unione.
1. Il Regno Unito e l’Unione europea
Va ricordato che non è la prima volta che il governo britannico chiede di modificare la portata delle sue condizioni di adesione all’Unione europea. Alla fine degli anni Settanta, il governo britannico chiese di modificare il suo contributo finanziario al bilancio della Comunità europea al fine di tener conto della sua situazione particolare in quanto paese maggiormente dipendente dalle importazioni provenienti dai paesi del Commonwealth e al tempo stesso scarso beneficiario della politica agricola comune. La richiesta britannica (riassunta dalla famosa frase di Margaret Thatcher “I want my money back”) dette luogo ad un calcolo contabile dei contributi di ciascun paese al bilancio europeo – i cosiddetti saldi netti – e di conseguenza alla modifica della struttura del bilancio europeo ed alla concessione di un rimborso al Regno Unito per compensare in parte i suoi versamenti giudicati eccessivi. Il calcolo e la diffusione dei saldi netti di ogni paese è stato all’origine della modifica del sistema delle risorse proprie e della predominanza attuale dei contributi nazionali nel finanziamento del bilancio europeo. Tale sistema puramente contabile dei contributi versati e dei finanziamenti ricevuti non tiene conto degli effetti secondari del mercato interno europeo in quanto la libera circolazione dei prodotti e dei servizi in seno all’Unione avvantaggia i paesi che “esportano” maggiormente in seno all’Unione. Una conferma degli effetti economici indiretti del mercato unico è stata l’introduzione nei Trattati europei – all’iniziativa di Jacques Delors – del principio della coesione economica e sociale (con il relativo Fondo di coesione) proprio per compensare in parte gli effetti sfavorevoli del mercato unico sulle regioni meno sviluppate dell’Unione europea.
La partecipazione del Regno Unito al processo di integrazione europea è stata poi caratterizzata da altri elementi che hanno inciso sia sull’orientamento generale del progetto europeo, sia sullo status britannico in seno all’Unione. Questo articolo non è la sede per un’analisi dettagliata di questi elementi. Va ricordato tuttavia che il Regno Unito ha sempre cercato di orientare gli sviluppi dell’integrazione europea nel senso di massimizzare i vantaggi del mercato unico, soprattutto nel settore dei servizi e della liberalizzazione delle attività economiche accettando a tal fine anche il ripristino del voto a maggioranza qualificata con l’Atto unico del 1986.[1] Successivamente, il governo britannico ha richiesto e ottenuto nel Trattato di Maastricht una deroga all’adozione della moneta unica ed un Protocollo speciale relativo a certe misure di politica sociale. Tale Protocollo – al quale il governo britannico ha rinunciato nel 1997 – aveva permesso inizialmente al Regno Unito di non applicare alcuni atti legislativi europei di politica sociale pur partecipando – senza diritto di voto – ai negoziati condotti in seno al Consiglio dei ministri. Come vedremo successivamente, tale procedura presenta un interesse per i futuri negoziati poiché si fonda sul principio che uno Stato non può al contempo essere esentato dall’applicazione delle leggi europee e conservare un diritto di veto sull’adozione delle stesse.
In seguito, il governo britannico ha chiesto e ottenuto nel Trattato di Amsterdam nuove deroghe (o clausole dette di opting-out) in materia di cooperazione giudiziaria e di asilo e immigrazione. Tali deroghe hanno permesso al Regno Unito, come anche all’Irlanda ed alla Danimarca, di non applicare le disposizioni del Trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone introdotte nel frattempo nel diritto dell’Unione europea.
Infine, il Regno Unito ha chiesto e ottenuto nel Trattato di Lisbona un Protocollo che gli permette di non applicare ai suoi cittadini le disposizioni della Carta dei diritti fondamentali di cui il Trattato di Lisbona dichiara il carattere vincolante per la legislazione europea e le norme nazionali di applicazione del diritto europeo. Questo insieme di deroghe di cui dispone il Regno Unito limita la sua applicazione del diritto europeo e si aggiunge ad una serie di disposizioni introdotte nel Trattato di Lisbona per condizionare l’esercizio delle competenze dell’Unione, in particolare nel campo della politica estera e di sicurezza comune al fine di preservare la libertà d’azione del governo britannico.
Questo richiamo sommario delle deroghe di cui dispone il Regno Unito deve essere completato da un breve riassunto dei suoi orientamenti in materia di politica europea. Un aspetto fondamentale della strategia britannica nei riguardi dell’Unione europea è stata quella di sostenitore principale dell’allargamento dell’UE a nuovi paesi. Poiché tale strategia è andata di pari passo con una grande reticenza ad attribuire all’UE nuove competenze e a rafforzare il ruolo delle istituzioni comuni rispetto agli Stati membri, è difficile contestare come la strategia britannica sia stata quella di privilegiare gli aspetti economici del processo d’integrazione, in particolare il mercato unico di beni e servizi, a detrimento della finalità politica del progetto europeo, vale a dire il conseguimento di un’unione sempre più stretta fra i popoli europei, principio peraltro enunciato nei trattati europei fin dall’inizio del processo di integrazione e ratificato dal Regno Unito al momento della sua adesione alla Comunità europea. Una conferma indiretta della reticenza britannica sulla finalità politica del processo di integrazione proviene dall’insistenza che i vari governi del Regno Unito hanno messo sull’applicazione del principio di sussidiarietà da parte della Commissione europea e dalle richieste sistematiche dei governi britannici per l’applicazione vincolante dei nuovi strumenti della “better regulation” al fine di ridurre l’attività legislativa dell’Unione europea.
Certamente, i nuovi strumenti della “better regulation” – quali l’analisi dell’impatto economico, sociale e ambientale di una proposta di legge – si sono rivelati utili per migliorare la qualità degli atti legislativi europei, per implicare maggiormente le parti interessate e per ridurre i costi amministrativi delle leggi europee. Tuttavia, non è un caso che, in seguito anche alle richieste britanniche, le proposte legislative della Commissione europea si siano ridotte sensibilmente negli ultimi anni.[2] Infine, va ricordata la richiesta britannica in seno alla Convenzione europea del 2002/2003 di creare una seconda Camera composta da rappresentanti dei parlamenti nazionali che avrebbe dovuto affiancare il Parlamento europeo nell’attività legislativa dell’Unione. Tale richiesta, respinta dalla maggior parte dei membri della Convenzione, ha prodotto come soluzione alternativa l’istituzione del meccanismo di early warning dei parlamenti nazionali sul rispetto del principio di sussidiarietà integrato successivamente nel Trattato di Lisbona.[3]
2. Le richieste di Cameron
Le richieste del Primo ministro britannico nella sua lettera del 10 novembre al Presidente del Consiglio europeo riguardano, per il loro contenuto, quattro elementi dell’attività o delle competenze dell’Unione europea, vale a dire nel seguente ordine la governance economica, la competitività, la sovranità e l’immigrazione. Per quanto riguarda la forma, Cameron chiede che l’accordo da concludere con gli altri Stati membri sul contenuto delle sue richieste sia “giuridicamente vincolante, irreversibile e, dove necessario, iscritto nei trattati” (che dovrebbero quindi essere modificati a tal fine). Nell’introduzione della sua lettera, Cameron ricorda che nel passato è stato possibile risolvere i problemi posti da altri Stati membri, quali la Danimarca e l’Irlanda, tramite l’adozione di Protocolli o altri strumenti giuridici senza penalizzare gli altri Stati membri. Se questo richiamo di Cameron fosse preso alla lettera, questo significherebbe che l’accordo richiesto dal governo britannico potrebbe fare l’oggetto di decisioni sui generis o di dichiarazioni interpretative dei trattati che consentano di precisare la portata degli obblighi assunti da uno Stato membro senza necessariamente modificare le disposizioni del diritto europeo nei riguardi degli altri Stati membri (che non hanno dovuto, nei casi richiamati, ratificare tali decisioni o dichiarazioni interpretative). Una tale interpretazione contraddirebbe tuttavia la richiesta di Cameron di accordi giuridicamente vincolanti e, dove necessario, iscritti nei trattati.
La governance economica.
Cameron riconosce il diritto dei paesi che hanno adottato la moneta unica di proseguire sulla strada intrapresa per assicurare la stabilità dell’euro. Pertanto, il Regno Unito non chiede logicamente un diritto di veto sulle misure che saranno prese nell’ambito dell’eurozona. Tuttavia Cameron richiede l’istituzione di meccanismi giuridicamente vincolanti che permettano di salvaguardare gli interessi legittimi dei paesi che non hanno adottato la moneta unica al fine di rispettare l’integrità del mercato unico. Pertanto, la creazione dell’Unione bancaria non dovrà essere vincolante per i paesi che non hanno l’euro (richiesta di per sé legittima), i contribuenti dei paesi non-euro non dovranno essere finanziariamente responsabili per operazioni decise dall’eurozona (allusione indiretta al campo di applicazione della tassa sulle transazioni finanziarie) e tutte le misure suscettibili di avere un impatto (to affect) su tutti i paesi dell’UE dovrebbero essere discusse e decise da tutti i 28 paesi dell’Unione.
Quest’ultimo è ovviamente il punto più delicato. Molte misure necessarie ad assicurare la stabilità della zona euro e a completare l’Unione economica e monetaria potrebbero avere un impatto indiretto sulle economie dei paesi che non intendono dotarsi della moneta unica. Per esempio, la stessa tassa sulle transazioni finanziarie potrebbe avere un effetto sulle operazioni finanziarie che si svolgono nella City. Lo stesso potrebbe accadere se i paesi della zona euro volessero dotarsi di uno strumento finanziario nuovo o di una capacità fiscale propria per incoraggiare gli investimenti nell’eurozona. Già oggi l’art. 136 del TFUE ha permesso ai paesi dell’eurozona di creare nuove procedure e strumenti (quali il semestre europeo o la reverse qualified majority per opporsi alle raccomandazioni della Commissione europea) senza la partecipazione né a fortiori senza l’accordo dei paesi non-euro.
Certo, è vero che il regolamento istitutivo di un’Autorità europea di sorveglianza bancaria prevede l’esigenza di una doppia maggioranza – composta dagli Stati membri dell’Unione bancaria e degli Stati non partecipanti alla stessa Unione – per l’adozione di alcuni atti della predetta Autorità, ma tali atti riguardano soltanto norme tecniche di regolamentazione oppure norme di esecuzione[4] e non disposizioni legislative dell’Unione europea o della zona euro. Per tali norme legislative è possibile immaginare un diritto degli Stati non-euro a partecipare alle discussioni tra i paesi dell’eurozona – come il Regno Unito partecipava alle riunioni del Consiglio quando negoziava le misure sociali previste dal Protocollo sulla politica sociale del 1992 – oppure ad essere consultati sul contenuto delle misure applicabili ai paesi della zona euro che avessero un impatto diretto sul mercato unico, ma senza una procedura di doppia maggioranza o addirittura di veto da parte di uno Stato non-euro. Del resto, quando il Regno Unito chiese nel dicembre 2011 di esentare i servizi finanziari britannici dalle regole comuni in cambio del sostegno britannico al Fiscal Compact, gli altri Stati membri rifiutarono di subordinare l’accordo al nuovo trattato ad un diritto di veto britannico. Alcuni analisti dell’integrazione europea hanno evocato la possibilità di introdurre un meccanismo simile alla clausola del trattato detta emergency brake (freno di emergenza) che permetterebbe di adire il Consiglio europeo nel caso in cui una misura in corso di negoziato fra i paesi della zona euro avesse un impatto negativo su un interesse vitale del Regno Unito o di altri paesi non-euro.[5] Un impegno in tal senso potrebbe essere iscritto nelle conclusioni del Consiglio europeo in attesa di essere ripreso successivamente nel testo dei trattati al momento della loro modifica.
La competitività dell’Unione europea.
La seconda richiesta di Cameron riguarda un impegno supplementare dell’UE per rendere l’economia europea maggiormente competitiva attraverso la creazione di un unico mercato digitale e di un mercato europeo dei capitali, la conclusione di nuovi accordi di libero scambio (in particolare con gli Stati Uniti, la Cina e il Giappone) e la riduzione dei costi che la legislazione europea farebbe pesare sulle imprese. Questa richiesta non dovrebbe costituire un problema per la conclusione di un accordo nella misura in cui la Commissione europea ha già annunciato la presentazione di nuove proposte per il rafforzamento del mercato unico e ha ricevuto mandati di negoziato per la conclusione di nuovi accordi commerciali. Inoltre la Commissione europea ha già realizzato una riduzione significativa dei costi amministrativi generati dalla legislazione europea, in particolare per le piccole e medie imprese, ha messo a punto un programma ambizioso di semplificazione della legislazione europea esistente e ha ridotto sensibilmente il numero delle sue nuove iniziative legislative.[6] L’unico problema potrebbe essere quello di fissare un obiettivo quantitativo realistico per la riduzione degli oneri che pesano sulle imprese europee.
La sovranità.
a) La clausola dell’unione sempre più stretta.
Questo capitolo delle richieste di Cameron è maggiormente problematico. Il governo britannico vuole mettere fine, in modo giuridicamente vincolante ed irreversibile, all’impegno contenuto nell’articolo 1 del Trattato di Lisbona (ma presente già nel preambolo del Trattato di Roma e inserito con l’accordo britannico nel Trattato di Maastricht) di lavorare per conseguire “un’unione sempre più stretta” tra i popoli europei. Questa espressione designa la finalità politica del processo di integrazione europea senza peraltro precisare quale sarà la forma costituzionale della futura unione politica (Stato federale, Federazione degli Stati-nazione secondo la formula di Delors o altra struttura sui generis). E’ vero che la portata di questo impegno è stata indebolita dal riconoscimento nel Trattato di Lisbona del diritto di recesso dall’Unione da parte di ciascuno Stato membro (art. 50 TUE) ed anche dall’introduzione di un principio di reversibilità delle competenze dell’Unione (art. 48,2 TUE e Dichiarazione n.18). Tuttavia, mentre l’uso del diritto di recesso da parte di un paese dell’UE avrebbe come risultato la perdita dello status di Stato membro, con la relativa perdita di tutti i diritti ed obblighi previsti dai Trattati, l’esonero dall’impegno a perseguire un’unione sempre più stretta non avrebbe conseguenze giuridiche sullo status di uno Stato membro, se non il riconoscimento politico che lo Stato membro in questione non intende partecipare ai progressi verso l’integrazione politica che gli altri Stati membri (per esempio i paesi dell’eurozona) decidessero di compiere negli anni a venire. In realtà il Regno Unito ha già ottenuto, nelle conclusioni del Consiglio europeo del giugno 2014, il riconoscimento del principio che la nozione di “unione sempre più stretta” permette ai vari paesi dell’UE di scegliere strade diverse di integrazione, lasciando andare avanti i paesi che desiderano approfondire l’integrazione pur rispettando la volontà degli Stati che non auspicano fare progressi in tal senso. Quindi non appare evidente ciò che il Regno Unito otterrebbe sul piano giuridico da una deroga formale (o clausola di opting-out) all’impegno sancito dall’art. 1 del Trattato di Lisbona se non la creazione di un precedente che permetterebbe in seguito di essere invocato da altri paesi dell’Unione. Se invece la richiesta britannica non fosse quella di esonerare solo il Regno Unito dalla finalità politica dell’integrazione ma di cancellare tale impegno per tutti gli Stati membri, si tratterebbe allora di una richiesta inaccettabile poiché configurerebbe un regresso significativo dell’intero processo di integrazione europea quale delineato dai Trattati di Roma e confermato nei Trattati successivi.
b) Il rafforzamento del ruolo dei parlamenti nazionali.
Cameron chiede di rafforzare il ruolo dei parlamenti nazionali istaurando una nuova procedura che permetta ad un gruppo non precisato di parlamenti nazionali di bloccare una proposta di legge europea. Cameron non specifica quale dovrebbe essere il quorum necessario per bloccare una proposta legislativa in quanto tale quorum dovrebbe essere negoziato con gli altri Stati membri. Come si sa, un Protocollo allegato al Trattato di Lisbona permette già ad un terzo delle Camere legislative nazionali (18 su un totale di 56) di esprimere nel termine di otto settimane un parere motivato allorché ritengano che una proposta legislativa non rispetti il principio di sussidiarietà. Questa procedura prende il nome di “cartellino giallo” che obbliga la Commissione a riesaminare la sua proposta ed a giustificare un eventuale mantenimento della stessa. Qualora invece la metà delle Camere nazionali (28 su 56) dovessero esprimere un parere motivato nello stesso senso, la proposta legislativa non potrebbe essere adottata dal legislatore europeo, nel caso la Commissione decidesse di mantenerla, salvo nel caso di doppia maggioranza favorevole del Consiglio e del Parlamento europeo (procedura detta “cartellino arancione”). Da quando il Trattato di Lisbona è entrato in vigore, i parlamenti nazionali hanno emesso circa 300 pareri motivati sulle proposte legislative della Commissione europea. Solo in due casi è stato raggiunto il quorum di un terzo delle Camere nazionali per emettere un cartellino giallo mentre non è mai stato raggiunto il quorum richiesto per un cartellino arancione. Nel primo caso, riguardante il regolamento detto Monti II sui rapporti tra libera prestazione dei servizi e distacco dei lavoratori in un altro Stato membro, la Commissione ha ritirato la sua proposta fondata sull’art. 352 TFUE. Nel secondo caso, riguardante la creazione della funzione di Procuratore europeo, prevista peraltro dal Trattato di Lisbona, la Commissione ha mantenuto la sua proposta. Da questi dati statistici si possono trarre due conclusioni diverse. Secondo alcuni analisti, l’uso eccezionale del meccanismo di early warning proverebbe che le proposte legislative della Commissione rispettano il principio di sussidiarietà e che pertanto non sarebbe necessario modificare la procedura attuale.[7] Secondo un’altra analisi, il meccanismo di Lisbona ha previsto un quorum troppo elevato di parlamenti nazionali per provocare un cartellino giallo e, a fortiori, un cartellino arancione nel termine di otto settimane e occorrerebbe quindi modificare la procedura riducendo il quorum e/o allungando il periodo per emettere il parere motivato. Una soluzione potrebbe consistere nell’allungamento dei termini per l’emissione del parere motivato accompagnato da un impegno politico della Commissione a tener conto del parere che avesse raggiunto il quorum modificando o ritirando la sua proposta. Tuttavia questa soluzione manterrebbe i parlamenti nazionali in un ruolo puramente negativo di freno al processo legislativo, mentre alcuni commentatori hanno proposto di attribuire ai parlamenti nazionali un ruolo positivo di stimolo all’attività legislativa dell’Unione europea.[8] Si potrebbe immaginare di attribuire ai parlamenti nazionali una “carta verde” permettendo ad un numero determinato di Camere nazionali di chiedere alla Commissione europea la presentazione di una proposta legislativa (equiparando in tal modo i parlamenti nazionali ai due rami del legislatore europeo nonché al milione di cittadini europei, residenti in almeno sette Stati membri, che dispongono di tale facoltà). Dubito tuttavia che tale soluzione incontri il favore di Cameron dato che l’obiettivo dichiarato del governo britannico è quello di ridurre l’attività legislativa dell’Unione europea (all’eccezione beninteso della legislazione relativa al completamento del mercato unico).
L’immigrazione.
L’ultima richiesta di Cameron è quella più problematica (in cauda venenum) poiché confligge apertamente con due regole fondamentali dell’Unione, vale a dire la libera circolazione dei lavoratori ed in principio di non-discriminazione per motivi di nazionalità.
Il governo britannico ritiene di sopportare un peso sproporzionato nella misura in cui cresce ogni anno il numero di lavoratori che arrivano nel Regno Unito per esercitare un’attività lavorativa e che beneficiano del suo regime particolarmente generoso di welfare, anche se non contribuiscono immediatamente al sistema di sicurezza sociale britannico. Cameron critica anche la giurisprudenza della Corte di giustizia che avrebbe esteso eccessivamente la nozione di libertà di circolazione e consentito in tal modo degli abusi attraverso finti matrimoni e l’invio all’estero di allocazioni per figli a carico. Pertanto Cameron chiede che i lavoratori immigrati nel Regno Unito contribuiscano per quattro anni al sistema britannico di welfare prima di beneficiare di indennità lavorative e di alloggio sociale. Questa richiesta confligge con gli interessi dei paesi dell’Est europeo che hanno accettato dei periodi transitori dopo la loro adesione negli anni 2004/2007 prima che venisse attuata la libera circolazione dei lavoratori in tutti i paesi dell’Unione e che quindi potrebbero considerare questa richiesta come una modifica delle loro condizioni di adesione.
Peraltro, gli studi effettuati dalla Commissione europea mostrano che la libera circolazione dei lavoratori ha un impatto limitato sui sistemi nazionali di sicurezza sociale e che i benefici collettivi sono superiori ai costi poiché “i lavoratori di altri Stati membri sono in realtà dei contributori netti alle finanze pubbliche del paese ospitante”.[9] Inoltre, la Corte europea di giustizia ha proprio recentemente emesso due sentenze nei casi Dano/Leipziz del novembre 2014 e nel caso Alimanovic del settembre 2015, in cui da un lato riconosce la competenza degli Stati membri nel determinare i diritti alla residenza e quindi ai benefici sociali dei lavoratori immigrati e, dall’altro, legittima il diritto degli stessi Stati di negare in certe circostanze i benefici sociali ai migranti che cercano lavoro ma ancora disoccupati.[10] Infine, la Commissione europea sta preparando un pacchetto di proposte legislative concernente la mobilità dei lavoratori che mira ad emendare la legislazione europea esistente in materia di sicurezza sociale al fine di prevenire abusi da parte di migranti intra-comunitari. Un consenso esiste in seno alle istituzioni europee sul fatto che l’esistenza di abusi debba essere perseguita senza rimettere in causa il principio della libera circolazione né la non-discriminazione in ragione della nazionalità.
3. Valutazione generale delle richieste britanniche
Le richieste di Cameron fanno seguito ad una serie di contatti informali avuti dal Primo ministro britannico con i suoi omologhi nei principali Stati membri. Se ne potrebbe quindi dedurre che Cameron abbia sfumato le sue richieste iniziali al fine di avere maggiori chances di ottenere soddisfazione in seno al Consiglio europeo sulla maggior parte delle sue richieste. Non a caso il partito nazionalista di Nigel Farage lo ha accusato di non aver chiesto riforme più significative dell’Unione europea come condizione per fare campagna contro l’uscita della Gran Bretagna dall’UE nel referendum del 2017.
Anche se tale analisi fosse esatta, le richieste di Cameron sono globalmente parlando tutt’altro che innocue per l’approfondimento del progetto europeo. La contraddizione principale che esiste nelle richieste britanniche è rappresentata dal fatto che Cameron chiede da un lato che il Regno Unito sia esonerato dall’impegno iscritto nei trattati a perseguire la finalità politica del progetto europeo mentre al contempo vorrebbe che i paesi dell’eurozona tenessero conto degli interessi britannici nei riguardi del mercato unico allorché intendessero approfondire l’Unione economica e monetaria e pertanto la loro integrazione politica. Tale contraddizione è ben riassunta dall’adagio francese secondo cui on ne peut avoir à la fois le beurre et l’argent du beurre.[11] Se il Regno Unito esercitasse il suo diritto di recesso dall’Unione europea non avrebbe più la possibilità di far valere i suoi interessi nei riguardi delle decisioni dell’Unione, mentre se la sua richiesta fosse soddisfatta, il Regno Unito avrebbe sempre la possibilità di influenzare le decisioni dei paesi dell’eurozona senza essere tenuto a rafforzare l’Unione economica e monetaria di cui non fa parte. Per questa ragione, sarebbe opportuno che i paesi della zona euro accettassero una procedura di consultazione obbligatoria del Regno Unito per le decisioni dell’eurozona che avessero delle ripercussioni sul mercato unico, ma non un diritto di veto britannico sul completamento dell’Unione economica e monetaria. Del resto l’art. 136 del TFUE prevede già che i paesi della zona euro possano decidere di prendere nuove misure volte a rafforzare la stabilità della zona euro senza l’accordo degli paesi non-euro (come la procedura del semestre europeo o la reverse qualified majority) per opporsi alle proposte della Commissione europea).
Questo elemento di contropartita nel negoziato con il Regno Unito che dovrebbe svolgersi al Consiglio europeo di febbraio 2016 sembra più importante delle soluzioni che potrebbero essere trovate sulle altre richieste britanniche. Infatti, come indicato precedentemente, delle soluzioni potrebbero essere trovate sia sul rafforzamento del ruolo dei parlamenti nazionali, sia sulla riduzione degli oneri derivanti dalla legislazione europea (riduzione peraltro già largamente avviata), sia infine sulla possibilità di evitare abusi nell’esercizio del diritto alla libera circolazione purché naturalmente non venga messo in causa né tale diritto né il principio di non-discriminazione per ragioni di nazionalità (sfruttando al riguardo la recente giurisprudenza della Corte di giustizia).
La prospettiva di soluzioni condivise sulle richieste britanniche è rafforzata dal fatto che nessuno degli Stati dell’Unione ha un interesse politico a respingere le richieste di Cameron rischiando in tal modo di favorire un voto negativo dei cittadini britannici in occasione del referendum e pertanto di assumersi la responsabilità politica di un recesso del Regno Unito dall’Unione. Un recesso britannico sarebbe visto nel mondo come l’inizio di un processo di disgregazione dell’Unione europea e renderebbe poco credibile la prospettiva futura di una difesa europea proprio quando tale prospettiva sarebbe necessaria per far fronte alle responsabilità europee nella lotta contro il terrorismo. A queste considerazioni va aggiunta la tentazione da parte di alcuni governi europei di utilizzare il sostegno britannico nei loro tentativi di “cambiare verso” all’Unione europea e di contrastare il predominio attuale del binomio franco-tedesco.[12]
Se ci sono pertanto buone possibilità che soluzioni condivise sul merito delle richieste britanniche siano trovate nel Consiglio europeo di febbraio 2016, è molto più difficile che la Germania e la Francia accettino di anticipare la revisione dei trattati prevista alla fine del 2017/inizio 2018 (dopo le loro elezioni nazionali) per accedere alla richiesta di Cameron di ottenere un accordo giuridicamente vincolante prima del referendum. Sembra molto più probabile che un accordo sulla maggior parte delle richieste britanniche faccia l’oggetto di conclusioni del Consiglio europeo, che i Capi di Stato e di governo si impegnino a trasformare in disposizioni giuridicamente vincolanti in occasione della revisione dei trattati che dovrebbe intervenire alla fine del 2017 o più probabilmente nel corso del 2018.
4. Conclusione : opportunità o regresso del progetto europeo ?
Alcuni filosofi, a cominciare da Gian Battista Vico, hanno teorizzato il principio detto dell’eterogenesi dei fini: secondo tale principio, le azioni umane possono condurre a fini diversi da quelli che sono perseguiti dal soggetto che compie l’azione; in particolare ciò avverrebbe per il sommarsi delle conseguenze e degli effetti secondari dell’azione, che modificherebbe gli scopi originari o farebbe nascere nuove motivazioni, di carattere non intenzionale.
Se applicassimo tale principio alle richieste di Cameron, si potrebbe ipotizzare che l’azione intrapresa dal governo britannico non produca gli effetti da lui auspicati. Infatti, il governo britannico non auspica certamente un rafforzamento del processo di integrazione politica dell’Europa nel momento in cui egli stesso chiede di essere esonerato dal rispetto dell’impegno iscritto nei trattati ad un’unione sempre più stretta (a fortiori se chiedesse di sopprimere tale impegno nel testo dei trattati per l’insieme degli Stati membri).
Pertanto, è difficile immaginare che una revisione dei trattati al fine di rafforzare la stabilità della zona euro e di completare l’Unione economica e monetaria (creando, per esempio, un bilancio autonomo per la zona euro, istituendo un Ministro delle finanze europeo responsabile davanti al Parlamento europeo e attribuendo alla BCE il ruolo di prestatore di ultima istanza) possa ottenere di per sé l’accordo del Regno Unito e sia ratificata dal Parlamento britannico (a meno che il nuovo trattato non contenga altre disposizioni che interessino direttamente il Regno Unito). D’altra parte, non sembra possibile modificare in maniera sostanziale l’attuale governance economica dell’Unione attraverso lo strumento di un accordo intergovernativo quale il Fiscal Compact (che ha permesso di aggirare il veto britannico) poiché il nuovo trattato modificherebbe molte disposizioni del Trattato di Lisbona. Di conseguenza, i paesi della zona euro avrebbero interesse a collegare le soluzioni condivise alle richieste di Cameron ad una revisione dei trattati che desse un valore giuridicamente vincolante alle predette soluzioni – come chiesto da Cameron – ma che permettesse al contempo ai paesi dell’eurozona (come anche ai paesi detti pre-ins) di compiere dei progressi significativi verso l’integrazione politica. In tal caso, le richieste di Cameron avrebbero costituito un’opportunità per il progetto europeo. Nel caso contrario di un accordo separato concernente unicamente la soddisfazione delle richieste britanniche, il Regno Unito resterebbe quasi certamente membro dell’Unione ma si può dubitare che il progetto europeo e la sua finalità politica ne uscirebbero rafforzati.
[1] Per completezza, va ricordato che il governo britannico ha minacciato nel 1999 di invocare il “compromesso di Lussemburgo” (e quindi di minacciare il veto) sulla proposta della Commissione di armonizzare nel mercato unico il “diritto di seguito” (resale right). Il Regno Unito non voleva applicare questa tassa sulla rivendita delle opere d’arte a beneficio dell’autore o dei suoi eredi per un periodo di 70 anni al fine di proteggere le società d’arte quali Sotheby e Christie sul mercato di Londra. Alla fine, il governo britannico accettò una riduzione della tassa ed un periodo transitorio di dieci anni.
[2] Negli ultimi quindici anni, il numero delle proposte legislative annuali della Commissione è passato da circa 350 (di cui un centinaio prioritarie) a non più di 100 (di cui solo 23 prioritarie nel 2015). Inoltre la Commissione Juncker ha ritirato circa 70 iniziative legislative presentate dai precedenti collegi. Del resto lo stesso Cameron ha indicato il 19 ottobre 2015 al Parlamento britannico che “c’è già stata una riduzione dell’80% delle proposte legislative con la Commissione Juncker”.
[3] Vedere il par. Il rafforzamento del ruolo dei parlamenti nazionali del presente articolo.
[4] Vedere regolamento n. 1022/2013 del PE e del Consiglio del 22 ottobre 2013 che modifica il regolamento 1093/2010 istitutivo dell’Autorità bancaria europea.
[5] Vedere la lettera aperta indirizzata il 10 dicembre 2015 dall’ex-parlamentare europeo Andrew Duff al Primo ministro britannico, come anche il commento del Centro Studi CEPS redatto da Steven Blockmans e Stefani Weiss il 29 ottobre 2015 (Will Cameron get what he wants?).
[6] Vedere la nota 2 qui sopra.
[7] Vedere il commento di Andrew Duff sul suo blog (http://andrewduff.blogactiv.eu) del 30 novembre 2015 (Why the British demands on national parliaments must be resisted).
[8] Vedere il commento del Centro Studi CEPS sopra menzionato (nota n. 5).
[9] Vedere il rapporto della Commissione europea Access of mobile EU citizen’s to Social Protection.
[10] Vedere l’analisi della giurisprudenza della Corte europea di giustizia redatta dal Prof. Steve Peers EU Citizen’s’ Access to benefit: the CJEU clarifies the position of former workers del 15 settembre 2015.
[11] Questo adagio è l’equivalente di quello italiano, alquanto misogino, secondo cui “non si può avere al tempo stesso la botte piena e la moglie ubriaca”.
[12] Anche il governo italiano dà l’impressione di agire in tal senso (si veda la lettera congiunta del Ministro Gentiloni e del Ministro britannico Hammond pubblicata su La Repubblica del 15 dicembre 2015).