Anno LVII, 2015, Numero 3, Pagina 172
Il rischio climatico:
un motivo in più per fare presto l’Europa
FRANCO SPOLTORE
È dal 1992, dal vertice di Rio de Janeiro, che i governi di tutti i paesi del mondo cercano di stipulare accordi vincolanti a livello internazionale per limitare le emissioni di gas ad effetto serra. Nel 1997 si era giunti ad un primo accordo, che si limitava ad impegnare solo i paesi più sviluppati a ridurre le emissioni di anidride carbonica e che, per di più, non è mai stato ratificato dagli Stati Uniti, né è mai stato rispettato per quanto riguarda gli obiettivi di riduzione che poneva. Nel 2009, a causa delle insanabili divergenze in materia di tutela ambientale tra i paesi sviluppati, quelli emergenti e quelli ancora in via di sviluppo, il vertice di Copenhagen si era chiuso con un fallimento. Finalmente nel 2015, alla Conferenza sul clima di Parigi (COP21), 195 paesi, più l’Unione europea, hanno approvato un nuovo accordo con l’obiettivo di mantenere, da qui alla fine del secolo, l’innalzamento della temperatura entro 1,5 gradi Celsius. Purtroppo, però, alla prova dei fatti, l’approvazione di questo accordo, più che il suo contenuto, sembra rappresentare il maggiore, e forse unico, vero successo della Conferenza di Parigi.
Quale futuro dopo la COP21?
“E’ una frode… Non c’è azione, solo promesse. Finché i combustibili fossili saranno così a buon mercato, continueranno ad essere consumati.” Questo è stato il lapidario commento sui risultati della COP21 di James Hansen, lo scienziato americano precursore degli studi sulle conseguenze dell’azione umana sui cambiamenti climatici.[1] La fama di Hansen deriva non solo dai suoi studi, ma anche dal ruolo che ha ricoperto fino a qualche anno fa come esperto governativo e dal fatto di aver testimoniato nel 1988, in qualità di direttore dell’Istituto per le ricerche spaziali della NASA, di fronte alla Commissione del Senato USA per l’energia e le risorse naturali, sui risultati delle ricerche svolte dagli scienziati americani. Questi erano giunti alla conclusione che, “al 99 per cento, possiamo dire che il trendverso il riscaldamento globale che abbiamo osservato [negli ultimi centotrent’anni, ndr] non dipende da variazioni naturali, ma dall’immissione di anidride carbonica ed altri gas artificiali nell’atmosfera da parte dell’uomo”.[2]
Dopo oltre un quarto di secolo, e ventuno deludenti conferenze internazionali sul clima, non si può quindi non condividere l’amaro giudizio di Hansen sulla Conferenza di Parigi, nonché la sua delusione per l’inazione politica: “È davvero mortificante costatare, come scienziato, che i politici non agiscono razionalmente.”
La domanda che tuttavia Hansen non si pone fornendo questi giudizi è: possono i politici agire razionalmente per il bene del mondo in questo quadro di potere mondiale? La risposta negativa a questa domanda si desume dalla cronaca delle ultime fasi della Conferenza. Come hanno riportato diverse testate, al di là delle celebrazioni di circostanza dei risultati della Conferenza, i negoziati sull’approvazione finale dell’accordo di Parigi hanno rischiato fino all’ultimo di naufragare: troppo diverse le ragioni e le posizioni nazionali da conciliare; troppo forti gli interessi contrari alla possibilità di mettere in discussione le sovranità dei singoli Stati; troppo impegnate, tutte le delegazioni, a espungere dal testo finale qualsiasi riferimento che desse adito ad interpretazioni troppo vincolanti. Un episodio, fra gli altri, riassume il confronto avvenuto tra le diverse delegazioni. Si riferisce alle trattative per riformulare un comma dell’articolo 4 dell’accordo, che nella versione finale recita: “Developed country Parties should continue taking the lead by undertaking economy-wide absolute emission reduction targets. Developing country Parties should continue enhancing their mitigation efforts, and are encouraged to move over time towards economy-wide emission reduction or limitation targets in the light of different national circumstances”.[3] Ebbene, la discriminante per l’approvazione di questo articolo è stata l’impiego del verbo should (condizionale) anziché shall (indicativo futuro). Solo una volta che la delegazione americana e quella cinese hanno raggiunto un compromesso su questa formulazione, l’accordo ha potuto essere sottoposto all’approvazione dell’assemblea dei delegati.
Decarbonizzare, ma come?
Il tema all’ordine del giorno della Conferenza di Parigi era quello della decarbonizzazione, cioè della riduzione dei consumi energetici che derivano dall’uso di combustibili fossili. Questo termine è ormai una parola d’ordine per tutti i paesi. In vista della Conferenza di Parigi la maggior parte di loro ha presentato dei dettagliati piani volontari nazionali pluriennali di decarbonizzazione, in cui sono state indicate delle scadenze temporali (per esempio la Cina ha indicato la data del 2030) entro le quali ciascuno dovrebbe raggiungere il picco delle emissioni di gas ad effetto serra, dopodiché ognuno incomincerebbe a diminuirle. Il problema è che non è agevole capire a che cosa ci si riferisce quando si dice di voler decarbonizzare. Nella pratica questo termine può infatti significare due cose distinte. Può essere riferito, come fanno alcuni scienziati e governi, alla variazione nel tempo del rapporto tra emissioni e PIL. Oppure, come fanno altri, al rapporto tra emissioni e totale dell’energia consumata. In base a questa seconda definizione, che è anche la più significativa sul piano tecnico, in generale il trend mondiale delle emissioni si sta muovendo da anni verso la decarbonizzazione. La decarbonizzazione è dunque già in atto, grazie all’evoluzione delle tecnologie e ad alcuni provvedimenti legislativi nazionali. Il problema è che questo trend che possiamo considerare quasi spontaneo, ha una dinamica troppo lenta: con gli attuali tassi di decarbonizzazione, non potranno certamente essere rispettati gli obiettivi di riduzione fissati dalle varie conferenze sul clima.[4]
Molti scettici continuano ad obiettare che nessun climatologo è ancora in grado di prevedere cosa accadrà in ogni singola regione del mondo nei prossimi decenni a seguito del rilascio nell’atmosfera negli ultimi due secoli dell’anidride carbonica immagazzinata in milioni d’anni nel sottosuolo. Ma la comunità scientifica ha raggiunto un alto grado di consenso nel ritenere: a) che i dati storici climatologici e i rilevamenti attuali hanno messo in luce una relazione tra l’aumento dei gas ad effetto serra e i cambiamenti dei cicli climatici e b) che senza drastiche, ma al momento non prevedibili, inversioni di tendenza rispetto all’aumento continuo dell’immissione di questi gas nell’atmosfera, bisogna prepararsi a profondi cambiamenti nel clima e nelle correnti oceaniche su scala globale nei prossimi decenni. Ed è accertato che se il trend verso il surriscaldamento del pianeta non verrà invertito entro la metà del secolo, cioè entro un periodo in cui molti di coloro i quali vivono oggi saranno ancora in vita, la temperatura media potrebbe aumentare dai 2 ai 5 gradi centigradi: un aumento significativo quando si considera che il pianeta è oggi più caldo di soli 5 gradi centigradi rispetto all’ultima era glaciale. Le conseguenze più probabili riguarderebbero: l’aumento dei fenomeni atmosferici estremi, con il conseguente aggravamento del problema della desertificazione in alcune regioni e delle alluvioni in altre, e danni per le produzioni agricole; il ritorno a climi glaciali in alcune aree e il surriscaldamento in altre; l’innalzamento dei livelli delle acque, con gravi conseguenze per paesi come il Bangladesh, ma anche per megalopoli costiere come Londra, Shanghai e New York, per citarne solo alcune. La rapidità e il susseguirsi dei cambiamenti climatici metterebbero a dura prova la capacità di molti Stati di far fronte a inevitabili crisi economiche e a migrazioni di popolazioni verso le regioni con un clima ancora temperato.
Per quanto riguarda i rimedi fiscali ed economici che dovrebbero essere messi in atto gli scienziati sono ormai concordi. Questi rimedi sono stati riassunti nell’ultimo studio promosso, ancora una volta, da Hansen, e pubblicato poco prima della Conferenza di Parigi (e che è stato tra l’altro all’origine dell’inserimento nell’accordo del riferimento al contenimento dell’innalzamento della temperatura globale entro meno di due gradi Celsius).[5]
Grazie alla scienza sono dunque noti i rischi che l’umanità corre in termini ambientali; sono state promosse innovazioni tecnologiche che rendono pensabile la progressiva sostituzione dei combustibili fossili per produrre energia; sono stati individuati degli strumenti per accelerare questa transizione. Ma il problema è che gli strumenti politici per governare tutto questo a livello internazionale sono del tutto inadeguati. Non solo, mentre il dibattito scientifico sulla natura e le possibili conseguenze del riscaldamento globale si può considerare ormai chiuso da anni, quello politico non riesce ad avanzare razionalmente sul terreno delle risposte da fornire sul piano della creazione di istituzioni adeguate e della pianificazione economica e territoriale. Purtroppo questo gapnon è stato finora colmato neppure con la discesa in campo di importanti personalità politiche, come l’ex-vice-Presidente USA Al Gore, né con lo sviluppo di ben finanziate campagne internazionali promosse da importanti ONG ambientaliste.[6]
Stato, mercato, tasse e CO2.
Se, per tenere sotto controllo il surriscaldamento del pianeta, bisogna agire al più presto sul fronte della riduzione della CO2 immessa nell’atmosfera, il punto è che farlo implica creare e governare un vero mercato mondiale della produzione della CO2 a livello internazionale; ed è proprio sul fronte della capacità di governare questo aspetto del problema che si manifestano i maggiori ostacoli nel tradurre la consapevolezza del rischio in una efficace azione politica. Questi ostacoli sono di natura sia ideologica sia politica.
Essi sono di natura ideologica, in quanto è tuttora diffusa e radicata la convinzione che per i beni ambientali non si devono applicare le stesse regole degli incentivi e dei disincentivi economici che vengono adottate per regolare la produzione ed il consumo di tutti gli altri beni. Una convinzione questa che accomuna coloro i quali vorrebbero sempre ridurre al minimo l’intervento dello Stato nel “libero mercato”, come gli ultraliberisti conservatori USA, e chi confonde la denuncia del cattivo funzionamento del mercato con la denuncia del mercato in sé, come per esempio certa sinistra radicale. Con il risultato di alimentare in questo modo una generica e pericolosa sfiducia nei confronti del governo della politica sull’economia. Una sfiducia che, al di là delle buone intenzioni, trasuda persino dalla lettera enciclica sulle questioni ecologiche di Papa Bergoglio, che in diversi passaggi sembra più preoccupata di denunciare i comportamenti economici tout court piuttosto che spiegare come e in quale quadro governarli.[7]
Ma i limiti maggiori nel comprendere ed affrontare il problema, come dicevamo, sono soprattutto di natura politica. Infatti il rischio climatico, come altre emergenze ecologiche, non nasce, come troppo spesso si tende a pensare o a far credere, da comportamenti individuali immorali o consumisti o dalla ricerca di profitti eccessivi – cioè da comportamenti le cui deviazioni dovrebbero di norma essere già regolate e sanzionate dalle leggi. Il degrado ambientale a livello locale e globale è soprattutto il risultato del malfunzionamento del mercato ai diversi livelli in assenza di una corretta regolazione dei prezzi dei beni naturali da parte delle istituzioni. Come ha fatto notare William D. Nordhaus nel dibattito apertosi sulla New York Review of Books proprio sul significato dell’enciclica papale, i principi e le massime possono aiutare ad educare gli individui a comportarsi meglio, ma non possono di per sé far diminuire le decine di miliardi di tonnellate di anidride carbonica che ogni anno vengono immesse nell’atmosfera da sette miliardi di individui attraverso innumerevoli modalità di consumo dell’energia: “Per risolvere i problemi ambientali, dobbiamo ricorrere all’arte della politica e dell’economia. Quando gli scienziati e gli economisti hanno cominciato ad occuparsi del problema del cambiamento climatico quarant’anni fa, non erano chiari né i problemi né le soluzioni. Dopo anni di esperimenti con diversi approcci, è risultato chiaro che il modo più sicuro per intervenire sulla curva delle emissioni e per rallentare il cambiamento climatico sarebbe stato quello di intervenire sul mercato introducendo tasse sul carbonio ed attuando cap-and-trade policies per aumentare il prezzo delleemissioni di carbonio. Misure volontarie, o basate sulla buona volontà degli individui, ed interventi di regolamentazione sull’uso delle auto e sulle centrali di produzione dell’energia, non basteranno per raggiungere gli obiettivi indicati dai governi o da Papa Francesco”.[8]
L’Europa, crocevia delle contraddizioni e delle possibili soluzioni.
Politiche cap-and-trade, cioè di limitazione delle emissioni e di una loro contrattazione in un mercato di compra-vendita di permessi di emissione di CO2 da parte delle aziende sottoposte a regime di controllo, sono in effetti già state avviate in alcuni continenti. Per esempio sono state adottate in California, in Australia, in Canada e, soprattutto, nell’Unione europea, il cui Emissions Trading Scheme (ETS) è il primo e tuttora più avanzato sistema di controllo di gas ad effetto serra su scala internazionale. Anche la Cina ha annunciato di voler avviare un sistema di contrattazione delle emissioni di CO2, mentre negli Stati Uniti sono stati creati mercati cap-and-trade per diverse emissioni considerate nocive per la salute causate dalle piogge acide, ma non per l’anidride carbonica. In India dal 2014 è stato creato un mercato di permessi sulle quote di risparmio energetico in otto settori industriali che consumano oltre il cinquanta per cento dell’energia prodotta in India. Esiste dunque un ampio spettro di politiche che sono già state avviate. E, tra queste, quelle dell’Unione europea si sono rivelate anche abbastanza efficaci. L’ETS europeo ha per esempio favorito la riduzione delle emissioni fino al 10% di alcune imprese che hanno aderito allo schema, senza ridurne la competitività. Inoltre la decennale esperienza del funzionamento del sistema di controllo europeo e dell’andamento del prezzo dei permessi costituisce un utile punto di riferimento anche per verificare i limiti di un sistema che resta basato sulla cooperazione fra Stati, piuttosto che su di un effettivo governo. Come ricorda un articolo dell’Economist, “Il vantaggio di un mercato dei permessi di emettere carbonio consiste nel fatto che sono i soggetti del mercato stesso a determinare chi può emettere che cosa e quando. Tuttavia, se il prezzo di questi permessi è distorto dall’incertezza sul futuro politico del quadro in cui è inserito questo mercato, le aziende consumeranno troppi permessi. E ci saranno pochi incentivi ad investire in impianti che risparmiano energia e in ricerca e sviluppo di nuove tecnologie a bassa emissione di carbonio. Questo a sua volta potrebbe non solo far aumentare i costi per rispettare i limiti di emissione prefissati, ma anche alimentare un circolo vizioso: se raggiungere determinati obiettivi diventa troppo costoso, i responsabili politici saranno orientati e influenzati nel senso di smantellare o indebolire l’ETS… Per questo bisognerebbe prevedere finanziamenti diretti da parte della Commissione europea o degli Stati membri per investire in ricerca e sviluppo di tecnologie sempre più pulite, tenendo presente che attualmente questi investimenti in termini di percentuale sul PIL sono inferiori a quelli degli anni Ottanta. Questo denaro in più potrebbe venire da un migliore sfruttamento dell’ETS. Molti permessi di inquinare sono infatti tuttora garantiti a titolo gratuito per favorire la competitività internazionale. Ma l’Unione europea si rivela in questo modo inutilmente generosa. Ralf Martin ha calcolato che potrebbero essere ricavati almeno tre miliardi di euro dalla vendita di questi permessi liberi, senza alcun impatto sulla competitività. Questa somma basterebbe per raddoppiare da sola gli investimenti dell’Unione europea in politiche di ricerca e sviluppo”.[9]
Ora, sulla base dell’esperienza di questi anni, il sistema europeo di controllo delle emissioni ha consentito di ottenere qualche successo: l’Unione europea contribuisce solo per circa il 10% del totale delle emissioni mondiali di gas ad effetto serra. È difficile immaginare che per contribuire a raggiungere gli obiettivi indicati dalla Conferenza di Parigi i paesi europei siano disposti, o possano, ridurre a zero questa percentuale nell’arco di un paio di decenni per coprire magari i ritardi di altri continenti. Per realizzare quegli obiettivi, pertanto, sistemi analoghi a quello europeo, basati sul controllo politico di mercato e prezzi del carbonio, dovrebbero perciò essere messi subito in atto anche dagli altri poli continentali. Ma, contemporaneamente e parallelamente, l’Europa dovrebbe e potrebbe fare di più. Per esempio, per essere più efficace e generare a sua volta nel tempo introiti, in Europa l’ETS dovrebbe al più presto a) prevedere la fissazione di un adeguato prezzo minimo base dei permessi di inquinare; b) poter contare sull’impiego in Europa e in altri continenti di risorse adeguate da investire per la transizione energetica ed in R&D, e poterlo fare sotto il controllo di una Commissione europea, a cui dovrebbe essere attribuito un ruolo di governo in questi ambiti.
Tutto questo richiederebbe tuttavia un deciso intervento della politica, in una fase storica in cui è difficile fissare prezzi sui permessi di inquinare adeguati in una situazione in cui il prezzo dei combustibili fossili è in costante discesa. E in cui è difficile immaginare un aumento di risorse di bilancio a livello europeo ed un accresciuto ruolo della Commissione europea nell’attuale quadro istituzionale. Il crollo del prezzo dell’energia fossile in particolare può avere un effetto devastante sia sui mercati cap-and-trade, sia per il futuro del clima del nostro pianeta. Limitare in questo secolo, l’innalzamento della temperatura a meno di due gradi centigradi, significa infatti perseguire l’obiettivo di ridurre dell’80% il consumo di combustibili fossili. Ma quale paese sarà disposto a sostenere i costi di questa transizione energetica con il petrolio che nel giugno del 2014 costava 115 dollari, ora costa tra i 30 e i 40 dollari e secondo alcuni (tra cui Goldman Sachs) potrebbe scendere a 20 dollari al barile?[10] La speranza che la scarsità di petrolio avrebbe contribuito ad accelerare la transizione energetica è al momento svanita. Come si è rivelata illusoria la teoria secondo cui sarebbe bastato incentivare con politiche nazionali l’uso delle energie rinnovabili. Infatti i governi ed i parlamenti nazionali, per non penalizzare eccessivamente le rispettive economie nazionali, nel frattempo non hanno lesinato altrettanti incentivi diretti e indiretti dei consumi di combustibili fossili. Come ha denunciato Nicholas Stern, se i governi – ed i partiti politici e le opinioni pubbliche – non smantelleranno le politiche di aiuti nazionali che tuttora sono in vigore a favore dell’impiego dei combustibili fossili, lasciando le briciole alle politiche di R&D e di diffusione delle energie rinnovabili, sarà vano ogni sforzo per prevenire i rischi dei cambiamenti climatici.[11]
Rebus sic stantibus, quel che non è accaduto nel 2015 non potrà prevedibilmente accadere neppure nel 2016. Questo anche per colpa dell’Europa, che non ha saputo né voluto proporre un modello di governo del problema e politiche continentali più coraggiose, rinunciando così a svolgere a livello internazionale un ruolo di bilanciamento ed influenza degli altri poli mondiali.
Se si vuole che il mondo diventi più sicuro dal punto di vista climatico, non basta sviluppare le pur necessarie e buone politiche che sono state già avviate. Occorre anche promuovere l’affermazione di un quadro di governo dei problemi mondiali che superi l’impasse attuale. Il futuro del mondo è oggi prigioniero di un paradosso: la prosperità mondiale dipende dal successo della globalizzazione; ma questo processo produce su scala nazionale reazioni economiche e politiche che contrastano la possibilità di perseguirla e, sul piano globale, conseguenze ecologiche incontrollate.
L’Europa potrebbe contribuire a compiere un passo decisivo per superare questa situazione. Essa è l’area del mondo in cui è in corso da decenni il più avanzato processo di integrazione fra Stati e in cui sono state sperimentate con maggior successo politiche di coordinamento e di cooperazione su scala internazionale. Per questo è il continente dove è più matura la lotta tra le forze politiche e sociali che sono favorevoli ad allargare la sfera del governo dal livello nazionale a quello sovranazionale, e quelle che si oppongono a questa apertura in nome del ripristino di una illusoria sovranità nazionale. Una lotta che, concretamente, si traduce nel tentativo di completare con l’unione economica e politica l’unione monetaria e con la riorganizzazione, su questa base, dei rapporti di potere tra gli Stati e le istituzioni europee.
Dall’esito di questa lotta dipende anche la possibilità di instaurare un governo mondiale più cooperativo tra i grandi poli continentali, che sia più razionale, giusto e sicuro.
[1] James Hansen, father of climate change awareness, calls Paris talks ‘a fraud’, The Guardian, 12 dicembre 2015. Non meno tagliente il commento dell’Institute for Defence Studies and Analysis indiano, intitolato COP21: The Toothless Paris Agreement, 18 dicembre 2015.
[2] Global Warming Has Begun, Expert Tells Senate, The New York Times, 24 giugno 1988
[3] http://unfccc.int/meetings/paris_nov_2015/session/9057.php.
[4] Marzio Galeotti e Alessandro Lanza, Si fa presto a dire meno carbonio, lavoce.info, 4 dicembre 2015.
[5] Si vedano per esempio questi passaggi: “Il primo requisito da tener presente per stabilizzare il clima risiede nella capacità di controllare gli squilibri energetici del nostro pianeta… Supponendo di mantenere inalterati gli altri fattori, rimuovere questi squilibri implica ridurre la CO2 nell’atmosfera da 400 a 350 ppm. Il messaggio che i climatologi mandano ai politici è pertanto questo: anziché fissare delle linee guida, bisogna ridurre nel più breve tempo possibile le emissioni di CO2. Questo implica imporre una tassa o un contributo fisso sul carbonio, e imporlo nel modo più generalizzato e globale possibile, andando al di là delle politiche nazionali di limitazione e riduzione. Sebbene un contributo fisso sull’emissione di carbonio sia il sine qua non per abbattere le emissioni, l’urgenza di ridurre le emissioni implica una ampia cooperazione per la diffusione e l’impiego di tecnologie pulite. In Hansen et al., Ice melt, sea level rise and superstorms: evidence from paleoclimate data, climate modeling, and modern observations that 2 C° global warming is highly dangerous, Journal of Atmospheric Chemistry and Physics (ACP), 2015.
[6] James F. Tracy, CO2 and the Ideology of Climate Change: The Forces Behind “Carbon-Centric Environmentalism”, Global Research, Centre for Research and Globalization, 12 novembre 2013.
[7] Si leggano in proposito i seguenti paragrafi contenuti nella lettera enciclica “Laudato si – Sulla cura della casa comune‘”:
- “… la qualità dell’acqua disponibile peggiora costantemente, in alcuni luoghi avanza la tendenza a privatizzare questa risorsa scarsa, trasformata in merce soggetta alle leggi del mercato” (par. 30);
- “i poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono ad ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente. Così si manifesta che il degrado ambientale e il degrado umano ed etico sono intimamente connessi. Molti diranno che non sono consapevoli di compiere azioni immorali, perché la distrazione costante ci toglie il coraggio di accorgerci della realtà di un mondo limitato e finito. Per questo oggi qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta” (par. 56);
- “Non si può pensare a ricette uniformi, perché vi sono problemi e limiti specifici di ogni Paese e regione. È vero anche che il realismo politico può richiedere misure e tecnologie di transizione, sempre che siano accompagnate dal disegno e dall’accettazione di impegni graduali vincolanti. Allo stesso tempo, però, in ambito nazionale e locale c’è sempre molto da fare, ad esempio promuovere forme di risparmio energetico. Ciò implica favorire modalità di produzione industriale con massima efficienza energetica e minor utilizzo di materie prime, togliendo dal mercato i prodotti poco efficaci dal punto di vista energetico o più inquinanti. Possiamo anche menzionare una buona gestione dei trasporti o tecniche di costruzione e di ristrutturazione di edifici che ne riducano il consumo energetico e il livello di inquinamento. D’altra parte, l’azione politica locale può orientarsi alla modifica dei consumi, allo sviluppo di un’economia dei rifiuti e del riciclaggio, alla protezione di determinate specie e alla programmazione di un’agricoltura diversificata con la rotazione delle colture. È possibile favorire il miglioramento agricolo delle regioni povere mediante investimenti nelle infrastrutture rurali, nell’organizzazione del mercato locale o nazionale, nei sistemi di irrigazione, nello sviluppo di tecniche agricole sostenibili. Si possono facilitare forme di cooperazione o di organizzazione comunitaria che difendano gli interessi dei piccoli produttori e preservino gli ecosistemi locali dalla depredazione. È molto quello che si può fare!” (par. 180).
[8] William D. Nordhaus, The Pope & the Market, New York Review of Books, Ottobre 2015 e The Pope & the Market:An Exchange, New York Review of Books, Novembre 2015.
[9] Arthur Van Brenthem, Europe’s carbon-trading system is better than thought, and could be better still, The Economist, 11 dicembre 2015.
[10] Anche il prezzo del gas naturale, che in molti paesi era stato scelto come fonte alternativa al petrolio, è in picchiata (il gas liquefatto costa il 70% in meno rispetto al 2013), mettendolo a sua volta in competizione con energie rinnovabili il cui impiego contribuirebbe a diminuire ulteriormente le emissioni di CO2. Come se non bastasse, l’aumento della produzione di gas da scisti bituminosi negli USA – che ricominciano ad esportare petrolio – e l’abbondanza di carbone, contribuiscono a mantenere bassi i prezzi dell’energia di origine fossile.
[11] Nello studio pubblicato quest’anno dal FMI citato da Stern (David Coady, Ian Parry, Louis Sears, and Baoping Shang, How Large Are Global Energy Subsidies, https://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2015/wp15105.pdf), è stato calcolato che i sussidi forniti dagli Stati per l’estrazione e l’uso dei combustibili fossili in forma diretta – incentivi: si pensi a quelli per l’uso del diesel in Europa –, oppure indiretta – mancata tassazione: come nel caso del carbone, il cui costo è attualmente di circa 50 dollari alla tonnellata, e che dovrebbe essere quattro volte tanto se si considerassero i danni che produce – ammontano alla sbalorditiva cifra di cinquemila miliardi di dollari, cioè al 6% del PIL mondiale, con le nazioni del G20 che contribuiscono a questa somma per circa l’80%. Lo studio ha concluso che “se nel 2015 fossero stati eliminati questi sussidi, i governi avrebbero avuto a disposizione $ 2.900 miliardi in più – equivalenti al 3.6 per cento del PIL mondiale – e le emissioni di anidride carbonica si sarebbero ridotte del 20 per cento, riducendo della metà i decessi annuali per inquinamento dell’aria”. Si veda in proposito Nicholas Stern, Action on fossil fuel subsidies must be accelerated, Financial Times, 13 novembre 2015, http://blogs.ft.com/the-exchange/2015/11/13/action-on-fossil-fuel-subsidies-must-be-accelerated.