Anno LVI, 2014, Numero 1-2, Pagina 57
L’attualità del Progetto Spinelli
PIER VIRGILIO DASTOLI
L’idea di una procedura costituente (cioè di affidare un mandato ad un’assemblea eletta direttamente dai cittadini per questo scopo oppure al Parlamento europeo) per riformare le istituzioni delle Comunità secondo un modello federale, precede di molto il Progetto Spinelli. Essa maturò in Spinelli sin dagli inizi, e fu discussa al Congresso dell’Aja nel 1948. L’UEF la lanciò nel novembre 1950 a Strasburgo sei mesi dopo la Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950. Nell’aprile 1951 – nel corso di una Conferenza internazionale tenutasi a Lugano – i federalisti europei dettero forma definitiva a un progetto di trattato per la convocazione della Costituente europea indirizzando un appello alle organizzazioni europeiste perché ne facessero la bandiera della loro battaglia.
Come sappiamo, il principio dell’Assemblea costituente fu solo parzialmente accettato dai sei paesi fondatori della CECA, che inserirono nel Trattato per la Comunità europea di difesa (CED) l’idea dello statuto della Comunità politica e di un mandato per l’Assemblea della CECA (integrata da altri parlamentari nazionali), come suggerito da Alcide De Gasperi su ispirazione di Altiero Spinelli. Questa assemblea prese il nome di Assemblea ad hoc, respingendo la proposta di auto-proclamarsi assemblea costituente avanzata da uno dei delegati nel corso della prima seduta.
Il Trattato della CED conteneva – in particolare all’articolo 38 – tre difetti fondamentali: la messa in moto della procedura costituente era subordinata alla ratifica del Trattato della CED; l’Assemblea ad hoc era incaricata non già di redigere un progetto di costituzione europea, ma di studiare il problema e di trasmettere i risultati a una conferenza diplomatica; il mandato assegnato dai Ministri degli affari esteri dei Sei all’Assemblea non precisava né il contenuto né la procedura. Con la caduta della CED nell’agosto del 1954 cadde dunque anche quell’embrionale processo costituente messo in moto dall’Assemblea ad hoc. Nel frattempo, le diplomazie nazionali avevano già annacquato notevolmente il progetto di Statuto politico che l’Assemblea, in sei mesi di lavoro, era riuscita ad approvare.
Ci vollero ventisei anni prima che la strategia costituente indicata dall’UEF potesse essere ripresa. Essa venne riproposta nel Parlamento europeo da Altiero Spinelli e dal suo Club del Coccodrillo, anche se in termini solo parzialmente simili a quelli portati avanti all’inizio degli anni Cinquanta.
In primo luogo, la necessità di una fondazione o ri-fondazione politica dell’unità europea non era più basata sul vuoto di relazioni fra paesi – in gran maggioranza ex-nemici – appena usciti da due conflitti mondiali, ma sull’esperienza di trent’anni di integrazione comunitaria con conseguenze in buona parte positive, ma anche negative, di cui il Parlamento europeo ha tenuto attentamente conto nell’elaborare il Progetto di Trattato del 1984.
In secondo luogo, il ruolo costituente fu assunto da un’assemblea già dotata della legittimità democratica (e quindi dell’autorità politica) che deriva a tutti i parlamenti dall’elezione a suffragio universale e diretto.
In terzo luogo, l’Assemblea eletta nel 1979 non ricevette un mandato dai governi dei paesi membri, ma decise di fondare la sua iniziativa sul diritto-dovere di presentare proposte (nell’interesse dell’insieme dei cittadini europei) per realizzare la vocazione primaria dell’integrazione comunitaria: la federazione europea.
In quarto e ultimo luogo, l’Assemblea decise di consegnare il proprio progetto non già al Consiglio dei ministri dei governi nazionali o a una Conferenza diplomatica ma direttamente ai parlamenti nazionali, chiedendo loro di mettere in moto le procedure costituzionali per la ratifica dei trattati internazionali.
L’iniziativa di Spinelli, del resto, non è stato solo il frutto di una scelta federalista, ma si è fondata sull’evidenza della crisi del progetto di integrazione comunitaria provocata dai contraccolpi politici, economici e finanziari dell’inadeguatezza del Sistema monetario europeo, dalla paralisi dei meccanismi di decisione delle Comunità, dai problemi crescenti nelle relazioni internazionali e – last but not least – dalla novità sostanziale delle elezioni a suffragio universale e diretto di un Parlamento che Willy Brandt aveva chiamato “assemblea costituente permanente”.[1]
Dopo aver tentato invano di convincere la Commissione europea ad assumere un ruolo politico e avendo identificato con precisione i termini della battaglia politica per la costituente europea al Congresso dell’UEF di Bruxelles del 1975, Spinelli aveva definito nei dettagli i termini del suo impegno parlamentare europeo nel discorso davanti alla Convention del PCI del novembre 1978, che qui conviene riportare:
“Poiché chiediamo che si faccia una politica di programmazione e di interventi, dobbiamo chiedere che la Comunità abbia un potere fiscale per disporre di maggiori risorse, maggiore presenza sui mercati internazionali per attingervi capitali e maggiore potere legislativo. Dobbiamo cioè chiedere una riforma istituzionale della Comunità attuale. Noi dobbiamo dire che oggi ci sono istituzioni le quali non sono più adeguate per affrontare i problemi che si devono affrontare; ed è per affrontare questi problemi che dobbiamo avere istituzioni democratiche e più efficaci. Dal punto di vista del diritto internazionale, riformare le istituzioni significa fare un trattato fra gli Stati membri della Comunità. Però la Corte Costituzionale ha già dichiarato in più di un’occasione che la Comunità è un corpo politico autonomo separato dagli Stati, la sua legge è superiore a quella degli Stati. Questo corpo politico autonomo ha le sue regole interne e, se dal punto di vista degli Stati che l’hanno creato, le leggi fondamentali sono i Trattati, dal punto di vista delle Comunità esse sono la costituzione delle Comunità. Quando diciamo che vogliamo cambiare queste leggi, dobbiamo dire che vogliano cambiare la costituzione della Comunità. Ora se si vuole cambiare questa costituzione che, da un punto di vista formale, è un trattato, ci sono due modi fondamentali per farlo: o i governi ci dicono: noi li abbiamo fatti, noi li cambiamo e li cambiamo con i nostri modi tradizionali, cioè facendoli negoziare dalle nostre diplomazie. In tal caso l’operazione sarà davvero in buone mani! Non ne verrà fuori niente o verrà fuori qualcosa di insufficiente, di ritardato e di inadeguato. Oppure, quando si dice democratizzazione della Comunità, bisogna cominciare al contrario con il dire che nelle nostre democrazie europee le riforme delle nostre costituzioni sono elaborate e votate dalle rappresentanze popolari direttamente elette. In altri termini dovrà essere il Parlamento europeo a cambiare la costituzione della Comunità.
Quando questa iniziativa sarà avviata, si faranno i necessari compromessi perché occorrerà avere le più forti maggioranze possibili. Ma se si riesce ad ottenere che la trasformazione della Comunità sia in mano ad un corpo politico – il quale per sua natura è interessato a svilupparla – si potrà avere fiducia che le cose avanzeranno. Ma se invece accettiamo ciecamente – perché si dice con prepotenza che si è sempre fatto così – che i trattati sono sempre stati fatti dalle diplomazie, se accettiamo questo, accettiamo di aver perso prima di avere combattuto.
Durante vent’anni di carcere Antonio Gramsci dal carcere ha parlato della necessità di chiedere un’assemblea costituente. Con ciò voleva dire che si doveva puntare a una mobilitazione di tutte le forze democratiche per la trasformare l’Italia. Aveva ragione Gramsci: bisognava battersi per la Costituente. Ora, oggi bisogna battersi perché il Parlamento europeo eletto si trasformi in Costituente europea. L’Europa deve essere fatta dagli europei e non dalle burocrazie, non dalle diplomazie. La gente dirà sì o no, ma capirà quando dice sì e quando dice no”.
Dicevamo più sopra della crisi provocata dall’aggravamento degli squilibri interni dovuti all’inadeguatezza dello SME. A pochi mesi dal Consiglio europeo del luglio 1978 che ne aveva deciso la creazione, avvenne il primo scontro fra i governi e il PE sull’ammontare del Fondo regionale che avrebbe dovuto essere fissato nel bilancio per il 1979. Nell’ottica del PE, si voleva sviluppare uno strumento finanziario, addizionale rispetto agli interventi nazionali, con l’obiettivo di contribuire a ridurre le disparità regionali e facilitare la convergenza fra le economie appartenenti all’area dello SME. Il Consiglio era deciso invece a usare strumenti intergovernativi come la concessione di rimborsi all’Italia e all’Irlanda destinati a progetti che né Italia né Irlanda erano in grado di finanziare. Sull’ammontare del Fondo regionale vinse il Parlamento (che era quello non ancora eletto) sfruttando il fatto che si trattava di “spese non obbligatorie” sulle quali l’Assemblea ha l’ultima parola e preparando in tal modo le armi per la madre di tutte le battaglie parlamentari e cioè il bilancio 1980 nelle mani del primo Parlamento eletto.
La storia di quei mesi è ben conosciuta dai federalisti: guidati da Spinelli e da Erwin Lange, diabolico presidente SPD della Commissione bilanci (nelle lunghe notti di concertazione fra ministri e parlamentari vietava agli uscieri di portare il caffè nell’aula dove si riunivano i governi!), i deputati europei colsero di sorpresa il Consiglio respingendo, il 13 dicembre 1979, il bilancio per l’esercizio successivo. Spinelli sapeva perfettamente che sarebbe stata una vittoria di Pirro perché – con la complicità del lussemburghese Thorn, presidente della Commissione – i governi approvarono sei mesi dopo un bilancio peggiore di quello respinto nel dicembre 1979. Ma da questa sconfitta poté nascere l’iniziativa del Coccodrillo, fondata sulla convinzione di Spinelli e di un nucleo iniziale di innovatori che il PE avrebbe dovuto aprire un grande dibattito sulla crisi istituzionale della Comunità, nominare una commissione ad hoc incaricata di preparare il progetto, discutere e votare questo progetto dandogli la forma di un trattato costituzionale, proporne formalmente l’adozione ai parlamenti nazionali.
All’inizio, il Club del Coccodrillo si concentrò su tre punti: l’importanza del collegamento con l’opinione pubblica (si direbbe oggi: la società civile), il metodo parlamentare per portare a termine l’iniziativa e il contenuto del progetto per contrastare sia l’opinione di chi riteneva che dovessero essere sfruttate le potenzialità dei Trattati sia la tesi di chi voleva limitarsi a proporre limitate modifiche ai trattati esistenti. Gli uni e gli altri abbandonarono rumorosamente le riunioni del Club, scegliendo o la via di un nuovo intergruppo (del Canguro) per puntare al rilancio del mercato interno o la via di un sistematico ostruzionismo parlamentare.
Conquistata nonostante queste opposizioni la maggioranza del PE, Spinelli ottenne nel luglio 1981 l’approvazione di una risoluzione con la quale si procedeva alla creazione di una nuova commissione Affari istituzionali incaricata di elaborare delle modifiche ai trattati esistenti inviandole direttamente per ratifica agli organi istituzionali competenti in ogni Stato membro. Dal dibattito in aula emerse la convinzione che le proposte di riforma sarebbero dovute confluire in un progetto di Costituzione dell’Unione.
Un anno dopo, il PE approvò – ancora una volta a larga maggioranza – una risoluzione sugli orientamenti relativi alla riforma dei Trattati e alla realizzazione dell’Unione europea, fondandosi sui principi di sussidiarietà, della separazione dei poteri, sulla legittimità e sul controllo democratico, sulla partecipazione degli Stati membri e sul miglioramento della capacità di decisione delle Comunità. Sulla base di questi principi Parlamento e Consiglio avrebbero dovuto condividere poteri legislativi, di bilancio e di ratifica dei trattati internazionali lasciando alla Commissione la pienezza dei poteri di iniziativa e di esecuzione.
Se l’accordo fu facile e pressoché unanime sui principi istituzionali, più complicata fu la discussione sulla ripartizione delle competenze che il progetto voleva fossero attribuite e che poi, contrariamente a quanto avviene negli Stati che hanno competenze generali, fossero suddivise fra esclusive e concorrenti. Si trattava, cioè, di una concezione molto vicina a un modello federale, contrastata sia da chi avrebbe voluto dotare l’Unione di poteri più ampi centralizzati sia da chi temeva l’annullamento progressivo del ruolo degli Stati.
L’elaborazione del contenuto politico del Trattato fu quindi articolata in sei settori (struttura giuridica e diritti fondamentali, politica economica, politica della società, relazioni internazionali, politica finanziaria e di bilancio, istituzioni).
A proposito dei vari settori, vale la pena ricordare i punti più controversi del dibattito parlamentare, per la loro forte attualità.
Per quanto riguarda la struttura giuridica, tra i punti più controversi ci furono la questione dell’attribuzione diretta della cittadinanza europea (che alcuni avrebbero voluto rendere autonoma da quelle nazionali) e l’estensione della dimensione dei diritti che per i “laici” avrebbero dovuto comprendere quelli di natura etica e morale come l’eutanasia. In generale, sui diritti, l’opinione dei giuristi e di Spinelli era che non fosse opportuno inserire nel Trattato un nuovo catalogo di diritti. Questa opinione fu fatta propria anche dalla commissione e poi dall’aula, che decise di rinviare alle istituzioni dell’Unione il compito di redigere un catalogo autonomo rispetto agli altri strumenti internazionali quali la Convenzione del Consiglio d’Europa.
Per quanto riguarda la politica economica, la polemica fra i “liberisti” e i “keynesiani” si concluse con il successo dei secondi poiché il Trattato capovolse, attualizzandola, l’impostazione libero-scambista dei Trattati di Roma.
Per quanto riguarda la politica della società il tema di maggiore contrasto fu la dimensione della politica regionale; la conclusione cui si giunse fu quella di un rovesciamento della sua funzione, che da politica di accompagnamento divenne obiettivo prioritario dell’azione economica dell’Unione.
Per quanto riguarda le relazioni internazionali, il testo finale – obiettivamente al di sotto delle aspettative dei federalisti – rappresentò il frutto di un difficile compromesso circa le competenze gestite direttamente dall’Unione e quelle (come la sicurezza e la difesa) affidate ancora al metodo della cooperazione fra gli Stati.
Il dibattito in materia di finanze dell’Unione si concentrò sulle risorse proprie e sulla questione della perequazione finanziaria. Nel primo caso fu rovesciato il principio in atto di definire il bilancio a partire dalle entrate per sostituirlo con il criterio d stabilirlo sulla base di obiettivi che si volevano prefissare a livello di Unione, pur con il limite di mantenere invariato il carico fiscale complessivo sui cittadini. Per quanto riguarda la perequazione finanziaria fu accolto il principio che Stati, regioni e cittadini debbono contribuire – ciascuno in funzione dei propri mezzi – al finanziamento delle azioni comuni.
Tra tutti, però, è il dibattito sulle istituzioni quello che presenta la più forte attualità soprattutto nella parte riguardante la nomina della Commissione. Essendo stata esclusa l’ipotesi di un’elezione diretta del Presidente della Commissione (considerato un primus inter pares per privilegiare il carattere collegiale dell’esecutivo) le posizioni di partenza andavano dal modello svizzero di una nomina congiunta e in seduta comune del Parlamento e del Consiglio, a un esecutivo di nomina solo parlamentare, fino al sistema in vigore della nomina affidata ai soli governi. La soluzione finale appare molto vicina al sistema del Trattato di Lisbona (designazione da parte del Consiglio del Presidente della Commissione, potere del Presidente di scegliere i suoi ministri e voto di fiducia del Parlamento sull’intero esecutivo) con la sola eccezione del sistema imposto dai partiti nel 2014 della designazione dei candidati alla presidenza della Commissione alla vigilia delle elezioni europee.
Il dibattito finale prima dell’approvazione del Trattato non riservò sorprese salvo la questione della sua entrata in vigore, rispetto alla quale prevalse il principio della “Europa della volontà” – che aveva consentito già alle Comunità di compiere i loro primi passi – contro il metodo dell’unanimità e la decisione di considerare il progetto non un documento di lavoro da consegnare a un’imprecisata assemblea interparlamentare (tesi sostenuta dal Movimento europeo) ma il compromesso democratico da inviare direttamente agli Stati membri per la ratifica. “E’ evidente – scrisse Spinelli ai federalisti – che approvare la procedura del Movimento europeo significa fondare il progetto del Parlamento europeo sulla sabbia e votarlo al fallimento”.
* * *
Oggi, mentre rischia di evaporare il consenso delle opinioni pubbliche verso il progetto di unificazione del continente, e crescono movimenti che descrivono il sogno di Spinelli come un incubo da cui bisognerebbe fuggire, vale, a maggior ragione, la pena di ricordare le innovazioni proposte dal Progetto del Parlamento europeo.
Esso fu solo apparentemente sconfitto dal metodo intergovernativo, perché molte di quelle innovazioni hanno ispirato le revisioni dei trattati: l’unione politica come premessa indispensabile per sovranità condivise nei settori della moneta e della politica estera, la cittadinanza europea e i diritti fondamentali, il principio di sussidiarietà e la ripartizione delle competenze fra Unione e Stati membri, il ruolo legislativo del Parlamento europeo, l’estensione del ruolo dell’Unione a quella che Willy Brandt aveva chiamato politica della società, la semplificazione degli atti normativi, il rafforzamento del ruolo della Commissione e l’istituzionalizzazione del Consiglio europeo, il bilancio pluriennale finanziato da risorse proprie, un fondo monetario europeo e un’autorità centrale unica di controllo del sistema delle banche, una vera politica estera e della sicurezza aperta alla dimensione della difesa per contribuire al disarmo internazionale.
Certo, all’indomani delle elezioni europee e all’inizio di una nuova legislatura che potrebbe e dovrebbe essere costituente è utile ricordare anche i limiti con cui molte di quelle innovazioni sono state inserite nei trattati; e molto è rimasto ancora inattuato del progetto del Parlamento europeo. Pensiamo in particolare ad alcune competenze essenziali per garantire il ruolo dell’Unione nello sviluppo della politica della società come la cultura, l’educazione e la formazione ma anche le altre competenze che il Trattato di Lisbona ha costretto nella limitata dimensione delle competenze di sostegno e che dovrebbero essere invece condivise fra Unione e Stati in particolare nella dimensione sociale. Pensiamo alla pienezza del ruolo esecutivo della Commissione. Pensiamo alla riduzione degli atti normativi a tre categorie: leggi-quadro, leggi organiche o costituzionali da utilizzare anche per modificare il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e leggi di bilancio con una più rigorosa applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità e l’estensione del diritto di iniziativa a una Camera degli Stati e al Parlamento europeo in caso di rifiuto della Commissione ad agire. Pensiamo alla creazione di una Camera degli Stati con l’eliminazione degli attuali nove consigli tematici come propose Giuliano Amato nella Convenzione europea. Pensiamo alla soppressione del potere di veto in settori chiave per lo sviluppo dell’Unione come la politica estera, la giustizia penale, la politica fiscale e le risorse proprie rafforzando contemporaneamente i poteri democratici del Parlamento europeo. Pensiamo all’introduzione di un sistema di perequazione finanziaria come quello in vigore in Germania e agli strumenti dei prestiti e mutui per garantire l’indispensabile solidarietà europea. Pensiamo infine alla codecisione costituente a maggioranza rafforzata fra Camera degli Stati e Parlamento europeo.
Forse qualcuno potrebbe dire, come dissero a Spinelli nel 1980: “volete uscire a caccia di farfalle”. Ma quanto è accaduto negli anni successivi e la lungimiranza del Progetto del Parlamento europeo del 1984 mostra che aveva ragione Spinelli.
[1] “L’Europa dei cittadini – aveva detto Brandt al Congresso del Movimento europeo del 5-7 febbraio 1976 – è più avanti dell’Europa dei governi. Il PE deve essere la voce dell’Europa. Esso ha la possibilità e il dovere di definire chiaramente l’identità europea e di creare le competenze necessarie a un governo europeo per i settori riguardanti le responsabilità comuni. Esso dovrà considerarsi come un’assemblea costituente permanente dell’Europa”.