Anno LVI, 2014, Numero 1-2, Pagina 3
Una legislatura costituente
Sul nuovo Parlamento europeo che sta per insediarsi pesa una grande responsabilità. La prossima legislatura sarà quella che dovrà concludere il processo di trasformazione dell’unione monetaria in una vera unione politica; oppure, sarà quella che accompagnerà la fine del progetto europeo.
La radicalizzazione dello scontro che ha accompagnato la campagna elettorale si spiega, in ultima istanza, proprio in riferimento a questa alternativa drastica. La crisi ha infatti creato le condizioni di disagio sociale ed economico che hanno alimentato la paura del futuro, l’insicurezza e, di conseguenza, il rancore verso la politica e l’euroscetticismo; e al tempo stesso ha evidenziato la dimensione della sfida, rendendo inutili tutte le soluzioni che non portino alla costruzione a livello europeo di meccanismi politico-istituzionali efficaci e legittimati democraticamente. L’Europa, o meglio gli Stati europei, non possono quindi più rimandare la questione del trasferimento di parte della sovranità politica dal livello nazionale a quello europeo. E lo scontro tra forze pro e contro è così profondo proprio perché tutti intuiscono, al di là del fatto che solo pochi ne sono pienamente consapevoli, che la posta in gioco è decisiva.
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Se questa premessa è corretta, la valutazione dei risultati elettorali europei non può che essere positiva. Pur essendo vero che sono state confermate sia la crescita dei movimenti antieuropei e filo-nazionalisti in diversi paesi, sia l’esistenza in Francia di uno zoccolo duro sovranista, ed in Gran Bretagna di un movimento antieuropeo ormai maggioritario in quel paese, tuttavia le forze che dicono di volere l’Europa restano ancora ampiamente maggioritarie nel Parlamento europeo, nelle opinioni pubbliche e nei governi dei principali paesi dell’eurozona; anche in Francia, come in Germania, in Italia e in Grecia. L’ondata euroscettica, tanto temuta, non ha assunto le dimensioni sufficienti per bloccare il processo; mentre proprio le connotazioni assunte dallo scontro tra forze pro europee e forze contrarie hanno reso evidente il consenso di fondo della stragrande maggioranza dei cittadini al progetto di una più stretta integrazione sovranazionale.
Il risultato è stato particolarmente importante in Italia dove esiste una precisa coincidenza tra il processo necessario per realizzare le riforme strutturali di cui il paese ha assoluto bisogno e il rapido completamento dell’unione politica europea. Il mandato che il governo italiano ha ricevuto sotto questo duplice profilo è stato straordinario. E questo significa due cose: l’Italia conferma il trend degli ultimi due anni, ossia di voler voltare pagina per orientarsi verso un modello di democrazia occidentale moderna, efficiente e attenta ai cittadini. E, insieme, di voler tornare ad essere una risorsa per l’Europa, dopo aver costituito un problema per un ventennio. Per l’Italia si tratta ovviamente dell’indicazione di un percorso che è ancora costellato di ostacoli difficilissimi, nel corso del quale il paese faticherà moltissimo a vincere le enormi resistenze presenti al suo interno. Tuttavia questo è l’auspicio espresso dal voto del 25 maggio, ed è stato accompagnato dall’indicazione che l’Italia compia questo percorso in Europa, riportando il progetto europeo ad essere fonte di ispirazione ideale e quadro di crescita civile ed economica.
Quest’ultimo risultato, al di là degli slogan generici con cui viene indicato – dal “cambiare l’Europa per renderla più vicino ai cittadini” al “riorientarla verso politiche di crescita e sviluppo dopo la fase dell’austerità” –, ormai si può raggiungere solo attraverso il consolidamento dell’unione monetaria in una effettiva unione economica e politica. Non è infatti sicuramente perseguendo politiche di rinazionalizzazione che si potranno riavvicinare le opinioni pubbliche all’Unione; né tentando di sfruttare il confronto sulla solidarietà per negoziare rimodulazioni ed allentamenti degli obiettivi del bilancio nazionale fini a sé stessi. La verità è che è impensabile un futuro di progresso mantenendo l’Unione europea ancora a lungo allo stadio di pre-unione in troppi campi cruciali, con il rischio che nel frattempo cresca la divergenza sia tra i paesi membri, sia al loro interno, sul piano delle disparità sociali ed economiche, che rischiano di diventare insostenibili. Il nodo cruciale da superare è l’inefficacia e l’instabilità delle soluzioni intergovernative e nazionali, per dare alla democrazia una dimensione sovranazionale che permetta di far fronte alle sfide globali, coinvolgendo i parlamentari nazionali ed europei, i rappresentanti del popolo europeo, nel rilancio politico dell’Europa.
L’Italia – se vuole davvero tornare ad essere una risorsa per l’Europa – ha un ruolo fondamentale da giocare per il successo di questo percorso. In questo momento, infatti, la maggior parte dei governi dell’eurozona non è ancora favorevole ad imboccare la strada verso l’unione federale. Ma alcuni esempi del passato possono aiutare bene a capire come si possa agire nella situazione presente. Schuman e Adenauer, nel 1951, ritenevano impensabile associare la formazione dell’esercito europeo alla costruzione di una Comunità politica, ma poi finirono con l’accettare, perché De Gasperi, convinto dai federalisti, seppe insistere. E venne sempre dall’Italia (grazie ad un’azione partita dal MFE) l’impulso a fare eleggere direttamente il Parlamento europeo. Un’operazione analoga da parte del governo italiano, sempre su sollecitazione del MFE, ebbe successo ai tempi della creazione della moneta unica, mentre gli altri governi volevano limitarsi ad instaurare una moneta parallela.
Anche oggi, senza una decisa ed inequivocabile presa di posizione dei massimi dirigenti della politica italiana sulla necessità di completare in tempi brevi e definiti l’unione monetaria attraverso le quattro unioni (quella bancaria, ormai praticamente completata, quella economica e quella fiscale – di fatto oggetto dei negoziati in corso tra i governi e nell’ambito delle istituzioni europee – e quella politica, che è la condizione sempre più riconosciuta come necessaria per la realizzazione anche delle due unioni precedenti) sarà impossibile influenzare la posizione degli altri governi europei, innanzitutto quello francese – che pure si è detto pronto a sostenere l’idea del bilancio dell’eurozona, ma che frena sul fronte dell’evoluzione istituzionale; e quello tedesco, favorevole ad una evoluzione in senso federale delle istituzioni europee, ma restio a condividere risorse.
Per il governo Renzi, si tratta di un fronte da cui dipendono, concretamente, le condizioni necessarie per poter mantenere il largo consenso guadagnato e tradurlo nel potere di fare le cose. In questo momento, le reali possibilità di avanzare sul terreno europeo implicano il passaggio dalla fase di istituzionalizzazione dei meccanismi di stabilità – che è stata necessaria per salvare l’euro e per ripristinare la fiducia tra gli Stati – , a quella dell’istituzionalizzazione di un meccanismo di solidarietà correlato all’avvio delle Partnership per le riforme, la crescita e la competitività, indispensabile per promuovere le riforme nei diversi paesi, incentivando la crescita e l’occupazione. Sappiamo che le decisioni in merito a questo problema dovranno essere prese a livello europeo in ottobre.
La posizione dell’Italia e dei suoi rappresentanti nelle diverse istituzioni sarà tanto più forte e capace di coagulare consensi su una linea evolutiva, quanto più saprà esprimere nei fatti la volontà di collegare la realizzazione di questo meccanismo/partnership a vincoli e ad istituzioni e risorse sovranazionali – o comunque il più sovranazionali possibili –, e in tempi certi. Il punto di riferimento per orientare le scelte non può che essere la necessità di creare in tempi brevi e definiti un bilancio aggiuntivo specifico per i paesi che condividono l’euro. Senza questo fondo europeo, che, per servire allo scopo, deve avere natura federale, e deve quindi essere alimentato da risorse proprie e controllato democraticamente a livello europeo, non c’è la possibilità di intervenire in modo automatico in caso di shock asimmetrici con strumenti di sostegno nei confronti dei paesi più colpiti né sul piano degli ammortizzatori sociali (ad esempio con un fondo europeo per la disoccupazione), né su quello dell’aiuto per le riforme strutturali.
Si tratta quindi di un passaggio indispensabile per consolidare l’unione monetaria; ma le sue profonde implicazioni politiche ne rendono molto complessa la realizzazione, dato che è inscindibile da una revisione dei trattati e dalla necessità di stabilire un controllo sia ex ante che ex post del Parlamento europeo (che, ovviamente deve trovare il modo di superare la contraddizione di rappresentare anche i cittadini dei paesi che non aderiscono alla moneta unica). Un simile fondo non può rientrare nel Quadro finanziario pluriennale, sia per non ricadere negli stessi limiti dell’attuale bilancio dell’Unione, sia affinché la nuova capacità fiscale possa essere utilizzata per raccogliere risorse davvero aggiuntive rispetto a quelle già previste finora; sia per poter avere la flessibilità di un’effettiva politica di bilancio. Né può rientrare nei trattati esistenti, che non prevedono una base giuridica compatibile con la creazione di una tassa genuinamente europea, o consentono all’UE di emettere debito (tranne che per i project bonds, soggetti a regole molto precise). Inoltre, la creazione di una capacità fiscale a livello europeo (di qualunque tipo di imposta si tratti), richiede l’istituzione anche di un Tesoro europeo.
A maggior ragione, quindi, proprio perché i tempi per la concreta realizzazione del bilancio aggiuntivo della zona euro tendono a dilatarsi e per il fatto che i negoziati sono molto complessi, il governo italiano deve orientare sin da ora la propria linea di condotta in Europa in vista del conseguimento di questo obiettivo, sia che si tratti della preparazione del Consiglio di fine ottobre che deciderà sulle Partnership, sia che siano in gioco le nuove nomine alla guida delle istituzioni europee, rispetto alle quali si dovrà tener conto innanzitutto della necessità di sviluppare un nuovo equilibrio tra Parlamento europeo, Consiglio e Commissione. In particolare, la nomina del nuovo Presidente della Commissione, come delle altre cariche europee, deve essere gestita sapendo di dover dare alla nuova legislatura un significato e un mandato diverso rispetto al passato, da concordare tra quei governi decisi a lavorare per l’unione politica e le forze all’interno del PE orientate a sostenere questo processo. Al di fuori di questa prospettiva, il dibattito e il confronto attorno al nuovo leader della Commissione rischiano di diventare una sterile contrapposizione tra istituzioni, in nome di un principio che, senza la riforma dei meccanismi decisionali europei, rimarrebbe comunque astratto. E si rischierebbe di scavare un solco politico-istituzionale tra Consiglio e Parlamento su di un terreno sbagliato.
Il problema all’ordine del giorno della politica europea non è infatti quello di fare scelte che servano solo a gestire più o meno bene l’Europa che c’è già, bensì quello di gestire una fase costituente, in cui sarà indispensabile una forte collaborazione tra le principali forze politiche e le istituzioni. Sarà, di fatto, necessario agire nel quadro e nello spirito di un governo di coalizione interistituzionale europeo: un governo di unità europea. Un governo cioè in cui le componenti pro-europee delle grandi famiglie europee, i rappresentanti delle istituzioni europee e quelli dei governi che hanno preso coscienza del fatto che il problema urgente da risolvere per uscire dalla crisi e ridare una speranza di progresso agli europei è quello di costruire, entro questa legislatura, un governo democratico dell’euro e dell’economia dell’eurozona, stipulino un accordo di collaborazione per realizzare questo obiettivo. Un accordo de facto, che superi nelle scelte europee concrete di tutti i giorni la linea di divisione tra partiti e tra governi progressisti e conservatori.
In questa ottica, il ruolo del PE, ma anche la sua capacita di lavorare in sinergia con il Consiglio nel momento in cui si tratterà di dare impulso all’approfondimento politico, sarà decisivo. Il nuovo Parlamento europeo sarà infatti un fattore cruciale per la possibilità di avviare il processo costituente: un processo indispensabile, sia che si debba affrontare il problema della revisione dei trattati per permettere l’evoluzione della zona euro, sia che il problema sia riportare nel quadro dell’Unione gli accordi che eventualmente i governi dei paesi euro dovessero stipulare tramite un trattato internazionale ad hoc per la governance dell’unione monetaria. In entrambi i casi il ruolo del Parlamento sarà indispensabile per sciogliere il nodo della legittimità democratica e per creare il consenso politico rispetto al necessario trasferimento di sovranità e al salto istituzionale.
Non si tratterà di un compito facile, perché le resistenze anti federaliste all’interno del Parlamento saranno forti. Le più pericolose non verranno dagli euroscettici, ma dagli euro-tiepidi annidati nelle fila dei partiti pro-europei; questi ultimi tenteranno di riportare ogni tentativo di cambiamento nell’alveo del metodo comunitario, nonostante sia del tutto evidente la sua inadeguatezza e l’insufficienza dei suoi meccanismi istituzionali. La sfida sarà proprio quella di andare finalmente oltre il vecchio sistema basato sul mantenimento delle sovranità nazionali per dar vita ad un quadro federale.
A questo proposito sarà decisiva la formazione all’interno del PE di un’avanguardia federalista, trasversale alle diverse famiglie politiche, in grado di preparare il terreno affinché il Parlamento sappia intervenire indirizzando le proposte e le scelte relative all’integrazione fiscale ed economica dell’eurozona verso la nascita di una vera unione politica. Qualunque strada riescano ad imboccare i governi (fosse anche quella del trattato separato), all’interno del PE devono maturare la volontà e il consenso necessari per proporre l’architettura istituzionale federale della zona euro e le modalità sulla cui base regolare all’interno dell’UE i rapporti con i paesi che non intendono adottare la moneta unica. E su questa base dovrà poi aprirsi il vero e proprio processo costituente.
Se nel nuovo Parlamento europeo, anche raccogliendo l’eredità della scorsa legislatura – che aveva iniziato a studiare la questione della governance dell’eurozona e a pensare come risolvere la questione della legittimità democratica a fronte di una capacità fiscale autonoma a livello di paesi euro, ipotizzando diverse soluzioni per un funzionamento in composizione ristretta che aggiri la contraddizione di un controllo del bilancio da parte di rappresentanti di cittadini che non sono chiamati a partecipare a tale bilancio –, se si formerà un’avanguardia capace di impegnarsi su questo terreno, l’obiettivo dell’unione politica diventerà davvero raggiungibile, e per la nostra comunità europea si aprirà una nuova fase di grandi speranze e grandi progetti.
Il Federalista