Anno LV, 2013, Numero 1, Pagina 31
Un bilancio per l’Eurozona:
la via verso il salto federale
GIULIA ROSOLILLO
Introduzione.
I recenti risultati delle elezioni in Italia e in altri paesi europei hanno mostrato con chiarezza l'emergere in parte dell'opinione pubblica di un atteggiamento fortemente negativo nei confronti del processo di integrazione europea e della moneta unica, la cui creazione sarebbe – secondo molti – alla base dell'attuale crisi economica, e la cui abolizione consentirebbe agli Stati di sottrarsi alle politiche di rigore imposte dal livello sovranazionale e di dar vita a politiche di sviluppo. Nonostante il loro carattere fuorviante – non si tiene tra l'altro conto del fatto che gli Stati dell'eurozona, tornati alle loro monete nazionali, avrebbero nel mercato mondiale un peso assolutamente irrilevante rispetto alle grandi potenze economiche di dimensione continentale e che la riassunzione della sovranità monetaria sarebbe puramente fittizia – tali argomentazioni mettono in luce un elemento senz'altro reale e che è andato emergendo con sempre maggiore evidenza negli ultimi anni: l'incapacità dell'Unione europea e, nel suo ambito, dell'Unione monetaria, così come oggi strutturate, di fornire risposte efficaci alla crisi.
L'elemento ora messo in luce va tenuto in considerazione da chiunque, consapevole del fatto che l'unica via possibile per uscire dalla crisi è rappresentata da un salto in avanti del processo di integrazione e non dal ritorno alle divisioni nazionali, si ponga il problema di individuare la strada da percorrere in questa direzione. Se è vero infatti che una soluzione reale ai problemi che oggi affliggono gli europei potrà essere trovata solo quando gli Stati si spoglieranno del loro ruolo di “padroni dei trattati” per entrare a far parte di uno Stato federale, è anche vero che l'atteggiamento di scetticismo nei confronti dell'Europa e della moneta unica – che se si diffondesse potrebbe mettere in pericolo l'intero processo di integrazione – potrà essere arginato solo se, fin da ora, si individueranno degli strumenti in grado di dimostrare che un'inversione di tendenza è possibile, e che le istituzioni europee, lungi dall'imporre esclusivamente politiche di rigore, sono in grado di fornire ai cittadini prospettive di sviluppo e di crescita.
Il bilancio dell’Unione europea e la finzione delle “risorse proprie”.
Una delle ragioni essenziali dell’impotenza delle istituzioni dell’Unione europea di fronte alla crisi è costituita senza dubbio dall’esiguità delle risorse a disposizione dell’Unione, dovuta alla mancanza in capo a questa di capacità fiscale e alla possibilità per ogni Stato membro di opporsi a un aumento delle risorse a disposizione dell’Unione. È dunque dalla questione delle risorse che è necessario prendere le mosse per individuare una via d’uscita dal circolo vizioso nel quale l’Unione europea e in particolare l’eurozona sembrano oggi trovarsi.
Come è noto, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio si fondava su un meccanismo di finanziamento particolarmente avanzato. Mentre infatti le organizzazioni internazionali classiche erano e sono finanziate da contributi versati dagli Stati membri, alla CECA era attribuito dal Trattato del 1951 il potere di riscuotere direttamente imposte sulla produzione di carbone e acciaio, e dunque di finanziarsi autonomamente[1].
I sei Stati fondatori della CECA non ritennero opportuno, tuttavia, applicare il medesimo meccanismo alla Comunità economica europea, organizzazione internazionale dalle finalità molto più estese, e volta a un’integrazione economica in senso lato e non più limitata al settore specifico delle risorse carbosiderurgiche[2]. In effetti, all’articolo 200 del trattato CEE si leggeva che “le entrate del bilancio comprendono, a prescindere da altre entrate, i contributi finanziari degli Stati membri”, e che dunque era dalla capacità e volontà di questi ultimi di finanziare la Comunità che dipendeva il suo funzionamento. La possibilità di istituire un sistema di risorse proprie non era tuttavia esclusa dal trattato, che affidava alla Commissione (art. 201 TCEE) il compito di studiare “a quali condizioni i contributi finanziari degli Stati membri di cui all’articolo 200 potrebbero essere sostituiti con risorse proprie” e di presentare una proposta in tale senso al Consiglio che, all’unanimità e dopo aver consultato l’Assemblea, avrebbe dovuto stabilire le disposizioni relative e raccomandarne l’adozione da parte degli Stati membri.
Così, nel 1970, con decisione del Consiglio[3], si istituisce un sistema di “risorse proprie” fondato su tre tipologie di risorse: i dazi doganali, i prelievi agricoli e una percentuale sull’imponibile Iva. Il progresso rispetto al sistema originario imperniato esclusivamente su contributi degli Stati membri consisteva nel fatto che, almeno per quanto riguarda le prime due tipologie di risorse, si trattava di introiti derivanti da politiche comuni, e dunque derivanti da attività gestite dalle istituzioni comunitarie. Alla Comunità non veniva tuttavia attribuito un potere impositivo vero e proprio, dal momento che le risorse proprie non erano decise dal livello sovranazionale, ma dagli Stati membri, e che erano (e sono tuttora) gli Stati membri stessi a riscuoterle, trattenendone una quota (oggi il 25%) a titolo di rimborso delle spese di riscossione.
Con l'aumento delle competenze delle istituzioni europee e la progressiva riduzione degli introiti derivanti dalla tariffa doganale comune e dai prelievi agricoli derivante dalla liberalizzazione degli scambi a livello mondiale, le risorse proprie si rivelarono tuttavia insufficienti a finanziare le attività della Comunità. Nel 1988[4], venne dunque introdotta la cosiddetta quarta risorsa, costituita da una percentuale sul PIL degli Stati membri. L’introduzione di tale risorsa segna sostanzialmente il ritorno a un sistema di finanziamento della Comunità imperniato su contributi degli Stati. La quarta risorsa è giunta infatti ormai a coprire più dei tre quarti del bilancio dell’Unione europea[5]. È dunque tuttora dalla capacità degli Stati di finanziare il livello sopranazionale che dipende la sopravvivenza e il funzionamento dello stesso.
In concomitanza con la decisione sulla quarta risorsa, il Consiglio europeo di Bruxelles del 1988 ha introdotto altresì un nuovo strumento, la programmazione finanziaria pluriennale, strumento volto da un lato alla fissazione delle tipologie e dell’ammontare massimo delle risorse proprie, dall’altro alla determinazione delle prospettive finanziarie (oggi quadro finanziario pluriennale) per un periodo di almeno cinque anni[6]. Le risorse proprie e il quadro finanziario pluriennale sono oggi oggetto di disciplina da parte degli articoli 311 e 312 TFUE, i quali prevedono che in entrambi i casi il Consiglio si pronunci all’unanimità (per quanto concerne le risorse proprie il Parlamento europeo è consultato e la decisione entra in vigore solo previa approvazione da parte degli Stati membri secondo le rispettive norme costituzionali, mentre per il quadro finanziario pluriennale è richiesta l’approvazione del Parlamento europeo). Dal momento che l’articolo 310 TFUE stabilisce espressamente che nel bilancio entrate e spese devono risultare in pareggio, la decisione sulle risorse proprie determina anche il tetto massimo di spesa dell’Unione. Contrariamente a quanto avviene negli Stati federali, sono dunque gli Stati membri a decidere l’ammontare del bilancio dell’Unione, oggi pari a poco più dell’1% del PIL degli stessi[7].
Ora, in un momento di grave crisi economica quale quello attuale, è impensabile che gli Stati decidano di aumentare il proprio contributo al finanziamento del livello sovranazionale: la scarsità di risorse e la necessità di rispettare i parametri del patto di stabilità e crescita impongono infatti loro di utilizzare tutte le risorse disponibili per scopi di risanamento interno. La conseguenza è che, proprio nel momento in cui un intervento delle istituzioni dell’Unione sarebbe più che mai necessario, le risorse a disposizione di queste tendono a diminuire.
Il rapporto tra modalità di finanziamento di un’organizzazione e grado di indipendenza della stessa dagli Stati membri.
Un’esemplificazione di quanto ora detto è rappresentata dalle recenti vicende relative al quadro finanziario pluriennale e alle risorse proprie dell’Unione per il periodo 2014-2020. Durante lenegoziazioni per l'adozione di tali strumenti, gli Stati membri si sono infatti accordati su un tetto di risorse più basso rispetto al passato. A tale accordo si è opposto il Parlamento europeo, che ha proposto dal un lato di introdurre modifiche che vadano nella direzione di una maggiore flessibilità del bilancio, dall'altro di dotare l'Unione europea di risorse realmente proprie, come la tassa sulle transazioni finanziarie, recentemente oggetto di una proposta di cooperazione rafforzata. Tralasciando il profilo della flessibilità, che comunque non costituirebbe una soluzione al problema della scarsità di risorse, va messo in luce che la proposta di destinare al bilancio dell'Unione gli introiti derivanti dalla tassa sulle transazioni finanziarie – che pur dimostra la consapevolezza da parte del Parlamento europeo del circolo vizioso cui dà luogo la mancanza di capacità fiscale da parte dell'Unione – si scontra con ostacoli di non poco conto. Da un lato, infatti, se la proposta mirasse ad introdurre un potere dell’Unione di imporre tasse, essa non sarebbe mai accettata da Stati quali il Regno Unito, contrari a qualsiasi evoluzione dell'Unione in senso politico. In effetti, è impensabile l'attribuzione all'Unione europea di un potere impositivo in violazione del principio no taxation without representation: tale passo implicherebbe dunque di fatto il superamento dell'attuale logica confederale e la creazione di un governo europeo legittimato democraticamente. Dall’altro lato, se la proposta si limitasse a prevedere che la tassa sulle transazioni finanziarie, che sarà probabilmente adottata tramite una cooperazione rafforzata, venga versata dagli Stati che partecipano alla cooperazione stessa al bilancio dell’Unione, si tratterebbe di una proposta inaccettabile, perché una tassa applicata solo in alcuni Stati (i partecipanti alla cooperazione rafforzata) finanzierebbe il bilancio di tutti (cioè dell’intera Unione).
La vicenda del quadro finanziario pluriennale illustra con chiarezza l’importanza che assume, nel funzionamento di un ente, la sua forma di finanziamento. Quando infatti un’organizzazione internazionale è finanziata interamente da contributi degli Stati membri, la sua dipendenza dagli Stati è molto forte: se questi decidono di non contribuire più al suo finanziamento o contribuiscono in maniera insufficiente, l’organizzazione non può funzionare. La capacità di autofinanziarsi, e dunque la capacità fiscale dell’organizzazione, ha invece come conseguenza l’indipendenza di questa dagli Stati e dunque la sua capacità di autodeterminare la propria condotta.
Ora, nelle fasi di crisi, quando gli Stati membri non riescono a far fronte ai loro compiti e soprattutto alla spesa sociale, l’esistenza di un livello di governo superiore, in grado di procurarsi le risorse necessarie a tal fine, è fondamentale. Come sottolineava già Wheare[8], sono soprattutto il primo e il secondo conflitto mondiale ad aver comportato un aumento esponenziale delle entrate a livello federale e la possibilità per il governo centrale di trasferire risorse dalle zone più ricche alle zone più povere in un momento nel quale gli Stati, potendo reperire risorse solo sul loro territorio, non erano più in grado di far fronte alle esigenze della loro popolazione. Se i governi centrali degli Stati federali non avessero in quel periodo avuto una capacità impositiva, e fossero dipesi dai finanziamenti degli Stati, la struttura federale si sarebbe disgregata, perché gli Stati non avrebbero avuto a disposizione risorse per finanziare la federazione.
Nell'Unione europea, è esattamente questo il fenomeno che si sta verificando: l’Unione non ha la capacità di procurarsi risorse in modo autonomo, né l’avrà, perché alcuni Stati membri si oppongono a qualunque progresso in questo senso. La soluzione deve dunque fondarsi su una prospettiva differente, e coinvolgere solo quegli Stati che, avendo già accettato di privarsi della sovranità monetaria, vogliano dar vita a un nucleo di Stato federale.
Le proposte di dar vita ad un bilancio aggiuntivo dell’eurozona.
In quest’ottica, assume un’importanza fondamentale la proposta di dar vita ad un bilancio aggiuntivo dell’eurozona finanziato con risorse fiscali proprie, contenuta nel rapporto dei quattro presidenti (Consiglio europeo, BCE, Commissione ed Eurogruppo) Towards a genuine economic and monetary union[9], nelle Conclusioni del Consiglio del 29 giugno 2012 e nella Comunicazione della Commissione Un piano per un’unione economica e monetaria autentica e approfondita del 28 novembre 2012[10]. Si tratta di documenti nei quali la prospettiva di dar vita a una capacità fiscale della zona euro, a un bilancio separato e a un Tesoro dell’Unione economica e monetaria viene chiaramente delineata, con l’idea che tali strumenti consentirebbero di spezzare il circolo vizioso che oggi caratterizza il finanziamento dell’Unione, e di dotare l’eurozona degli strumenti per superare l’asimmetria tra politica monetaria unica e gestione nazionale delle politiche economiche.
Come è stato sottolineato da molti[11], un bilancio aggiuntivo dell'eurozona potrebbe avere diverse funzioni. Si tratterebbe infatti di uno strumento in grado non solo di assistere gli Stati in caso di shock asimmetrici, ma anche di finanziare un piano di sviluppo e crescita che risponda alle esigenze più immediate degli Stati in crisi, quale quella di creare occupazione. Per rispondere a tali finalità sarebbe sufficiente un ammontare pari al 2% del PIL degli Stati membri, proveniente dalla tassa sulle transazioni finanziarie o dalla carbon tax.
Un simile passo consentirebbe da un lato alla Gran Bretagna di rimanere estranea a forme di integrazione politica, pur permettendo agli Stati euro di proseguire su questa via; dall’altro di mettere in atto un piano di sviluppo della zona euro che aggiunga una prospettiva di crescita e di occupazione alle misure di rigore finora adottate a livello europeo, e che dunque mostri ai cittadini come l’Europa possa svolgere un ruolo positivo per il loro futuro.
Nonostante il dibattito relativo agli strumenti giuridici attraverso i quali giungere alla creazione di tale bilancio sia ancora agli albori, è possibile delineare fin da ora alcune vie percorribili.
La prima opzione è quella di ricorrere alla procedura ordinaria di revisione dei trattati prevista dall’art. 48 TUE. Si tratta di un’opzione che presenta molti svantaggi e che, ad oggi, suscita la diffidenza della maggioranza degli Stati. Da un lato, infatti, l'art. 48 comporta la convocazione di una convenzione e di una conferenza intergovernativa e la ratifica da parte di tutti gli Stati membri, e dunque una procedura lunga e complessa. Dall’altro, utilizzare l’art. 48 significherebbe riaprire il vaso di Pandora della revisione dei trattati, con il rischio che dalla conferenza intergovernativa, e anche dalla convenzione, esca un progetto frutto di un compromesso non soddisfacente con gli Stati contrari a un rafforzamento del livello sopranazionale[12].
La stessa Commissione, nella Comunicazione sopra citata, sottolinea come la revisione dei trattati costituisca un passo da compiere solo in un secondo momento, mentre “una nuova capacità fiscale per la zona euro potrebbe essere inizialmente sviluppata mediante atti di diritto derivato”. Una simile affermazione offre uno spunto estremamente interessante, dal momento che mette in luce la possibilità di individuare nei trattati esistenti delle disposizioni attraverso le quali innescare la miccia della capacità fiscale e di bilancio dell’eurozona. Una volta innescato il processo, una modifica dei trattati che porti a compimento la creazione di una capacità fiscale e di bilancio assumerebbe in effetti contorni più netti e meno problematici.
Ora, le disposizioni dei trattati da prendere in considerazione a tal fine sono da un lato quelle relative all’istituto della cooperazione rafforzata, dall’altro l’articolo 136 TFUE. Si tratta infatti delle uniche norme in grado di aprire una prospettiva di integrazione solo tra alcuni degli Stati membri, nel caso specifico gli Stati che hanno adottato la moneta unica.
Per avviare una cooperazione rafforzata[13], come è noto, un numero di Stati pari ad almeno nove, una volta constatato che l’obiettivo che ci si propone non può essere conseguito dall’Unione nel suo insieme, può chiedere alla Commissione di procedere sulla via dell’integrazione più velocemente degli altri. La Commissione può presentare una proposta al riguardo, e la cooperazione deve essere autorizzata dal Consiglio a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. Una volta costituita, la cooperazione rafforzata è inserita nella struttura istituzionale dell’Unione e fa ricorso alle istituzioni della stessa. In particolare, il Consiglio delibera solo nella composizione dei partecipanti alla cooperazione, mentre le altre istituzioni deliberano in composizione piena. Inoltre, la cooperazione rispetta i trattati e il diritto dell’Unione, non può recare pregiudizio al mercato interno e alla coesione economica, sociale e territoriale, non può costituire un ostacolo, né una discriminazione per gli scambi tra gli Stati, non può provocare distorsioni della concorrenza tra questi, deve rispettare le competenze, i diritti e gli obblighi degli Stati membri che non vi partecipano.
Un vantaggio di questo meccanismo consiste senz’altro nel fatto che la cooperazione può essere autorizzata dal Consiglio a maggioranza qualificata, e dunque la sua messa in opera non è subordinata all’accordo tra tutti gli Stati membri. Si tratta però di un meccanismo che, ai fini della creazione di un embrione di capacità fiscale e di bilancio dell’eurozona, presenta alcuni punti deboli[14]. In primo luogo, infatti, il novero degli Stati tra i quali la cooperazione si sviluppa non è predefinito, nel senso che possono partecipare alla cooperazione sia Stati dell’eurozona sia Stati ad essa esterni, e dunque non si tratta di un meccanismo specificamente previsto per far fronte alle esigenze della zona euro[15]. In secondo luogo, la cooperazione rafforzata è pienamente inserita nella struttura istituzionale e nei meccanismi di funzionamento dell’Unione, sicché il margine di manovra degli Stati parti della cooperazione risulta piuttosto limitato[16].
Rispetto alla cooperazione rafforzata, l’altra via possibile – l’utilizzo dell’art. 136 TFUE – presenta invece alcuni aspetti interessanti. L’art. 136 TFUE è stato utilizzato come base giuridica per l’adozione di alcune misure volte a far fronte alla crisi, tra le quali il trattato istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità (MES), il cosiddetto fondo salva Stati. In particolare, dal momento che l’articolo in questione prevedeva che gli Stati membri la cui moneta è l’euro – per la precisione, il Consiglio nella sua composizione ristretta – potessero adottare solo misure per contribuire al buon funzionamento dell’UEM e in particolare per rafforzare il coordinamento e la sorveglianza della disciplina di bilancio e per elaborare gli orientamenti di politica economica e garantirne la sorveglianza, attraverso una procedura di revisione semplificata prevista dall’art 48.6 TUE ad esso è stato aggiunto un paragrafo ulteriore, che prevede la possibilità per gli Stati di istituire un meccanismo di stabilità[17]. Su questa base, gli Stati dell'eurozona hanno poi concluso il trattato istitutivo di detto meccanismo. Il MES si fonda dunque su un trattato separato e distinto dai trattati istitutivi (TUE e TFUE), ma la sua conclusione è stata per così dire autorizzata da questi.
Un simile meccanismo ha consentito agli Stati dell'eurozona di godere di un margine di manovra piuttosto ampio, pur senza sollevare problemi di compatibilità della loro azione con la struttura istituzionale dell’Unione[18]. In effetti, il trattato istitutivo del MES, pur affidando alcune funzioni alla Commissione, alla BCE e alla Corte di giustizia, dà vita a nuovi organi – il Consiglio dei governatori e il Consiglio di amministrazione – composti unicamente da rappresentanti degli Stati dell'eurozona e alle cui decisioni il funzionamento del MES è affidato.
Ora, è chiaro che la creazione di un bilancio della zona euro finanziato con risorse proprie e gestito da un governo dell’eurozona legittimato democraticamente costituirebbe non semplicemente un salto in avanti nell’integrazione, bensì comporterebbe un mutamento della natura del vincolo esistente tra gli Stati che hanno adottato la moneta unica e un ripensamento dei rapporti tra zona euro e Unione europea. Si tratterebbe in altre parole di un passo che per forza di cose non potrebbe avvenire attraverso i meccanismi già presenti nei trattati, ma implicherebbe una revisione degli stessi. È tuttavia pensabile che già da oggi, sfruttando i meccanismi che i trattati istitutivi mettono a disposizione, un embrione di bilancio aggiuntivo possa prendere vita, e che tale embrione, ponendo sul tappeto il problema del controllo democratico della gestione di risorse messe in comune dai paesi dell’eurozona, rappresenti un dato di fatto del quale, in sede di revisione dei trattati, non si potrà non tener conto.
L’articolo 136 TFUE come varco per dar vita a un embrione di bilancio aggiuntivo.
L’articolo 136 TFUE potrebbe appunto rappresentare lo strumento adatto a tal fine. Una prima ipotesi è che, in sede di Consiglio europeo, gli Stati si accordino su una modifica dell’art. 136, sulla base della procedura di revisione semplificata già utilizzata per fornire una base giuridica per il trattato istitutivo del MES, e inseriscano in detto articolo un ulteriore paragrafo che consenta agli Stati euro di dar vita a un embrione di bilancio. Una soluzione di questo genere presupporrebbe per forza di cose l’accordo anche degli Stati esterni all’eurozona, richiedendo il meccanismo di revisione semplificata previsto dall’art. 48.6 TUE, una decisione del Consiglio europeo all’unanimità e un’approvazione da parte degli Stati membri secondo le loro rispettive norme costituzionali. Non va tuttavia sottovalutato il fatto che la formulazione attuale dell’articolo 136 è piuttosto vaga[19] e che, soprattutto sotto la spinta dell’urgenza di trovare strumenti efficaci per uscire da una situazione di stallo[20], è pensabile che venga interpretata nel senso di consentire – sulla base del paragrafo 3 della medesima disposizione, che ha permesso la conclusione del trattato istitutivo del MES – l’adozione di un trattato con cui gli Stati dell’eurozona mettano in comune la tassa sulle transazioni finanziarie affidandone la gestione – in via provvisoria – a un organo di carattere intergovernativo simile al Consiglio dei governatori previsto dal Trattato o a un vero e proprio Ministro delle finanze dell’eurozona.
Ora, il fatto di fondare il bilancio dell’eurozona sull’art. 136 anziché sulle norme relative alla cooperazione rafforzata presenterebbe due vantaggi indubbi: il primo è costituito dal fatto che il cerchio degli Stati coinvolti è già predefinito, dal momento che le misure adottate sulla base di questa disposizione riguardano solo gli Stati che hanno adottato l'euro; il secondo è rappresentato dal fatto che l’art. 136 consente agli Stati dell’eurozona molta libertà, non contemplando tutti quei limiti che invece condizionano l'attività degli Stati che decidano di dar vita a una cooperazione rafforzata.
L'art. 136 potrebbe dunque costituire il varco attraverso il quale consentire all’eurozona di compiere i primi passi verso la creazione di uno Stato federale. Si tratterebbe di una soluzione molto meno traumatica rispetto alla conclusione di un trattato internazionale al di fuori dei meccanismi previsti dai trattati istitutivi, e dunque di una vera e propria rottura con l'equilibrio istituzionale dell'Unione e nello stesso tempo rappresenterebbe un primo passo che potrebbe poi completarsi con una vera e propria revisione dei trattati.
In effetti, è pensabile che, con un trattato fondato sull'art. 136, gli Stati dell'eurozona affrontino semplicemente il problema della messa in comune di risorse quali la tassa sulle transazioni finanziarie e della creazione di un organo incaricato della loro gestione. Un simile passo porrebbe all'ordine del giorno il problema della legittimazione democratica di tale autorità e dell'articolazione di una struttura istituzionale dell'eurozona. Come già sottolineato, la creazione di un governo della zona euro dotato di capacità fiscale e legittimato democraticamente – e dunque la costituzione di un nucleo federale all'interno dell'Unione europea – richiederebbe in realtà il ripensamento della struttura attuale dell'Unione attuabile solo attraverso una revisione dei trattati. L'esistenza di un nucleo di bilancio dell'eurozona e di un'autorità provvisoria incaricata di gestirlo costituirebbe tuttavia a quel punto già un dato di fatto, che obbligherebbe gli Stati membri, in sede di revisione dei trattati, a trovare soluzioni istituzionali in grado di garantire la coesistenza di una federazione dell'eurozona in formazione e di un'Unione allargata di carattere confederale.